UOMO

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

UOMO

Antonio Ascenzi
Guido Modiano

Origine (XXXIV, p. 748; v. anche paleoantropologia, App. II, ii, p. 486; III, ii, p. 348; IV, ii, p. 720). − In paleontologia umana, si definisce come origine dell'u. la sequenza di eventi che hanno portato alla comparsa delle forme umane primordiali e all'evoluzione delle medesime verso le forme attuali.

Le nostre conoscenze sull'argomento hanno attraversato due fasi. Nella prima, che si può far risalire alla seconda metà dell'Ottocento e ai primi tre decenni del Novecento, la scarsità dei reperti fossili e il loro rinvenimento spesso casuale hanno essenzialmente suscitato l'elaborazione di costruzioni speculative suggerite dalle teorie evoluzionistiche. In una seconda fase, il cui sviluppo è andato intensificandosi dopo la seconda guerra mondiale, il problema dell'origine dell'u. si è trasformato in una scienza sempre più fondata su abbondanti elementi di obiettività e, di conseguenza, realisticamente suscettibili di catalogazione, di confronto e di elaborazione. A questo mutamento hanno contribuito, in primo luogo, l'incremento degli studiosi e la loro provenienza multidisciplinare (che ha consentito scavi sistematici estremamente accurati per quanto attiene alla pluralità, alla qualità e all'ubicazione del materiale raccolto) e, in seconda istanza, l'introduzione dei metodi di datazione (14C, potassio-argon, uranio-torio, paleomagnetismo), che hanno permesso di attribuire ai reperti una posizione cronologica attendibile.

Ma, anche se l'abbondanza del materiale di studio fin qui raccolto è stata sotto molti aspetti illuminante, essa non ha tuttavia mancato di sollevare quesiti che permangono tuttora irrisolti. Ciò dipende dalla frequente frammentazione dei reperti, dalla variabilità individuale non sempre facilmente riconoscibile dal dimorfismo sessuale e, così pure, dalla difficoltà di applicare criteri tassonomici di per sé statici a un sistema in evoluzione.

L'u. appartiene all'ordine dei Primati, comprendenti (quelli attuali) il sottordine delle Proscimmie e quello degli Antropoidi (fig. 1). Poiché il primo sottordine comprende le forme più primitive, i lontani progenitori dell'u. vanno individuati nell'ambito delle Proscimmie. Questi sarebbero i Plesiadapidi, insettivori arboricoli delle dimensioni di un piccolo gatto, comparsi circa 70 milioni di anni or sono con la fine del Cretaceo e l'inizio del Paleocene. Taluni caratteri, in particolare la morfologia dei molari, li avvicinerebbero ai primati e li allontanerebbero dalle tupaie, la cui appartenenza alle Proscimmie permane incerta. Pertanto i Plesiadapidi potrebbero essere forme ancestrali comuni sia alle Proscimmie sia alle tupaie. Questi esseri erano diffusi sia in America del Nord sia in Eurasia, data la stretta vicinanza delle due masse continentali a quell'epoca. Dai Plesiadapidi sarebbero derivate le Proscimmie fossili rappresentate, tra l'altro, dai generi Adapis e Notarcus da cui, a loro volta, sarebbero originate le proscimmie attuali con i loro tre sottordini (Lemuriformi, Lorisiformi e Tarsiformi) e, successivamente, la linea degli Antropoidi.

Tra le Proscimmie fossili, dei vari candidati suscettibili di dare l'avvio a un tronco filetico dal quale si sarebbero poi differenziati gli Antropoidi, sembra che il più probabile sia quello degli Omomiidi. Questo tronco sarebbe comune sia agli Antropoidi del Nuovo Mondo (le Platirrine) sia a quelli del Vecchio Mondo (le Catarrine). Queste ultime, peraltro, vengono considerate le sole responsabili del processo di ominazione: le Catarrine si sarebbero distaccate dal tronco filetico comune a partire dall'Oligocene, cioè circa 30 milioni di anni or sono. In un ambiente di foresta equatoriale piovosa, quale quello identificato nell'attuale depressione egiziana di Fayum, i generi Propliopithecus e Aegyptopithecus (fig. 2) lasciano apprezzare una dentizione di formula evoluta e di carattere ominoideo (2.1.2.3), accanto a uno sviluppo ponderale variabile di 4-6 kg, dimorfismo sessuale, deambulazione quadrupede, abitudini arboricole e alimentazione frugivora. Sempre fra le Catarrine vanno ricordati, quali probabili candidati intermedi lungo la linea evolutiva umana, i generi Proconsul (fig. 3) e Kenyapithecus in Kenya; Ramapithecus e Sivapithecus in India, Pakistan, Cina e Kenya; Rudapithecus e Dryopithecus in Europa. Si calcola che questi Antropoidi abbiano vissuto nel Miocene in un arco di tempo compreso approssimativamente tra 20 e 8 milioni di anni fa. In termini molto generali si tratta di animali tanto frugivori che folivori, a sviluppo ponderale piuttosto marcato, a locomozione sia sospensoria sia quadrumane, quest'ultima sia terrestre sia arborea. Dallo stesso tronco filetico si separeranno altri rami collaterali: uno di questi darà origine alle Catarrine attuali, l'altro agli Ilobatidi, pure viventi. L'epoca di separazione permane incerta.

In concomitanza con le modificazioni ecologiche derivanti dalla transizione da un ambiente di foresta a uno sempre più aperto, il tronco evolutivo principale si è andato progressivamente suddividendo in successive diramazioni che hanno dato origine alle Pongidae (orango, scimpanzè e gorilla) e alle Hominidae. Le modalità e i tempi con i quali questa suddivisione ha avuto luogo sono oggetto di discussione.

Infatti, contrariamente a quanto inizialmente sperato, le incertezze derivanti dallo studio dei resti fossili non solo non si sono risolte, ma addirittura moltiplicate, quando si è creduto di trovare soluzioni più attendibili dallo studio delle parentele biochimiche e immunologiche tra Hominidae e singole forme di Pongidae viventi. Ne sono derivate ipotesi per lo più contrastanti, nessuna delle quali ha trovato finora conferma. Pertanto, solo in via del tutto orientativa si può ritenere che la separazione dell'orango, del gorilla e dello scimpanzè risalga rispettivamente a circa 16, 10 e 7-6 milioni di anni or sono.

A partire dagli ultimi 5-4 milioni di anni la linea a orientamento umano si caratterizza per la comparsa in Africa Orientale e Australe di forme con caratteri che, sebbene ancora pitecoidi, presentano anche attributi di ominoidi. Di questi ultimi, a parte la dentatura, il più vistoso è la stazione eretta, testimoniata non soltanto dai caratteri anatomici del complesso bacino-femore, ma anche da alcune serie di impronte di piante di piedi scoperte a Laetoli in Tanzania (fig. 4).

Tra i caratteri non umani il principale è il volume cranico, inferiore a 650 cc, cioè a quel limite convenzionale oltre il quale si entra nel dominio del genere Homo. Ma è anche presente il prognatismo facciale con sinfisi mentoniera sfuggente all'indietro. Gli esseri in questione sono gli Australopitecidi di cui sono state individuate varie specie: A. afarensis, A. robustus, A. boisei, A. africanus. I motivi del passaggio alla stazione e alla deambulazione eretta restano ignoti; a determinarle possono forse aver contribuito vari fattori: trasformazione dell'ambiente, con transizione da un paesaggio forestale a un paesaggio di savana; ricerca di un più ampio spettro di cibi; necessità di difesa dai predatori; miglioramento delle attività connesse con la riproduzione.

I rapporti filogenetici tra i vari Australopitecidi non sono stati ancora ben chiariti. Ci sono peraltro fondati motivi per ritenere che non tutti abbiano partecipato al processo dell'ominazione. Si è prospettato che A. afarensis sia la forma più antica. Da essa sarebbero derivate le forme umane primitive. Ma si tratta di un'ipotesi sulla quale attualmente sussiste dissenso. A. robustus e A. boisei sarebbero invece forme estinte. Incerta rimane la posizione di A. africanus. È stata prospettata l'ipotesi che possa essere il predecessore comune di A. robustus e di A. boisei.

Una forma che, malgrado talune opinioni discordanti, viene considerata come il più antico capostipite del genere Homo è Homo habilis. Le datazioni ne rivelano la presenza in un periodo compreso all'incirca tra 2,5 e 1,3 milioni di anni fa. I suoi resti sono stati rinvenuti in varie località dell'Africa Orientale e Australe. Si tratta di un ominide bipede di capacità cranica oscillante tra 650 e 750 cc, quindi superiore a quella degli Australopitecidi.

La faccia è prognata e la dentatura è paragonabile a quella di un u. attuale (fig. 5). L'aggettivo habilis deriva dal fatto che in concomitanza con i resti scheletrici sono stati rinvenuti manufatti litici molto primitivi. Malgrado i calchi endocranici abbiano messo in rilievo alcuni attributi di evidente differenziazione cerebrale come, per es., lo sviluppo dell'area di Broca, la rozzezza dei manufatti fa ritenere che questi non derivassero da un modello neurologico finalizzato, ma piuttosto fossero il portato di un'attività al limite del casuale, con scelta orientata in funzione dell'uso.

In concomitanza con Homo habilis, fa la sua comparsa Homo erectus, la cui aggettivazione di specie si giustifica in quanto questa forma è stata segnalata in un'epoca in cui gli Australopitecidi erano ancora ignoti. L'estensione territoriale e quella cronologica di Homo erectus hanno suscitato divergenze tra gli studiosi, in quanto taluni hanno creduto di includere tra questi ominidi anche forme che, accanto al persistere di caratteri considerati patognomonici, ne presentavano altri, alquanto più avanzati in senso evolutivo. Altri studiosi, invece, hanno tenuto separate queste ultime forme, considerandole uno stadio differenziativo successivo, e le hanno denominate Homo sapiens arcaico o Homo presapiens. Per coloro che sono inclini ad accettare quest'ultimo orientamento il quale, d'altro canto, sembra il più realistico, Homo erectus sarebbe stato presente solo in Africa (suo continente di origine) e in Asia (suo continente di prima migrazione), ma non in Europa, dove essendo arrivato tardi, probabilmente non prima di 500.000 anni or sono, aveva già assunto caratteri di più avanzata evoluzione. Per coloro, invece, che ritengono essere Homo sapiens arcaico un erectus, questi sarebbe presente, sebbene in forma più evoluta e più tardiva, anche in Europa, e a esso dovrebbe essere conferita la denominazione di Homo erectus tardo.

Per quello che concerne le forme extraeuropee, i caratteri di Homo erectus sono: cranio birsoide, appiattito con accenno a carena, capacità variabile tra 800 e 1225 cc, fronte sfuggente con rilievo sopraorbitario massiccio e spiccato restringimento retro-orbitario, massima larghezza cranica in sede basale, faccia moderatamente prognata con mandibola priva di mento, scheletro post-craniale poco diverso da quello dell'u. attuale. Si calcola che queste forme siano vissute in un periodo compreso tra 1,8-1,6 milioni di anni or sono e l'avvento del Pleistocene medio (figg. 6 e 7). I caratteri dei Presapiens sono alquanto differenti da quelli riferiti per le forme afroasiatiche. Essi sono a volte compositi in quanto, accanto ad aspetti primitivi o arcaici, vanno differenziandosi aspetti del tipo Homo sapiens. In altri termini, si ha netta l'impressione di trovarsi di fronte a forme in via di evoluzione verso Homo sapiens neandertalensis e verso Homo sapiens sapiens. I rapporti filetici di Homo erectus con gli Australopitecidi e con Homo habilis sono tuttora oggetto di congetture. Sembra tuttavia − come già accennato − che Homo erectus abbia avuto le sue origini in Africa, da dove si sarebbe diffuso fino in Estremo Oriente, come starebbe a indicare l'assenza di forme evolutive precorritrici nel continente asiatico e, in particolare, a Giava. I manufatti di Homo erectus vanno progressivamente differenziandosi. Mentre nel settore afroasiatico dominano i choppers e i chopping tools, in Europa compaiono l'acheuleano, il chelleano e i manufatti su osso, i quali vanno tutti assumendo localmente spiccata raffinatezza, perfezione e pluralità, come recentemente segnalato nel giacimento italiano di Fontana Ranuccio, presso Anagni (figg. 8 e 9). Sulla scorta delle prime avvisaglie riguardanti Homo habilis continuano a svilupparsi i ripari in capanne; viene segnalato l'uso del fuoco (fig. 10). In fig. 11 e nelle successive sono indicati i siti di rinvenimento e vengono presentati alcuni dei più antichi resti umani noti per la penisola italiana.

All'incirca da 120.000 anni, cioè a partire dalla fine dell'interglaciale Riss-Würm fino a tutto il Würm II, si entra in un'epoca dominata dalle forme umane note con l'appellativo di Homo sapiens neandertalensis. Tuttavia, soprattutto nella fase iniziale di detta epoca, cioè nell'interglaciale Riss-Würm, più che neandertaliani tipici si riscontrano forme con caratteri misti, ossia in parte arcaici e in parte attinenti a Homo sapiens neandertalensis, e anche a Homo sapiens sapiens.

Ne risulta, quindi, che i neandertaliani tipici sono relativamente tardivi e risalgono alla glaciazione del Würm. Si tratta di forme del tutto peculiari che rivelano una fissità di caratteri veramente sorprendente. Il cranio è birsoide, appiattito e allungato con protrusione della squama dell'occipitale a forma di chignon. La capacità corrisponde, o è lievemente superiore, a quella del cranio dell'u. attuale. I rilievi sopraorbitari sono marcati, ma separati a livello glabellare. La faccia è solo modicamente prognata e il profilo della sinfisi mentoniera è rettilineo e verticalizzato (mento neutrale). Il resto dello scheletro è simile a quello dell'u. attuale, sebbene molto più robusto. I manufatti su selce testimoniano un'ulteriore trasformazione e si esprimono come musteriano. Tra i segni di evoluzione psichica va menzionata la pratica dell'inumazione intenzionale, mentre non si esclude il cannibalismo rituale.

Con l'approssimarsi della fine del Würm (Würm III e IV), e precisamente 35.000 anni or sono, i neandertaliani vanno scomparendo e l'umanità attuale risulta completamente sviluppata, sia pure manifestando varianti locali (u. di Cro-Magnon, di Chancelade, di Combe Capelle, ecc.). I motivi della scomparsa dei neandertaliani sono tuttora oggetto di congetture. Tuttavia si ritiene che l'evento più probabile sia la locale, progressiva sostituzione da parte di Homo sapiens sapiens in virtù di una più elevata capacità di adattamento.

L'evoluzione da Homo erectus a Homo sapiens lungo una doppia linea filetica sembra non rendersi necessaria per l'avvento di Homo sapiens sapiens, in quanto si ha modo di ritenere che nel continente africano la linea filetica sia stata unica e diretta. Con l'avvento di Homo sapiens sapiens, l'umanità va rapidamente esprimendo la propria inventiva e la propria attività creatrice. Inoltre estende la propria presenza in altri continenti passando nelle Americhe attraverso lo stretto di Bering e trasferendosi in Australia dal Sud-Est asiatico.

Se si pone mente sia al lasso di tempo relativamente breve in cui si è effettuata l'ominazione, sia al prorompente affermarsi dell'umanità come specie dominante sulla Terra, è giocoforza rendersi conto che l'interazione tra genotipo e ambiente dev'essersi attuata con modalità diverse da quelle delle altre specie animali. Queste modalità trovano riferimento nell'evoluzione culturale, attraverso l'incremento della comunicazione e dei rapporti sociali, ottenuti con lo sviluppo del linguaggio. In questo senso si giustifica l'espressione di Y. Coppens: "L'uomo è, in una certa misura, anche un prodotto della cultura".

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Razze umane. - In biologia e in antropologia si definiscono razze gruppi sufficientemente numerosi di individui della stessa specie, che differiscono tra loro (cioè un gruppo dall'altro) in modo ''discontinuo'' per una serie sufficientemente grande di caratteri classificatori, detti marcatori antropologici principali. Questi caratteri devono essere: ereditari; a determinazione, se non del tutto, almeno in larga parte indipendente; fortemente concordanti tra loro e chiaramente manifesti.

La suddetta definizione non si distingue da quella già data nella voce razza (XXVIII, p. 910) per questioni di principio, ma solo perché più articolata e dettagliata; è necessaria perché dipende dal tipo di definizione adottata se si continuerà o meno ad affermare l'esistenza delle razze umane. Sempre più numerosi sono infatti coloro che negano l'esistenza delle razze umane, illudendosi in tal modo di tagliare alla radice il male del razzismo, come se la negazione dell'esistenza di un problema ne potesse facilitare la soluzione. A parte la considerazione che l'unico modo scientificamente corretto di affrontare l'argomento ''razza'' con riferimento all'u. è di prescindere completamente dal razzismo (cioè, come si avesse a che fare con razze di specie vegetali o animali diverse dall'u.), è necessario osservare che la questione dell'esistenza o meno delle razze è solo uno pseudoproblema. Che la specie umana sia costituita da gruppi che differiscono gli uni dagli altri per determinati caratteri ereditari, è un fatto; mentre chiaramente non lo è la decisione se denominare ''razze'' questi gruppi. Se poi questa denominazione sia da adottare o da respingere dipende solo da ciò che, in modo del tutto libero, abbiamo deciso d'intendere con essa.

Per la definizione che è stata qui sopra proposta, come per quella già data in questa Enciclopedia, le razze esistono; adottando invece altri criteri − peraltro di regola non precisati − esse non esistono. In quest'ultimo caso, per designare gli stessi gruppi, nei quali si constatino le stesse proprietà differenziali, si potrebbe parlare di etnie, o di gruppi, o di stirpi, o di altro ancora. Ma rimane forte il sospetto che se anche il termine razza fosse soppiantato da un altro, non per questo gli attuali razzisti avrebbero maggiore difficoltà a trasferire ed etichettare la loro ideologia sotto il nuovo termine, essendo essi in sostanza dei ''diversisti'', cioè istintivamente contrari a tutti coloro che sono, o che essi reputano, ''diversi'' e, perciò stesso, ''inferiori'', indipendentemente dal nome che di volta in volta si decida di attribuire loro.

Chiarito quanto sopra, è opportuno integrare la parte descrittiva della definizione con una storico-interpretativa. Vengono denominate razze quei gruppi che differiscono tra loro in modi chiaramente manifesti, in quanto si tratta di gruppi che sono vissuti in stato d'isolamento riproduttivo reciproco, d'intensità e di durata sufficienti, per definizione, a che si creassero le differenze a noi note e quindi, verosimilmente, anche altre non note, la cui grandezza è proporzionale, in media, al grado (intensità e durata) dell'isolamento. Quattro dei molti punti, e tutti irrinunciabili, della definizione descrittiva (la discontinuità, la determinazione indipendente, la concordanza e il loro essere manifesti) richiedono di essere illustrati, chiariti o giustificati. Tre di essi verranno discussi qui di seguito.

Tra i gruppi in cui si suddivide un insieme, il criterio più irrinunciabile è la discontinuità nella distribuzione di almeno un carattere differenziale: la prima operazione da effettuare è infatti quella di definire i gruppi sulla base di uno o più caratteri che permettano di assegnare senza ambiguità e incertezze ogni singolo individuo dell'insieme a uno degli almeno due gruppi in cui si sta suddividendo quell'insieme, che permettano cioè d'individuare questi gruppi. Solo se è stato possibile effettuare quest'operazione preliminare diventa possibile la seconda fase che consiste nell'accertare se, e in che misura, questi gruppi differiscano tra loro anche per altri caratteri. È evidente che l'assegnazione univoca di ogni singolo individuo a un gruppo è possibile solo se il carattere differenziale adottato come criterio di assegnazione è distribuito in modo discontinuo, se esso cioè è fortemente eterogeneo fra i vari gruppi che sono invece al loro interno uniformi. Tra gli esempi più noti: la pigmentazione cutanea (i bianchi sono ''tutti'' bianchi e i negri sono ''tutti'' neri); la morfologia dei capelli (''tutti'' i negri hanno i capelli crespi e ''tutti'' i mongoloidi li hanno lisci) o la statura nei pigmei (che sono ''tutti'' bassi). Ma occorre ricordare che i caratteri discontinui utilizzati a scopo classificatorio (cioè i caratteri classificatori, per cui v. oltre) possono anche non essere fisici: possono essere per es. caratteri geopolitici (quando si confrontino i baschi con gli altri abitanti della penisola iberica) o religiosi (confronto tra gli ebrei aschenaziti e i non ebrei degli stessi territori) o altro. La differenza tra due individui scelti a caso da due gruppi diversi è sempre molto simile a quella esistente tra le medie dei due gruppi. In altre parole, l'eterogeneità o variabilità intergruppi (cioè tra gruppi diversi) dev'essere molto maggiore della variabilità intragruppi (cioè all'interno dei singoli gruppi). Se invece quest'ultima è di grado considerevole, per cui le distribuzioni del carattere in questione nei vari gruppi sono più o meno parzialmente sovrapposte, l'assegnazione senza ambiguità a un certo gruppo non è più possibile per singoli individui, ma solo per insiemi (i cosiddetti campioni) di individui dello stesso gruppo. Infatti la differenza tra due individui scelti a caso da due gruppi con medie diverse può risultare molto forte, anzi perfino di segno opposto, da quella esistente tra le medie di questi due gruppi: per es. un individuo del gruppo con statura media più bassa può essere più alto di uno del gruppo con statura media più alta. Pertanto, in casi di questo genere l'assegnazione a uno dei gruppi non è possibile per singoli individui, bensì solo per campioni ( = insiemi di individui appartenenti tutti allo stesso gruppo) di cui vengono poste a confronto le rispettive medie. E la dimensione minima dei campioni dev'essere tanto maggiore quanto più ampia è la sovrapposizione tra le distribuzioni dei vari gruppi, cioè quanto minore è la preminenza della variabilità intergruppi su quella intragruppo.

Molto importante è determinare il contributo cumulativo di caratteri distinti alla suddivisione in gruppi. L'efficienza combinata di due caratteri nel distinguere due gruppi dipende dalla misura in cui le cause e i meccanismi che determinano la variabilità del primo di questi caratteri sono indipendenti da quelli responsabili della variabilità del secondo; e dal grado di concordanza tra le suddivisioni generate da ciascuno di essi: la variabilità cumulativa ottimale si raggiunge solo nei casi in cui i due caratteri, pur essendo determinati in modo del tutto indipendente (per es. statura e pigmentazione cutanea; oppure morfologia dei capelli e presenza/assenza della plica epicantica), danno tuttavia origine a suddivisioni che risultano perfettamente concordanti. Il punto relativo al fatto che i caratteri devono essere manifesti verrà discusso in seguito.

È difficile immaginare un criterio di classificazione più vago, sfumato e arbitrario di quello che abbiano appena proposto. I problemi che esso pone sono tanti: per es., quanto numerosi devono essere gli individui che costituiscono un gruppo razziale per poterli considerare ''sufficientemente numerosi''? Quanto cospicua dev'essere la componente ereditaria di un carattere −rispetto a quella ambientale − per poterlo definire ereditario e quindi eventualmente adatto a essere utilizzato come carattere differenziale tra razze? Quanti devono essere i caratteri differenziali su cui basare l'individuazione di gruppi razziali diversi?

Evidentemente sarebbe del tutto illusorio pretendere di quantificare in modo rigoroso, obiettivo e preciso questi criteri di classificazione; anzi qualsiasi tentativo in questo senso si risolverebbe in una sorta d'idea platonica delle razze, cioè nell'individuazione di categorie sistematiche di fatto inesistenti. In altre parole, tutte le eventuali classificazioni rigorose e precise sarebbero da respingere proprio in quanto tali. Con ciò non si vuole certo negare che la nostra specie sia costituita da gruppi diversi l'uno dall'altro per determinati caratteri ereditari; si vuole piuttosto dire che, poiché i criteri di distinzione tra questi gruppi non sono netti, la loro validità non è uniforme in tutto lo spettro di situazioni possibili, ma è soddisfacente solo se si è lontani dalle ''zone di confine'', allo stesso modo che la distinzione tra adolescenti e adulti, pur essendo vaga nel secondo e nel terzo decennio di vita, si utilizza lo stesso.

È evidente che la tecnica di classificazione appena illustrata si presta a suddividere la nostra specie in razze (o comunque in gruppi) altrettanto bene sia se i caratteri differenziali utilizzati a questo scopo sono culturali sia se sono fisici, perché non vi è dubbio che anche i caratteri culturali sono trasmessi ereditariamente. Tuttavia, dato che le suddivisioni in ''razze culturali'' sono solo scarsamente concordanti con quelle dell'antropologia fisica classica, e anche per ragioni di spazio, ci limiteremo a prendere in considerazione solo i progressi effettuati studiando caratteri differenziali ''biologici'' (affiancandovi talora criteri geografici), cioè caratteri ereditari trasmessi geneticamente (attenendoci, quindi, alla definizione proposta nella già citata voce razza: "La razza è un'entità biologica"). Inoltre, e ancora per ragioni di spazio, e anche perché nello studio delle razze progressi decisivi si sono verificati solo nell'ambito della specie umana, quest'aggiornamento prende in esame solo la nostra specie.

Caratteri biologici con una variabilità genetica. - Tali caratteri costituiscono i vecchi e i nuovi strumenti dell'antropologia, tanto che qualsiasi suddivisione antropologica fisica dev'essere basata su differenze nella loro distribuzione nell'ambito della specie. Poiché in questi ultimi cinquant'anni i progressi nella comprensione della natura, del significato biologico e della storia delle razze umane sono dovuti soprattutto alla scoperta di nuovi caratteri genetici variabili, è necessario fare alcune precisazioni sulle loro proprietà. Infatti, il problema principale dell'antropologia descrittiva è che, quando si procede all'identificazione di vari gruppi e alla valutazione delle differenze esistenti tra di essi, cioè la variabilità tra gruppi (che è il punto di partenza obbligato di qualsiasi studio antropologico), si deve tener conto del fatto che quegli stessi caratteri che differiscono tra un gruppo e un altro di regola variano anche all'interno di ognuno dei singoli gruppi. Anzi in molti casi la variabilità intragruppo è molto maggiore di quella tra gruppi. Comunque in generale si denominano marcatori antropologici tutti i caratteri per i quali si constata una certa differenza tra gruppi umani diversi: i marcatori antropologici sono tanto più ''buoni'', quanto più grande è la variabilità intergruppi rispetto a quella intragruppo. Conviene quindi prendere in esame le possibili relazioni tra questi due tipi di variabilità.

La variabilità intragruppo (cioè tra individui o gameti dello stesso gruppo) può essere continua o discontinua a seconda se sia determinata da caratteri quantitativi o da caratteri alternativi. Nel primo caso si tratta di quei caratteri, molto numerosi, che si distribuiscono lungo un continuum di variabilità. Per questo tipo di caratteri la variabilità intergruppi è completa quando le distribuzioni dei vari gruppi non si sovrappongono, è parziale quando non esiste una separazione netta tra le distribuzioni nei diversi gruppi. Infatti, sebbene accada di rado che le medie di uno di questi caratteri siano uguali in gruppi diversi, è ancora più raro che esse differiscano al punto che le rispettive distribuzioni non si sovrappongano nemmeno parzialmente tra i vari gruppi, come nel caso del colore della pelle, della statura nei pigmei, ecc. Nel secondo caso (variabilità intragruppo discontinua), cioè per i caratteri alternativi (unigenici) − che sono molto più numerosi − di solito la discontinuità è solo parziale: di regola tutti gli alleli comuni sono presenti in tutti i gruppi, anche se in genere con frequenze più o meno diverse. È vero che non è rarissimo il caso di un allele A1 presente in un gruppo X e assente o quasi in un altro Y (per cui un individuo A1A1 potrebbe essere assegnato con certezza al gruppo X), ma è assolutamente eccezionale trovare fissato in un gruppo un allele del tutto assente in un altro gruppo, per cui ''tutti'' gli individui sarebbero assegnabili con certezza a uno dei gruppi determinando così il verificarsi una discontinuità intergruppi completa.

Due aspetti vanno sottolineati: il primo è che i caratteri con una variabilità intergruppi ''discontinua'' possono trovarsi sia tra i caratteri quantitativi che tra quelli alternativi, cioè sia tra i caratteri con una variabilità intragruppi ''continua'' che tra quelli in cui questa variabilità è ''discontinua''. Il secondo aspetto è che in entrambi questi casi i caratteri con variabilità intergruppi discontinua (quelli che almeno in teoria permetterebbero di definire in modo univoco due o più gruppi) sono un'esigua minoranza.

In conclusione, sulla base di due criteri (variabilità intra o intergruppi; variabilità continua o discontinua), i caratteri biologici caratterizzati da variabilità genetica possono essere distinti in quattro classi di cui solo la terza e la quarta soddisfano il requisito ''minimo'' perché un carattere possa essere ''classificatorio'', cioè essere utilizzabile al fine di suddividere un insieme come la nostra specie in gruppi ''discreti''. Dicendo minimo si è voluto sottolineare il fatto − tutt'altro che banale malgrado la sua ovvietà − che un carattere con variabilità intergruppo discontinua può essere utilizzato come carattere classificatorio solo se la sua variabilità discontinua è nota. Ma se si considera da vicino l'intera questione è facile rendersi conto che anche in questo caso mancherebbe ancora qualcosa.

Caratteri biologici con variabilità genetica intergruppi discontinua nota e manifesta. L'attuale suddivisione della specie umana in razze è in sostanza la stessa adottata da almeno un secolo dall'antropologia fisica, che era, di necessità, basata solo su caratteri morfologici ben evidenti, e ciò come probabile conseguenza di una limitazione tecnica della prima antropologia, che era allora in grado di scoprire solo caratteri morfologici macroscopici, cioè manifesti anche a un occhio profano. Questa suddivisione, pertanto, la si poteva credere valida finché questi erano gli unici caratteri discontinui che si conoscevano, ma non più adesso, che sono stati scoperti alcuni nuovi caratteri con variabilità intergruppi discontinua. Eppure, nonostante ciò, giustamente non si è sentita la minima necessità di proporre nuove classificazioni alternative a quelle tradizionali.

Questi nuovi caratteri, pur essendo caratteri unigenici, che rientrano quindi nella categoria dei marcatori antropogenetici, tuttavia mancano di una proprietà che li rende del tutto inadatti a impostare classificazioni in razze, come invece si era fatto con i caratteri dell'antropologia fisica classica: essi cioè non sono caratteri manifesti. Individui tra loro diversi per questi caratteri sono distinguibili solo attraverso tecniche più o meno sofisticate (ossia attraverso prove sierologiche: gruppi sanguigni e gruppi GM delle immunoglobuline; oppure analisi di proteine o del DNA).

Ne risulta pertanto che esistono due tipi di caratteri con una variabilità discontinua intergruppi: alcuni di quelli dell'antropologia fisica tradizionale in cui la variabilità è, ed è sempre stata, manifesta; e alcuni dei caratteri unigenici in cui questa variabilità non è manifesta. Su questa base non si è ritenuto giusto utilizzare i caratteri con variabilità intergruppo discontinua ''di seconda generazione'' (cioè quelli non manifesti) come base per suddividere la nostra specie in razze, proprio per la non immediata riconoscibilità di questi caratteri.

A questo punto è necessario chiedersi perché si è ritenuto giusto non utilizzare i caratteri con variabilità intergruppo discontinua ''di seconda generazione'', cioè quelli non manifesti, come base per suddividere la nostra specie in razze, così come si era fatto con quelli ''di prima generazione'' che invece sono manifesti. Perché mai si deve ritenere la proprietà di essere appariscenti o meno così decisiva, dato che i caratteri discontinui di seconda generazione sono ormai diventati manifesti, anche se solo agli ''addetti ai lavori''. Il motivo sta proprio in queste ultime poche parole, perché questo conduce direttamente alla caratteristica essenziale propria dei caratteri discontinui che hanno portato alla classificazione dell'u. in razze e che manca invece nei caratteri discontinui di seconda generazione considerati inadatti a tale scopo, cioè la consapevolezza della diversità da parte dei soggetti stessi che la presentano. Infatti se esiste una consapevolezza della diversità, ogni individuo di un gruppo diverso da un altro per un carattere discontinuo e manifesto ''vede'' di essere uguale, per quel carattere, a tutti gli altri membri del suo gruppo e diverso da tutti i membri dell'altro gruppo, cioè ''sa'' che esistono gruppi diversi e ''sa'' a quale di essi appartiene. E deve essere sottolineato che in molti casi questa consapevolezza è stata decisiva nel limitare o addirittura annullare incroci tra razze diverse, cioè nel mantenere nel tempo queste differenze discrete; è molto plausibile perfino che essa abbia favorito il completamento della loro diversificazione, una volta divenuta abbastanza evidente da generare la consapevolezza che una differenza, sia pure non costante, esisteva realmente tra tali razze.

In conclusione, gli unici caratteri differenziali che possiamo chiamare marcatori antropologici ''classificatori'' sono quelli che, oltre a presentare una variabilità discontinua tra gruppi, sono manifesti; tutti, cioè, ne sono stati sempre consapevoli. Tutti gli altri caratteri, se presentano un certo grado di variabilità tra gruppi, possono essere utilizzati come marcatori antropologici ''accessori'', adatti cioè a confrontare tra loro gruppi discreti (definiti cioè sulla base del loro comportamento per uno o più caratteri classificatori) allo scopo di accertare in che misura essi differiscono per le loro medie (se si tratta di caratteri quantitativi) o per le loro frequenze (se si tratta invece di caratteri alternativi). I marcatori antropologici accessori possono cioè accrescere la validità di una classificazione univoca basata necessariamente su marcatori classificatori, ma non possono da soli generare classificazioni, o per una ragione di principio (se non presentano una variabilità intergruppi discontinua) oppure perché le suddivisioni univoche a cui darebbero origine sarebbero da scartare in quanto non manifeste.

È molto importante notare che gli unici caratteri classificatori noti (che, per quanto si è detto, sono noti da molto tempo e sono gli unici esistenti) sono caratteri quantitativi, cioè a determinazione genetica complessa (caratteri poligenici) e non ancora chiarita: si tratta infatti di caratteri con variabilità intragruppo continua, ma con distribuzioni intergruppo ben separate. In altre parole si può affermare che non esistono marcatori antropologici classificatori unigenici, cioè a determinazione genetica semplice e chiara.

I progressi dell'antropologia fisica dagli anni Trenta a oggi. - Per comprendere l'entità e il significato di questi progressi si deve esaminare quali erano, una sessantina di anni fa, gli obiettivi − alcuni dei quali non del tutto consapevoli ed espliciti − di questa scienza. Solo così si sarà in grado, oltre che di valutare se e in che misura si è riusciti a rispondere ai quesiti dell'antropologia fisica classica, anche d'individuare quali dei suoi vecchi obiettivi sono tuttora da considerare d'interesse scientifico rilevante e quali invece, alla luce delle nuove acquisizioni, costituiscono solo dei problemi secondari se non addirittura degli pseudoproblemi.

Negli anni Trenta si pensava che l'antropologia fisica si sarebbe sviluppata essenzialmente lungo tre direttrici. La prima era il perfezionamento della classificazione in razze della nostra specie attraverso la scoperta e l'utilizzazione di nuovi marcatori antropologici. Ci si aspettava che molti di essi sarebbero risultati molto discriminanti, cioè, se non del tutto discontinui, distribuiti in modo fortemente differenziale (molto uniformi all'interno di singole razze e molto diversi da una razza all'altra); concordanti, per cui avrebbero contribuito a chiarire i numerosi problemi incontrati nelle classificazioni precedenti riducendone l'elevato grado di soggettività; poligenici, cioè a determinazione genetica certa, ma troppo complessa per poter essere, oltre che accertata, anche chiarita a livello formale (individuando, cioè, il numero dei geni e degli alleli coinvolti nella variabilità interazziale in esame; naturalmente non ancora a livello molecolare); non manifesti, perché altrimenti sarebbero già stati scoperti. La seconda direttrice riguardava la valutazione del grado e della natura delle differenze tra le varie razze che, pur essendo ancora ignote, si riteneva, per estrapolazione da quelle classiche, fossero di regola cospicue. La terza riguardava la ricostruzione della storia biologica della nostra specie.

Per valutare i progressi compiuti dall'antropologia fisica nel corso degli ultimi decenni verranno prese in esame tre sezioni concettualmente ben distinte: gli strumenti, cioè i marcatori antropogenetici, i procedimenti di analisi statistica sui marcatori alternativi non quantitativi come quelli tradizionali e il computer; i risultati, cioè i nuovi dati di fatto che sono stati acquisiti utilizzando vecchi e nuovi strumenti; infine l'interpretazione, cioè le implicazioni dei nuovi risultati sulla natura e il significato delle differenze tra le varie razze.

Gli strumenti e la loro utilizzazione. Gli strumenti di base dell'antropologia, con cui si può prima suddividere la nostra specie in razze e poi descriverne le somiglianze e le differenze, sono come già detto i marcatori antropologici. La linea di progresso più spettacolare dell'antropologia negli ultimi cinquant'anni è stata la scoperta di un gran numero di nuovi marcatori antropologici, tutti appartenenti alla categoria dei marcatori antropogenetici (ossia caratteri con variabilità intragruppo discontinua quasi sempre parziale).

Negli anni Trenta le conoscenze sui marcatori antropogenetici, cioè i marcatori antropologici alternativi in quanto uni-genici, si trovavano in una fase embrionale. Si conoscevano infatti solo 3 sistemi di gruppo sanguigno, l'AB0, l'MN e il P, e altri 2 polimorfismi genetici (geni con almeno due alleli comuni) non di gruppo sanguigno, quello della sensibilità ai colori e quello della sensibilità gustativa alla feniltiocarbamide. Solo il sistema AB0 era stato studiato, oltre tutto in misura molto limitata, dal punto di vista antropologico. Non esisteva nulla che lasciasse presagire quello che sarebbe accaduto in seguito, soprattutto in questi ultimi quindici anni: c'erano ottime ragioni per prevedere che si sarebbero scoperti altri polimorfismi genetici − alcuni dei quali verosimilmente si sarebbero rivelati più o meno ''buoni'' marcatori antropogenetici col mostrare frequenze diverse dei loro alleli comuni nei diversi gruppi umani − ma che questi polimorfismi genetici sarebbero stati pochi, dato che, a quel tempo, i genetisti erano convinti che solo una minima parte dei moltissimi geni esistenti fossero polimorfici.

Raramente una previsione scientifica è stata smentita tanto drasticamente, anche se non subito. Infatti, per circa altri venticinque anni si sono scoperti via via pochi altri polimorfismi genetici: al principio altri sistemi di gruppo sanguigno (Race e Sanger 1950; Mourant e altri 1976) e altri polimorfismi sierologici (vale a dire scoperti e studiati con tecniche sierologiche, cioè immunologiche, le uniche a quei tempi in grado di scoprire un'eventuale variabilità tra molecole proteiche) e poi, con l'avvento dell'elettroforesi, alcuni polimorfismi elettroforetici delle proteine (cioè scoperti e studiati constatando differenze di comportamento elettroforetico tra proteine alleliche). Alcuni di questi polimorfismi presentavano frequenze diverse in popolazioni umane diverse ma, proprio come si era predetto, queste scoperte erano talmente diradate nel tempo che ogni scoperta di un nuovo polimorfismo genetico costituiva un vero e proprio avvenimento sia per la genetica che per l'antropologia.

Fu all'inizio degli anni Sessanta, in quello che si può ben a ragione chiamare il periodo di Harris, che si ebbe una vera e propria svolta non solo con la scoperta in pochi anni di un numero di polimorfismi genetici paragonabile a quello dei polimorfismi genetici lentamente e faticosamente accumulatisi nel corso di decenni, ma soprattutto con la dimostrazione che la variabilità del materiale genetico, lungi dall'essere l'eccezione, è invece la regola. In altre parole, esiste di sicuro un grandissimo numero di polimorfismi genetici, proprio al contrario di quanto si era creduto fermamente per mezzo secolo. Si trattava solo di scoprirli: ma per passare dalla fase in cui si sapeva che ne esistevano moltissimi a quella in cui se ne sono effettivamente scoperti moltissimi si è dovuto attendere fino alla fine degli anni Settanta.

Tra il 1965 e il 1980 si è verificato un accumulo di conoscenze su numerosissimi nuovi polimorfismi genetici della categoria dei polimorfismi elettroforetici (e, in seguito, di polimorfismi scoperti anche con altre tecniche biochimiche come, per es., l'isoelettrofocalizzazione). Invece la scoperta di polimorfismi sierologici si era in sostanza arrestata salvo le cospicue eccezioni dei sistemi HLA e delle immunoglobuline che però, a causa delle complessità tecniche e concettuali loro proprie, erano studiati da relativamente pochi laboratori, malgrado la loro grandissima utilità potenziale fosse ben evidente. Alla fine di questo periodo, comunque, erano note svariate decine di questi marcatori genetici, cioè di potenziali marcatori antropogenetici. Più della metà del totale erano quelli scoperti con tecniche biochimiche, gli isozimi allelici (isozimi, cioè proteine diverse che catalizzano la stessa reazione chimica, quindi costituiscono lo stesso enzima; allelici, cioè prodotti da alleli dello stesso gene strutturale di quell'enzima), che stavano rapidamente soppiantando i vecchi marcatori sierologici, perché molto più semplici e meno costosi da studiare. Nello stesso periodo lo studio sistematico di questi nuovi marcatori genetici su un gran numero di popolazioni umane permise di considerare molti di essi non solo polimorfismi genetici (cioè marcatori genetici polimorfici), ma anche marcatori antropogenetici (perché si constatò che presentavano frequenze diverse in popolazioni diverse). Fino a questa fase l'incremento del numero dei marcatori antropogenetici ha seguito quello dei polimorfismi genetici (qualche decina) perché, essendo questi ultimi ancora relativamente pochi, ogni volta che se ne scopriva uno nuovo, esso veniva studiato in diverse popolazioni e, poiché capitava solo di rado che presentasse le stesse frequenze in tutte le popolazioni, diventava quasi sempre un nuovo marcatore antropogenico.

Con la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta questa quasi perfetta coincidenza dei due incrementi è cessata del tutto: infatti con l'avvento delle tecnologie del DNA ricombinante il numero dei nuovi marcatori genetici, i cosiddetti RFLP (Restriction Fragment Length Polymorphisms, visibili esaminando con una sonda molecolare specifica un DNA genomico digerito con un certo enzima di restrizione), è letteralmente esploso passando dalle decine alle migliaia. Ma contemporaneamente si è verificato un drastico cambiamento nelle motivazioni della ricerca di nuovi polimorfismi genetici. Infatti, mentre fino a quel momento uno degli incentivi principali era stato che ciascuno di essi avrebbe potuto diventare un buon marcatore antropogenetico (gli altri incentivi erano stati la loro potenziale utilizzazione ai fini della mappatura del genoma umano e per la pratica forense), l'interesse si è spostato quasi esclusivamente alla mappatura ''fine'' del genoma umano come passo obbligato per arrivare alla sua conoscenza completa e dettagliata (il famoso progetto ''genoma umano''; v. progetto genoma, in questa Appendice). Come conseguenza, negli ultimi quindici anni, proprio quando finalmente era cessata la penuria di marcatori genetici, cioè dei candidati a diventare marcatori antropogenetici, i progressi dell'antropologia basati sulla genetica hanno subito per molti aspetti addirittura una battuta di arresto: da una parte si riducevano nettamente le indagini con i marcatori ''tradizionali'' (sierologici e proteici) considerate ormai superate, dall'altra, cioè sul versante dei marcatori del DNA, solo pochissimi degli infiniti nuovi marcatori sono stati studiati dal punto di vista antropologico, cioè su campioni di dimensioni adeguate prelevati da un numero adeguato di popolazioni. Con l'importantissima eccezione dei marcatori uniparentali (per cui v. oltre), in sostanza nessun marcatore del DNA è stato studiato abbastanza a fondo da diventare un marcatore antropogenetico paragonabile a quelli ottenuti studiando adeguatamente i marcatori genetici tradizionali. In altre parole, i marcatori antropogenetici ben studiati, e quindi molto informativi, erano alcune decine prima dell'avvento delle tecnologie del DNA quando erano poche decine anche i marcatori genetici, e tanti sono rimasti dopo una decina d'anni, mentre i marcatori genetici diventavano prima centinaia e poi addirittura migliaia. Nel caso dell'antropologia la situazione è stata aggravata dai sempre più massivi spostamenti e reciproci mescolamenti di gruppi umani un tempo isolati, che stanno annullando rapidamente le opportunità residue di chiarire la struttura e la storia biologica della nostra specie.

Questa pressoché assoluta mancanza di sfruttamento dei nuovi marcatori genetici a fini antropologici non è stata causata solo dalla perdita d'interesse per le scienze antropologiche verificatasi e accentuatasi da una quindicina di anni nel contesto generalizzato di una perdita progressiva d'interesse per gli aspetti non applicativi della scienza (e se c'è una scienza non applicativa questa è l'antropologia). Un altro meccanismo ha infatti giocato un ruolo in questo senso. Esso, a differenza del precedente, è dovuto non a un cambiamento di mentalità, bensì a problemi di natura tecnica. Quando negli anni Sessanta e Settanta sono stati scoperti molti (ma non migliaia) nuovi marcatori genetici suscettibili di diventare anche marcatori antropogenetici si è creata una situazione molto favorevole per lo sviluppo dell'ancora giovane branca dell'antropologia che potremmo chiamare antropogenetica, dato che si basa sull'identificazione e utilizzazione di marcatori antropogenetici in contrapposizione a quelli dell'antropologia fisica classica che si basava su marcatori quantitativi invece che alternativi. La situazione era molto favorevole anche perché le tecniche richieste per studiare questi nuovi marcatori erano sostanzialmente molto simili fra loro, per cui in pochi anni molti laboratori sono stati in grado di analizzare molti, se non addirittura tutti, i nuovi marcatori: la specializzazione di ognuno di questi laboratori era ''popolazionistica'' in quanto riguardava la popolazione (o le poche popolazioni) di cui esso si occupava a fondo, spesso perfino con un approccio interdisciplinare. In questo modo nel corso di solo due decenni si sono accumulati per molte popolazioni dati riguardanti gli stessi marcatori antropogenetici, adatti cioè a confrontarle tra loro e quindi a valutare il grado di diversificazione a cui erano andate incontro.

Ben diversa è la situazione che si è creata dalla fine degli anni Settanta, con la scoperta di un grandissimo numero di RFLP. Nemmeno i pochissimi di essi che, essendo stati studiati su almeno due popolazioni e avendo mostrato frequenze diverse, si sono trasformati in marcatori antropogenetici, sono stati poi sfruttati in misura appena paragonabile a quella dei polimorfismi proteici. E questo perché le tecniche relative ai vari RFLP, al contrario di quanto accade per i polimorfismi proteici, variano molto tra loro, per cui la vecchia rete di laboratori tutti uguali fra loro per i marcatori presi in esame e ciascuno specializzato su una o pochissime popolazioni è stata rapidamente sostituita da una nuova rete di laboratori, ciascuno specializzato su una propria serie di marcatori e con l'aspirazione quindi a studiarla sul maggior numero possibile di popolazioni, non importa quanto disparate e non conosciute a fondo dal laboratorio disposto a studiarle. Ne è risultato l'accumulo di una considerevole mole di dati eterogenei e perciò quasi inutilizzabili a fini antropologici: il requisito fondamentale, e ovvio, per poter utilizzare una determinata serie di nm marcatori al fine di accertare le relazioni antropologiche tra una serie di np popolazioni è che tutte devono essere state esaminate per gli stessi nm marcatori. È evidente che questa grave dispersione di energie consistente nella faticosa raccolta di dati sostanzialmente inutili (dal punto di vista antropologico) cesserà solo quando verrà raggiunto un accordo su una lista comune di n marcatori per cui ogni laboratorio specializzato su una determinata popolazione, oltre quanto meno a raccogliere uno o più campioni di dimensioni adeguate da quella popolazione, effettuerà esso stesso le analisi relative agli n marcatori della lista comune o farà in modo che parte, o addirittura tutte, queste analisi siano effettuate da uno o più laboratori con cui è in collaborazione. Si dovrebbe in tal modo arrivare a costituire una rete di laboratori distribuiti su un ampio range che abbia a un estremo quelli specializzati in marcatori e all'altro quelli specializzati in una o più popolazioni. È evidente che i laboratori del primo tipo potrebbero sentirsi declassati − e in certi casi esserlo effettivamente − al ruolo, anche se unico e quindi insostituibile, di esecutori di esperimenti tesi alla soluzione di problemi altrui. Quest'ostacolo, tutt'altro che teorico, potrebbe essere superato rendendo esplicito un ruolo puramente tecnico di determinati laboratori altamente specializzati ed efficienti e incaricandoli di effettuare a pagamento le analisi richieste (come si fa comunemente per la preparazione di reagenti quali gli anticorpi monoclonali, gli oligonucleotidi, ecc.). Questa soluzione creerebbe però problemi economici seri che, per una scienza scarsamente finanziata come l'antropologia, potrebbero rivelarsi insuperabili.

Il più promettente, e forse risolutivo, progresso in questo campo potrebbe essere l'utilizzazione su larga scala della tecnica delle linee cellulari immortalizzate (i linfociti, se trasferiti a bassissime temperature entro breve tempo dalla loro separazione dal resto del sangue, possono, anche dopo anni di conservazione, essere indotti a moltiplicarsi diventando quindi un materiale, almeno teoricamente, non solo perenne ma anche inesauribile). Il programma che sta prendendo sempre più piede è l'istituzione di laboratori specializzati nella preparazione, mantenimento e distribuzione a tutti i laboratori che lo richiedano, di linee cellulari immortalizzate ottenibili dai campioni di sangue ricevuti dai laboratori ''raccoglitori''. Procedendo in questo modo, a lungo andare, in teoria tutte le linee cellulari esistenti (che in condizioni ottimali corrisponderebbero a tutti i campioni di sangue raccolti) sarebbero analizzate per un gran numero di marcatori uguali per tutti.

Si deve infine accennare a due categorie particolari di marcatori, i marcatori antropogenetici uniparentali e gli SSTR (Simple Sequence Tandem Repeats).

I marcatori uniparentali sono quelli trasmessi da un solo genitore, che può essere la madre (marcatori del DNA mitocondriale, detto mtDNA) o il padre (marcatori del cromosoma Y). Poiché l'intera molecola di mtDNA e l'intero cromosoma Y sono trasmessi in blocco, cioè senza ricombinazione, le divergenze tra i diversi gruppi umani che si sono andate accumulando per queste particolari sezioni del genoma nel corso dell'evoluzione sono tutte dovute all'accumulo sequenziale di variazioni che, dopo essere state prodotte da un evento mutazionale verificatosi in un particolare gruppo, sono diventate frequenti (o, come si usa dire, polimorfiche) o si sono addirittura fissate in quel gruppo. Poiché per l'mtDNA queste differenze sono state individuate perfettamente a livello di sequenza, è stato possibile costruire alberi genealogici dei vari gruppi umani basati sul numero delle differenze trovate tra di essi. Un ulteriore sfruttamento della proprietà di questi marcatori di essere trasmessi o solo per via materna o solo per via paterna è consistito, in certi casi favorevoli, nel valutare separatamente le due componenti, la maschile e la femminile, del contributo di un certo gruppo al pool genetico di un altro (genetic admixture), cosa evidentemente impossibile con i marcatori autosomici.

Gli SSTR, ora denominati STR (Short Tandem Repeats), sono i più recenti tra i polimorfismi genetici, dopo i gruppi sanguigni, i polimorfismi elettroforetici delle proteine e gli RFLP. A differenza di tutti i polimorfismi precedentemente studiati, caratterizzati da un grado di eterozigosità H (cioè la percentuale di eterozigoti) che non è quasi mai molto elevato (sempre inferiore al 70-80%, ma in genere nell'ordine del 50% o meno), gli STR hanno di regola H molto alti (talora superiori addirittura al 95%) perché hanno molti alleli comuni. Questa loro proprietà renderebbe ognuno di essi potenzialmente molto efficiente a fini antropogenetici perché una sola analisi (quella destinata a determinare il genotipo per quello STR) sarebbe informativa per l'intera serie dei suoi alleli. Però proprio la causa di un così alto H di questi polimorfismi, e quindi della loro buona efficienza potenziale, è anche allo stesso tempo alla radice di una grande difficoltà di fondo. Infatti gli H di questi polimorfismi sono elevati perché è elevata, anzi a volte elevatissima, la frequenza con cui vengono prodotti i loro alleli per ''mutazione''. Essa è forse addirittura di vari ordini di grandezza superiore a quella delle mutazioni classiche. Non si tratta di mutazioni in senso tradizionale, ma nell'ottica di questa trattazione, il fatto che gli alleli prodotti ex novo siano prodotti con meccanismi diversi da quelli delle mutazioni classiche è del tutto irrilevante. È intuitivo infatti che un, se non il, requisito fondamentale affinché un allele possa essere un marcatore antropogenetico attendibile, è che la frequenza con cui viene prodotto ex novo sia estremamente bassa: per es., il motivo per cui l'aver trovato lo stesso allele in due popolazioni isolate riproduttivamente viene considerato un forte indizio che esse derivino da una popolazione ancestrale comune è che, con questa interpretazione, un solo evento combinato (la produzione ex novo di quell'allele + il raggiungimento di una frequenza elevata di quell'allele inizialmente unico) è sufficiente a spiegare il rinvenimento di quell'allele in entrambe le popolazioni. In altre parole, il poter postulare uno solo, invece di due, eventi combinati del genere è un argomento sufficiente da solo a suggerire l'ipotesi dell'origine da una popolazione ancestrale comune. Ma questo tipo di ragionamento sarebbe del tutto ingiustificato se la frequenza di produzione di quell'allele fosse elevata: in tal caso, evidentemente, si potrebbe senz'altro pensare a una sua origine polifiletica, cioè che sia sorto indipendentemente in ciascuna delle due popolazioni. In conclusione, gli STR devono essere considerati con grande cautela come candidati potenziali a diventare marcatori antropogenetici di attendibilità paragonabile a quella dei marcatori antropogenetici tradizionali. Per il momento sono sub judice.

Altro strumento d'indagine che ha contribuito in maniera significativa allo studio delle razze umane è stato l'introduzione di nuovi procedimenti di analisi statistica. Fino agli anni Cinquanta i marcatori antropogenetici studiati su un numero adeguato di popolazioni erano pochi (in sostanza gli alleli dei sistemi di gruppi sanguigni AB0, MNS e RH e il gene dell'aptoglobina). Le distribuzioni delle frequenze di questi marcatori nel mondo o solo in Europa (quando i dati per il resto del mondo erano insufficienti) erano espresse da mappe, una per marcatore, costruite con lo stesso principio di quello delle carte altimetriche, cioè con gradazioni di colore (dal bianco al nero) d'intensità proporzionale alla frequenza del marcatore (Mourant e altri 1976). Questo è un modo molto conveniente, perché qualsiasi cambiamento di frequenza che si mantenga coerentemente lungo una certa direzione (cioè qualsiasi gradiente di frequenze geniche, il cline dei genetisti di popolazione) appare evidente alla semplice ispezione della mappa. Non solo, ma la direzione stessa del cline può suggerirne una ragionevole interpretazione: un gradiente latitudinale suggerisce una correlazione climatica, mentre un gradiente longitudinale depone per cause migratorie. Il limite di questo modo di rappresentare il comportamento geografico delle frequenze dei marcatori antropogenetici è che ogni mappa ne rappresenta uno solo, per cui diventa difficile ricavare un'idea globale, obiettivo che si può raggiungere solo cercando di evincere eventuali concordanze tra i gradienti trovati (o che si sospetta di aver trovato) nei vari singoli marcatori. È evidente che relazioni tra vari marcatori suggerite da un esame di questo genere sono spesso molto soggettive. Con l'aumento, all'inizio lento e poi sempre più rapido, dei marcatori antropogenetici vecchi e nuovi studiati su un numero adeguato di popolazioni, la necessità di rappresentazioni sintetiche di tutti i marcatori simultaneamente in un unico quadro diventò sempre più impellente, pena la vanificazione degli effetti di disporre di molti più marcatori informativi di prima. Nel giro di poco più di un decennio sono stati messi a punto, per opera soprattutto di due gruppi (quello di L.L. Cavalli-Sforza e quello di M. Nei), due approcci statistici che raggiungono in buona parte questo obiettivo.

Uno degli approcci, basato su procedimenti sostanzialmente equivalenti messi a punto da Nei e da Cavalli-Sforza, consiste nel valutare le cosiddette distanze genetiche tra le varie popolazioni per ognuno degli nm marcatori disponibili, per i quali cioè esiste una stima di frequenza per tutte le popolazioni in esame (la distanza genetica tra due popolazioni X e Y per un determinato marcatore è una sorta di differenza ponderata tra la stima della frequenza di quel marcatore per la popolazione X e quella per la Y). È possibile poi calcolare per ogni coppia di popolazioni − per np popolazioni il numero di possibili confronti due a due è uguale alla somma (n-1) + (n-2) + ...... + [n-(n-1)], per es. per 5 popolazioni è (4 + 3 + 2 + 1) = 10 − la distanza genetica media, cioè la media aritmetica delle nm distanze genetiche (una per marcatore) trovate tra le popolazioni della coppia; da questi dati, infine, è possibile costruire un ''albero'' connettendo con un ''internodo'' le due popolazioni più vicine tra loro (per es., la 7 e la 12) in questo modo , connettendo poi con un altro internodo la popolazione immaginaria rappresentata dalla media tra queste due popolazioni con quella a essa più vicina tra le n(p-2) popolazioni restanti e procedendo via via in questo modo fino ad aver costruito l'albero completo delle np popolazioni in esame. Si noti che quest'albero (o dendrogramma), sebbene abbia la struttura di un albero filogenetico, non dev'essere considerato tale perché non si può affatto essere certi che la correlazione positiva tra la lunghezza del periodo di separazione riproduttiva tra due popolazioni (cioè di evoluzione indipendente e quindi diversificante) e la distanza genetica accumulatasi tra di esse in questo periodo (distanza genetica di cui quella osservata costituisce una stima più o meno attendibile), che certamente esiste, sia perfetta. E questo perché una relazione di proporzionalità diretta tra tempo e distanza genetica è attesa solo per caratteri selettivamente neutri, mentre non è affatto dimostrato che tutti i marcatori antropogenetici utilizzati a questo scopo lo siano effettivamente.

L'altro approccio, di L.L. Cavalli-Sforza, si propone di evidenziare eventuali andamenti correlati dei vari marcatori lungo una determinata direttrice geografica. Se una quota considerevole (dell'ordine del 30%) della variabilità totale tra le frequenze geniche trovate nelle varie popolazioni può essere effettivamente spiegata in termini di variazioni correlate fra loro in quanto correlate agli spostamenti lungo la stessa direttrice geografica (identificata tra le infinite possibili a priori), questa componente comune della variabilità globale viene chiamata 1ª componente principale. Si effettua poi sulla variabilità residua (cioè su quel che resta della variabilità totale dopo averle tolto la quota associata alla 1ª componente principale) lo stesso procedimento, alla ricerca di un'eventuale 2ª componente principale, definita nello stesso modo della 1ª e disposta secondo una sua propria direzione. Si conclude di averla trovata se si trova una variazione correlata che spieghi una quota significativa (almeno dell'ordine del 10%) della variabilità residua. In certi casi si sono identificate tre componenti principali che nel loro insieme rendono conto della maggior parte della varianza totale delle frequenze geniche. Sofisticati programmi di computer hanno permesso di trattare una variabile ''sintetica'' complessa come una componente principale, allo stesso modo in cui ai tempi pioneristici di Mourant veniva trattata la frequenza di un singolo marcatore, cioè di rappresentarla su una carta geografica con gradazioni dell'intensità di un colore. Forse l'esempio che illustra meglio i risultati a cui si può arrivare con questo tipo di analisi è quello ottenuto da Menozzi, Piazza e Cavalli-Sforza (1978) su un insieme di popolazioni dell'Europa. La prima componente principale trovata con quest'analisi (27% della variabilità totale) andava dal Vicino Oriente alla Gran Bretagna, e questo ha portato a concludere che la diffusione dell'agricoltura dalla Mesopotamia in Europa in direzione da sud-est a nord-ovest è stata accompagnata da un notevole flusso genico (cioè che questa diffusione culturale era stata mediata da una diffusione demica).

Gli obiettivi di questi due approcci sono evidentemente ben diversi. Il primo si prefigge di ottenere un albero genealogico ipotetico; il secondo d'individuare gradienti geografici di covariazioni di frequenze geniche spiegabili in termini di diluizioni progressive di un gruppo in un altro (o in altri) lungo gradienti migratori. Questi due approcci, pur così diversi come metodologie e intendimenti, però dipendono entrambi dal soddisfacimento di un'esigenza fondamentale, quella della completezza dei dati disponibili per le analisi (completezza a cui si è già accennato a proposito dei marcatori antropogenetici).

Per il primo approccio la completezza si riferisce alle popolazioni: una popolazione può essere inclusa nell'insieme delle popolazioni da analizzare solo se si dispone per essa di una stima della frequenza di ognuno dei marcatori comuni a tutte le altre popolazioni del gruppo di popolazioni in esame. Quest'esigenza pone spesso delle difficoltà decisionali tra due tipi di opzioni contrastanti, quella di portare al massimo il numero delle popolazioni costituenti l'insieme delle popolazioni prese in esame e quella di portare al massimo il numero di marcatori dei quali si dispone di una stima di frequenza in tutte le popolazioni di quell'insieme: conviene, per es., pur d'includere una certa popolazione non analizzata per un certo marcatore studiato invece in tutte le altre, eliminare quel marcatore da tutto l'insieme? Evidentemente la decisione dipende dall'importanza della popolazione e del marcatore nel caso specifico.

Per il secondo approccio la completezza si riferisce ad aree definite da un reticolo arbitrario come quello dei meridiani e dei paralleli: in questo caso per completezza s'intende di dover disporre, per ciascuna area, di una stima della frequenza di ognuno dei marcatori inclusi nell'analisi. In casi eccezionali conviene, per un'area non presa in esame per un certo marcatore, sostituire la stima mancante con un'altra ottenuta per interpolazione dalle stime delle aree adiacenti. È chiaro che in questi casi sarebbe assai auspicabile riempire la lacuna quanto prima (cioè prima che eventuali immigrazioni aboliscano l'opportunità di ottenere dati diretti attendibili). Questo purtroppo non è avvenuto anche perché è invalso l'uso di pubblicare solo i risultati di analisi di questo tipo non corredati dai dati analitici dettagliati su cui essi si basano. È vero che la pubblicazione completa dei dati occuperebbe spazi proibitivi, ma sarebbe opportuno almeno presentare un elenco dei valori utilizzati nell'analisi, ottenuti per interpolazione, in modo da rendere edotti i genetisti di popolazione sperimentali di quali sono le lacune più gravi e urgenti da colmare.

Un ruolo decisivo ha giocato evidentemente il computer nei progressi di quella parte dell'antropologia che è basata sull'elaborazione statistica dei dati, cioè in particolare nella messa a punto degli strumenti statistici prima illustrati e nella loro utilizzazione. Si può dire pertanto che i progressi dell'antropologia fisica in questi ultimi cinquant'anni sono dovuti essenzialmente alla scoperta e utilizzazione su larga scala (anche se meno larga di quanto avrebbe potuto e dovuto essere) di un gran numero di marcatori genetici e antropogenetici e dalla loro analisi con nuovi e potenti metodi di analisi statistica.

Risultati. - I risultati acquisiti dagli antropologi fisici tra il 1930 e i nostri giorni vengono qui brevemente riportati facendo riferimento alle tre direttrici lungo le quali ci si aspettava, a quell'epoca, che si sarebbe sviluppata questa scienza.

In riferimento al perfezionamento della classificazione in razze della nostra specie bisogna prima di tutto sottolineare che, per i motivi illustrati in dettaglio prima, non si è proposta alcuna nuova suddivisione: l'attuale classificazione è ancora quella dell'antropologia fisica classica. Questo però non significa affatto che non vi sono stati introdotti miglioramenti. Le razze, popolazioni, gruppi, ecc. della vecchia classificazione sono stati confrontati per un gran numero (ma che avrebbe potuto essere molto più grande) di marcatori antropogenetici assai diversi da quelli utilizzati fino agli anni Quaranta (cioè i caratteri con variabilità intragruppo discontinua quasi sempre parziale), e si è constatato che le frequenze di questi marcatori (comunemente denominate frequenze geniche) variano quasi sempre da una popolazione all'altra, anche se in genere non in misura cospicua e comunque quasi mai estrema. Il risultato di queste ricerche di genetica delle popolazioni, considerevolmente estese tanto in termini di numero di marcatori antropogenetici che di popolazioni prese in esame, è che ora le razze (nonché i gruppi che ne costituiscono un'ulteriore suddivisione) sono caratterizzate le une rispetto alle altre per un numero di marcatori antropologici accessori nuovi molto maggiore di quello dei marcatori accessori dell'antropologia classica. La natura di questi marcatori accessori nuovi (marcatori antropogenetici, invece che i caratteri quantitativi della vecchia antropologia) e i nuovi strumenti statistici hanno permesso di arrivare a stime del grado di diversificazione genetica esistente tra i vari gruppi umani che si possono considerare ragionevolmente accurate (perché stimate su un numero elevato di marcatori antropogenetici) e rappresentative (perché si riferiscono a marcatori genetici scelti a caso invece che per il fatto di essere particolarmente discriminanti). Il giudizio complessivo sull'entità delle differenze tra le varie razze ha portato a un suo drastico ridimensionamento.

L'aggiunta dei marcatori antropogenetici alla serie dei marcatori antropologici che avevano costituito fino agli anni Quaranta l'intero armamentario dell'antropologia fisica ha rappresentato ben di più che un incremento quantitativo, sia pur cospicuo, del numero dei caratteri accessori utilizzabili per descrivere comparativamente le varie razze. Infatti, il vero progresso − quello che è risultato in un cambiamento radicale delle attuali concezioni sul significato biologico delle razze rispetto a quelle di una cinquantina di anni fa − è essenzialmente qualitativo. Esso deriva dal tipo, più che dal numero, dei nuovi marcatori antropologici: tutti marcatori antropogenetici (cioè per caratteri alternativi non manifesti), invece che marcatori per caratteri quantitativi appariscenti come quelli tradizionali.

L'analisi della variabilità tra razze (e più in generale tra gruppi) ha portato a un risultato del tutto inatteso, ma in realtà tutt'altro che sorprendente: quasi tutta la variabilità genetica della nostra specie è una variabilità intragruppo. In altre parole, in media individui di gruppi diversi differiscono fra loro solo poco di più di quanto non differiscano fra loro gli individui dello stesso gruppo. Questo è esattamente il contrario di quanto ci si sarebbe aspettato estrapolando ai caratteri ancora ignoti quanto si era visto sui cospicui e manifesti marcatori antropologici della vecchia antropologia.

La ragione per cui le due stime, quella vecchia e quella nuova, del contributo della variabilità intergruppi alla variabilità totale sono così drasticamente diverse, cioè la prima tanto più elevata della seconda, è evidente se si riflette che, mentre i marcatori antropologici di prima generazione sono stati scoperti a causa e attraverso la loro variabilità intergruppi, e con efficienza tanto maggiore quanto più questa variabilità era preponderante su quella intragruppo, quelli di seconda generazione, cioè i marcatori antropogenetici, sono stati invece scoperti a causa della loro variabilità intragruppo, cioè come polimorfismi genetici. Di essi, solo in un secondo tempo si accertava se presentassero anche una variabilità intergruppi di grado tale da poter essere inclusi nella lista dei marcatori antropogenetici.

Il primo di questi due approcci, per il modo stesso con cui era stato concepito, ha grossolanamente sovrastimato la variabilità intergruppi: non c'è nulla da eccepire su questo approccio fintanto che lo si usa per individuare i diversi gruppi discreti in cui suddividere l'u., anzi quando ci si prefigge questo scopo sono proprio i caratteri con una variabilità intergruppi discontinua e manifesta gli unici che si possono utilizzare. Ma il fatto di averli selezionati in quanto estremamente diversi da una razza all'altra li rende assolutamente inadatti a stimare il grado medio di diversificazione tra le razze: per tale fine (che possiamo considerare la seconda fase della ricerca antropologica) occorre confrontare fra loro le varie razze − definite mediante i caratteri discontinui appena esclusi da questa seconda fase − per una serie di caratteri scelti a caso rispetto alla proprietà di presentare o meno differenze interrazziali. Questo solo si può considerare un campione rappresentativo di caratteri su cui basare la stima dell'entità media delle differenze tra razze.

I marcatori genetici soddisfano appunto questo requisito: confrontando fra loro razze diverse rispetto a un certo numero di questi marcatori, alcuni di essi hanno presentato frequenze geniche così simili da non poter essere classificati come marcatori antropogenetici (vintragruppovtotale); per la gran parte degli altri le frequenze geniche nelle diverse razze sono risultate diverse, anche se non molto (cioè la variabilità intergruppi esiste, ma è modesta); per pochi altri ancora la vintergruppi è più elevata (questi, quindi, sono dei buoni marcatori antropogenetici); infine per pochissimi di essi si sono trovate differenze addirittura discontinue (vintergruppivtotale).

Questi sono appunto i risultati su cui poggia l'affermazione che il grado medio di diversità tra le razze, in contrasto con le apparenze basate sui pochissimi caratteri estremi e appariscenti che hanno portato alla loro identificazione, è molto modesto: le razze umane differiscono fra loro moltissimo per pochissimi caratteri adattativi a determinati ambienti (i caratteri classificatori, poligenici e molto appariscenti, senza i quali non sarebbero nemmeno state identificate) e molto poco per una miriade di altri caratteri relativamente neutri o quasi (i caratteri accessori, che sono quasi tutti marcatori antropogenetici, cioè caratteri alternativi unigenici non manifesti). Quindi la differenza interazziale media per carattere è molto modesta. È questo che si vuole intendere quando si dice che l'entità delle differenze tra razze va drasticamente ridimensionata rispetto a quando la si valutava per estrapolazione dai pochissimi caratteri classificatori che erano stati sì utili per identificarle, ma non certo per valutare quanto esse differiscono le une dalle altre in media per ognuno dell'insieme dei caratteri variabili dell'uomo. Questo vero e proprio capovolgimento della nostra visione delle razze è un risultato talmente fondamentale che, anche se fosse stato l'unico ottenuto da tutte le ricerche antropogenetiche di questi ultimi cinquant'anni − e non è questo il caso − si potrebbe affermare che esse hanno avuto un grande successo perché non solo si è ottenuto questo risultato, ma si è riusciti a trovarne una spiegazione ragionevole e convincente.

La ricostruzione della storia biologica della nostra specie è la terza linea di progresso, che si differenzia dalle due precedenti perché consiste in gran parte di ipotesi, talora molto convincenti talora meno, ma sempre ipotesi, mentre i progressi lungo le altre due linee si possono considerare per lo più fatti acquisiti. La suddivisione della nostra specie in gruppi biologicamente distinti (razze, sottorazze, ecc.) è la risultante dell'integrazione tra due ordini di processi contrastanti, uno diversificante e l'altro uniformizzante, e connessi l'uno all'altro in modi spesso inestricabili: la generazione di nuovi gruppi attraverso una serie di processi sequenziali di ramificazione, ciascuno dei quali inizia con la suddivisione di un gruppo iniziale in due o più sottogruppi i cui pool genici da quel momento si mantengono separati e quindi, evolvendo in modo indipendente, tendono a diversificarsi sempre di più l'uno dall'altro; i processi di mescolamento che consistono nell'incorporazione in un determinato pool genico X di geni provenienti da un altro pool genico Y (genetic admixture), per cui si viene a costituire un gruppo ''misto'' con frequenze geniche intermedie tra quelle di X e quelle di Y e tanto più simili a Y quanto più grande è il suo contributo relativo m al pool genico del gruppo misto.

Se, per es., la frequenza di un allele è 0,2 nel gruppo X, 0,7 nell'Y e 0,4 nel gruppo misto si può dire che il contributo m di Y (cioè il valore m della genetic admixture) a quest'ultimo è stato (0,4−0,2) = 0,2, cioè quanto è cambiato X per effetto della genetic admixture da parte di Y, diviso (0,7−0,2) = 0,5, cioè quanto sarebbe cambiato X se fosse stato sostituito completamente da Y. Questo rapporto è uguale a 0,4, cioè 40%, dato che la frequenza di quell'allele si è spostata nel gruppo misto del 40% di quanto si sarebbe spostata se l'intero pool fosse diventato di tipo Y, cioè di 0,2 (0,4−0,2 = 0,2) diviso 0,5.

Gli obiettivi più ambiziosi dell'antropologia erano, e sono tuttora, l'individuazione e collocazione temporale dei processi microevolutivi di diversificazione e di rimescolamento − che hanno portato alla struttura della nostra specie, così come oggi la vediamo, tramite i procedimenti dell'antropologia descrittiva − e l'identificazione e caratterizzazione dei meccanismi della diversificazione intervenuti tra i vari gruppi dopo che si erano originati per ramificazione dal gruppo comune di origine. Questi meccanismi sono stati sicuramente diversi da un marcatore antropologico all'altro: è possibile che per alcuni marcatori i vari gruppi si siano diversificati solo sotto la spinta del caso, cioè attraverso quel processo che i genetisti chiamano deriva genetica, mentre altri si siano diversificati anche, se non addirittura soprattutto, sotto spinte selettive. Per quanto riguarda l'individuazione e la collocazione temporale dei processi microevolutivi verificatisi nella nostra specie, di fondamentale importanza sono stati i tentativi di ricostruire l'albero genealogico (dendrogramma) dei vari gruppi che costituiscono ora la nostra specie. In altre parole, i tentativi d'individuare le ramificazioni di questo dendrogramma e di datarle. Questa è la parte di gran lunga più speculativa e ipotetica (ma forse anche la più interessante), e quindi quella che lascia più spazio alle polemiche, talora molto accese, di tutta l'antropologia.

Un accordo generale non esiste soprattutto sul punto di partenza, salvo che per la convinzione assoluta che l'u. ha un'origine monofiletica. Si possono individuare fondamentalmente due modelli. Il primo ipotizza che le razze attuali siano derivate tutte più o meno direttamente (cioè attraverso un numero più o meno grande di ramificazioni) da un unico gruppo di Homo sapiens anatomicamente moderno, che sarebbe comparso in Africa circa 200.000 anni fa e che avrebbe poi sostituito in tutto il resto del mondo i gruppi arcaici preesistenti. Il modello policentrico (Thorne e Wolpoff 1981) sostiene invece che Homo sapiens anatomicamente moderno si sia originato in varie aree geografiche da popolazioni di Homo erectus o di Homo sapiens arcaico tutte geneticamente simili tra loro malgrado la distanza che le separava, per effetto di un flusso genico continuo (questo è il motivo per cui l'ipotesi policentrica in sostanza sarebbe poi anch'essa un'ipotesi monofiletica). È facile intuire che queste due concezioni implicano origini e meccanismi di formazione delle razze principali (le major races della letteratura anglosassone), cioè i caucasoidi (o europoidi), i negri e i mongoloidi, alquanto diversi. Incertezze cospicue naturalmente permangono, non solo riguardo all'origine dell'Homo sapiens sapiens, ma anche nella ricostruzione dell'albero genealogico dei gruppi da cui esso è attualmente costituito e sul quando si sarebbero verificate le sue ramificazioni, sempre ammesso che quelle proposte siano quelle giuste (v. sopra: Origine).

Un altro punto riguarda i tentativi di valutare i gradi m di mescolamento genetico. L'obiettivo che ci si pone è, come si è visto, di ottenere una stima del contributo di un gruppo esterno (che potremmo chiamare ''donatore'') al pool genico di un gruppo ''ricevente'' (che in seguito a questo contributo si trasforma in ''misto'') sfruttando le differenze esistenti tra i pool genici dei due gruppi (senza occuparsi di chiarire perché e come queste differenze siano venute a crearsi).

Il procedimento che si segue è quello esemplificato prima. Per ogni marcatore antropogenetico utilizzato − che naturalmente dev'essere scelto in quanto si presenta con frequenze molto diverse nelle due popolazioni, quella donatrice e quella ricevente − si stima la sua frequenza nella popolazione mista e la si confronta con quella esistente nelle altre due. Come si vede, la stima di m è basata su ben 3 stime (ciascuna con un suo errore), senza contare altre possibili fonti d'incertezza, per cui può apparire a prima vista poco attendibile. Si possono invece ottenere stime molto buone derivandole però da molti, invece che da un solo marcatore antropogenetico. Infatti, poiché ogni gamete contribuito dalla popolazione donatrice al pool della ricevente porta un rappresentante di ogni gene, l'm vero è necessariamente lo stesso per tutti i geni. L'm ''apparente'' di ogni specifico gene può però dipendere, oltre che dall'm ''vero'', anche dal caso e dalla selezione (che hanno avuto l'opportunità di agire per tutte le generazioni durante le quali la popolazione donatrice ha fornito gameti al pool della ricevente contribuendo così a formare la popolazione mista). Poiché non solo l'm vero, ma anche gli effetti del caso dovrebbero in media essere gli stessi per tutti i geni, ne segue che in media ci si attende di trovare m uguali per tutti i marcatori antropogenetici selettivamente neutri. Per i pochi altri che sono soggetti a selezione (è noto che la maggior parte dei marcatori antropogenetici è selettivamente neutra o quasi) ci si attende invece di trovare valori di m dispersi su un range molto ampio: ciascun marcatore antropogenetico soggetto a selezione è sottoposto a forze selettive proprie.

In conclusione, nessun m isolato dà la garanzia di essere una stima attendibile dell'm vero, ma una stima concordante di molti m può, proprio per il fatto di essere concordante, essere considerata valida, e lo sarà tanto più, quanto maggiore è il numero di marcatori antropogenetici per i quali si sono ottenute stime di m sostanzialmente concordanti (il gran numero di nuovi marcatori antropogenetici ha quindi molto ampliato le prospettive di successo di questo tipo di ricerche).

Ed è questo appunto quello che è stato trovato nei casi studiati a fondo: i più illustrativi sono quelli dei Negri degli stati del Nord e di quelli del Sud degli Stati Uniti. In entrambi i casi gli m trovati per la dozzina di marcatori presi in esame erano tutti (salvo che per geni come βS e Gd− notoriamente soggetti a intense forze selettive) molto simili, cioè tutti circa 0,3 per gli stati settentrionali e tutti circa 0,1 per quelli meridionali (l'm dei primi è risultato circa triplo di quello dei secondi; ma questo concorda perfettamente con il fatto ben noto che le barriere socio-culturali − e quindi anche sessuali − tra i Bianchi e i Negri sono state molto più rigide nel Sud). Poiché il tempo durante il quale si è accumulato questo contributo è circa 15 generazioni, si può molto approssimativamente stimare il contributo medio dei Caucasoidi al pool genico dei Negri degli Stati Uniti pari a circa 0,3/15 = 0,02 e 0,1/15 = 0,007 per generazione rispettivamente negli stati del Nord e in quelli del Sud (in altre parole, si è valutato che in media negli stati settentrionali ogni nuova generazione di Negri era formata da gameti che per il 2% derivavano dai Bianchi). Se si sfruttassero adeguatamente i marcatori uniparentali noti sarebbe possibile suddividere ciascuna delle due stime globali di 0,3 e di 0,1 nelle sue due componenti, quella maschile e quella femminile.

Per ciò che riguarda i meccanismi della diversificazione bisogna partire dalla considerazione che, ogni volta che un gruppo si ramifica in due o più sottogruppi, cioè in insiemi riproduttivamente isolati, essi cominciano un'evoluzione indipendente, e quindi divergente, che risulta in una diversificazione progressiva. Se, come in genere accade, dal momento della loro separazione riproduttiva i sottogruppi si trovano esposti ad ambienti diversi (geografici e/o ecologici e/o socio-culturali), la loro diversificazione si svolge attraverso due meccanismi: uno, dipendente solo dal caso (cioè, per deriva genetica), che riguarda tutti i geni; e l'altro per selezione, che riguarda solo una piccola minoranza dei geni, cioè quelli coinvolti nell'adattamento differenziale all'ambiente di ciascun gruppo.

I due tipi di evoluzione divergente, quello per sola deriva genetica e quello dovuto anche, o soprattutto, alla selezione, differiscono per i meccanismi e per la velocità con cui si svolgono. I meccanismi della diversificazione sono uno solo, il caso, per i geni selettivamente neutri, che evolvono cioè solo per deriva genetica; sono invece tanti quanti sono i geni coinvolti negli adattamenti differenziali ai diversi ambienti, nei casi in cui il gene evolve sotto una spinta selettiva, perché ciascun gene lo fa con modalità sue proprie.

Per es., una popolazione che si sia insediata in un ambiente tropicale e umido tenderà ad accumulare geni che conferiscano resistenza al caldo, altri che conferiscano resistenza alla malaria, altri adatti nei riguardi di altre malattie tropicali, ecc. E ognuno di essi sarà utile dal punto di vista adattativo con meccanismi del tutto diversi da quelli di tutti gli altri, compresi quelli rilevanti per lo stesso fattore selettivo avverso (i modi in cui i geni βS, quelli della talassemia e quelli della deficienza della glucosio-6-fosfato deidrogenasi proteggono dal Plasmodium falciparum, il fattore responsabile della selezione di tutti e tre, sono differentissimi l'uno dall'altro tanto dal punto di vista quantitativo, cioè per l'intensità della protezione, che da quello qualitativo).

La velocità della diversificazione per i geni neutrali è anch'essa, come il meccanismo, la stessa (salvo fluttuazioni casuali) ed è molto bassa per tutti i geni di questo tipo; al contrario, i geni soggetti a selezione evolvono ciascuno con una velocità sua propria che è comunque molto più alta di quella dei geni neutrali. La loro evoluzione è infatti spinta da una vis a tergo che invece manca, per definizione, ai geni selettivamente neutri. Trattandosi di evoluzione biologica, cioè genetica, l'unità di tempo è la generazione tanto per i geni neutrali quanto per quelli soggetti a selezione, ma, a parte questa caratteristica comune, i tempi sono per tutti i geni neutrali le decine di migliaia di anni, mentre per gli altri, sia pure con variazioni estreme da uno all'altro, sono talmente meno lunghi da essere stati, in alcuni casi, addirittura pochi secoli. Le risposte genetiche adattative richieste per l'insediamento in un nuovo habitat sono in certi casi estremamente urgenti, tanto più quanto più estremo è l'habitat da colonizzare. Infatti, al gruppo che si trova ad affrontare una sfida del genere non è concesso ''gingillarsi'' con i pochissimi, ma fondamentali, geni adattativi (quelli necessari alla sopravvivenza nel nuovo ambiente); le divagazioni sono permesse solo con quelle varianti (che sono tutte quelle possibili) che sono selettivamente irrilevanti.

In altre parole, sottogruppi derivanti dallo stesso gruppo che si trasferiscono in habitat nuovi e diversi sia tra loro che da quello originale, cominciano a diversificarsi geneticamente l'uno dall'altro a grande velocità per un piccolo (o piccolissimo) numero di geni responsabili degli adattamenti ai loro rispettivi ambienti e a bassissima velocità per tutti gli altri, numerosissimi, geni non coinvolti in questi adattamenti differenziali. Il primo tipo di processo viene ultimato in tempi brevi (forse addirittura dell'ordine di secoli) almeno per alcuni dei geni adattativi; invece l'altro tipo di processo, lentissimo, non cessa mai dato che non c'è ragione per cui gruppi isolati non continuino ad accrescere indefinitamente, sia pure con grande lentezza, le differenze selettivamente neutre che intercorrono fra loro. L'entità di queste differenze tende quindi a essere proporzionale al tempo nel quale si sono accumulate (per cui la loro stima può essere utilizzata per valutare il tempo d'isolamento).

C'è da attendersi che questo divario estremo tra le velocità di diversificazione dei due tipi di geni sia ancora più grande se i territori d'insediamento dei gruppi inizialmente uguali erano già abitati da lungo tempo. In questo caso ''i nuovi arrivati'' non devono nemmeno ''inventarsi'' (cioè produrre per mutazioni casuali) geni adattativi che gli permettano di sopravvivere nel nuovo ambiente, processo che richiede necessariamente un certo tempo (forse addirittura una gran parte di quello totale, costituito dalla somma del tempo richiesto per produrre ex novo questi geni più quello necessario ad accumularli per selezione), perché li trovano già ''belli e pronti''. Infatti è sufficiente un flusso genico (genetic admixture) anche modesto, dalla popolazione già stanziata nel territorio, quindi a esso già geneticamente adatta, alla popolazione ''nuova'', perché quest'ultima venga a disporre dei geni adattativi che le necessitano; essa non deve far altro che aumentarne selettivamente la frequenza nel proprio pool genico (per cui l'entità della genetic admixture apparente risulterà per questi geni più grande che per tutti gli altri, che forniranno invece una stima giusta dell'effettivo grado di genetic admixture).

Una popolazione che illustra molto bene questo processo è quella degli ebrei aschenaziti. Storicamente si è sempre reputato che essi abbiano avuto un'origine comune a quella dei sefarditi, anzi che in gran parte siano i discendenti di sefarditi che si sarebbero trasferiti nell'Europa centrale, settentrionale e orientale con una serie di ondate migratorie a partire all'incirca dall'inizio dell'attuale millennio (come conseguenza delle persecuzioni che di regola precedevano e accompagnavano le crociate e le epidemie di peste). Molto più recentemente l'origine comune degli ebrei sefarditi e degli aschenaziti è stata pienamente confermata attraverso la constatazione di una loro forte somiglianza per un gran numero di marcatori antropogenetici. Ma questa forte somiglianza per questi geni è in netto contrasto con il comportamento dei caratteri morfologici esteriori, caratteri sicuramente genetici anche se la loro genetica non è stata chiarita (perché troppo complessa), per i quali invece gli ebrei aschenaziti differiscono moltissimo dai sefarditi: ognuno di questi due gruppi è invece praticamente indistinguibile dalla/e popolazione/i non ebrea che lo circonda. In conclusione, gli ebrei aschenaziti in un periodo dell'ordine di un solo millennio si sono diversificati moltissimo dai sefarditi per un numero ignoto, ma certamente non grande, di geni (quelli responsabili dei loro caratteri morfologici esteriori) e molto poco per tutti gli altri, numerosissimi, geni (come possiamo dedurre da una stima diretta effettuata su un campione rappresentativo costituito dai numerosi marcatori antropogenetici presi in esame nei sefarditi, negli aschenaziti e nei non ebrei dei territori dove si erano insediati gli aschenaziti).

Interpretazione dei risultati. - L'ultimo punto da considerare per valutare i progressi dell'antropologia fisica riguarda le implicazioni dei nuovi risultati. La discontinuità intergruppi è una proprietà assolutamente eccezionale tra i marcatori antropologici, salvo che nella classe dei caratteri morfologici esteriori. Viene automatico chiedersi perché questi marcatori sono concentrati proprio in questa classe. Dopo l'acquisizione di una gran mole di dati sui marcatori antropogenetici e in particolare dopo aver chiarito che è perfettamente ragionevole attendersi che la grandissima maggioranza di essi, per il fatto di non essere coinvolti in processi di adattamento differenziale ad habitat diversi, diano origine solo a diversificazioni lentissime, non ci deve affatto stupire la constatazione della rarità, tra i marcatori antropologici, di quelli che presentano una variabilità tra gruppi di grado estremo, cioè discontinua.

Resta ancora da spiegare perché nella classe dei caratteri morfologici esteriori i marcatori discontinui, tanto rari nelle altre classi, siano invece relativamente comuni. La conseguenza immediata, in un certo senso ''complementare'', delle considerazioni appena esposte è che risulta molto più rilevante per l'adattamento differenziale ad habitat diversi (il vero ''motore'' delle diversificazioni rapide e complete) un carattere morfologico esteriore piuttosto che un marcatore antropogenetico qualsiasi. È infatti del tutto ragionevole supporre che i caratteri morfologici esteriori, proprio in quanto esteriori, siano risultati appariscenti e quindi rilevanti, non solo ai diretti interessati e ai cultori dell'antropologia fisica tradizionale (dando così luogo, rispettivamente, alla consapevolezza delle differenze, che a loro volta ne hanno favorito la perpetuazione, e alla classificazione in razze della nostra specie), ma anche alla selezione differenziale per habitat diversi, cioè al fattore di diversificazione di gran lunga più rapido ed efficiente. È tutt'altro che sorprendente che caratteri come il colore della pelle e la conformazione corporea siano risultati più rilevanti per l'adattamento differenziale al grado d'insolazione e, rispettivamente, alla temperatura, dei marcatori antropogenetici che consistono quasi sempre di differenze strutturali fisiologicamente irrilevanti. Si è già illustrato il ruolo fondamentale che la proprietà di essere manifesta può giocare nel mantenimento di una differenza antropologica che, solo per opera della selezione, sia diventata discontinua.

Se si cerca di completare il quadro sul grado di diversità tra le razze umane includendovi anche queste ultime considerazioni, si può dire che le razze umane differiscono fra loro:

moltissimo per pochissimi caratteri adattativi a causa dei quali, cioè, ogni razza è di regola superiore a tutte le altre nei riguardi dell'habitat in cui è insediata da lungo tempo. Questi sono caratteri quasi sempre poligenici, discontinui e molto appariscenti, tanto che è stato possibile utilizzarli come caratteri classificatori. Essi, essendosi diversificati sotto la spinta dell'adattamento a un certo ambiente, sono correlati con la storia ambientale: per es., trovare in una popolazione un'elevata frequenza di geni che conferiscono resistenza alla malaria, indica che essa è stata esposta per molte generazioni a un'intensa endemia malarica. Inoltre gli stessi caratteri, essendo manifesti, hanno influenzato la storia culturale delle razze e ne sono stati a loro volta influenzati, ma danno invece solo scarse informazioni in termini genealogici;

pochissimo per moltissimi geni (i marcatori antropogenetici ne sono i più tipici rappresentanti) di caratteri alternativi unigenici di regola non appariscenti. Questi caratteri, essendo in genere non appariscenti nemmeno per la selezione, causano differenze interrazziali di regola modeste che non sono manifeste a coloro che le presentano nemmeno nei casi eccezionali in cui sono cospicui. Perciò tali caratteri non ne hanno influenzato il comportamento in termini di rapporti interrazziali (cioè non hanno contribuito a ridurre gli scambi genetici interrazziali) e sono stati gli ultimi a essere scoperti dagli antropologi. D'altra parte, la loro sostanziale neutralità selettiva ha reso accessori questi caratteri differenziali. Tali caratteri, tuttavia, se studiati in numero adeguato e su un numero adeguato di popolazioni (il che è teoricamente fattibile dato che se ne conoscono moltissimi), costituiscono strumenti ideali per la ricostruzione della storia genealogica delle razze umane (definite sulla base di caratteri classificatori), non solo in termini di ramificazioni del dendrogramma microevolutivo della specie, ma anche per inferirne i tempi (dato che, essendo tutti neutrali, ci si attende che evolvano tutti con la stessa velocità, purché opportunamente standardizzata da un punto di vista statistico).

Un corollario importante di tutto questo è che, dato che la proprietà di essere appariscente (cioè non suscettibile di passare inosservato) è di regola un requisito che deve avere un carattere per diventare discontinuo e restare tale, molto verosimilmente i pochissimi caratteri noti per la loro variabilità discontinua tra razze sono gli unici (o quasi) che esistono. In altre parole, il motivo per cui non se ne scoprono altri è il più ovvio che si possa immaginare: non se ne scoprono altri semplicemente perché non ne esistono (o, tutt'al più, sono veramente eccezionali). La variabilità interrazziale discontinua scoperta fin dall'inizio era cioè in sostanza ''tutta'' la variabilità esistente di questo tipo.

Quanto esposto riguarda solo gli aspetti di carattere generale del problema delle razze nell'u. e della loro storia. Si è cioè tentato d'illustrare i progressi compiuti nel modo di studiare e d'interpretare la suddivisione su base genetica della specie umana mentre si è del tutto rinunciato a prendere in esame, sia pure superficialmente, i dati specifici, cioè le ipotetiche ricostruzioni della genealogia dei vari gruppi umani. Il motivo di questa rinuncia è stato in sostanza uno solo, e cioè la natura preliminare, ipotetica e controversa delle attuali ricostruzioni della microevoluzione dell'uomo. Non è però azzardato prevedere che in tempi relativamente brevi molte di queste riserve si potranno sciogliere, per cui alcune delle ipotesi storiche attualmente considerate troppo speculative potranno essere dimostrate.

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