Uomini

Enciclopedia machiavelliana (2014)

uomini

Giovanni Giorgini

L’umanità di Machiavelli

U., tanti u., u. e donne di ogni genere, popolano le opere politiche e letterarie di Machiavelli. M. era autenticamente interessato agli esseri umani, alla loro diversità, alle motivazioni delle loro azioni, alla loro bontà e alla loro cattiveria e ai risultati che erano riusciti a ottenere con l’una e con l’altra: M. era un attento studioso dell’animo umano e la sua ambizione, per tutta la vita, fu quella di comprendere veramente gli u. così da poter prevedere il loro comportamento in determinate circostanze. Un misto di curiosità di fronte alla varietà della natura umana, di continuo stupore di fronte alla fantasia inesauribile con cui gli u. conducevano le proprie esistenze, e di interesse scientifico per la possibilità di individuare alcune costanti e perfino di ridurre a una (o a qualche) regola cotalevarietà. È sufficiente una rapida occhiata alle opere di M. per essere colpiti dalla quantità e straordinaria varietà di esseri umani, dipinti a tutto tondo, che le popolano. La grandezza, e il fascino di M., stanno proprio nella coesistenza di questo perenne stupore di fronte alla diversità degli u. e dei loro comportamenti con il tentativo di cogliere delle regolarità che consentano di approdare a delle generalizzazioni sulla natura umana: un tentativo per sua natura destinato al fallimento e alla contraddizione, per via di quell’eterna novità e irriducibile diversità che emerge continuamente dalla conoscenza della vita e della storia e che resiste alla sistematizzazione. L’assenza di paura di fronte alla contraddizione rivela l’eccedenza di M., il fatto che oltre a uomo politico e filosofo egli fosse anche un poeta – come amava definirsi post res perditas.

Eppure, con un misto di vanità e ossequio, nell’epistola dedicatoria del Principe, M. afferma che il possesso suo più pregiato da poter essere donato a un signore sia «la cognizione delle azioni degli uomini grandi», nella convinzione che imitandoli un governante potesse ripetere i loro successi perché gli u. «nacquero, vissero e morirono sempre con uno medesimo ordine» (Discorsi I xi 5, in Opere, a cura di C. Vivanti, 1° vol., 1997), ossia ebbero sempre le stesse passioni («in tutte le città e in tutti i popoli sono quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre», I xxxix 1), le quali sortiranno sempre i medesimi effetti (III xliii 1) e quindi la gamma di possibili reazioni umane alle circostanze è limitata e può essere individuata: gli u. camminano quasi sempre sulle vie battute da altri e procedono per imitazione (Principe vi 1) ed è pertanto possibile prevedere il loro comportamento futuro «per la similitudine degli accidenti» (Discorsi I xxxix 1). Parallelamente, il mondo è sempre stato «a uno medesimo modo» (Discorsi II proemio 2) e pertanto erra grossolanamente chi ritiene che l’imitazione dell’antichità sia difficile e anzi impossibile: «come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erono antiquamente» (I proemio 2). L’immutabilità della struttura del mondo e della natura umana è la garanzia della possibilità dell’imitazione dei grandi esempi del passato. Tuttavia, all’interno di questa grande generalizzazione vi è spazio per quell’individualità alla quale M. è tanto interessato e attento, quelle ‘varie nature’ che rendono l’universo e la politica così interessanti e difficilmente prevedibili. M. è sempre alla ricerca di una «regula generale» (un’espressione che ritorna ripetutamente nelle sue opere) del comportamento umano e dunque della politica, ma l’eccezione («nondimanco»...) si ripresenta continuamente a problematizzare la materia.

L’importanza della conoscenza degli u. è del resto determinante per un autore che ritiene che la conoscenza dell’arte dello Stato sia la sua unica specialità e che vuole fare il suo «offizio di uomo buono» scrivendo di politica, allorché non può più occuparsene attivamente; e lo fa con l’intento di «scrivere cosa utile a chi la intende», quindi osservando gli u. come sono in realtà e non come vengono immaginati al fine di delineare comunità politiche ideali. Approccio realistico al problema della natura umana e scopo pragmatico della trattazione sono così intimamente connessi: l’uomo politico deve sapere con quale materiale umano ha a che fare.

I lettori di ogni epoca hanno sempre ammirato la conoscenza degli u. di M. e la sua sicurezza nei giudizi, frutto di letture unitamente a esperienze con papi, re, cardinali, imperatori, signori antichi e recenti, ambasciatori, notabili e gente comune di ogni genere. Così come sono stati colpiti dalla sua antropologia negativa, dalla sua visione pessimistica dellanatura umana. È bene qui approfondire la questione e operare delle distinzioni. Discorsi I iii 1 ci porta al cuore del problema: qui leggiamo che

è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione.

Ciò che M. intende dire è che l’uomo di Stato deve presupporre che gli esseri umani siano cattivi perché le leggi e gli ordinamenti sono fatti per regolare i comportamenti di esseri malvagi; i buoni e gli esseri morali saprebbero condursi bene anche in assenza della legge e del magistrato civile. M. non crede in una natura lapsa dell’uomo che determina la sua inevitabile malvagità; anzi, egli prende molto sul serio il libero arbitrio dell’uomo, la sua capacità di scegliere il bene o il male, ma è convinto che in politica occorra presupporre un’umanità cattiva in modo da riuscire a portare a termine senza errori il difficile compito di conservare lo Stato. L’antropologia negativa di M. è pertanto un’antropologia politica non metafisica. In secondo luogo M., che non è un innovatore per quanto concerne le categorie del bene e del male, convinto che la distruzione dello Stato precluderebbe la possibilità della vita stessa, ritiene che anche in politica occorra distinguere tra u. buoni e u. malvagi: i primi sono coloro che creano, ordinano e mantengono uno Stato, necessario presupposto per un «vivere libero e civile»; i secondi sono coloro che aspirano alla tirannide e al tornaconto personale, o che per ignavia o incapacità portano alla distruzione la comunità politica. Questo determina certamente una novità, e una cesura, rispetto all’insegnamento tradizionale classico e cristiano, ma non oblitera le categorie di bene e di male per quanto concerne il comportamento degli esseri umani. Così, in Discorsi I xviii 3, leggiamo che «il riordinare una città al vivere politico presuppone uno uomo buono», ossia l’esistenza di un cittadino veramente interessato al bene comune del proprio Stato; «e il diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo cattivo», perché togliere la libertà a una comunità politica e ricorrere a mezzi extralegali e straordinari è generalmente una cosa cattiva: è questo che determina la grande difficoltà del compito che M. attribuisce all’uomo politico che voglia riordinare una repubblica corrotta, il quale è un uomo buono, avendo un fine buono (il bene comune), ma è capace altresì di compiere atti contro la fede e la morale nel perseguimento del proprio compito. È in questo che risiede la ‘serietà della politica’, in questa necessaria coesistenza di fini e intenzioni buoni con atti e mezzi malvagi perché la posta in gioco, diversamente da altre sfere dell’agire umano, è la possibilità della vita stessa, la sopravvivenza o distruzione, la libertà o la schiavitù, di tanti esseri umani. M. evidenzia spesso questo aspetto di necessità, di costrizione, che attanaglia l’uomo politico e pertanto avverte il proprio lettore e possibile (futuro) uomo politico della responsabilità che va ad assumersi: egli deve essere disposto a ‘dannarsi l’anima’, perché il male (lo squartamento pubblico di un luogotenente, l’uccisione con inganno di congiurati, l’annientamento di una città rivale) rimane male anche se è richiesto dalla salvezza dello Stato. È in questo che risiede la drammaticità della politica, dove l’assunzione del potere, anche enorme, coesiste con la necessità «per mantenere lo stato, [di] operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione» (Principe xviii 14).

Da ultimo M., avendo una così elevata concezione dell’importanza della politica e, conseguentemente, del ruolo del governante, ha alcune figure ‘eroiche’ che ritornano nei suoi scritti come esempi di u. che fecero «gran cose» e che vengono proposti come sommamente imitabili: Mosè, Ciro, Teseo, Romolo, fondatori di Stati, ma anche Agesilao, Bruto e Scipione, che lo conservarono o fecero grande, u. incorruttibili e con una straordinaria visione politica (oltre che «amati dal Cielo» e dalla fortuna: Principe xxvi 9 e Discorsi II proemio 3). Essi sono la dimostrazione che l’umanità non è tutta malvagia e le loro gesta ne fanno figure umane esemplari per tutti gli u. buoni che abbiano a cuore la propria patria e che aspirino a fare «gran cose». Questa espressione, legata alle azioni che portano alla salvezza o alla grandezza di uno Stato e che arrecano gloria a chi le compie, ha un’importanza fondamentale nelle opere di M.: essa ricorre con particolare frequenza nei capitoli centrali del Principe, dedicati alle qualità del principe nuovo, ove M. mostra come coloro che han fatto «gran cose» possedevano le qualità da lui celebrate (Principe xvi e xviii; Discorsi II xiii).

La condizione umana

Questo elemento di necessità in politica è una conseguenza della condizione umana, un tema non trascurato affatto da M. anche se non centrale nella sua riflessione. La cornice metafisica dell’azione dell’uomo è determinata dalla natura. M. affronta obliquamente questo tema all’interno di una discussione sulla questione dell’eternità del mondo nella quale sostiene che il mondo è eterno (rigettando così implicitamente il creazionismo cristiano) e soggetto a periodiche calamità naturali – quali inondazioni, pestilenze e carestie; queste costringono i pochi sopravvissuti a ricreare a poco a poco la civiltà, fino a quando gli u. non sono troppi o troppo malvagi e la natura interviene nuovamente a «purgare» il mondo, riducendo il numero degli esseri umani e migliorando la loro qualità morale (Discorsi II v 2). M. si sofferma anche sulla condizione naturale di questi primi abitanti o sopravvissuti, che dipinge come «uomini tutti montanari e rozzi» (II v 2); altrove, riprendendo la narrazione polibiana dei primordi dell’umanità, M. aggiunge che questi primi abitatori della Terra, pochi e radi, vivevano «dispersi a similitudine delle bestie» (I ii 3). La condizione originaria degli u. è caratterizzata dalla lotta per la sopravvivenza, che li costringe talora ad abbandonare terreni sterili per cercarne di fertili, entrando così in conflitto con gli abitanti autoctoni. Aumentando di numero, essi si radunarono assieme, inizialmente per meri scopi difensivi per poi acquisire la nozione di bene e male (politico) e quindi di giustizia; a questo punto si dettero un governante, che non era il più «gagliardo» di loro, bensì il «più prudente e più giusto». La monarchia fu pertanto la prima forma di governo dell’umanità ma, dal momento che la corruzione è insita nelle cose umane, essa si deteriorò in tirannide e fu infine sostituita da un governo aristocratico; ma anche questo nel tempo degenerò, a causa dell’insoddisfazione dei nobili a cui stava stretta la «civile equalità», per cui fu rimpiazzato da uno stato popolare; in esso tuttavia si manifestò presto la «licenza» per cui, o per necessità o «per suggestione d’alcuno buono uomo», si ritornò al principato. Questo ‘cerchio delle repubbliche’, modellato sulla teoria dell’anaciclosi di Polibio, vede l’alternarsi necessario di forme di governo buone e cattive al quale ci si può sottrarre solamente creando un regime misto (che è la soluzione non solo di Polibio, ma anche di M., il quale dipinge la repubblica come una forma di governo nella quale nobili e popolo partecipano al potere e alla creazione delle leggi avendo in vista il bene comune). Tuttavia, anche questa soluzione è precaria perché le cose umane sono per natura continuamente in moto e la stabilità di qualunque forma di governo viene prima o poi scossa, necessariamente (come si sottolinea in Discorsi II xix). E, più in generale, M. commenta: «Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde conviene che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non t’induce, t’induce la necessità» (Discorsi I vi 4; cfr. II proemio; Istorie fiorentine V i); la necessità pervade l’esistenza naturale e politica degli uomini. Qualunque ordine gli u. riescano a ideare, il disordine si insinua necessariamente e «ne seguita che gli è impossibile ordinare una repubblica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina» (Discorsi III xvii 1).

M., poi, lascia aperto uno spiraglio alla possibilità che forze soprannaturali influiscano sull’esistenza degli u. o determinino in parte il loro comportamento; o quanto meno non esclude questa possibilità, come è attestato dalla formula dubbiosa con cui introduce l’argomento ogni volta che ne tratta:

Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto (Discorsi I lvi 1; cfr. Principe xxvi 12-13).

Altrove M. afferma che eventi imprevisti dimostrano «la potenza del cielo sopra le cose umane» (Discorsi II xxix 1) e arriva a concludere che la fortuna sceglie u. adatti a creare o a condurre alla rovina gli Stati: è questo il brano in cui M. si avvicina maggiormente a una visione deterministica della natura umana e attribuisce massima forza alla fortuna, quel parametro oscuro della storia incontrollabile dall’azione umana. Anche in questa circostanza, tuttavia, M. consiglia agli u. di assecondare la fortuna e non opporsi a lei, senza mai disperare perché essa si muove «per vie traverse e incognite» che potrebbero pertanto condurre a una soluzione dei problemi anche più complessi.

La natura è responsabile anche della maniera in cui è costituito l’animo umano, caratterizzato dal potere di volere e desiderare ogni cosa, che si scontra con la possibilità naturale di realizzare solo una parte dei propri desideri (a causa della fortuna, un altro fattore indipendente dall’uomo). Ne consegue una «mala contentezza» degli esseri umani, le cui menti sono continuamente afflitte (Discorsi II proemio; cfr. I xxxvii 1) dal fastidio di ciò che possiedono e dal desiderio di novità e di avere maggiore potenza e ricchezza. Questo determina un duplice ordine di conseguenze. Il desiderio di avere sempre di più, ben noto ai pensatori classici che lo chiamavano pleonexìa e lo consideravano un vizio esiziale, provoca inimicizia e guerra tra gli esseri umani e gli Stati (Istorie fiorentine VI i), un’esperienza alla quale M. era aduso («Sempre, mentre che io ho di ricordo, o e’ si fece guerra o e’ se ne ragionò», lettera a Francesco Guicciardini del 3 genn. 1525). Il conflitto è una condizione ritenuta inevitabile da M. giacché ha origine da un impulso naturale: «è cosa veramente molto naturale e ordinaria desiderare di acquistare» – egli afferma – aggiungendo che chi segue questo desiderio e se lo può permettere viene sempre lodato e non biasimato (Principe iii 40; cfr. Discorsi I vi). In secondo luogo, l’amore per la novità, che nasce dalla perenne scontentezza per il presente, determina la presenza di cittadini che aspirano a cambiamenti e rivoluzioni in tutti gli Stati («sempre si truova de’ mali contenti e di quegli che desiderano innovare»: Principe iv 13; cfr. iii 21). In generale gli u. amano il cambiamento perché s’ingannano e credono di cambiare in meglio: «li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare» (Principe iii 1; cfr. Discorsi III xxi).

Le regolarità della condotta umana

La politica, come arte del bene comune, richiede di presupporre che gli u. si comporteranno in maniera malvagia ogniqualvolta sia loro conveniente. E la fenomenologia di questa malvagità in M. è tanto acuta e accurata quanto letterariamente raffinata; alcuni dei brani più belli e celebri delle sue opere concernono proprio la natura umana. Nel prologo della commedia Clizia leggiamo:

Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente a’ giovanetti conoscere l’avarizia d’un vecchio, il furore d’uno innamorato, li inganni d’uno servo, la gola d’uno parassito, la miseria d’un povero, l’ambizione di un ricco, le lusinghe d’una meretrice, la poca fede di tutti li uomini.

M. apre i Discorsi lamentandosi che la natura invidiosa degli u. rende pericoloso trovare «modi ed ordini nuovi» come se si trattasse di cercare «acque e terre incognite» (I proemio 1). Ma l’invidia non è certo il principale difetto degli esseri umani. In generale, ciò che li accomuna è il fatto di essere egoisti e di mirare solamente al proprio interesse, così come loro appare nella loro percezione soggettiva. Un’altra sicura generalizzazione è che essi desiderano i beni materiali («li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio», Principe xvii 14) e la gloria (intesa anche come stima e reputazione). E, dal momento che questi beni sono scarsi, il lato peggiore della natura umana si manifesta e ha il sopravvento. Come afferma uno dei Ciompi nelle Istorie fiorentine:

Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini loro in mezzo, le quali più alle rapine che alla industria e alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che gli uomini mangiono l’uno l’altro, e vanne sempre col peggio chi può meno (III xiii).

Ne discende anche che gli u. sono opportunisti, per cui non si può contare sulla loro fedeltà e lealtà nei tempi avversi: di qui il celebre consiglio di mirare a essere temuti più che amati, perché il timore è un vincolo più forte dell’amore in quanto si accompagna alla paura della pena, con l’unica avvertenzadi evitare l’odio del popolo. È a quest’altezza che incontriamo forse la più celebre generalizzazione di M. riguardo alla natura umana: «Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, ch’e’ sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ periculi, cupidi del guadagno» (Principe xvii 10). Conoscendo la natura degli u., il principe può cercare di prevedere il loro comportamento in determinate circostanze, avendo così maggiori probabilità di portare a termine il proprio compito. Nel fare ciò potrà sempre contare sulla credulità, un’altra caratteristica comune al genere umano: «e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare» (Principe xviii 11; cfr. Discorsi II xiii 4).

A rendere il comportamento umano uniforme e prevedibile non è solo la fissità della natura umana, ma anche il progressivo attaccamento alle proprie abitudini inveterate: gli u. si abituano a comportarsi in un certo modo, a reagire a certe situazioni secondo uno schema fisso («gli uomini usi a vivere in un modo non lo vogliono variare», Discorsi I xviii 3). Di qui la difficoltà di far mutare loro la maniera di affrontare le situazioni: questa è proprio la sfida ‘educativa’ di M., il quale ritiene che la natura umana sia sufficientemente plasmabile da poter agire in maniera diversa a seconda di ciò che è richiesto dal contesto, se adeguatamente formata e istruita. È questo l’ideale dell’uomo, e del principe, «savio», colui che ha acquisito la capacità di agire in base alla «qualità de’ tempi», che richiedono talora di essere «impetuosi» e talora di essere «respettivi»; un tale «savio», se anche non fosse capace di comandare «alle stelle et a fati» (Ghiribizzi al Soderino, →), sarebbe in grado di vincere la fortuna e mantenere lo Stato. Ed è questa l’ultima parola e il messaggio di M. riguardo agli u.: essi possono sottomettere la fortuna, possono fare «gran cose», possono creare, salvare, rappezzare comunità politiche mostrando così di possedere «virtù» e di tenere al bene comune, di essere quindi «uomini buoni». Se non avesse creduto in queste cose M. non avrebbe concluso il Principe con un’esortazione a Lorenzo de’ Medici a risvegliare la virtù italica, non gli avrebbe ricordato che «Dio non vuole fare ogni cosa» per non toglierci il libero arbitrio e privarci della nostra parte di gloria; se non avesse creduto negli u., le sue affermazioni e le sue azioni sarebbero senza fondamento e prive di senso.

Bibliografia: L. Strauss, Thoughts on Machiavelli, Glencoe 1958 (trad. it. Milano 1970); N. Matteucci, Alla ricerca dell’ordine politico. Da Machiavelli a Tocqueville, Bologna 1984; S. De Grazia, Machiavelli in hell, Princeton 1989 (trad. it. Roma-Bari 1990); G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993; J. Coleman, A history of political thought. From the Middle Ages to the Renaissance, Oxford 2000; E. Benner, Machiavelli’s ethics, Princeton 2009; P. Vincieri, Machiavelli. Il divenire e la virtù, Genova 2011.

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