UNIVERSALI LINGUISTICI

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

UNIVERSALI LINGUISTICI

Raffaele Simone

Il termine universali linguistici indica l'insieme di proprietà che risultano comuni a tutte le lingue del mondo o perlomeno a un alto numero di esse. Alcuni u. sono ovvi: per es., tutte le lingue hanno sia vocali sia consonanti, tutte hanno risorse appropriate a designare gli oggetti (i ''nomi''). Altri sono meno visibili a un non esperto: tutte le lingue hanno parole per esprimere localizzazione spaziale, come "qui" e "lì"; le consonanti sono più numerose delle vocali (il caso inverso, di lingue con più vocali che consonanti, sembra rarissimo: così l'hawaiano); tra le consonanti, ce ne sono alcune che non mancano in nessuna lingua (così /k/, /m/, /b/), e la stessa cosa accade per le vocali /i/, /u/ e /a/; i suoni nasali esistono solo se ci sono le corrispondenti occlusive non nasali (in pratica, c'è /m/ solo se c'è /b/), ecc. Altri u., infine, esprimono correlazioni complesse: una lingua, se ha vocali nasali (come il francese /ã/ di /grã/ grand "grande"), ha anche vocali non nasali (come /a/ di /pas/ passe "(egli) passa"), ma non è vero l'inverso, cioè non esiste neppure una lingua che abbia vocali nasali ma sia priva di quelle non nasali.

I tratti universali delle lingue sono talmente numerosi, anche tra lingue che non hanno relazioni storiche, che il fenomeno non può essere considerato casuale. L'unico modo per spiegarlo consiste nel pensare che le lingue siano costruite in base a un medesimo modello sottostante. Il problema principale dello studio degli u.l. sta quindi nell'identificare le caratteristiche comuni delle lingue al di là delle vistose differenze che esse presentano l'una rispetto all'altra.

Sviluppo storico. - La convinzione che le lingue abbiano tratti comuni è molto antica, e proprio su di essa si è formata la disciplina chiamata (non a caso) linguistica ''generale''. La linguistica, infatti, è generale in quanto si sforza di cogliere proprietà comuni a tutte le lingue piuttosto che quelle di una singola lingua. Ma l'attenzione verso gli u.l. propriamente intesi, e il termine stesso che li designa, sono molto recenti. Solo negli anni Sessanta, infatti, J.H. Greenberg, dell'università Stanford, impostò un vasto progetto di ricerca in cui si confrontavano, per taluni importanti aspetti, trenta lingue del mondo, prive di relazioni genetiche, il che permetteva di escludere che le proprietà comuni si fossero diffuse per contatto tra comunità diverse di parlanti. L'indagine rivelò un sorprendente catalogo di proprietà comuni, di cui fu dato conto in una pubblicazione in più volumi diretta dallo stesso Greenberg (Universals of human language, 1978).

Per molto tempo si era ritenuto che i tratti comuni fossero dovuti alla derivazione di tutte le lingue da un'unica lingua originaria (l'ipotesi ''monogenetica''). Oggi la gamma delle spiegazioni è più vasta (v. oltre), e si è accertato un numero molto maggiore di somiglianze profonde tra le lingue. Nel corso di uno storico congresso sugli u. (Universals of language, a cura di J.H. Greenberg, 1960), Ch. F. Hockett e altri tra i migliori linguisti statunitensi costruirono una lista imponente di u. totali o tendenziali, valevoli su tutti i livelli linguistici (fonologia, morfologia, sintassi, semantica). Da allora, le indagini parziali e globali sugli u. si sono moltiplicate: tra le più famose e importanti, il progetto UPSID (University of California Phonological Segment Inventory Database), relativo ai sistemi fonologici, e lo Universalienprojekt dell'università di Colonia, diretto da H. Seiler. In complesso, la ricerca sugli u. è una delle direzioni più attive e vitali della linguistica della seconda metà del Novecento.

Greenberg non solo ebbe il merito di definire una vasta gamma di proprietà che potevano essere considerate universali: la sua scoperta più importante fu che taluni u. non si presentano da soli, ma implicano necessariamente altre proprietà. Per es., osservò che, se in una lingua l'Oggetto tende a seguire il Verbo, in essa il Genitivo tende anche a seguire il Nome a cui si attacca; all'inverso, se l'Oggetto si pone prima del Verbo, anche il Genitivo tenderà a porsi prima del Nome. Quest'ultimo è il caso del latino classico. Per dirla più tecnicamente, nelle lingue le teste di tutti i sintagmi tendono a stare dalla stessa parte (a sinistra o a destra), quale che sia la natura del sintagma. Un u. di questo tipo, che ne implica necessariamente (o quasi) un altro, fu chiamato da Greenberg u. implicazionale. Un altro u. implicazionale (stavolta morfologico) predice che se in una lingua esiste la flessione (come in bevo/bevi), essa ha anche un sistema di derivazione (come scienza→scientifico), ma non è vero l'inverso: esistono quindi lingue che hanno derivazione ma non flessione (così il cinese mandarino).

Greenberg accertò anche che le lingue non sfruttano tutte le possibilità teoriche che hanno a disposizione, ma solamente alcune. Per es., gli ordini delle parole teoricamente possibili e le corrispondenti lingue in cui si riscontrano sono i seguenti.

Queste possibilità non sono tutte ugualmente frequenti. I primi due ordini s'incontrano di gran lunga più spesso degli altri, l'ultimo (OSV) è addirittura inesistente. Questo singolare fatto mise in evidenza che, tra le opzioni che le lingue scelgono, ce ne sono alcune di alta frequenza, altre di frequenza via via decrescente. In generale, si suppone che le soluzioni più frequenti siano quelle più ''naturali'', cioè più agevoli dal punto di vista del parlante e più efficaci dal punto di vista della comunicazione.

Universali e tipologia. - La metodologia principale nello studio degli u. consiste nel confrontare tra loro un alto numero di lingue, per mettere in evidenza i tratti comuni a tutte, quelli comuni alla maggioranza di esse, o, se non si accerta un'unica tendenza, la varietà di forme che un certo fenomeno può assumere. La ricerca sugli u. quindi sfuma gradualmente in quella dei ''tipi'' linguistici, cioè delle classi entro cui possono essere collocate lingue che presentano proprietà comuni indipendentemente dalle relazioni genetiche tra loro. Quest'ultimo è l'ambito d'interesse della tipologia linguistica, che appunto mira a identificare tipi linguistici. In realtà la tipologia linguistica (v. App. IV, iii, p. 645; v. anche linguistica tipologica, in questa Appendice) è una disciplina sorella della ricerca sugli u., perché predice che in ogni tipo linguistico caratteri svariati possano convivere.

L'operare congiunto della tipologia e della ricerca sugli u. ha mostrato che le lingue possono essere diverse l'una dall'altra, ma non differenziarsi infinitamente; in altre parole, ci sono limiti precisi entro cui le lingue possono esser diverse (''teoria della variazione limitata''). In fonologia, per es., se si studia il vocalismo si riscontra che i sistemi vocalici delle lingue non sono infiniti. La maggioranza di essi hanno tra cinque e sette vocali (come lo spagnolo o, rispettivamente, l'italiano); tedesco e norvegese ne hanno quindici (il numero più elevato, sembra, tra le lingue del mondo), talune lingue ne hanno solo tre (così l'arabo e il groenlandese). Quando le vocali sono tre, esse sono per lo più /i/, /u/ e /a/. Anche le regolarità tra le lingue sono sorprendenti. Per es., la struttura sillabica più frequente del mondo è C(onsonante)-V(ocale), e anche nell'evoluzione storica delle lingue si nota una tendenza verso il raggiungimento di questo tipo vocalico.

Taluni studiosi (così D. Bickerton, Roots of language, 1981) ritengono che il miglior osservatorio per identificare gli u. siano le lingue creole. Siccome nascono dalla fusione brusca e rapida di lingue diverse, i creoli tendono a semplificarsi drasticamente, perdendo per così dire tutto ciò che non è indispensabile al loro funzionamento. Ciò che rimane dovrebbe essere (secondo l'ipotesi di Bickerton) l'insieme minimo degli universali. Benché abbia suscitato molte critiche, questa ipotesi ha mostrato che taluni aspetti sono davvero generali da un creolo all'altro. Per es., tutti i creoli (malgrado le differenze geografiche e la diversità delle lingue implicate) tendono a conservare parole interrogative (come "chi?", "quando?", ecc.), pronomi per tutte le persone, una particella operante come pronome relativo, forme per marcare il tempo o il modo verbale, ecc. Proprietà come queste (e altre ancora) sarebbero quindi il materiale minimo che le lingue devono obbligatoriamente avere se vogliono funzionare.

Tipi di universali. - Gli u.l. sono stati classificati in diversi modi. Normalmente (seguendo un suggerimento di N. Chomsky) si distingue tra u. sostanziali e formali. I primi si riferiscono alle risorse che le lingue effettivamente hanno: è per un u. sostanziale che tutte le lingue hanno, per es., parole specializzate per indicare chi sta emettendo il messaggio ("io") e chi lo sta ricevendo ("tu"), oppure alcune consonanti e vocali obbligatorie. I secondi, invece, si riferiscono ai meccanismi che le lingue devono mettere in opera per poter funzionare: è un u. formale, per es., che stabilisce che per ottenere una frase interrogativa bisogni compiere certe manipolazioni sulla dichiarativa corrispondente. Alcune lingue, allora, useranno la sola intonazione (come l'italiano: Vuol venire con me / Vuol venire con me?), oppure un'inversione del soggetto (come in inglese o in tedesco o, in parte, in francese) oppure un elemento morfologico speciale (come in giapponese o in cinese).

A questa bipartizione di base si aggiunge, trasversalmente, la classe degli u. implicazionali, che abbiamo già illustrato. Essi rivelano, in realtà, che alcune proprietà delle lingue sono più basilari di altre, e quindi anche storicamente più antiche: per es., se (come si è visto) una lingua che ha vocali nasali deve avere vocali non nasali, ma non all'inverso, ciò significa che le vocali non nasali sono più ''basilari'', e anche più primitive storicamente.

Spiegazioni degli universali. - Per quali ragioni le lingue hanno proprietà universali? Dopo l'epoca dello strutturalismo linguistico, che poneva l'accento sulla differenziazione tra le lingue piuttosto che sulle loro affinità, la risposta a questo interrogativo è diventata una delle preoccupazioni principali della ricerca linguistica. Questa domanda ha ricevuto tre tipi di risposte: una biologica, una pragmatica e una storico-genetica.

La prima sostiene che le lingue hanno caratteri comuni perché l'equipaggiamento fisico-mentale e cognitivo dell'uomo è unico e impone a esse certe proprietà e non altre. N. Chomsky, in molti suoi lavori, ha sostenuto per es. che, se la ''forma'' delle lingue può cambiare solo nell'ambito di una ristretta gamma di variazioni, i limiti di queste variazioni sono imposti dalla natura della mente umana. L'u. fonologico che si riferisce alla presenza obbligatoria delle vocali /i/, /u/ e /a/, per es., sembra fondarsi sul fatto che queste sono le vocali più distinte che l'apparato fonatorio possa produrre e che l'udito possa percepire, e quindi quelle meno esposte al rischio di essere confuse. La loro frequenza si spiegherebbe insomma per ragioni di stabilità fonologica. La versione più accreditata di questa posizione è quella elaborata da Chomsky negli anni Ottanta, nota come Grammatica Universale. Secondo questa prospettiva (chiamata ''teoria dei principi e parametri''), tutte le lingue funzionano in base a un ristretto numero di principi (per es., in tutte i sintagmi devono avere una testa e una determinata struttura), ma ciascuna è libera solo di assegnare a quel principio una specifica forma tra quelle possibili (un ''parametro'': per es., la testa del sintagma può essere o iniziale o finale).

La seconda spiegazione è pragmatica. Le lingue sono somiglianti, in questa prospettiva, perché servono all'uomo per fare le stesse cose, cioè a compiere gli stessi tipi di azioni pratiche. Per es., siccome tutte le lingue devono servire alla funzione di raccontare eventi passati, dovranno avere risorse per localizzare gli eventi nel passato (per es. le forme verbali o altri modi espressivi), per indicare la successione di eventi, per designare i partecipanti agli eventi stessi (per es. i pronomi personali), ecc.

La terza spiegazione si basa sull'assunto che tutte le lingue derivino, attraverso una serie complessa di ramificazioni storiche e geografiche, da un'unica lingua primigenia, e che quindi abbiano conservato delle affinità, che si attenuano tanto più quanto più ci si allontana dal punto di separazione. Questa ipotesi (detta ''monogenetica''), formulata in più occasioni nella storia della ricerca linguistica, è stata ridicolizzata come assurda fino a che, negli anni Settanta, gli studi di genetica delle popolazioni (L.L. Cavalli Sforza e altri) non hanno mostrato che la popolazione del globo sembra derivare davvero da un unico ceppo per migrazioni e successive separazioni, e che la ramificazione delle popolazioni corrisponde con sorprendente precisione a quella delle lingue. Benché i linguisti siano poco inclini a conciliazioni, si può forse supporre che la spiegazione migliore degli u.l. consista nell'intreccio delle tre spiegazioni accennate, la biologica, la pragmatica e la monogenetica.

Bibl.: Universals of language, a cura di J.H. Greenberg, Cambridge (Mass.) 1966; La tipologia linguistica, a cura di P. Ramat, Bologna 1976; Universals of human language, a cura di J.H. Greenberg, Stanford 1978; B. Comrie, Language universals and linguistic typology, Chicago 1981 (trad. it., Bologna 1983); D. Bickerton, Roots of language, Ann Arbor 1981; H. Seiler, Possession as an operational dimension of language, Tubinga 1983; N. Chomsky, The knowledge of language, New York 1985 (trad. it., Milano 1989); E.L. Keenan, Universal grammar. 15 essays, Londra 1985; L.L. Cavalli Sforza, Reconstruction of human evolution: bringing together genetic, archaeological and linguistic data, in Proceedings of National Academy of Sciences, 85 (1988), pp. 6002-06; W. Croft, Typology and universals, Cambridge 1990.

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