URSS

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

URSS

Ferruccio Nano
Giuseppe Mureddu
Adriano Guerra
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Adriano Guerra
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Adriano Guerra
Marco Mancini
Nicoletta Marcialis
Maria Rosa Mezzi
Viktor Misiano
Ada Francesca Marcianò
Nicola Balata
Stefania Parigi-Achille Frezzato

(XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, II, p. 1065; III, II, p. 1043; IV, III, p. 754)

Alla fine del 1991 l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) ha cessato di esistere come unità statale e le quindici repubbliche che la formavano sono divenute altrettanti stati indipendenti. Undici delle quindici ex repubbliche si sono ufficialmente costituite nella Comunità di Stati Indipendenti (CSI) che, secondo le intenzioni dei membri, dovrebbe evitare la disgregazione e la deconnessione di uno spazio geografico che è stato unito per più di settant'anni. Non hanno partecipato alla costituzione della CSI i tre stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e la Georgia, che poi vi è entrata nel dicembre 1993. La CSI si è però rivelata nei suoi primi anni di vita un'entità politica molto debole, minata da numerose controversie interne, tra cui principalmente il rapporto tra la più vasta e potente Russia e gli altri stati costituenti.

Lo spazio geografico dell'ex URSS verrà qui trattato ancora unitariamente, pur sottolineando le peculiarità dei diversi nuovi stati. Ciò anche perché questo spazio, nonostante la fine dell'URSS e le spinte disgregatrici in atto, è tuttora molto interrelato e strutturato, modellato com'è da settant'anni di socialismo che hanno creato legami, scambi, reti di relazioni, specializzazioni produttive.

La posizione geopolitica nel mondo. - Il crollo del socialismo nell'Europa orientale e la dissoluzione dell'URSS hanno mutato notevolmente la mappa geopolitica del mondo. Il bipolarismo, che dopo la seconda guerra mondiale ha caratterizzato per quarant'anni il pianeta, ha lasciato di fatto il posto a una situazione monopolare, con gli Stati Uniti unica superpotenza politico-militare. Il blocco sovietico e la superpotenza che lo dominava si sono disgregati, cessando di essere identificati come ''polo forte'' dell'articolazione geopolitica mondiale. All'interno dell'ex URSS il processo di riduzione del potenziale militare innescato da M. Gorbačëv prosegue tuttora. L'apparato militare resta però imponente e tra i nuovi stati indipendenti la Russia, l'Ucraina, la Bielorussia e il Kazakistan sono dotati di armamenti nucleari. È in particolare la Russia a possedere ancora una forza militare molto consistente, seconda solo a quella degli Stati Uniti. Ciò, unitamente al fatto di essere ricchissima di risorse naturali e di essere il più vasto stato della Terra, fa della Russia una potenza politica di livello mondiale. Il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell'ONU che era dell'URSS è così andato alla Russia. Tra gli altri stati dell'ex URSS un ruolo non marginale nello scacchiere geopolitico mondiale è rivestito dall'Ucraina, che si configura come potenza politica di livello continentale.

I problemi etnici. - L'URSS si era data fin dal 1922 una struttura federale. Le oltre cento nazionalità che componevano il paese hanno sempre avuto problemi di coesione, che sono diventati esplosivi al momento della crisi politica dell'URSS, alla fine degli anni Ottanta, tanto da costituire una delle cause fondamentali della dissoluzione dello stato socialista. In realtà fin dalla metà degli anni Venti il problema dell'unità di uno stato etnicamente così composito è stato affrontato quasi sempre con la forza e non mancarono, per tutta l'epoca staliniana, le ''punizioni esemplari'' verso popoli che rivendicavano autonomia. Inoltre la struttura federale dell'URSS garantiva solo in teoria il rispetto della parità di diritti tra le diverse nazionalità; di fatto il potere veniva gestito sempre centralmente e il predominio numerico dei popoli slavi europei (70% della popolazione) ha relegato i popoli di nazionalità asiatica (Kazaki, Kirghisi, Uzbeki, ecc.) in posizione subalterna.

Per decenni il governo centrale ha cercato, sia attraverso la diffusione della lingua russa, sia attraverso il trasferimento di popolazione slava, di attuare un processo di russificazione del paese, tentando di rendere dominante in tutto il territorio sovietico la cultura russa, anche dove era poco radicata o addirittura assente. Le popolazioni che maggiormente si sono opposte a tale processo sono quelle dell'Asia centrale sovietica, di religione musulmana. Un secondo gruppo di popoli che si è opposto al potere centrale di Mosca è stato quello dei paesi baltici (Estoni, Lettoni, Lituani), annessi all'URSS nel 1939, in seguito a un accordo russo-tedesco. Dopo la guerra anche le repubbliche baltiche furono sottoposte a un intenso processo di russificazione. Questo processo ha portato anche benefici (un'industria leggera ben sviluppata ha permesso di mantenere più elevato della media il tenore di vita), ma ciò non ha dissuaso i baltici dal perseguire con forza l'obiettivo della completa indipendenza e del distacco dall'URSS (1991), che ha anche costituito la prima tappa del dissolvimento dell'Unione Sovietica. Anche nel Caucaso Georgiani, Azerbaigiani (Azeri) e Armeni hanno sviluppato movimenti nazionalisti rivolti contro Mosca e, soprattutto, conflitti tra gli stessi popoli caucasici. Nell'Ucraina, infine, i movimenti nazionalisti e indipendentisti hanno avuto miglior gioco dei gruppi politici che puntavano a una rinnovata coesione con le altre ex repubbliche, fondata su basi più paritarie, secondo il disegno politico di Gorbačëv. Questo disegno, sebbene volesse gradualmente fornire una vera autonomia alle repubbliche dell'ex URSS, conforme al modello federale di tipo tedesco o statunitense, si è scontrato, soprattutto in Ucraina, con un rifiuto motivato dai lunghi anni di oppressione e di centralismo della vecchia URSS.

La dissoluzione dell'URSS non è peraltro valsa a risolvere le questioni etniche. Permangono infatti forti spinte nazionaliste e separatiste anche all'interno dei nuovi stati indipendenti, in particolare in Russia, Ucraina e negli stati del Caucaso.

Condizioni demografiche e sociali. - Il censimento del 1989 attribuiva all'URSS una popolazione di 286.717.000 abitanti, in confronto ai 268.825.000 del 1982. La dinamica demografica del paese è stata relativamente sostenuta, avendo registrato tra il 1982 e il 1989 un incremento medio annuo dell'8ı, derivato da un tasso di natalità del 18ı e da un tasso di mortalità del 10ı.

L'andamento demografico è stato però geograficamente molto differenziato. I popoli dell'Asia centrale e del Caucaso hanno fatto registrare un tasso di natalità molto più elevato (25ı) rispetto ai popoli slavi europei (inferiore al 10ı). Nonostante gli elevati tassi di crescita dell'Asia centrale sovietica, la distribuzione della popolazione sul territorio è rimasta molto squilibrata: l'addensamento nella parte europea, che con solo il 20% della superficie ospita il 70% della popolazione, si è ridotto in misura molto modesta. Come in tutti i paesi industrializzati, la popolazione rurale dell'URSS è andata via via diminuendo, passando dal 50% del 1961 al 34% del 1990. Vi sono però forti differenziazioni tra gli stati dell'Asia centrale, del Caucaso e della Moldavia, in maggioranza a popolamento rurale, e gli stati baltici, l'Ucraina, la Bielorussia e la Russia, che hanno una netta maggioranza di popolazione urbana.

Il fenomeno dell'urbanizzazione è stato accompagnato dalla forte crescita delle grandi metropoli; per questo motivo le autorità hanno cercato nell'ultimo ventennio d'incoraggiare la crescita delle città medie, dotandole di maggiori servizi. Il tentativo di riequilibrio ha avuto un successo solo parziale, in quanto insieme alle città medie sono continuate a crescere anche quelle grandi.

I mutamenti politici ed economici avvenuti a cavallo degli anni Novanta hanno inciso notevolmente sulle condizioni di vita e sulla struttura sociale della popolazione. Fin verso la fine degli anni Ottanta la società sovietica era caratterizzata da un forte livellamento e le uniche consistenti differenziazioni sociali erano determinate dall'appartenenza alla nomenklatura, vale a dire l'apparato direttivo del partito e dell'esercito, la burocrazia direttiva dello stato e delle imprese, gli scienziati e gli intellettuali che lavoravano in settori strategici. Il resto della popolazione non aveva al proprio interno forti differenziazioni sociali, mentre usufruiva di servizi e beni di prima necessità forniti gratuitamente o a prezzi molto bassi. Inoltre l'URSS vantava rispetto all'Occidente l'assenza di disoccupazione. Nonostante questi vantaggi la struttura sociale sovietica ha evidenziato consistenti limiti, primo fra tutti l'incapacità di stimolare l'iniziativa dei singoli e d'incentivare l'attività economica. L'eccessivo livellamento sociale si è rivelato deleterio nei confronti della crescita del sistema, che anche per questo è entrato in crisi. La riforma dell'economia e i nuovi orientamenti verso il libero mercato hanno aumentato notevolmente la differenziazione sociale, creando ceti di nuovi ricchi, formati essenzialmente con le attività dell'economia privata, e consistenti ceti di nuovi poveri. La ristrutturazione delle imprese e le esigenze di competitività hanno inoltre provocato la nascita del fenomeno della disoccupazione, che nel 1990 veniva stimata intorno al 5-6% della popolazione attiva.

Evoluzione dell'economia. - Nel 1990 la popolazione attiva sovietica era così ripartita nei tre settori economici: 19% di addetti all'agricoltura, 39% all'industria e 42% al terziario. Se si confrontano questi dati con quelli del 1960 la modificazione risulta profonda, in quanto in quell'anno quasi il 40% dei lavoratori era addetto all'agricoltura, il 33% all'industria e il 27% al terziario.

La crescita economica del paese, mantenutasi elevata per molti decenni, verso la fine degli anni Sessanta ha però registrato un rallentamento e poi, alla fine degli anni Ottanta, una vera e propria stasi, delineando una situazione di crisi economica di vaste proporzioni.

Le difficoltà dell'economia sovietica sono dipese dall'inefficacia della pianificazione centralizzata e da un'ulteriore serie di elementi negativi quali la scarsa qualità dei prodotti, gli sprechi nella produzione, la presenza di una manodopera spesso demotivata al lavoro, la lentezza con cui le scoperte scientifiche sono state applicate alla produzione, l'arretratezza tecnologica in alcuni campi. A ciò occorre aggiungere la presenza di un'economia sommersa (illegale e non controllabile dallo stato) molto vasta e la diffusione della corruzione. Questa situazione ha prodotto una crisi di sistema, nel senso che tutto il modello di sviluppo è stato messo in discussione perché dimostratosi, almeno in buona parte, inadatto a sostenere la crescita economica.

Dall'inizio degli anni Ottanta e ancor più nel periodo di Gorbačëv (1985-91) si è tentato di riformare gradatamente il sistema economico. Ci si è resi conto che la ''sfida'' in campo economico con l'Occidente era persa e che la potenza dell'URSS nel mondo non era più sostenibile economicamente. Gli alti costi della presenza dell'Armata Rossa all'estero, la costosissima sfida tecnologica con gli USA in campo militare e aerospaziale, i finanziamenti e le materie prime a basso costo fornite ai paesi ''amici'' hanno inciso sulla scelta di ridurre le spese per l'affermazione della politica di potenza nel mondo e per orientarle verso l'interno. Nei confronti dell'Occidente è stata perseguita una politica di apertura commerciale, finanziaria e di collaborazioni tra imprese, soprattutto con quelle europee. È stata di fatto riconosciuta la migliore efficienza delle economie dei paesi capitalisti sviluppati e si è cercato di modificare quella sovietica in tale direzione. Si è così introdotto il principio della concorrenza per incentivare una produzione più elevata e di migliore qualità; si è concessa una qualche autonomia decisionale alle imprese, che si sono in parte svincolate dalla pianificazione rigida; si è introdotta una certa privatizzazione dell'economia senza però arrivare alla vendita delle grandi imprese statali (i kombinat); è iniziata la liberalizzazione dei prezzi, mantenendo però il controllo di quelli dei beni più importanti. Si è tentato cioè d'introdurre il mercato e di mantenere la pianificazione, anche se notevolmente limitata. Nel periodo tra il 1989 e il 1991 la situazione economica generale si è però ulteriormente aggravata, facendo segnare continue diminuzioni di produzione in quasi tutti i settori. Nel 1990, per es., la produzione globale è scesa del 4%, nel 1991 ancora del 15%. Le esportazioni di petrolio, tradizionali fornitrici di valuta pregiata, si sono ridotte del 18% nel solo 1990.

La dissoluzione dell'URSS ha segnato il definitivo fallimento del progetto di riforma del sistema. La pianificazione è stata di fatto abolita, sebbene permanga il controllo dei singoli stati su molte delle imprese. Il 13° piano quinquennale (1991-95) è stato redatto ma non è diventato operativo. Nel 1991 vi è stato un abbozzo di piano annuale, mentre per il 1992 non ne è stato elaborato alcuno, né a livello centrale (CSI), né dai governi dei 15 stati indipendenti. In modo più o meno marcato tutti gli stati dell'ex URSS si indirizzano verso un'economia mista di tipo occidentale. Solo nei paesi baltici, nelle regioni occidentali dell'Ucraina e della Bielorussia (aree già sviluppate in senso capitalistico prima di entrare a far parte dell'URSS) si sta procedendo rapidamente verso un ritorno all'imprenditorialità privata e al capitalismo. A queste vanno aggiunte le aree più dinamiche della Russia (Mosca, San Pietroburgo, ecc.) dove le imprese private si sono largamente affermate. Nel resto dei territori dell'ex URSS il processo è molto più lento di quanto previsto dai dirigenti riformatori e in qualche caso (come per es. in Tagikistan e Kirghizistan) non si può neanche parlare d'introduzione dell'economia di mercato.

Difficoltà nella trasformazione delle strutture economiche e territoriali. - Nell'ex URSS la trasformazione dell'economia è quindi lenta e graduale. Nel 1992 la privatizzazione delle imprese non aveva superato il 10% delle unità locali. La diffusione dello spirito imprenditoriale in un sistema economico che demandava allo stato ogni responsabilità richiede tempi lunghi. Come ha scritto un economista ungherese, J. Kornai: "Si può mettere fine alla proprietà privata con una legge, ma è impossibile svilupparla con lo stesso mezzo".

Le imprese private nazionali più diffuse sono di piccole dimensioni e in genere appartengono al settore terziario (alberghi, ristoranti, servizi vari). Di più vasto respiro è invece la costruzione o l'acquisto di imprese dall'estero. Anche in questo caso vi sono però difficoltà dovute all'incertezza delle norme e all'instabilità politica ed economica. Va inoltre precisato che spesso l'investimento più consistente è diretto verso attività riorientate all'export (come l'energia) e quindi non al mercato interno, la cui domanda è tuttora limitata, vista la scarsa disponibilità di reddito della popolazione.

Un altro grave problema è il forte indebitamento, in particolare della Russia (nel 1993 ammontava a 80 miliardi di dollari, il 22% del PIL), verso l'Occidente e il Fondo Monetario Internazionale, con il connesso rischio di pregiudicare la possibilità di una rapida modernizzazione economica, che peraltro necessita di altri finanziamenti occidentali. Non si tratta solo di un ammodernamento tecnologico, interno alle imprese, ma anche delle infrastrutture (rete autostradale, telecomunicazioni, trasporto ferroviario veloce) che sono di qualità scadente. Più in generale, la struttura territoriale dell'economia creata dalla pianificazione socialista produce un'inerzia che frena la possibilità di mutamento rapido. Le vecchie strutture industriali (i kombinat) sebbene inefficienti, non possono essere chiuse, per evitare la disoccupazione di massa e le crisi sociali, né ristrutturate in pochi mesi. Le infrastrutture esistenti (ferrovie, oleodotti, ecc.) non possono essere eliminate, ma solo trasformate gradualmente, così come il vecchio e inefficiente apparato distributivo.

Le differenze geoeconomiche. - Dal punto di vista geoeconomico, in URSS si registravano notevoli differenze di sviluppo tra le repubbliche slave e baltiche e quelle caucasiche e dell'Asia centrale. Nonostante queste ultime siano state oggetto di interventi dei pianificatori per accrescerne lo sviluppo e la base economica, il loro peso è restato modesto. La loro economia è spesso rimasta specializzata in poche produzioni, rispetto a quella più completa (e diversificata) della Russia e dell'Ucraina. Il reddito medio degli abitanti della Russia o della Bielorussia era nel 1990 due volte superiore a quello, per es., degli abitanti del Kirghizistan o del Tagikistan. Inoltre il peso economico della Repubblica Russa rispetto alle altre è sempre stato schiacciante (nel 1990 deteneva il 61% del PIL, il 70,7% delle esportazioni, il 62% della produzione industriale e il 48% di quella agricola) tanto da farla divenire un partner indispensabile per tutte le altre repubbliche, con la parziale eccezione dell'Ucraina. Queste differenze geoeconomiche, diminuite di poco dalle scelte dei pianificatori sovietici, hanno contribuito ad accrescere in molte repubbliche un clima di sfiducia nei confronti del ''centro'' e contemporaneamente ad avvalorare l'idea che esse avrebbero tratto giovamento da una gestione autonoma della propria economia, possibile solo con un distacco da Mosca.

Tra i 15 stati dell'ex URSS si sono costruite in passato relazioni economiche piuttosto intense. L'economia sovietica era organizzata da un solo centro pianificatore, e quindi era unitaria, nel senso che le singole repubbliche avevano una funzione economica decisa dal ''centro'' e intrattenevano consistenti relazioni reciproche. Lo spazio sovietico era quindi divenuto molto interdipendente, con reti infrastrutturali (ferrovie, oleodotti, ecc.) unitarie e un unico sistema di distribuzione delle materie prime, dei prodotti industriali di base, ecc. Per es. le produzioni russe di tessuti di cotone erano alimentate da fibre di cotone provenienti dall'Uzbekistan; il petrolio russo della regione siberiana di Tiumen veniva lavorato nelle grandi raffinerie bielorusse di Mozyr e Novopolock; l'Azerbaigian era specializzato nella produzione di impianti per l'estrazione del petrolio, destinati a Russia e Kazakistan, e così via.

Con la fine dell'Unione Sovietica le relazioni economiche tra i nuovi stati indipendenti sono calate notevolmente, creando però grossi traumi economici. Le grandi imprese industriali dell'ex URSS intrattenevano relazioni clienti-fornitori con imprese sparse per tutta l'Unione. Da tutto ciò è facile capire come i dirigenti dei nuovi stati tendano ora a ritornare a un volume di scambi il più vicino possibile ai livelli del passato per cercare di evitare la chiusura di molte imprese e un'elevata disoccupazione, anche perché solo in pochi casi i vecchi fornitori o i vecchi clienti sono stati sostituiti con nuovi partners. Nuovi mercati di vendita (per es. occidentali) sono infatti di facile acquisizione solo nel caso delle materie prime.

Oltre alle interdipendenze economiche, tra i nuovi stati indipendenti vi sono anche quelle etniche: nella maggior parte degli stati sono infatti presenti consistenti minoranze di popolazioni originarie di altre parti dell'ex URSS. Per es. in Kazakistan, il caso limite, la popolazione non kazaka rappresenta ben il 60% del totale; il 22% della popolazione dell'Ucraina non è rappresentata da ucraini; al di fuori della Federazione russa, nelle altre nuove entità statali vivono ben 25 milioni di russi.

La formazione della Comunità di Stati Indipendenti non pare però una risposta del tutto idonea al perseguimento degli scopi prefissati. Per questo motivo si stanno intensificando anche accordi bilaterali e accordi regionali, come quelli siglati nell'area baltica o nell'Asia centrale, volti a incrementare gli scambi tra stati contigui, o l'ancor più impegnativo accordo tra Russia, Ucraina e Bielorussia, siglato nel 1993, che prevede la costituzione di un ''mercato comune slavo'', per accrescere la produzione e lo scambio di merci, servizi, capitali e realizzare progetti economici congiunti. In questo quadro di nuove relazioni economiche emerge comunque il ruolo egemone della Russia. Oltre a essere lo stato economicamente più forte, è un partner commerciale indispensabile e difficilmente sostituibile, in particolare per la fornitura di materie prime strategiche. Questa avviene attraverso infrastrutture già esistenti e il prezzo di vendita delle materie prime può diventare un mezzo per influenzare l'acquirente. La Russia è inoltre in credito finanziario con quasi tutti i membri della CSI e può utilizzare anche questo credito come mezzo di pressione; è infine dotata di un numero rilevante di addetti tecnico-scientifici e militari, utilizzati anche da altri paesi.

Rapporti commerciali con l'estero. - Il commercio estero dell'URSS era limitato rispetto alla potenza economica del paese. Nel 1990 le esportazioni sovietiche erano circa il 3,5% del totale mondiale, contro il 40% della CEE e il 10% degli USA, e per quasi il 60% svolte con paesi dell'ex Comecon. La bilancia commerciale, fino al 1988 sempre attiva o in pareggio, è divenuta in seguito deficitaria. Le esportazioni riguardavano principalmente fonti di energia, minerali, metalli preziosi, armamenti e una serie di prodotti tecnologici (50% del totale), alimentari, mezzi di trasporto, beni strumentali. Dopo la dissoluzione dell'URSS l'unico nuovo stato indipendente con bilancia commerciale decisamente attiva è la Russia (nel 1993, 27 miliardi di dollari d'importazioni e 43 miliardi di dollari di esportazioni). L'export della Russia è dominato da petrolio e gas naturale (65% del totale).

Bibl.: M.C. Maurel, Territoire et strategies sovietiques, Parigi 1982; R. Caratini, Dictionnaire des nationalités et des minorités en URSS, ivi 1990; J. Kornai, The road to a free economy, New York 1990; H. Smith, Désunion soviétique, Parigi 1991; J. Sapir, Feu le système sovietique? Permanences politiques. Mirages économiques. Enjeux strategiques, ivi 1992; C. Urjewicz, De l'URSS à la CEI: le début de la fin de la Russie?, in Hérodote, 64 (gennaio-marzo 1992); R. Berton-Hogge, M.A. Crosnier, Ex URSS: les États du divorce, Parigi 1993; M. Gorbačëzv, Avant-Mémoires, ivi 1993; P. Sinatti, La riconquista geoeconomica dell'impero russo, in Limes, 1 (1994).

Politica economica e finanziaria. - Il quinquennio 1981-85, che per l'URSS fu un periodo di stabilità politica, segnò anche in campo economico una forte continuità con il periodo precedente, con risultati apparentemente buoni, se si guardano indicatori come la produzione industriale o il PMN (Prodotto Materiale Netto), cresciuti rispettivamente a un tasso medio annuo del 3,6% e del 3,2%. Tali risultati, tuttavia, costituivano un netto rallentamento rispetto al passato (il PMN era aumentato del 4,3%, 5,6% e 7,8% nei tre quinquenni precedenti), e non potevano nascondere le difficoltà dell'economia sovietica, sempre più caratterizzata da bassa produttività, invecchiamento degli impianti, ritardo tecnologico, scarsa qualità dei prodotti, produzioni insufficienti a far fronte alle nuove esigenze della domanda.

Le cause del rallentamento della crescita economica e del declino complessivo del sistema produttivo sovietico possono essere ricondotte a tre gruppi di fattori: il primo di essi è l'esaurimento propulsivo del cosiddetto ''sviluppo estensivo'', concentrato in pochi settori ''di base'' (industria pesante, energia, agricoltura), basato sull'uso massiccio di capitali e di risorse materiali e umane, e misurato in termini di quantità fisiche prodotte, con scarsa attenzione ai miglioramenti di efficienza nell'uso delle risorse e alla qualità dei beni resi disponibili; il secondo fattore è costituito dalle disfunzioni del sistema di pianificazione, già individuate dalla politica economica chruščëviana, le quali si erano aggravate nel tempo sia per l'aumentata rigidit'a dei criteri di allocazione delle risorse e per la stratificazione di errori e deformazioni non cancellabili da meccanismi correttivi, sia per la frequente degenerazione delle regole di gestione amministrativa dell'economia in arbitrario esercizio di potere e abusi legati a interessi personali a livello sia centrale che periferico; infine, l'isolamento dall'economia mondiale era stata decisivo nell'impedire all'URSS di partecipare alle imponenti trasformazioni strutturali (uso efficiente dell'energia, riduzione dell'intensità di inputs materiali, informatizzazione, nuovi metodi organizzativi) intervenute negli anni Ottanta nei paesi industrializzati occidentali. Benché gli elementi della crisi latente fossero oggetto di dibattiti tra gli economisti sovietici e fossero avvertiti anche dagli stessi vertici politici, l'azione in campo economico rimase sostanzialmente immutata, e i nuovi interventi si limitarono al cambiamento degli organi di governo di qualche settore dell'economia e allo sfruttamento delle risorse naturali delle aree periferiche (soprattutto Siberia e Kazakistan).

Sin dalla sua elezione, nel 1985, a segretario generale del PC sovietico, M. Gorbačëv fece della ricostruzione del sistema economico (perestrojka) uno dei punti essenziali del suo programma. Inizialmente tale ricostruzione perseguiva semplicemente una via intermedia tra mercato e pianificazione, che consentisse di ritrovare un sentiero di rapido sviluppo (uskorenie). Le riforme avviate, per quanto di ampiezza senza precendenti, rientravano ancora in una strategia di comunismo riformatore, rivolta a eliminare i difetti del sistema sovietico, senza metterne in discussione i principi fondamentali; esse, tuttavia, mentre risultavano troppo limitate per risolvere i problemi accumulati in decenni di sviluppo estensivo, d'inefficienza e di deresponsabilizzazione dell'economia, contenevano potenzialità innovative che suscitarono l'opposizione attiva di molti dirigenti del partito e la resistenza passiva, occulta ma capillare, di migliaia di burocrati, gelosi di prerogative e privilegi tradizionali. L'aspro confronto con tale opposizione − che fu affrontato con un'ampia trasformazione della struttura stato-partito, con l'introduzione di una relativa trasparenza delle informazioni (glasnost') e con la ricerca di un sostegno popolare non ancora sperimentato − determinò un'alternanza di accelerazioni e frenate nel processo di riforma, oltre a continue oscillazioni tra una limitata e graduale azione riformistica e politiche economiche radicali di transizione rapida all'economia di mercato.

Elementi centrali dei cambiamenti economici operati furono la riforma delle imprese, industriali e agricole, e quella dei prezzi. La riforma delle imprese industriali, rivolta a ridimensionare il ruolo della burocrazia della pianificazione centrale e a decentrare ai dirigenti delle singole imprese le decisioni di produzione e commercializzazione, si concretò nell'abolizione di obiettivi di produzione prefissati e vincolanti: fu consentito alle imprese di contrattare direttamente con fornitori e clienti, sebbene rimanesse preponderante il ruolo delle commesse statali (che assorbivano il 90% dell'intera produzione industriale); fu introdotto un nuovo sistema di tassazione degli utili di esercizio che mise le imprese in condizione di trattenere una parte dei profitti e di deciderne la ripartizione più opportuna, acquisendo così una limitata ma importante autonomia sia nelle decisioni di incentivazione del personale che nelle scelte di investimento.

Per quel che riguarda la politica agraria, già nel 1985 era stato effettuato un grande sforzo di riorganizzazione dell'amministrazione dell'agricoltura, con la creazione di un superministero agro-alimentare (Gosgroprom) che rilevò e accentrò le funzioni di molti ministeri, e con il tentativo di decentrare le decisioni e limitare il dirigismo dei funzionari a livello sia centrale che periferico; furono adottate misure in favore della cooperazione, venne data maggiore autonomia finanziaria ai kolchoz e fu abolito il salario minimo garantito; si avviò la cosiddetta ''contadinizzazione'', con la quale, rompendo con la politica tradizionale, industrialista e urbana, di gestione delle campagne, si tentò di dare maggiore autonomia ai contadini, e si introdussero contratti di affitto individuali a medio e lungo termine; vennero prese misure volte a ridurre l'inefficienza della distribuzione, causa di perdite alte, senza però affrontare la questione del rapporto tra prezzi di consegna e prezzi al consumo.

La riforma dei prezzi fu avviata tentando innanzi tutto di correggere per via amministrativa le più evidenti distorsioni tra prezzi relativi; quindi si passò a una vera e propria liberalizzazione parziale partendo dai prezzi all'ingrosso, limitatamente al settore dei beni di investimento (prezzi contrattati dalle imprese industriali per ''nuovi prodotti'') e all'industria leggera (prezzi contrattati per prodotti migliorati nella qualità), con restrizioni relative alla gamma dei prodotti interessati e all'entità degli aumenti consentiti; successivamente, la liberalizzazione divenne più ampia, ma continuarono a essere tenuti sotto controllo amministrativo, anche se nella prospettiva di una graduale liberalizzazione, i prezzi dei prodotti energetici, delle materie prime e dei prodotti intermedi strategici, così come quelli della maggior parte dei prodotti agricoli. Per quanto riguarda i prezzi al consumo, fu adottata maggiore prudenza, generata dal timore che venisse travolto il sistema distributivo e che insorgessero diffusi fenomeni di accaparramento e incontrollabili ripercussioni sui prezzi all'ingrosso.

L'avvio della liberalizzazione dei prezzi interni e la prospettiva di un progressivo allineamento ai prezzi internazionali implicava un'altra importante riforma: quella del commercio estero. Prima del 1986 le decisioni su importazioni ed esportazioni derivavano dalle indicazioni contenute nei documenti di pianificazione centralizzata (Piano centrale e Bilancio valutario) e prescindevano ovviamente da considerazioni sui costi comparati; la loro gestione, anch'essa centralizzata, era monopolizzata dal ministero del Commercio Estero (e da alcune agenzie da esso strettamente dipendenti, organizzate per settori merceologici), mentre una banca specializzata (Vnešnekonobank) gestiva tutte le transazioni monetarie, operando in modo che le differenze tra prezzi interni e prezzi esteri trasformati in rubli al cambio ufficiale fossero compensate con tasse o sussidi impliciti (parificazione del prezzo) figuranti nel bilancio statale. La sostanziale autarchia, che aveva costituito un tradizionale obiettivo, non consentiva che alcune ''importazioni essenziali'', per il cui finanziamento si era sviluppato un settore di esportazione (beni ritenuti abbondanti, per lo più prodotti energetici e altre materie prime). Tale approccio, garantendo l'equilibrio della bilancia commerciale, isolava i prezzi interni da quelli internazionali ed evitava che i produttori nazionali avessero contatti con le imprese straniere, sia come venditori che come acquirenti. Proprio per avviare la rimozione di questi due tipi di isolamento, vennero perseguite, con la perestrojka, due linee di politica economica: la prima via fu quella delle riforme istituzionali volte a decentrare le decisioni e la gestione degli scambi commerciali con l'estero, eliminando il monopolio del ministero del Commercio Estero, ammettendo all'import-export altri ministeri e un numero rapidamente crescente di associazioni di imprese, e creando le premesse affinché le singole imprese potessero vendere direttamente i propri prodotti sul mercato mondiale e acquistarvi gli inputs necessari per la produzione; la seconda linea di azione fu costituita dall'introduzione di incentivi alle esportazioni: coefficienti valutari differenziati (ossia, in pratica, una complessa struttura di tassi di cambio commerciali) e l'autorizzazione a detenere una quota degli introiti in valuta.

Accanto a quelle indicate, due altre riforme di grande respiro furono intraprese a partire dal 1987. Esse interessarono il sistema bancario e la finanza pubblica. Con la prima riforma fu avviato un processo di profonda trasformazione dei meccanismi di intermediazione finanziaria: le banche, che avevano svolto fino ad allora soltanto un ruolo contabile-amministrativo, furono rese autonome dalla Banca Centrale (Gosbank); per l'esercizio del credito commerciale secondo criteri di rischio e profittabilità, furono create nuove istituzioni bancarie statali e fu resa possibile la nascita di banche private; furono rimosse numerose restrizioni ai movimenti interni di capitali; infine venne costituito il Sistema di riserva dell'Unione, che fissava nuove regole per la gestione delle riserve valutarie e l'emissione di moneta, ridisegnando le funzioni della Banca Centrale dell'URSS e i rapporti tra questa e le banche centrali delle repubbliche. La riforma della finanza pubblica era resa necessaria dal mutato ruolo dello stato nell'economia: in particolare, con l'autonomia finanziaria delle imprese, i trasferimenti al e dal sistema produttivo cessavano di essere, almeno in prospettiva, la voce principale delle spese e delle entrate del bilancio statale, così come veniva ridimensionato l'impatto, sullo stesso bilancio, del sostegno dei prezzi amministrati; più in generale diventava inevitabile una revisione dell'intera struttura delle entrate e delle uscite. Ma anche altri problemi iniziarono a essere affrontati: dall'inserimento in bilancio di una miriade di spese tradizionalmente tenutene fuori (tra cui le più importanti erano quelle militari), alla regolamentazione delle relazioni finanziarie intergovernative, alla necessità di frenare l'aumento del deficit ed evitarne il finanziamento monetario tramite trasferimenti dalle banche o con emissione di moneta da parte della Gosbank. I cambiamenti di istituzioni e funzioni in queste aree cruciali dell'economia, sebbene parziali e graduali, consentivano l'introduzione di politiche macro-economiche, in un senso prossimo a quello dato a tale espressione in Occidente: in particolare la riforma del credito commerciale, dando un nuovo ruolo ai tassi di interesse, rendeva la fissazione dei tassi di interesse ufficiali (sui finanziamenti della Gosbank alle banche centrali delle repubbliche e sui finanziamenti alle grandi banche nazionali) uno strumento di controllo degli aggregati monetari, così come l'introduzione della riserva obbligatoria per la maggior parte delle aziende di credito; pur restando subordinata al governo, la Banca Centrale non era più tenuta a soddisfare le richieste di finanziamento di organismi esecutivi centrali o periferici, e l'imposizione di un tetto al deficit statale consentiva di controllare la liquidità creata dal settore pubblico, causa principale di una preoccupante espansione dell'offerta di moneta.

Il giudizio complessivo sulle riforme, sebbene i tempi e i modi della loro realizzazione siano stati sconvolti dagli eventi politici, non può prescindere dal catastrofico esito finale. L'estremo tentativo di ammodernare e razionalizzare il sistema economico sovietico è fallito non tanto perché le singole azioni intraprese fossero sbagliate o per essere state condotte con lentezza, errori, parzialità, quanto perché l'insieme del progetto riformatore, per insufficiente coerenza interna, per astrattezza e per aver sottovalutato la complessità del funzionamento del mercato, ha suscitato più problemi di quanti ne andasse risolvendo. In alcuni campi l'inadeguatezza dell'azione riformatrice è stata evidente. L'agricoltura è un caso emblematico: gli interventi in questo settore si sono rivelati nel complesso insufficienti e contraddittori, e non hanno saputo superare le molte resistenze manifestatesi soprattutto a livello periferico; i programmi hanno continuato a non essere rispettati, il nuovo super-ministero è stato presto sostituito da un altro organismo, i vincoli amministrativi sono rimasti ingombranti, la produttività non è aumentata sensibilmente; alla fine degli anni Ottanta venivano espresse più o meno le stesse critiche che Gorbačëv nel 1982, allora esperto agrario del Politburo, aveva fatto sulla politica agraria del periodo brežneviano. Ma in altri casi il giudizio non può essere così drastico. La riforma delle imprese per es. ha, almeno inizialmente, dato qualche risultato, anche in termini quantitativi aggregati, sebbene abbia creato nuove burocrazie, determinato fallimenti, incentivato l'uso improprio di attività liquide; al di là dei limiti propri, essa ha trovato gli ostacoli maggiori in ritardi e manchevolezze in altri campi delle riforme (ristrutturazione dei prezzi, privatizzazioni, predisposizione di un nuovo quadro normativo). Anche per la politica monetaria valgono considerazioni analoghe. L'adozione dei nuovi strumenti era parziale e lenta; i tassi di interesse ufficiali, pur aumentando, restavano negativi in termini reali, e trovavano limiti alla loro efficacia sia nella rigidità di un sistema creditizio più sensibile alle pressioni dei grandi clienti (ministeri e mafia emergente) che al costo del denaro, sia nella scarsa efficacia dei tassi di interesse reali negativi in un'economia con forti aspettative inflazionistiche; e tuttavia una politica monetaria restrittiva fu effettivamente realizzata tra la fine del 1990 e la prima metà del 1991, come mostra la riduzione del rapporto tra i principali aggregati monetari e il PMN o il PIL. Ciò non impedì che questa politica risultasse inefficace.

D'altra parte, alcune carenze che un secondo round di riforme già annunciate avrebbe dovuto affrontare, come l'inadeguatezza di un quadro legislativo in armonia con i nuovi orientamenti economici, si sono rivelate più gravi del previsto, creando enormi strozzature al nuovo corso. Tali carenze hanno tra l'altro contribuito a creare un clima di mercato selvaggio, o, ancora peggio, un vero e proprio sviluppo di attività che altrove non sarebbero state consentite. L'insufficiente normativa in spazi cruciali dell'attività economica (dalle norme contrattuali e di regolazione delle controversie, ai vincoli sulla concentrazione degli impieghi delle banche, ai controlli della provenienza di improvvise ricchezze) ha dato origine all'acquisizione di posizioni di potere che non potrebbero mai essere ammesse nelle normali economie di mercato, creando una strabiliante contiguità tra attività criminose e attività semplicemente non perseguite dalla legge.

Il limite maggiore dell'attività riformatrice fu di aver contribuito a disorganizzare l'economia sovietica, smantellando meccanismi amministrativi che costituivano il perno del ''sistema di comando'', senza aver precostituito le condizioni per il funzionamento del mercato. È stata soprattutto questa fondamentale incoerenza a minare le prospettive della via intermedia implicita nella perestrojka, anche se ciò divenne chiaro solo nel 1990, quando l'effetto moltiplicatore operato sul PIL dalla riduzione degli investimenti in corso da diversi anni rese manifesto il deterioramento economico pluridecennale. Per la prima volta nella storia dell'URSS, le statistiche ufficiali registrarono una riduzione del PMN di quasi il 4%; gli investimenti fissi netti si ridussero del 18%; l'inflazione si avvicinò al 6%; l'indebitamento estero crebbe rapidamente, costringendo l'URSS, anche sotto questo profilo per la prima volta nella sua storia, a sospendere il pagamento degli interessi sul debito.

Il 1991 si aprì nella prospettiva, auspicata dal Fondo monetario internazionale, di una rigida politica di stabilizzazione monetaria; ma presto diventò chiaro che era in atto un'ulteriore contrazione dell'attività economica e che la politica monetaria restrittiva non era in grado, senza adeguati interventi di stimolo della produzione, di ridurre lo squilibrio tra domanda e offerta aggregata. Vennero così allentati i vincoli al sostegno finanziario delle imprese in crisi e l'inflazione divenne incontrollabile. La progressiva svalutazione del rublo sul mercato nero fu ratificata anche dal cambio ufficiale; la depressione economica si manifestò drammaticamente all'opinione pubblica con il razionamento di beni di prima necessità e con un'estrema penuria di merci (la cosiddetta ''inconvertibilità del rublo in merci''), alimentando le pressioni per un passaggio rapido alle regole del mercato e rafforzando i dubbi sulla possibilità di riformare il sistema sovietico.

Alla fine del 1991 i risultati economici si rivelarono ben più neri di quelli già negativi dell'anno precedente: contrazione della produzione industriale (−8%) e agricola (−4,7%) con conseguente forte riduzione del PMN (−15,0%) e del PIL (−16,5%); inflazione superiore al 130%; collasso del commercio estero, anche se risultava un surplus commerciale dovuto all'arresto delle importazioni; riduzione del commercio interrepubblicano. Ma ormai nella seconda metà dell'anno gli sviluppi politici avevano eclissato l'azione in campo economico. Sotto l'incalzare degli eventi, diventa improprio parlare di una politica economica sovietica. La dissoluzione dell'URSS nel corso del 1991 fu segnata dal susseguirsi delle dichiarazioni di indipendenza delle ex repubbliche, a partire da quelle baltiche e dalla Georgia, e dalla progressiva esautorazione delle funzioni politiche ed economiche dell'Unione. Avvenne così che, mentre si ampliava la polemica sui rapporti tra la Russia e le altre unità politiche e si instauravano quote commerciali negli scambi intraregionali, non solo si manifestarono forti resistenze ad accettare direttive economiche comuni (il piano anticrisi fu respinto e furono adottate politiche monetarie divergenti), ma i nuovi stati avocarono a sé le principali risorse finanziarie dell'URSS (in particolare le entrate derivanti dal petrolio) e misero in forse l'approvazione stessa del bilancio dell'Unione, privandola di mezzi e di certezza. Nell'agosto 1991 il colpo di stato per destituire Gorbačëv fallì, ma ottenne comunque uno dei suoi obiettivi: evitare la firma del trattato che avrebbe dovuto mantenere, sia pure modificata, l'Unione Sovietica. Il Consiglio dell'URSS, prima di procedere all'autoscioglimento, ritirò al suo presidente i poteri speciali in materia economica che gli aveva affidato per completare le riforme e affrontare la crisi dell'economia. Quando nel dicembre 1991 l'Unione Sovietica venne liquidata formalmente (con effetto dal 1° gennaio 1992), i suoi organismi di politica economica avevano, di fatto, già cessato di esistere.

Bibl.: FMI, USSR, in Economic Review, anni vari; Economic Commission for Europe (ONU, Ginevra), Economic survey of Europe, New York anni vari (in particolare 1990 e 1991); Commissione delle Comunità Europee, Stabilisation, libéralisation et dévolution de compétences. Evaluation de la situation économique et du processus de réforme en Union Soviétique, in Economie Européenne, 45 (dicembre 1990); FMI, BM, OCSE, BERS, A study of the Soviet economy, Parigi 1991; EIU (The Economist Intelligence Unit), USSR - Country report, 1-4, Londra 1991; FMI, The economy of the former USSR, in Economic Review, 1992; Plan Econ, Review and outlook for the former Soviet Republics, Washington 1992.

Storia. - Gli anni del declino: da Brežnev a Černenko. - Alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta l'aggravarsi, nella fase finale della gestione di L. Brežnev, della situazione economica (in connessione anche con le difficoltà che in quello stesso periodo caratterizzavano l'economia mondiale) acquistò via via nell'Unione Sovietica l'aspetto di una crisi che investiva i principali indici produttivi, mutandone i segni e i meccanismi stessi del sistema autoritario, assumendo aspetti sempre più chiaramente politici. Prendeva il via così un processo che doveva portare dieci anni dopo allo sgretolamento e alla scomparsa dell'URSS − e cioè di quella che era stata la seconda potenza mondiale e una delle più grandi protagoniste delle vicende del 20° secolo − come stato unitario e come espressione di una particolare e specifica forma di organizzazione della società e dell'economia, quella appunto detta del ''socialismo sovietico''.

Seppure non riconosciuto esplicitamente, appariva chiaro, dagli stessi dati forniti dal 26° Congresso del PCUS (Mosca, 24 febbraio-2 marzo 1981), che si fosse di fronte a una crisi non già congiunturale o ciclica, ma, per molti aspetti, generale. Da questi dati, per es., si poteva desumere che i tassi medi di crescita erano passati nel decennio 1970-80 dall'8,1% del primo biennio al 3,9% dell'ultimo per quel che riguardava la produzione industriale, e dal 4,4% allo 0,2%, sempre in riferimento agli stessi periodi, per quella agricola. Cadute altrettanto gravi si erano avute negli stessi anni negli indici riguardanti il prodotto nazionale lordo (dal 6,9% del 1970-73 al 3,6% del 1978-80), la parte di reddito destinata ai consumi e all'accumulazione (dal 5,5% al 3,4%), gli investimenti (dal 7,4% al 2,6%) e ancora il commercio al minuto (dal 7% al 4,5%). A rendere ancora più preoccupante la situazione vi era il fatto che cadute altrettanto gravi si riscontravano contemporaneamente anche nei paesi alleati dell'Europa centrale e orientale, e in più di un caso (Polonia, Ungheria) erano ancor più negative, anche perché accompagnate da un vistoso aumento dell'indebitamento con l'estero. I dati più significativi erano quelli del 1979, che aveva visto profilarsi nell'insieme dei paesi del COMECON non soltanto l'arresto della fase di espansione che aveva sino allora caratterizzato − seppure con le sperequazioni fra industria e agricoltura e fra settore e settore che dovevano in seguito determinare situazioni tanto gravi − l'economia dell'Unione Sovietica e dei paesi del ''campo'', ma il determinarsi di una generalizzata crescita zero. L'aprirsi nel 1980, con gli scioperi nei cantieri del Baltico e la nascita di Solidarność, della crisi polacca, mise in luce che si era in presenza, e in punti certamente non secondari del sistema internazionale del socialismo sovietico, di minacce alla stabilità stessa degli ordinamenti sociali e dei regimi politici.

Seppure per quel che riguardava l'URSS si potesse ancora parlare, in riferimento al regime socio-politico, di stabilità e di tenuta, l'arresto, dopo quella chruščëviana, della pur modesta politica di riforme economiche avviata nei primi anni della gestione Brežnev (1965-69), accentuò, oltre alle tradizionali contraddizioni interne presenti da sempre nell'economia sovietica (fra industria e agricoltura; fra i settori dell'industria pesante e dell'industria leggera; fra quantità e qualità della produzione), una contraddizione nuova e sempre meno tollerabile, che nasceva dal contrasto tra l'ampiezza raggiunta dal complesso produttivo di un paese che nello stesso periodo vedeva consolidate le sue posizioni di seconda potenza mondiale − con la complessità dei problemi che ne derivavano − e il permanere di strutture, di politiche e di metodi di direzione e di gestione (quelli dell'''economia di comando'' e della centralizzazione burocratica e autoritaria) rimasti sostanzialmente inalterati dagli anni della prima industrializzazione. Fra i fenomeni provocati dall'insorgere della nuova contraddizione, va segnalato (anche perché contribuì non soltanto a impedire che la caduta degli indici dell'economia nazionale si traducesse in abbassamenti insopportabili del livello di vita della popolazione, ma anche a compensare almeno in parte gli stessi squilibri fra settore e settore che si erano andati progressivamente allargando) quello relativo al ruolo crescente assunto dalla ''seconda economia'', specie riguardo ai servizi nonché alla produzione e alla distribuzione di prodotti agricoli nelle grandi città. L'estendersi del fenomeno del ''mercato nero'' e della corruzione penetrò sempre più profondamente all'interno dello stesso sistema economico statale e determinò dislivelli sempre più gravi nelle condizioni di vita fra i vari gruppi sociali e in particolare fra le grandi masse popolari e le burocrazie del partito e dello stato.

Né i fenomeni involutivi qui indicati si manifestarono soltanto nel campo dell'economia e della politica economica. Nella politica interna la linea della ''stagnazione'' (parola che definisce l'ultimo periodo di L. Brežnev, entrata tuttavia nel lessico sovietico soltanto con M.S. Gorbačëv nel 1985) si concretizzò anzitutto con l'accentuarsi di una politica legislativa che, dopo aver abbandonato i propositi riformistici della fase iniziale, finì per assumere, soprattutto dopo la promulgazione nell'ottobre 1977 della nuova Costituzione, il carattere di una sempre più netta ed esplicita codificazione formale delle strutture e dei metodi di direzione sopravvissuti dagli anni di Stalin. Questo per quel che riguarda in particolare la definizione dei poteri del partito (il cui ruolo dirigente venne promosso a principio giuridico nella nuova Costituzione), il ruolo dei Soviet centrali e locali e la politica verso le nazionalità non russe (alle quali in nome di una linea che privilegiava il ruolo della storia, della cultura, della lingua del popolo russo, ''fratello maggiore'' − si disse − di tutti i popoli dell'URSS, vennero di fatto ridotti gli spazi di autonomia e di autogoverno sino ad allora concessi). Fra le strutture del potere e la società si venne a creare così una contraddizione parallela rispetto a quella prima indicata fra le politiche di gestione e di direzione dell'economia e le esigenze sorte dal complesso produttivo. Da una parte una società, cresciuta economicamente e culturalmente e resa sempre più complessa dalla presenza al suo interno di interessi, e dunque di spinte e di aggregazioni diverse, operava per vedersi riconosciuti quegli spazi di libertà e di autonomia che erano divenuti indispensabili anche soltanto per il mantenimento dei livelli raggiunti. Dall'altra, le forme, le strutture e gli uomini della direzione burocratico-amministrativa assumevano, per difendere l'antico ordine (e con esso anche i poteri e i privilegi di casta che ne derivavano), caratteri sempre più repressivi e autoritari. Da qui anche l'aprirsi di un contrasto sempre più forte fra il partito e quelle forze − economisti, tecnici, ricercatori − che erano state chiamate, nel nome di una ''rivoluzione tecnico-scientifica'' che tutti dicevano di auspicare, a partecipare come protagoniste all'attuazione del nuovo meccanismo delle decisioni previsto dalle riforme annunciate.

In questo quadro può essere collocato il vero e proprio esplodere, nella seconda metà degli anni Settanta, del fenomeno del dissenso. Il movimento, che non giunse mai a coinvolgere, se non marginalmente e limitatamente ad alcune aree e a qualche gruppo nazionale (i Tartari di Crimea, per es., che allontanati da Stalin durante la guerra con l'infamante accusa di aver appoggiato l'invasore tedesco chiedevano di rientrare nei luoghi di origine, e, dalla ''guerra dei sei giorni'' in poi, gli ebrei sparsi un poco ovunque nel paese), strati popolari di una certa ampiezza, rimanendo sostanzialmente limitato all'intelligencija, venne di fatto emarginato. Esso però rappresentava indubbiamente la prima e corposa testimonianza dell'ampiezza e insieme della qualità nuova della contraddizione che si era aperta fra il potere e la società. E questo non soltanto perché protagonisti del dissenso erano alcune delle più prestigiose figure della cultura del paese (dagli scrittori A. Solženicyn, V. Nekrasov e A. Sinjavskij, al fisico A. Sacharov, allo scultore E. Nesvestnij, al poeta I. Brodskij), ma perché i temi e gli obiettivi attorno ai quali sorsero le prime aggregazioni (il riconoscimento del pluralismo, l'abolizione della censura, la critica radicale dello stalinismo, la riforma economica) non erano diversi da quelli che si stavano formando attorno a varie riviste ''ufficiali'', in numerosi istituti scientifici e anche all'interno del PCUS, tra uomini e gruppi che dovevano diventare nel decennio successivo i protagonisti della perestrojka. Contro il dissenso, e al di là di esso contro tutto ciò che si muoveva nel paese per rivendicare politiche di riforma, il potere scelse la strada della repressione, per cui i protagonisti del movimento vennero processati, condannati spesso a lunghe pene di segregazione nelle carceri e nei campi del Gulag, e in più di un caso nelle cliniche psichiatriche, oppure privati della cittadinanza sovietica ed espulsi dal paese. E questa linea, in nome della difesa delle cosiddette ''leggi oggettive del socialismo'', o meglio del ''socialismo reale'' (o ''realizzato'', o ''sviluppato''), venne propugnata e perseguita, così com'era stato fatto nei confronti della Cecoslovacchia della ''primavera di Praga'', anche nei paesi alleati dell'Est europeo con pressioni politiche, economiche e militari (si veda per es. l'uso intimidatorio delle manovre militari in Polonia nel 1980-81) per imporre la più stretta ''disciplina di campo'' e per bloccare le spinte riformatrici e centrifughe che continuavano a manifestarsi.

Così, durante la crisi polacca del 1980-81, minacciando, come dirà esplicitamente il generale W. Jaruzelski, interventi militari diretti e utilizzando i metodi delle pressioni e dei ricatti politici ed economici, durante i vari incontri polacco-sovietici di quel periodo (a Mosca il 30 ottobre, il 5 dicembre 1980, il 4 marzo 1981; a Varsavia il 3 luglio 1981; in Crimea il 14 agosto 1981) nonché agendo attraverso i gruppi prosovietici presenti a Varsavia all'interno del partito e dell'apparato dello stato, si operò perché il processo di riforme venisse bloccato. Il risultato venne raggiunto nel dicembre 1981 con l'istaurazione, da parte delle stesse autorità polacche, dello stato d'assedio e l'assunzione del potere da parte della giunta militare di Jaruzelski. La necessità, in cui successivamente l'URSS venne a trovarsi, di sostenere sulle proprie spalle anche sul piano economico la linea della ''normalizzazione'' imposta a Varsavia (nel momento in cui gli Stati Uniti decidevano sanzioni economiche nei confronti della Polonia) non poteva avere però che conseguenze negative sulla stessa, già provata, economia sovietica.

A rendere pesante e per certi aspetti sempre meno sopportabile la situazione vi fu poi il fatto che nello stesso momento in cui la crisi economica e politica si manifestava con tanta evidenza sia nell'URSS che nel complesso dei paesi del Patto di Varsavia, l'URSS, che aveva ormai raggiunto con gli Stati Uniti la parità strategica, si trovava a dover gestire il ruolo conquistato di grande potenza globale. Nello stesso periodo infatti negli Stati Uniti − che uscivano dalla crisi del Vietnam − prendeva piede, creando crescenti preoccupazioni a Mosca (ma anche ostacoli all'interno sia degli USA che dell'Alleanza Atlantica), la tendenza a utilizzare le difficoltà sovietiche per tentare di conseguire nei confronti della potenza rivale quel mutamento nei rapporti di forza da tanto tempo auspicato e perseguito senza visibili successi.

Per far fronte alla situazione sempre più pesante e difficile, l'URSS attenuava progressivamente l'uso degli strumenti della politica, quelli che, in particolare, avevano contribuito a portare soltanto pochi anni prima, nel marzo 1975, alla firma a Helsinki dell'Atto conclusivo della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, e alla firma nell'agosto 1979 da parte di Brežnev e del presidente statunitense J. Carter dell'accordo SALT 2 sulla limitazione delle armi strategiche.

L'URSS, che vedeva le sue posizioni indebolirsi oltreché in Europa e nell'Asia anche, e soprattutto, nel Medio Oriente (nel luglio 1974 fu decretata da A. al-Sādāt l'espulsione degli ultimi consiglieri militari sovietici), finì per imboccare una linea insieme di chiusura entro la vecchia logica di ''campo'' e di esibizione della forza. All'immobilismo della politica interna faceva sempre più riscontro così, nel tentativo di nascondere e salvaguardare la più generale tendenza all'arroccamento, un forte dinamismo nella politica estera che in più di un'occasione si traduceva in un fattore di grave turbativa e di aggravamento di una situazione internazionale già percorsa − dal Medio Oriente al Golfo Arabico, al Corno d'Africa equatoriale, all'America Centrale, al Sud-Est asiatico − da pericolose crisi regionali.

Particolarmente significativa fu l'iniziativa dispiegata, con l'aiuto soprattutto di Cuba, per sostenere in Etiopia il regime di Mangestù Haylamāryām (compensando così in parte la perdita di controllo sulla Somalia di Siad Barre), nonché, nel Mozambico e nell'Angola, il FRELIMO e il Movimento popolare di liberazione nella lotta contro i raggruppamenti sostenuti dal Sud Africa. Obiettivo dell'URSS − che contemporaneamente operava nel Sud-Est asiatico per appoggiare in funzione a un tempo antiamericana e anticinese il Vietnam, e il ''ruolo di guida'' che questo tendeva a esercitare nei confronti del Laos e della Cambogia − era quello di dar vita, attraverso una serie di patti bilaterali e multilaterali con i paesi definiti ''di orientamento socialista'' dell'Asia, dell'Africa e dell'America latina, a un vero e proprio ''campo'' non diverso da quello che era sorto in Europa col Patto di Varsavia. Furono però l'intervento militare nell'Afghānistān del dicembre 1979 per sostenere il sanguinoso colpo militare di B. Karmal e della sua fazione contro il presidente H. Amin, allo scopo di garantire il potere a un governo amico e alleato; le pressioni esercitate, come già si è detto, l'anno successivo perché i dirigenti polacchi prendessero "misure energiche e radicali" contro Solidarność (Dichiarazione del governo sovietico del 14 settembre 1981), e prima ancora, la decisione di collocare a partire dal 1977 nell'Europa centrale e orientale i missili SS20, così da modificare a proprio favore i rapporti di forza in Europa, a rappresentare i punti più importanti e significativi della ''politica di presenza'' portata avanti dall'URSS di Brežnev anche − come si disse − con momenti di "arroccamento espansionistico".

Gravi per l'URSS e per la sua immagine nel mondo sono stati i risultati cui questa politica ha portato. Così per es. l'intervento nell'Afghānistān non solo determinò un aggravamento nelle relazioni con gli Stati Uniti (che in ritorsione all'intervento sovietico respinsero la proposta avanzata da Brežnev di un vertice URSS-USA in occasione dell'insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente R. Reagan, e giunsero poi a decretare il sabotaggio delle Olimpiadi di Mosca nel luglio 1980 e a proclamare l'embargo nelle esportazioni di cereali), ma ebbe conseguenze gravi anche nelle relazioni fra l'URSS e i paesi del Terzo Mondo, come si vide all'ONU il 14 gennaio 1980 quando l'URSS fu condannata con 100 voti contro 18. A Brežnev è possibile far risalire invece i primi segni di apertura verso la Cina (discorso di Taškent del 24 marzo 1982) che si sarebbero poi concretizzati con Gorbačëv, e ancora, in occasione per es. del suo ultimo viaggio all'estero (quello a Bonn del novembre 1981), qualche formulazione nuova riguardo alle trattative per il disarmo, con la dichiarazione in particolare sulla disponibilità sovietica a una riduzione unilaterale degli armamenti nucleari a media gittata collocati in Europa, qualora però i paesi dell'Alleanza Atlantica avessero accettato la moratoria precedentemente proposta. La linea della ''stagnazione'' all'interno e quella dell'''arroccamento espansionistico'' nella politica estera si rifletterono nell'immobilismo più marcato del gruppo dirigente. All'interno dell'Ufficio politico vi fu tuttavia, dopo la liquidazione della ''direzione collegiale'' − con la riduzione del ruolo del presidente del Consiglio A. Kosygin (che nell'ottobre 1980 verrà sostituito con N. Tichonov) e l'assunzione da parte del segretario generale del partito, dopo l'allontanamento di N. Podgornyj nel giugno 1977, dell'incarico di presidente del Soviet Supremo −, un aumento del potere di Brežnev accompagnato persino da episodi che hanno fatto parlare di un parziale ritorno a manifestazioni di ''culto della personalità''.

Espressione e manifestazione di ciò fu anche il progressivo formarsi e affermarsi, in vari punti chiave, degli uomini del cosiddetto ''gruppo di Dniepropetrovsk'' (dal nome della città ucraina ove il segretario generale del partito aveva iniziato la sua vita politica) nonché di alcuni fra i più stretti congiunti dello stesso Brežnev (lo si saprà quando, durante la successiva gestione di J.V. Andropov, s'incomincerà a parlare di fenomeni di nepotismo). Ma così intoccabili erano divenuti gli equilibri interni (lo stesso Brežnev, seppure colpito da una malattia che lo costringeva a prolungate assenze e a un'attività sempre più ridotta, era divenuto però il tassello fondamentale dell'equilibrio sempre più precario su cui si reggeva il gruppo dirigente ed era dunque intoccabile) che occorsero cinque mesi per sostituire M. Suslov, responsabile del settore ideologico, morto nel gennaio 1982, con Andropov.

L'ultimo anno della gestione Brežnev, il 1982, si aprì con un ulteriore aggravamento della situazione agricola e alimentare divenuta da tempo − per usare le parole di Brežnev − una "grave questione politica". Dopo la morte di Brežnev (11 novembre 1982) l'elezione del sessantanovenne J. Andropov (l'altro candidato alla segreteria, all'interno di un Ufficio politico i cui membri avevano raggiunto l'età media di 70 anni, era il settantunenne K. Černenko) venne accolta come il segno del profilarsi di una tendenza nuova.

Di fatto la prima dichiarazione del nuovo segretario generale del PCUS (che dal 1967 al maggio 1982 era stato alla testa del KGB) sulla necessità di avviare "esperienze nuove" e di "creare condizioni economiche e organizzative tali da favorire il miglioramento della qualità del lavoro e della produzione, lo spirito di iniziativa, di indipendenza e di responsabilità dei quadri", e i suoi primi atti (la rimozione di vari dirigenti − i ministri degli Interni, del Commercio, dei Trasporti e dell'Industria delle macchine pesanti − nell'ambito di una campagna contro la corruzione che doveva successivamente coinvolgere uomini dell'entourage di Brežnev) suscitarono non poche speranze e attese. Esse andarono sostanzialmente deluse sia per i limiti del riformismo di Andropov (andato non oltre qualche mutamento di facciata e di stile e accompagnato per giunta dall'avvio di campagne −come quella per l'incremento della disciplina e contro l'assenteismo − non soltanto di scarsa incidenza ma per molti aspetti non troppo popolari), sia soprattutto per il fatto che nell'estate del 1983 il nuovo segretario generale del PCUS − che a giugno era stato eletto anche presidente del Soviet Supremo − era già tanto gravemente ammalato da non poter adempiere con continuità ai suoi compiti.

In politica estera toccò ad Andropov − che pure aveva avviato una prima iniziativa di distensione proponendo agli Stati Uniti un ritorno agli equilibri missilistici del 1977 − gestire un'improvvisa e dura fase di confronto con Reagan, aggravata dall'acuirsi delle situazioni di crisi presenti in varie aree (Medio Oriente, Africa australe, America centrale). La nuova fase di tensione con gli Stati Uniti ebbe i suoi momenti più gravi dapprima con la crisi seguita all'abbattimento da parte di un caccia sovietico, il 31 agosto 1983, di un aereo di linea sudcoreano che aveva oltrepassato illegalmente le frontiere dell'URSS, e poi con la rottura, operata dall'URSS, dei negoziati di Ginevra dopo la decisione presa dai governi dell'Europa occidentale, anche a causa delle condizioni pregiudiziali sovietiche, d'installare nelle basi della NATO i missili statunitensi Pershing 2 e Cruise in risposta agli SS20 sovietici.

Quando scomparve Andropov (9 febbraio 1984), alla pesante eredità delle situazioni di crisi venute alla luce, come si è detto, negli anni di Brežnev, si venne ad aggiungere dunque una rottura di notevole gravità con gli Stati Uniti, coi conseguenti costi economici e politici. Bloccando, come poi si è saputo, l'ascesa di Gorbačëv (che era diventato il più stretto collaboratore di Andropov), la maggioranza ancora brežneviana del Comitato centrale elesse a segretario generale del partito, su proposta di N. Tichonov, K. Černenko. Settantatreenne, già malato, del tutto privo di esperienze di direzione importanti, Černenko, che sarebbe morto soltanto un anno dopo, non ebbe neppure il tempo per tentare di restaurare, almeno in parte, quel che del ''brežnevismo'' Andropov aveva intaccato. La crisi e la consapevolezza della gravità, seppure non ancora della natura, della crisi avevano ormai raggiunto livelli tali da rendere inevitabili scelte nuove.

Non a caso già nella prima riunione del Comitato centrale del partito della gestione Černenko venne nominata una commissione incaricata di preparare un nuovo ''programma'' del PCUS in sostituzione di quello, considerato del tutto inadeguato, di Chruščëv, mentre nel successivo mese di aprile fu varata una ''piccola riforma'' dei Soviet. Un sintomo di novità si riscontrò anche, per quel che riguarda la politica estera, nel successo della missione a Londra di Gorbačëv (dicembre 1984), seppure essa fosse avvenuta nel contesto di una situazione che continuava a essere dominata dalla rottura del dialogo fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica (che nel maggio 1984 aveva proclamato il boicottaggio delle Olimpiadi di Los Angeles).

Gorbačëv e la perestrojka: la dissoluzione del sistema sovietico. -Fu in quel periodo che all'interno del gruppo dirigente si giunse a un nuovo equilibrio, per cui alla morte di Černenko (10 marzo 1985) fu lo stesso A. Gromyko a proporre che alla testa del partito venisse eletto M. Gorbačëv. Si trattava di una scelta chiara in direzione di quel che allora veniva chiamato ''rinnovamento''. "Così non si può più vivere. È tutto marcio", era la conclusione alla quale Gorbačëv era giunto, insieme a pochi altri, che poi troveremo al suo fianco tra i protagonisti della perestrojka, quando era ancora responsabile per i problemi agricoli nella segreteria di Brežnev. Tuttavia pochi all'interno del più ristretto gruppo dirigente conoscevano la portata degli obiettivi che il ''nuovo corso'' si prefiggeva di conseguire, attraverso un programma di riforme, ritenuto allora di sicura efficacia, ma che doveva rivelarsi del tutto inadeguato. La glasnost' ("trasparenza" come avvio della democratizzazione), la perestrojka ("ristrutturazione" nel senso di riforma radicale sia dei metodi di direzione che delle strutture) e −per quel che riguarda la politica estera − la novoe myslenie (il "nuovo modo di pensare", e cioè un approccio ai problemi della pace e della guerra coerente coi problemi e coi pericoli dell'era nucleare) erano gli elementi costitutivi della nuova politica.

Seppure lo stesso Gorbačëv, destando uno straordinario interesse e suscitando speranze nelle fila del dissenso, parlasse subito (Plenum del CC del PCUS del 23-24 aprile 1985, discorso all'Istituto Smolny di Leningrado del 17 maggio, intervento alla Conferenza di Mosca sulla scienza e sulla tecnologia dell'11 luglio) della necessità d'introdurre profondi mutamenti, sia pure, in quella prima fase, limitatamente al campo dell'economia, fu soltanto nell'anno successivo, al 27° Congresso del partito (25 febbraio-6 marzo 1986), che, in modo ancora vago e contraddittorio, la perestrojka incominciò ad assumere il significato di riforma del sistema politico oltreché di quello economico. Sino a quel momento infatti gli interventi della nuova gestione si erano sostanzialmente mossi, sia pure in forma più radicale − si vedano i provvedimenti contro l'alcolismo e quelli per migliorare la disciplina del lavoro e per combattere la corruzione − sul terreno della campagna moralizzatrice di Andropov. Già nel primo anno si verificarono però mutamenti visibili per quel che riguarda la stampa (divenuta più libera) e la vita culturale, ed ebbero luogo significativi cambiamenti all'interno del gruppo dirigente (con l'ingresso nell'Ufficio politico, nell'aprile, di V. Čebrikov, E. Ligačëv e N. Rizhov, quest'ultimo nominato primo ministro a settembre in sostituzione di Tichonov) che determinarono tra l'altro l'allontanamento a luglio di G. Romanov e la sostituzione al ministero degli Esteri di Gromyko, eletto presidente del Soviet Supremo, col georgiano E. Shevardnadze.

Questi mutamenti colpivano pesantemente il gruppo dei brežneviani, raggiunti anche da una serie di processi penali, pur rappresentando essi ancora, e non solo formalmente, la maggioranza del Comitato centrale del partito. Del resto allo stesso 27° Congresso del PCUS, a conclusione del quale entrarono nella segreteria A. Dobrinin e A. Jakovlev, anche se venne approvato, oltre al ''nuovo programma'' (sostanzialmente redatto però da una commissione che aveva lavorato negli anni precedenti), un documento sugli "orientamenti fondamentali dello sviluppo economico e sociale sino all'anno 2000", ricco di spunti critici sul passato e di propositi riformatori, la questione della natura dei mutamenti da introdurre rimase ancora sostanzialmente nel vago. Si parlava di un ''ritorno a Lenin'', e più precisamente al Lenin della Nuova Politica Economica (NEP) che ponendo fine al ''comunismo di guerra'' aveva proposto una ''via al socialismo'' aperta anche a forme di pluralismo economico.

Nei mesi successivi, funestati dal tragico incidente alla centrale nucleare di Černobyl (26 aprile 1986), gli elementi di novità del nuovo corso incominciarono però a venire alla luce con una serie di atti significativi: i decreti sull'aumento del potere degli organismi regionali rispetto a quelli centrali, sull'aumento dei prezzi agricoli, e soprattutto sull'aumento, sia pur limitato, dello spazio messo a disposizione delle attività individuali (per cui alla fine dell'anno incominciavano a sorgere le prime cooperative nel settore dei servizi). Nella sostanza, però, al centro dell'iniziativa rimaneva una linea ancora sostanzialmente moralizzatrice per cui, per es., si prendeva atto dell'importanza, e del ruolo, della ''seconda economia'' (e da più parti si vedeva in essa la testimonianza del fatto che, seppure negate e compresse, le leggi economiche avevano continuato e continuavano a operare); ma ci si limitava − in nome della lotta alla corruzione − a colpire con durezza il ''lavoro nero'' e la ''borsa nera'', prevalentemente a livello di base (anche se in qualche caso, come in Uzbekistan, Georgia e Azerbaigian, vennero raggiunti i vertici dei gruppi mafiosi), determinando un aggravamento dell'approvvigionamento che si fece sentire soprattutto nelle grandi città. Le condizioni di vita diventarono quindi gravi per milioni di famiglie. I lavoratori delle grandi imprese e delle miniere dell'Ucraina e della Siberia riuscirono, anche facendo ricorso a proteste e a scioperi, a salvaguardare i livelli di salario e di occupazione. Diversamente però andarono le cose per i pensionati e per i giovani in attesa del primo impiego.

In quello stesso periodo assai significativi, seppure solo parzialmente accompagnati da provvedimenti legislativi tali da fornire adeguate garanzie per il futuro, furono i passi compiuti dal processo di democratizzazione con la nascita dei primi club informali indipendenti e con l'acquisizione da parte delle vecchie Unioni professionali (degli scrittori, dei cineasti, dei musicisti, ecc.) di un'accresciuta autonomia. L'anno si chiuse però con i sanguinosi incidenti di Alma-Ata che videro le forze armate reprimere violentemente la protesta della popolazione della capitale del Kazakistan scesa nelle strade contro un provvedimento (la sostituzione di un dirigente kazako con uno di nazionalità russa alla testa del Partito comunista di quella repubblica) interpretato come una conferma della vecchia linea della subordinazione dei poteri repubblicani al potere centrale detenuto dai Russi. In realtà all'origine degli incidenti c'erano, oltre a quelle ''nazionali'', anche motivazioni d'altro tipo (quel che si era voluto colpire nel dirigente allontanato erano stati anche i suoi legami con la mafia locale). In ogni caso i ''fatti'' di Alma-Ata aprirono la via al progressivo esplodere dal Baltico al mar Nero, accanto alla questione politica e a quella sociale, delle varie ''questioni nazionali'' che le scelte di Stalin dapprima, e poi quelle di Brežnev, avevano non soltanto lasciate irrisolte ma esasperate, e non potevano che essere interpretati, contro le valutazioni ottimistiche che allora circolavano soprattutto al di là delle frontiere dell'URSS, come un segno della gravità della crisi e delle difficoltà che stavano di fronte alla perestrojka.

Incominciò così a palesarsi una contraddizione che negli anni successivi doveva portare a prove drammatiche e a esiti tanto gravi e definitivi: quella fra la straordinaria varietà e diversità delle forze, economiche, sociali, culturali che grazie alla perestrojka stavano venendo alla luce presentando le loro richieste e le loro proteste, e la pressoché assoluta mancanza di strumenti legislativi concretamente utilizzabili per garantire, con la difesa degli interessi delle varie forze sociali, la sicurezza e la continuità della perestrojka come riforma radicale, seppure interna al sistema. Si ebbe così una serie di fatti clamorosi, come il ritorno a Mosca dalla città di Gor'kij, nel dicembre 1986, dopo sette anni di esilio e per iniziativa personale di Gorbačëv, del fisico A. Sacharov, subito seguito dalla liberazione di numerosi prigionieri politici e poi dalla riabilitazione (seppure in una prima fase soltanto giudiziaria e solo successivamente anche politica) di N. Bucharin e degli altri protagonisti dei grandi processi del 1937-38; le prime elezioni, il 2 giugno 1987, con candidature multiple; la pubblicazione di opere letterarie, incominciando dal Dottor Zivago di B. Pasternak, e l'uscita di film sino ad allora bloccati dalla censura. Tali eventi mutavano profondamente molti aspetti della vita quotidiana specie delle grandi città e l'immagine dell'URSS nel mondo, e colpivano il ruolo e il prestigio delle vecchie strutture dell'autoritarismo.

Sul piano delle riforme tuttavia non si andò al di là dei primi timidi passi iniziali, come per es. le leggi sulle ''aziende miste'' aperte al capitale straniero o quelle sulla responsabilità e dunque sulla punibilità dei funzionari dello stato. Questo per le debolezze politico-culturali degli uomini della perestrojka, ma anche perché le forze conservatrici e burocratiche incominciarono a riorganizzarsi e a preparare la rivincita sia all'interno del partito e delle strutture dello stato, sia dando vita a raggruppamenti di tipo moderato o di destra (come per es. Pamjat che, collegandosi anche ad ambienti del PCUS, raccoglieva i nazionalisti ''grandi russi''). Ai conservatori si contrapposero, sempre in primo luogo all'interno del PCUS, gruppi di radicali e di democratici che incominciarono a criticare le indecisioni e la ''tendenza ai compromessi'' di Gorbačëv. B. El'zin, che proprio per le sue qualità di ''capo popolo'' e di oppositore dichiarato dei gruppi burocratici era stato portato, per iniziativa dello stesso Gorbačëv, alla testa delle organizzazioni del PCUS di Mosca, divenne ben presto il capo riconosciuto dei gruppi radicali. Per superare le resistenze Gorbačëv, che più volte aveva minacciato di dimettersi, si rivolse direttamente all'opinione pubblica e operò all'interno del partito per tentare di rafforzare le sue posizioni. Nell'Ufficio politico entrarono così due sostenitori della perestrojka, A. Jakovlev e V. Nikonov. Tuttavia il continuo aggravarsi delle condizioni di vita della popolazione determinò nuovi grandi scioperi soprattutto fra i minatori della Siberia e dell'Ucraina e fece mancare a Gorbačëv i sostegni popolari di cui aveva bisogno.

Diversamente andarono le cose sin dall'inizio nella politica estera. Qui il ''nuovo corso'', alla cui base vi era anche un approccio del tutto nuovo ai problemi della sicurezza e delle relazioni fra gli stati, si era infatti assai rapidamente affermato pervenendo a risultati clamorosi e duraturi. Dopo due primi incontri, conclusisi apparentemente senza successo, col presidente degli Stati Uniti R. Reagan (Ginevra novembre 1985, Reykjavik ottobre 1986) e l'avvio di una prima serie di iniziative aventi l'esplicito obiettivo (dichiarazione del governo sovietico del 15 gennaio 1986) dell'eliminazione completa, attraverso tre successive fasi, di tutte le armi nucleari entro il 1999, l'iniziativa diplomatica sovietica si attuò, a partire dal 1987, come una vera e propria svolta radicale in tutte le direzioni. Nello spazio di pochi mesi si ebbe così un mutamento netto nelle relazioni con gli Stati Uniti che portò alla firma, alla fine dello stesso anno, degli accordi di Washington (poi ratificati durante la visita a Mosca di Reagan del maggio-giugno 1988) sulla distruzione di ordigni nucleari. Nei confronti dei paesi dell'Europa occidentale, l'iniziativa di Gorbačëv sui temi della ''casa comune europea'' e dello sviluppo del processo avviato con la Conferenza di Helsinki del 1975, si tradusse in un corso politico che doveva portare in pochi anni alla fine della ''guerra fredda''. Nello stesso periodo prese concretamente avvio la ricerca di una soluzione politica per il conflitto nell'Afghānistān, per cui si giungerà a partire dal 15 maggio 1988 al graduale ritiro delle truppe sovietiche dopo il raggiungimento a Ginevra di un accordo nell'aprile precedente. Vennero compiuti anche i primi passi per normalizzare le relazioni con il Vaticano e con Israele. L'iniziativa di Gorbačëv, incontrandosi col nuovo realismo politico statunitense che respinse la tentazione di utilizzare a proprio vantaggio le difficoltà sovietiche, permise di giungere rapidamente a decisivi mutamenti nella situazione internazionale. Le vecchie strutture politiche, economiche e militari della guerra fredda si trasformarono in strumenti di dialogo. Si parlò di ''nuova distensione'' e di ''fine dell'era del confronto''.

Forte dei successi ottenuti e della straordinaria popolarità conquistata in tutto il mondo, Gorbačëv tentò un rilancio della perestrojka all'interno del paese ponendo al centro la questione della riforma del sistema politico e cioè delle modifiche radicali da introdurre nel ruolo del PCUS. Il partito venne chiamato a rinunciare al ruolo di guida assegnatogli dalla Costituzione e a battersi, nello stesso momento però in cui si respingeva il pluripartitismo, per dar vita a uno ''stato socialista di diritto''. In tutti i casi la perestrojka veniva vista ancora come una ''rivoluzione nella rivoluzione'', diretta a liquidare le forme e i metodi dell'autoritarismo stalinista per recuperare, così si affermava, valori democratici e socialisti calpestati nei decenni precedenti. Invece molte forze all'interno dei sostenitori della perestrojka e dello stesso PCUS, soprattutto intellettuali, pensavano che si dovesse andare ben al di là di un ''ritorno a Lenin'' e mettevano in discussione le scelte compiute a partire dalla rivoluzione d'ottobre.

Seppure sforzandosi di evitare rotture gravi sia coi conservatori di E. Ligačëv, sia coi ''democratici'' (ma il contrasto con El'zin divenne irreparabile e portò all'allontanamento del popolare dirigente − divenuto così il capo dell'opposizione radicale − dalla direzione del partito di Mosca), Gorbačëv si mosse sulla linea della ''lotta sui due fronti''. Da una parte prese posizione contro i neostalinisti e i conservatori (il cui programma era contenuto nella Lettera di un'insegnante di Leningrado pubblicata per iniziativa di Ligačëv su un giornale di Mosca) e dall'altra contro gli ''estremisti radicali''. Solo dopo il ''crollo'', Gorbačëv incomincerà a riconoscere l'errore compiuto nel non aver cercato un contatto più stretto con i radicali. Di fatto egli continuò a puntare allora sul partito con la convinzione, o la speranza, che esso potesse diventare uno strumento valido per portare avanti la battaglia per la perestrojka e la democratizzazione. La Conferenza interrepubblicana del PCUS (giugno 1988) si concluse, così almeno parve allora, con un successo di Gorbačëv e dei sostenitori del nuovo corso. Le tesi sul ridimensionamento del ruolo del partito vennero approvate con formulazioni che, pur innovative, dovevano rivelarsi però del tutto insufficienti perché dirette a salvaguardare di fatto il principio del monopartitismo seppure in una società ormai esplicitamente basata sul riconoscimento del pluralismo degli interessi e delle idee.

Grazie ai nuovi equilibri che si erano venuti a creare, ma anche utilizzando pressioni di vario tipo tra le quali − probabilmente − il sostegno accordatogli dai militari, Gorbačëv riuscì, nel settembre 1988, a modificare ancora una volta, e a suo favore, la composizione del gruppo dirigente inserendovi alcuni uomini nuovi (V. Medvedev, A. Lukianov, A. Birjukova, A. Vlasov) in sostituzione di A. Gromyko, M. Solomenčev, V. Dolgich e P. Demicev, e riducendo il ruolo di Ligačëv, che da ''numero due'' passò a dirigere l'ufficio del partito per l'agricoltura. In realtà non riuscì però a far decollare la perestrojka come riforma radicale. Mentre tensioni e conflitti interetnici continuavano a manifestarsi in varie repubbliche (Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia), i vari Fronti nazionali che erano nati acquistarono basi di massa e fecero proprie parole d'ordine sempre più chiaramente di tipo separatista. Quel che mancò fu soprattutto un progetto per una riforma dello stato unitario, in grado di far fronte alle spinte disgregatrici. Si parlava di trasformare l'Unione in una Federazione o in una Confederazione di stati indipendenti, se non in una sorta di Commonwealth, ma di fatto i conservatori annidati nelle strutture del partito-stato impedivano ogni concreto avvio della riforma. Lo stesso Gorbačëv, del resto, pensava ancora (e il suo atteggiamento non muterà neppure dopo il golpe dell'agosto 1991) che l'Unione potesse sopravvivere al crollo del sistema politico-sociale.

Così i conflitti interetnici divennero sempre più gravi. Al confronto fra l'Armenia (che il 7 dicembre 1988 venne colpita da un terremoto che provocò migliaia di vittime) e l'Azerbaigian per il Nagorno-Karabah (un territorio abitato in maggioranza da Armeni cattolici, inserito nell'Azerbaigian in seguito a un accordo del 1923 fra l'URSS e la Turchia) si aggiunsero i contrasti esplosi nella Georgia (la repubblica georgiana rivendicava l'indipendenza da Mosca, e le popolazioni della regione autonoma dell'Abkhasia e dell'Ossezia del Sud chiedevano l'una la separazione e l'altra l'annessione all'Ossezia del Nord, confinante ma appartenente alla giurisdizione russa). Contemporaneamente nell'Estonia, nella Lettonia e nella Lituania, i Fronti nazionali, attraverso grandi manifestazioni popolari, proclamarono illegittima, perché avvenuta in seguito all'accordo Molotov-Ribbentrop del 1939, l'annessione all'URSS delle tre repubbliche baltiche e nulli i referendum tenutisi successivamente sulla materia, e si pronunciarono per la piena indipendenza dei loro paesi.

Dalle rive del Baltico a quelle del Mar Nero e del Caspio − mentre movimenti nazionalistici apparivano anche in Ucraina, in Bielorussia e nella Moldavia − si presentava così concretamente il pericolo della disgregazione dello stato unitario. E questo mentre al di là delle frontiere dell'URSS, a partire dalle prime settimane del 1989, una serie di clamorosi avvenimenti portava in rapida successione tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale − sotto le spinte anche della perestrojka sovietica, oltreché per l'acuirsi delle crisi interne e delle pressioni delle opinioni pubbliche e dei movimenti di opposizione − a uscire dal sistema sovietico. I dirigenti dell'URSS, e del resto non solo essi, vennero colti di sorpresa dal carattere di radicale rottura col passato ben presto assunto dalle ''rivoluzioni del 1989''. Ancora nel luglio 1989, parlando a Strasburgo al Parlamento europeo, Gorbačëv non aveva manifestato dubbi sul fatto che in ogni caso i mutamenti allora in corso nei paesi dell'Europa centrale e orientale si sarebbero mantenuti pur sempre all'interno del sistema socialista. Quanto alla Repubblica democratica tedesca, l'idea che si fosse a pochi mesi dalla sua scomparsa dalla carta dell'Europa era a Mosca, come del resto nelle altre capitali, del tutto assente. Sino a quel momento l'URSS si era mossa per spingere i Partiti comunisti degli stati alleati del Patto di Varsavia verso l'adozione di politiche di riforma e poi per prendere, seppure cautamente, contatto con le nuove forze politiche che emergevano nei vari paesi, garantendo loro l'appoggio e la disponibilità verso una politica diretta ad affrontare attraverso la via delle trattative i problemi nuovi e delicati che stavano sorgendo all'interno della vecchia alleanza. Tali problemi andavano da quelli riguardanti la verifica degli accordi politici, economici e militari a quelli relativi a momenti e giudizi del passato e sul passato, e che venivano ora messi in discussione: per es. le ''fosse di Katyn'', l'intervento in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, il patto Molotov-Ribbentrop del 1939. Nello stesso 1989 divenne chiaro però che in tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale, indipendentemente dalla via attraverso cui la rivoluzione democratica si svolgeva (dialogo fra il potere centrale e l'opposizione, come in Polonia con la ''tavola rotonda'' seguita poi da elezioni relativamente libere, o sollevazioni popolari ora pacifiche come in Cecoslovacchia, ora violente e sospinte sino a esiti drammatici come in Romania), si andava comunque verso trasformazioni radicali del sistema economico, sociale e politico caratterizzate in primo luogo dalla conquista della piena indipendenza dall'URSS e dalla formazione di governi di coalizione. Quel che stava crollando era insomma il sistema internazionale del socialismo sovietico.

Del resto nella stessa URSS, nelle elezioni del 25 marzo 1989 per dar vita al nuovo Parlamento (il Congresso dei deputati del popolo), i candidati sostenuti dal PCUS, nonostante la presenza di una legge elettorale che avrebbe dovuto favorirli, uscirono seccamente sconfitti nelle principali città e in molte regioni. Per contro, grandi maggioranze si formarono attorno non soltanto ai candidati radicali di El'zin ma anche a uomini, come per es. il fisico Sacharov, che sostenevano la perestrojka opponendosi nel contempo nel modo più netto al PCUS. Mentre i deputati radicali, alla cui testa era El'zin, decidevano di dar vita a un gruppo autonomo e vari gruppi informali incominciavano ad acquistare, seppure con scarso seguito, le caratteristiche di partito politico, finì l'era del partito unico. La questione del ridimensionamento anche formale del ruolo del PCUS era ormai ineludibile. Di fatto, anche se la proposta dei deputati dell'opposizione per l'abolizione dell'art. 6 della Costituzione sul ''ruolo di guida'' del Partito comunista fu in una prima fase respinta dal Parlamento, nel febbraio 1990 lo stesso Comitato centrale del PCUS dichiarò la fine del monopolio del potere del partito unico.

Ormai però il processo di sgretolamento del sistema avanzava con ritmi implacabili. Il Partito comunista lituano proclamò la sua indipendenza dal PCUS il 29 dicembre 1989, e l'esempio venne seguito dai Partiti comunisti delle altre repubbliche baltiche (mentre i Partiti comunisti fedeli alla direzione centrale organizzarono separatamente i comunisti delle minoranze russe). Si aprì così all'interno del PCUS un complesso processo di trasformazioni che portò rapidamente, in connessione col dibattito preparatorio del 28° Congresso, alla nascita di correnti organizzate (Piattaforma democratica in primo luogo, dalla quale nascerà poi il Partito repubblicano).

Nei mesi che precedettero il Congresso (luglio 1990) la crisi della perestrojka e di Gorbačëv diventò ancora di più crisi di governabilità del potere centrale. Il ristagno delle politiche di riforma economica (di fronte ai nodi del mercato, della modifica del sistema dei prezzi, dello spazio da attribuire alla proprietà non statale) e l'acuirsi delle tensioni fra il centro e le varie repubbliche anche sui problemi della produzione e della distribuzione, contribuirono a rendere sempre più gravi le condizioni di vita soprattutto per quel che riguardava il problema alimentare. Scarsamente efficace si rivelò il ricorso agli ''aiuti'' e ai crediti dei paesi occidentali. Per far fronte alla situazione Gorbačëv tentò di rafforzare il suo potere personale sia nel paese, dando vita con vari provvedimenti, a partire dal marzo 1990, a un vero e proprio regime presidenziale, sia nel partito, che al 28° Congresso lo riconfermò a scrutinio segreto segretario generale. I risultati dell'operazione furono però nettamente deludenti. Gorbačëv fu contestato per la prima volta da una folla di manifestanti durante la sfilata del 1° maggio 1990. Il processo di separazione delle repubbliche proseguì mentre il governo centrale del primo ministro N. Ruzhkoj varava un piano per il passaggio graduale a un'economia di mercato regolato, che si arenò subito nell'indifferenza generale prima ancora che in una lunga serie di inconcludenti dibattiti parlamentari. Nel partito la ''vittoria'' di Gorbačëv era solo apparente. L'uscita dal PCUS di El'zin, resa nota alla fine del 28° Congresso, e di vari rappresentanti delle correnti democratiche, finì poi per rafforzare le posizioni dei conservatori. Di Gorbačëv s'incominciò a parlare come di un ostaggio nelle loro mani. Invano il presidente varò provvedimenti su provvedimenti per andare incontro alle richieste dei settori democratici: così in agosto con apposito decreto vennero riabilitate giuridicamente le vittime delle repressioni staliniane e venne restituita la cittadinanza sovietica ai protagonisti del ''dissenso'' esiliati dal 1966 in poi. Scarso peso continuò ad avere all'interno anche il vasto consenso che Gorbačëv − insignito nell'ottobre 1990 del premio Nobel per la pace dopo aver firmato a maggio a Washington nuovi accordi per il disarmo − continuava a ottenere a livello internazionale. In quel clima maturò anche la crisi fra Gorbačëv e i suoi più stretti collaboratori (A. Jakovlev, V. Bakatin, E. Shevardnadze) che uno dopo l'altro lasciarono i loro incarichi. Molti esponenti della perestrojka, come G. Popov e A. Sobčak, divenuti sindaci rispettivamente di Mosca e di Leningrado (che sarà ribattezzata San Pietroburgo con un referendum popolare), si schierarono con El'zin. Particolarmente grave per Gorbačëv fu la rottura con Shevardnadze, che abbandonò il ministero degli Esteri (dicembre 1990) parlando del pericolo di un'"avanzata della dittatura" e affermò di non essere stato difeso nel momento in cui i conservatori lo avevano accusato di aver "venduto il paese all'imperialismo".

L'attacco dei conservatori sulla politica estera, oltreché su quella interna, della perestrojka, si svolse mentre si apriva nel Golfo Arabico, in seguito all'occupazione del Kuwait da parte dell'῾Irāq, una crisi che sfociò in un intervento militare deciso dalla comunità internazionale per imporre a S. Ḥusayn il rispetto delle risoluzioni dell'ONU sul ritiro delle truppe. L'URSS, seppure tentando, ma senza successo, di utilizzare la sua influenza residua nell'area per far opera di mediazione così da scongiurare l'incombente conflitto, si schierò di fatto a fianco degli Stati Uniti. Quel che tuttavia venne sempre più chiaramente alla luce, dopo il crollo del sistema internazionale del Patto di Varsavia e l'aggravarsi della crisi interna, fu la netta riduzione del ruolo internazionale dell'URSS. Il 17 marzo 1991, il referendum sul mantenimento dell'Unione, sia pure ''riformata'', sulla base però di un modello non ancora definito, si concluse con la vittoria del ''sì''. Solo apparentemente si trattava di un successo per Gorbačëv. Sei repubbliche − l'Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Moldavia, la Georgia e l'Armenia − non avevano partecipato al voto, e altre −Ucraina e Bielorussia in primo luogo − si apprestavano a compiere passi decisivi verso la proclamazione dell'indipendenza. Nel maggio 1990, poi, El'zin, che da tempo chiedeva le dimissioni di Gorbačëv, era stato eletto presidente del Soviet supremo della Repubblica russa. La consapevolezza del pericolo rappresentato dall'attacco crescente dei conservatori e dalle minacce − nel momento in cui il processo di disintegrazione dello stato unitario si faceva inarrestabile −di un loro ricorso a pressioni sempre più forti fino a un colpo di stato, parve imporre a Gorbačëv e a El'zin di attenuare la polemica che li divideva e di cercare la via di un'intesa. Anche Shevardnadze, che con Jakovlev e altri dirigenti provenienti dal PCUS aveva dato vita al Movimento per le riforme democratiche, si pronunciò per l'unità delle forze democratiche e radicali.

All'evidente scopo di bloccare il tentativo di rilanciare la perestrojka e soprattutto per impedire l'avvio, fissato per il 20 agosto 1991, della riforma dello stato unitario, attraverso la firma di un patto fra le repubbliche dell'URSS basato sul riconoscimento della loro sovranità e sulla libera adesione di ciascuna di esse alla nuova Unione, un tentativo di golpe venne attuato il 19 agosto. A operarlo furono gli stessi più vicini collaboratori di Gorbačëv, e cioè il vice presidente G. Janaev, il capo del governo V. Pavlov, il capo del KGB V. Kriuchkov, il ministro degli Interni B. Pugo, il ministro della Difesa D. Jazov nonché, praticamente, tutti gli altri ministri in carica. Il comportamento tenuto da Gorbačëv − del quale i golpisti tentarono di ottenere la complicità −, trattenuto a forza in Crimea insieme ai suoi familiari, e soprattutto la decisione con cui El'zin (che il 12 giugno 1991 era stato eletto presidente della Federazione Russa), dalla sede del Parlamento russo organizzò e guidò la lotta contro i golpisti che erano fortemente indeboliti anche dalle divisioni interne e dal mancato sostegno delle forze armate, determinarono però rapidamente il fallimento del colpo di stato.

Gorbačëv poté tornare così a Mosca. Ma la situazione era mutata. Tutto quello che aveva permesso sino ad allora di parlare dell'URSS come di uno stato unitario, e delle strutture pansovietiche − il PCUS, il governo, il Parlamento, il comando dell'Armata Rossa, il KGB −come di una realtà operante, si era volatilizzato. Il potere era decisamente nelle mani di El'zin, la cui autorità nei giorni del golpe venne riconosciuta dal presidente statunitense G. Bush e subito dopo dai governi europei che posero fine alle titubanze iniziali. La fase del dualismo di potere fra un Gorbačëv sempre più indebolito e costretto a subire le continue pressioni di El'zin, e quest'ultimo che con una serie di decreti ripristinò bandiere e simboli della Russia, sospese −senza incontrare resistenza − l'attività del PCUS e ne requisì le sedi, imponendo i suoi uomini in tutti i punti chiave, si concluse in poche settimane. L'8 dicembre 1991 i rappresentanti della Russia, dell'Ucraina e della Russia Bianca (ora Belarus') ai quali si aggiunsero successivamente i rappresentanti del Kazakistan, proclamarono formalmente la fine dello stato unitario sovietico e invitarono Gorbačëv a prenderne atto e a lasciare il potere. Una dopo l'altra, intanto, proclamarono la loro indipendenza tutte le repubbliche dell'URSS che ancora non lo avevano fatto, anche per il timore che a Mosca, ove da più parti si avanzavano rivendicazioni territoriali collegate alla presenza e all'attività delle minoranze russe, prevalessero con El'zin tendenze di tipo imperiale. La situazione non tardò così a precipitare. Anche allo scopo di tranquillizzare non soltanto le altre repubbliche ma, al di là dei confini dell'ex URSS, gli Stati Uniti e i paesi europei (preoccupati per il permanere di una situazione confusa in un territorio tanto vasto, percorso da conflitti sanguinosi e disseminato di armi di sterminio nucleare), El'zin prese l'iniziativa di dar vita a forme nuove e stabili di collegamento e di collaborazione fra le ex repubbliche sovietiche. Il 21 dicembre 1991 undici di esse (Russia, Ucraina, Russia Bianca, Moldavia [ora Moldova], Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan) diedero vita alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), che fra l'insorgere di conflitti interetnici e anche interstatali e difficoltà economiche sempre più gravi, doveva avere però una vita stentata. Gorbačëv, che sino all'ultimo aveva difeso l'idea dello stato unitario, lasciò il Cremlino la sera del 25 dicembre 1991 mentre la bandiera rossa veniva ammainata e Mosca diventava soltanto la capitale dello stato russo.

La Comunità degli Stati Indipendenti e la Russia di El'zin. - Neppure formalmente la CSI poteva dirsi erede e continuatrice dell'URSS. Solo con grande fatica del resto le repubbliche che avevano aderito alla Comunità trovarono soluzioni parziali ad alcuni dei problemi più gravi nati dal ''crollo'': la sorte dell'Armata Rossa, e in particolare delle forze nucleari disseminate nella Russia, nell'Ucraina, nella Belarus' e nel Kazakistan, e, ancora in questo quadro, della flotta del Mar Nero (rivendicata in parte dall'Ucraina); la suddivisione fra i nuovi stati del patrimonio dell'ex URSS così come delle quote del debito estero; la regolamentazione delle relazioni economiche, commerciali e finanziarie; la soluzione dei non pochi conflitti interetnici e nazionali che si trascinavano da tempo, nonché delle vertenze territoriali che si erano aperte (in primo luogo per l'assegnazione della Crimea rivendicata dalla Russia). Un accordo più vasto per dare alla CSI uno statuto che definisse concretamente gli spazi della politica comune anche sui temi della difesa e della politica estera, fu raggiunto nel gennaio 1993, senza la firma però dell'Ucraina, della Moldova e del Turkmenistan. Stante l'inesistenza della CSI come soggetto riconosciuto sul piano internazionale, toccò alla Russia occupare il seggio dell'URSS al Consiglio di sicurezza dell'ONU. Dopo aver ottenuto, ma non senza fatica e solo in parte, il consenso delle altre repubbliche in possesso di testate nucleari, toccò poi in primo luogo alla Russia il compito di garantire il mantenimento degli impegni assunti dall'URSS per quel che riguarda i temi del disarmo. Su questa via, e prima ancora che l'impegno di ratificare gli accordi per lo START 1 diventasse operante, si andò ben presto al di là della semplice gestione degli accordi già raggiunti. Il 3 gennaio 1993 El'zin e Bush (a Mosca per la sua ultima missione all'estero come presidente) sottoscrissero − superando le resistenze opposte dall'Ucraina, decisa a utilizzare il potenziale nucleare ancora in suo possesso come strumento di negoziazione nei riguardi sia della Russia che degli Stati Uniti − l'accordo per lo START 2, per cui le testate nucleari degli Stati Uniti vennero ridotte da 9862 a 3500 e quelle russe dalle 10.909 detenute dall'URSS a 3000.

L'acuirsi della crisi politica ed economica, dovuta al ritardo ma anche alle modalità con cui nel gennaio 1992 si era dato inizio con drastici aumenti dei prezzi alla politica delle riforme relative all'avvio di un libero mercato e alla privatizzazione, determinò una situazione difficile e incerta (crollo della produzione industriale del 20%, corsa dell'inflazione oltre il 2000%) che ridusse nettamente nel paese e nel Parlamento l'autorità e il consenso sino ad allora goduti da El'zin. Si giunse così nel dicembre 1992, a conclusione di un duro scontro che oppose El'zin al Parlamento, alla sostituzione del ''riformista'' E. Gajdar, come capo del governo, col rappresentante delle grandi aziende di stato V. Černomyrdin. Questo mentre all'interno della Russia, oltreché al di là dei suoi confini, si acuivano i conflitti interetnici in corso e ne nascevano dei nuovi, aventi a protagonisti, oltre ai Tartari della Crimea (300.000 dei quali avevano intanto potuto far ritorno alla loro terra di origine) e a quelli della Repubblica autonoma della Tataria (che rivendicavano la piena indipendenza), i Tedeschi del Volga (per i quali El'zin chiese alla Germania speciali aiuti per ridar vita all'antica Repubblica autonoma), gli Osseti del Nord e gli Ingusci (dopo la rottura di questi ultimi con i Ceceni), nonché vari altri gruppi nazionali della Russia asiatica − in primo luogo delle repubbliche autonome del Tuva, del Dagestan e della Baškirija (ora Baškortostan) − che chiedevano un più ampio regime di autonomia e in qualche caso la piena indipendenza. Per far fronte alla situazione, a Mosca si cominciò a parlare di trasformare la Russia-Federazione russa (come era stata definita con un doppio nome dal Parlamento) in una vera Repubblica federale.

Non diversamente andarono le cose nei mesi successivi al ''crollo'' nelle altre ex repubbliche sovietiche. Nelle repubbliche baltiche la situazione economica si aggravò rapidamente anche per le conseguenze che la rottura con Mosca ebbe per le industrie dei tre stati, di fatto dipendenti dalla Russia per il petrolio e per le materie prime, e ben presto sorsero difficoltà nel far vivere forme di collaborazione reali sul piano sia politico che economico con i paesi dell'Europa occidentale come con quelli nordici. Tutto ciò da una parte spinse − ma con scarsa fortuna − verso la ricerca di accordi con la Russia (anche sul problema del ritiro dei reparti dell'ex Armata Rossa) e dall'altra determinò gravi crisi politiche. Così nella Lituania le elezioni del 25 ottobre 1992 portarono alla sconfitta del fronte nazionalista di V. Landsbergis e alla vittoria degli ex comunisti (ma favorevoli al distacco dall'URSS) di A. Brazauskas. In Ucraina una nuova politica economica fu avviata dal presidente L. Kravciuk, con drastici aumenti dei prezzi, all'inizio del 1993. Ne seguirono subito gravi tensioni sociali. Nella Moldova, ove una forte minoranza russa aveva dato vita a un territorio autonomo (il Transniestr) e si opponeva, forte anche dell'appoggio di reparti dell'ex Armata Rossa, alle tendenze prima separatiste e poi filoromene della maggioranza, si giunse a una labile tregua fra le parti solo quando nel giugno 1992 fu possibile firmare a Istanbul un accordo fra Russia, Moldova, Ucraina e Romania, sulla cessazione dei combattimenti e l'avvio di trattative. La situazione nel Caucaso si aggravò sia per le conseguenze del mancato accordo fra l'Armenia (sempre presieduta da L. Ter-Petrosian) e l'Azerbaigian (ove nel giugno 1992 A. Mutalibov era stato sostituito a conclusione di un duro conflitto da A. Elcibej, leader del Fronte popolare) per il Nagorno-Karabah, sia per l'esplodere in Georgia, accanto a quelli antichi (nati dalle spinte all'indipendenza presenti nell'Abkhasia e dai conflitti che opponevano Georgiani e Ossetiani nell'Ossezia del Sud), di nuovi conflitti, dopo che l'ex ministro degli Esteri dell'URSS Shevardnadze era divenuto di fatto, nel marzo 1992, Capo dello stato in sostituzione del leader nazionalista Z. Gamsakhurdia (che, eletto dal voto popolare Capo dello stato, aveva assunto poi atteggiamenti illiberali e dittatoriali).

Nelle repubbliche dell'Asia centrale minori furono i mutamenti. Di fatto, capi dei nuovi stati divennero o furono riconfermati, seppure alla testa di formazioni nazionalistiche, ex dirigenti comunisti di primo piano (N. Nazarbaev nel Kazakistan, A. Akayev nel Kirghizistan, R. Nabiyev − che nel novembre 1992 fu sostituito da I. Rahmanov − nel Tagikistan sconvolto da una vera e propria guerra civile, S. Niyazov nel Turkmenistan, I. Karimov nell'Uzbekistan). In tutti i paesi si andavano intanto costituendo forti movimenti islamici appoggiati dall'Iran e dalla Turchia. Le prime conferenze delle repubbliche islamiche dell'ex URSS ebbero luogo ad Ašgabat (Turkmenistan), il 6 maggio 1992 (alla presenza anche di rappresentanti della Turchia, dell'Iran e del Pakistan), ad Ankara il successivo 30-31 ottobre e a Taškent il 4 gennaio 1993 per dare il via a un ''mercato comune'' centro-asiatico aperto però alla Russia.

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Per notizie sulle Repubbliche ex sovietiche divenute indipendenti, v. alle voci relative a partire dal vol. II di questa Appendice. Per Armenia e Azerbaigian, non incluse nel vol. I, v. qui di seguito.

Armenia (IV, p. 445; App. II, i, p. 253; III, i, p. 132; v. urss, XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, ii, p. 1065; III, ii, p. 1043; IV, iii, p. 754). - Già Repubblica Socialista Sovietica, l'Armenia costituisce uno stato indipendente dal 23 settembre 1991. Situata nella Transcaucasia sud occidentale, ai confini nordorientali della Turchia, ha una superficie di 29.800 km2 e contava 3.426.000 ab. nel 1992, in massima parte (93,3%) Armeni, con minoranze di Azerbaigiani (2,6%), Curdi (1,7%) e Russi (1,6%). La capitale è Erevan, che nel 1991 contava 1.283.000 abitanti.

Condizioni economiche. - Già antecedentemente alla dissoluzione dell'URSS, l'economia della Repubblica armena era entrata in una fase di declino, contrassegnata da bassa produttività, inflazione crescente, contrazione del prodotto materiale netto. Il collasso del sistema di pianificazione centralizzata e della struttura sovietica del commercio interno ha ulteriormente aggravato la crisi economica dell'Armenia. L'agricoltura e le attività connesse con lo sfruttamento delle risorse forestali hanno concorso a formare, nel 1991, il 25% del valore della produzione interna, occupando il 19% delle forze di lavoro. Le produzioni agricole più rilevanti sono cereali, patate e ortaggi, frutta. Nel 1991 circa un terzo della produzione agricola proveniva da fattorie private, e verso la fine del 1992 il 90% delle terre coltivabili era stato trasferito a proprietari privati. Le risorse minerarie sono state scarsamente valorizzate; rame, molibdeno, oro, argento e minerali di ferro vengono estratti in quantità limitate. L'Armenia produce meno dell'1% dei suoi fabbisogni energetici, importando il resto dalla Russia (50%) e da altre ex-repubbliche sovietiche. Gravi difficoltà nei rifornimenti sono state provocate dal blocco economico imposto dall'Azerbaigian in occasione del conflitto nel Nagorno-Karabah. Il settore industriale (63% della ricchezza nazionale prodotta nel 1990, e 41% della popolazione attiva) è imperniato su attività manifatturiere leggere (specialmente tessili e calzature). Da segnalare anche la metallurgia non ferrosa e la produzione di apparecchiature elettriche, di strumenti, macchinari ed elaboratori elettronici. Dopo la dissoluzione dell'URSS, nel dicembre 1991, l'Armenia ha cercato di allargare le relazioni economiche a partners commerciali non tradizionali (in particolare Turchia, Iran e altri stati della regione) pur mantenendo solidi legami con le repubbliche dell'ex URSS (specialmente Russia e Bielorussia). Il forte disavanzo della bilancia commerciale è da ascrivere alle importazioni massicce di fonti energetiche e di materie prime industriali. Il debito estero totale nel 1992 ammontava a più di 750 milioni di dollari.

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Storia. - Il 23 agosto 1990, sull'onda di grandi manifestazioni di massa per il distacco dall'URSS e per la nascita di una ''Repubblica unificata armena'' comprendente anche il territorio del Nagorno-Karabah (abitato in maggioranza da Armeni ma appartenente all'Azerbaigian), il Soviet supremo dell'Armenia approvò un'affermazione di sovranità, con la quale sostanzialmente l'Armenia si dichiarava indipendente. L'indipendenza fu poi formalmente ratificata il 23 settembre 1991, con un referendum popolare che vide favorevoli il 93,39% degli elettori. L'Armenia è membro della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea (CSCE), del Consiglio di cooperazione nord atlantico (NACC), del gruppo di paesi firmatari dell'Accordo di cooperazione del Mar Nero, della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD), della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale. È inserita nel programma della Comunità europea TACIS.

Capo dello stato è L. Ter-Petrosian del Movimento Nazionale Armeno (MNA), la cui elezione, avvenuta il 4 agosto 1990, è stata poi confermata a suffragio diretto il 14 ottobre 1991. Da allora l'Armenia, nonostante le asprezze dei conflitti interni, sulla nuova Costituzione e sulla privatizzazione − avviata con molta lentezza ma che all'inizio del 1994 il governo di G. Bagratian (che sostituì nel febbraio 1993 G. Arutunian) decise di accelerare − e il conflitto con l'Azerbaigian, ha potuto godere di una relativa stabilità politica.

Dopo avere a lungo sostenuto, anche militarmente − ma sempre con prudenza e realismo nonostante le pressioni dell'opposizione nazionalista − la lotta della popolazione armena del Nagorno-Karabah, e dopo i fallimenti delle trattative armeno-azerbaigiane (marzo 1992), nonché dell'intervento e del tentativo di mediazione, dapprima dell'URSS (che con Gorbačëv aveva posto il territorio conteso sotto la diretta tutela di Mosca) e poi della Russia, l'Armenia − anche sulla base delle posizioni favorevoli dovute alla superiorità militare acquisita sul campo − ha infine accolto con favore, nel giugno 1992, il tentativo di mediazione avviato coi colloqui di Roma dalla CSCE.

Seppure le trattative, più volte riprese lungo il 1993, non portassero immediatamente ad accordi stabili e concreti, crearono però − con la netta riduzione dei combattimenti − una situazione in parte nuova che favorì il miglioramento delle relazioni con la Russia (accordo di cooperazione bilaterale del 15 giugno 1993 seguito da un'intesa per la rimessa in funzione entro il 1994, nonostante le proteste del governo di Baku, della centrale nucleare di Medzanov) e con le altre repubbliche della CSI. Il permanere del blocco delle forniture di petrolio e la forte penuria di manodopera (verificatasi in seguito ai movimenti migratori − che interessarono almeno due milioni di persone − dovuti al conflitto con l'Azerbaigian), insieme all'esiguità degli investimenti e degli aiuti provenienti dall'Occidente (nonché da altri paesi fra i quali l'Iran che si impegnò nell'aprile 1993 a finanziare la costruzione di un gasdotto fra i due paesi), crearono tuttavia una situazione economico-sociale sempre più grave. Nel conflitto con l'Azerbaigian, una situazione nuova si andò poi progressivamente determinando nell'estate-autunno dello stesso anno con la forte ripresa dei combattimenti che permisero all'Armenia non solo di acquisire il pieno controllo del corridoio di Latchin, all'interno del territorio azero, che congiunge all'Armenia il Nagorno-Karabah (ove nel settembre 1991 era stata unilateralmente proclamata la nascita di una repubblica autonoma), ma di occupare militarmente circa il 20% del territorio azero. Nel maggio 1994 fra l'Armenia e l'Azerbaigian si raggiunse un primo fragile accordo per il cessate il fuoco, il ritiro parziale delle forze armene (non però dal corridoio di Latchin) e − nonostante le difficoltà frapposte dalla Russia decisa a considerare come una propria zona d'influenza l'intera area dell'ex URSS − la creazione di una zona-cuscinetto sotto controllo internazionale. Si poté così giungere nel luglio 1994 all'accordo per il ''cessate il fuoco'', sostanzialmente avallato dalla CSCE; esso, ribadito nel marzo 1995, non ha messo però del tutto fine agli scontri armati.

Bibl.: J.P. Alem, L'Arménie, Parigi 1972; D.M. Lang, L'Armenia, Napoli 1990; C.I. Libaridian, Armenia at the crossroads democracy and nationhoods in the post-soviet era, Watertbood 1991; H. Bogdan, Histoire des peuples de l'ex Urss. Du IXe siècle à nos jours, Parigi 1993; After the Soviet Union. From empire to nations, a cura di T.J. Colton e R. Legvold, Londra 1993; B. Dunlop, The rise of Russia and the fall af the Soviet empire, Princeton 1993; Eastern Europe and the Commonwealth of Indipendent States, Londra 1992-1993-1994.

Azerbaigian (V, p. 692; App. II, i, p. 343; App. III, i, p. 198; v. urss, XXXIV, p. 816; App. I, p. 1098; II, ii, p. 1065; III, ii, p. 1043; IV, iii, p. 754). - Già Repubblica Socialista Sovietica, l'Azerbaigian costituisce uno stato indipendente dal 30 agosto 1991. Situato nella Transcaucasia orientale, sulla costa sud-occidentale del Mar Caspio, confina a sud con l'Iran, a ovest con l'Armenia, a nordovest con la Georgia e a nord con la Repubblica autonoma del Dagestan, nella Federazione Russa. Dell'Azerbaigian fanno parte integrante la Repubblica autonoma del Nahičevan, separata dal resto dell'Azerbaigian da territorio armeno, e la provincia autonoma del Nagorno-Karabah, popolata prevalentemente da Armeni. La superficie è di 86.600 km2, la popolazione di 7.137.000 ab. nel 1991 (Azerbaigiani 82,7%; Armeni 5,6%; Russi 5,6%, con sparute minoranze di Lesghi, Avari, Ucraini, Tatari ed Ebrei). Nel corso del decennio 1980-91 la popolazione è cresciuta al tasso medio annuo dell'1,5%. La capitale è Baku che nel 1991 contava 1.080.000 abitanti.

Condizioni economiche. - Nel corso del decennio 1980-91 il prodotto interno lordo è aumentato dell'1,9%. Nel 1992 l'ammontare complessivo della produzione ha subito tuttavia un vero e proprio tracollo, verificatosi in concomitanza con il varo di un programma di riforme avente per obiettivo la transizione a un sistema di economia di mercato e di liberalizzazione dei prezzi. L'attuazione del programma di riforme è stata successivamente intralciata dalla crisi politica del 1993 e dalle vicende belliche nel Nagorno-Karabah.

Nel 1992 l'agricoltura ha concorso alla formazione del prodotto interno nella misura del 33,5%, occupando il 33% della popolazione attiva. Principali prodotti agricoli sono il grano (900.000 t nel 1992), l'orzo (380.000 t), il cotone (480.000 t di semi), le patate (170.000 t), l'uva (880.000 t) e altri frutti. L'Azerbaigian è riccamente dotato di risorse minerarie, la più importante delle quali è il petrolio (1 miliardo di t di riserve residue). L'attività estrattiva, che riguarda anche il gas naturale, è prevalentemente concentrata in campi offshore nel Mar Caspio. Le prospettive di sviluppo economico dell'Azerbaigian sono considerate favorevoli proprio grazie alla ricca dotazione di risorse minerarie (altri minerali estratti sono ferro, barite, cobalto e molibdeno). Per valorizzare le risorse potenziali finora inadeguatamente sfruttate e per ammodernare gli impianti di estrazione e di raffinazione del petrolio in gran parte obsoleti si rende però necessario l'apporto di capitali e tecnologie di origine straniera. Progetti di compartecipazione con compagnie petrolifere statunitensi ed europee sono stati oggetto di negoziati fin dai primi anni Novanta. Ma i progetti di sviluppo sono frenati dalla crisi economica, comune a tutte le repubbliche dell'ex URSS, derivante dal collasso del sistema centrale di pianificazione e del sistema di relazioni commerciali interne. Altre industrie pesanti sono presenti nei rami chimico, petrolchimico, delle costruzioni meccaniche. Tra le industrie leggere si segnalano quelle tessili, alimentari e vinicole. Nel 1991 la bilancia commerciale si è chiusa in attivo, grazie alle esportazioni di prodotti petroliferi raffinati e a prodotti dell'industria tessile, alimentare e meccanica. Dopo il collasso dell'URSS, l'Azerbaigian ha cercato di intensificare i rapporti con paesi esterni all'ex URSS, che ora partecipano al suo commercio estero per il 50% circa.

Bibl.: C. Urjewicz, Abkhazie, Adjarie, Arménie, Azerbaïdjan, Géorgie, in Dictionnaire de géopolitique, a cura di Y. Lacoste, Parigi 1993.

Storia. - La Repubblica dell'Azerbaigian si è proclamata indipendente il 30 agosto 1991 a conclusione di un lungo conflitto con l'URSS, che nel gennaio del 1990 era sfociato in grandi manifestazioni di massa a Baku e in altre città, sanguinosamente represse dall'Armata Rossa. L'Azerbaigian è rientrato nel settembre 1993 nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), dalla quale era uscito nel settembre 1992 in seguito al rifiuto opposto dal Parlamento di ratificare l'adesione sottoscritta nel dicembre 1991. Attualmente è membro della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea (CSCE), dell'Organizzazione della conferenza islamica (OICC), del Consiglio di cooperazione nord atlantico (NACC), della Commissione economica e sociale per l'Asia e il Pacifico (ESCAP), della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (EBRD), della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. È inserito nel programma di assistenza tecnica della Comunità europea TACIS. Ha sottoscritto l'Accordo di cooperazione del Mar Nero e la Dichiarazione di Istanbul del 19 ottobre 1994. Ha aderito nel 1994 all'accordo di ''Partnership per la pace'' promosso dalla NATO.

Primo presidente dell'Azerbaigian è stato A. Mutalibov, ex dirigente comunista, destituito e sostituito con A. Elcibej quando, il 19 maggio 1992, a conclusione di vaste proteste contro l'atteggiamento giudicato troppo blando assunto da Mutalibov sulla questione del Nagorno-Karabah, il Fronte popolare prese il potere e sciolse il Parlamento, sostituendolo con un Consiglio nel quale i rappresentanti del Fronte e della vecchia nomenklatura si pareggiavano. Nel giugno 1993, a conclusione di una nuova prova di forza, il potere passò poi nelle mani dell'''uomo forte'' del vecchio gruppo dirigente comunista, G. Aliev, che il 3 ottobre 1993 fu eletto Capo dello stato a suffragio universale. Questi cercò di rafforzare ulteriormente le sue posizioni stringendo un accordo col capo del governo S. Gusseinov (che aveva guidato la lotta contro Elcibej). Il Fronte, costretto poi a subire l'accordo per il ''cessate il fuoco'' per il Nagorno-Karabah del marzo-maggio 1994, si è così ulteriormente indebolito specie dopo l'allontanamento, avvenuto alla fine di maggio, dei suoi esponenti dal Parlamento (ora presieduto da un uomo di Aliev, R. Kuliev).

Uno dei temi dominanti dello scontro politico e sociale che ha caratterizzato i primi anni dell'Azerbaigian indipendente è stato dunque quello relativo alla sorte del Nagorno-Karabah, la regione autonoma (4400 km2, capitale Stepanakert, popolazione di 188.000 abitanti, di cui la maggioranza Armeni) rivendicata a partire dall'inizio del 1988 dall'Armenia. Di fronte all'aggravarsi degli scontri all'interno ma anche all'esterno dell'enclave fra forze armene e azere, il Soviet supremo dell'URSS decise, nel gennaio 1989, di porre il territorio sotto l'autorità di uno speciale comitato (trasformato poi in una commissione federale di controllo) dipendente direttamente da Mosca. A causa della continuazione dei combattimenti, nel gennaio 1990 il presidente dell'URSS Gorbačëv proclamò lo stato di emergenza nella zona e inviò nuove forze, ma solo il 23 settembre 1991 venne raggiunto un primo accordo per il ''cessate il fuoco'' che, pur non portando alla fine dei combattimenti, segnò l'avvio a Roma, nella primavera del 1992, di una conferenza di pace sotto l'egida della CSCE. Ma il conflitto militare riprese con molta forza nei mesi successivi, quando le forze armene, schieratesi a sostegno di quelle della Repubblica del Nagorno-Karabah (autoproclamatasi tale nel 1991), riuscirono non solo a controllare direttamente il corridoio di Latchin che univa il territorio conteso all'Armenia, ma ad occupare un'area comprendente sino al 20% del territorio azero. Con la partecipazione di rappresentanti della Russia (che, dopo la fine dell'URSS, ha continuato, ma senza fortuna, a operare come forza di mediazione), degli Stati Uniti e della Turchia (che nell'aprile 1993 e poi, insieme all'Iran, nel successivo settembre, aveva definito inaccettabile l'occupazione da parte armena di territori appartenenti all'Azerbaigian), nonché di Erevan, di Baku e della Repubblica del Nagorno-Karabah, ripresero poi le trattative che permisero di giungere fra marzo e maggio 1994 a un accordo per il ''cessate il fuoco'' basato sul ritiro parziale delle forze armene da una parte dei territori occupati e sulla creazione di una ''zona cuscinetto'' sotto il controllo internazionale. Nel dicembre 1994 la CSCE, prendendo atto dell'accordo raggiunto, decise l'invio di una forza di pace nella zona, alla condizione però che la tregua diventasse duratura. Nel marzo del 1995 fu raggiunto un nuovo accordo per il ''cessate il fuoco'' che tuttavia non eliminò del tutto gli scontri armati.

Bibl.: R. Aboutalybov, A. Balaev, La République d'Azerbaidjan sur le chemin de la démocratie. Chronique (1988-1991), in L'émergence du monde turco-persan, Parigi 1992; P. Sinatti, I conflitti armati nell'ex Urss, in Post comunismo terra incognita, a cura di F. Argentieri, Roma 1994; After the Soviet Union. From empire to nations, a cura di T.J. Colton e R. Legvold, Londra 1993; B. Dunlop, The rise of Russia and the fall of the Soviet empire, Princeton 1993; Eastern Europe and the Commonwealth of Indipendent States, Londra 1992-1993-1994.

Lingue. - Al momento della sua definitiva disgregazione (dicembre 1991) l'URSS si presentava non solo come un impero multinazionale regolato da equilibri assai delicati e precari ma anche, e soprattutto, come un immenso bacino etnolinguistico, nel quale si sono trovati a convivere, spesso in modo forzoso, centinaia di sistemi linguistici differenti (Matthews 1951; Vinogradov e altri 1966-68; Comrie 1981, dove si trovano dati statistici aggiornati al 1970). Questa diversità e il conseguente multilinguismo appaiono difficilmente immaginabili per i parlanti di altre lingue europee, abituati a confrontarsi generalmente con lingue e/o varietà substandard affini dal punto di vista genetico. Nei territori dell'URSS la diversità linguistica si è configurata intanto come una diversità di fatto, basata cioè sull'appartenenza dei parlanti a tradizioni storico-linguistiche genealogicamente indipendenti, disperse lungo un'area geografica immensa e, spesso, veicolate da ethne di tipo nomadico tendenzialmente eccentrici nei confronti dei processi di pianificazione linguistica (Lewis 1972). A questa diversità di fatto era ed è tuttora associata una serie di processi di autoidentificazione simbolica molto forti, sostenuti, a livello amministrativo, da un'intenzionale politica autonomistica e da forme di sollecitazione delle identità etnolinguistiche che non hanno riscontri in altri stati multinazionali. In termini che solo apparentemente suonano paradossali si può dire che l'implosione etnico-politica dell'impero sovietico ha semplicemente portato alle estreme conseguenze una valorizzazione e una tutela delle minoranze che era iniziata già negli anni Venti e che si era espressa sul piano linguistico attraverso un'intensa campagna di scritturazione, alfabetizzazione, letterarizzazione delle nazionalità sovietiche.

Se si adotta la moderna tassinomia linguistica fondata su più nodi gerarchicamente ordinati (dal phylum al dialetto, cfr. Ruhlen 19912), è possibile osservare all'interno dei confini sovietici non meno di sei phyla linguistici distinti, ai quali vanno aggiunte alcune lingue di incerta classificazione genealogica. A ciascun phylum fanno capo vari stock e varie famiglie comprendenti a loro volta numerose varietà ben riconoscibili, spesso dotate di una prestigiosa storia letteraria autonoma:

1) lingue indoeuropee (armeno; indo-iranico comprendente zingaresco, tagico, osseto, curdo, tāleši, tāti, balūčī, yaghnobi, waxī, iškāšmī, yazghulāmī, šughnī, rošanī; slavo comprendente russo, ucraino e bielorusso; baltico comprendente lituano e lettone; germanico comprendente alcune parlate yiddish, circa 381.000 parlanti nel 1975; romanzo comprendente il moldavo);

2) lingue caucasiche, di complessa classificazione, divise comunemente in nordcaucasiche (a ovest: abkhazo, abazo, adygh, cabardino; a est: avaro, lakh, dargwa, lezgi, tabassarano) e sudcaucasiche (georgiano, svan, mingrelio);

3) lingue altaiche, nei tre stock turco (ciuvascio; meridionale comprendente gagauz, turco di Crimea, turkmeno, azero, kaškay; orientale comprendente uzbeko, uiguro, salaro; occidentale comprendente baškiro, karaim, kumyk, karačay, tataro, tataro di Crimea, baraba; centrale comprendente nogay, karakalpak, kazako, kirghiso; settentrionale comprendente yakuto, dolgan, altaico, altaico settentrionale, tuva, karagas, khakas, čulym, šor), mongolo-tunguso (buriato, kalmucco; even, evenki, solon, manegir, orochon e nanaj con olcha, orok, samagir, kile, udihe con oroch e udihe), coreano-giapponese (rappresentato, secondo il parere di alcuni studiosi, dal solo ainu nella parte meridionale della penisola di Sachalin);

4) lingue uralico-yukaghir, comprendenti yukaghir e lo stock uralico con le famiglie samoyeda (nenets, enets, nganasan), ugrica (ostiako e vogul) e finnica (nelle sottospecie di permico con udmurt e komi, volgaico con mari o ceremisso e mordvino, nordfinnico con il lappone da un canto e l'estone, il carelio, il livonico, il vepsiano, il votico dall'altro);

5) lingue semitiche nelle varietà residuali del neoaramaico orientale (parlata dai cosiddetti Assiri, in russo ajsory, circa 25.000 nel 1981);

6) lingue čukči-kamčatka (čukči, kerek, koryak, kamčadal);

7) lingue ''isolate'': gilyak nella parte settentrionale della penisola di Sachalin e lungo il basso corso dell'Amur, e ket, nella Siberia centrale.

La complessa situazione geolinguistica dell'URSS stimolò sin dall'inizio l'opera di intellettuali e specialisti nell'intento di trovare una possibile architettura legislativa e culturale che fungesse da contenitore di tante identità differenti (Imart 1983; su alcune proposte legislative recenti, Maurois 1991). Per esplicita ammissione degli studiosi sovietici (Ivanov 1981; Beloded e altri 1976, pp. 5-20) la politica linguistica statale successiva alla rivoluzione del 1917 non fece che applicare suggerimenti e riflessioni contenuti negli scritti di V.I. Lenin, il quale, intervenendo più volte sulle questioni linguistiche, mirava in sostanza a contemperare due esigenze tra loro antitetiche: da un canto il diritto democratico all'autodeterminazione e dall'altro l'internazionalismo proletario, naturalmente avverso all'accentramento burocratico degli stati borghesi.

"Il riconoscimento della parità di diritti delle nazioni − scrive Lenin nel 1914 (in Formigari 1970, p. 140) − e delle lingue sta a cuore dei marxisti non solo perché essi sono i democratici più conseguenti [...]. La completa parità di diritti implica anche la negazione di ogni privilegio a una qualsiasi delle lingue, implica il riconoscimento del diritto all'autodecisione a tutte le nazioni". L'obiettivo da colpire era il concetto di ''lingua di stato'' (gosudarstvennyj jazyk) che per Lenin scaturiva direttamente da una sorta di ''nazionalismo raffinato'' proprio dell'ideologia liberale: "non deve esistere una lingua di stato obbligatoria, mentre si devono assicurare alla popolazione scuole dove l'insegnamento venga impartito in tutte le lingue locali e si deve introdurre nella Costituzione una legge fondamentale che dichiari decaduto qualsiasi privilegio di una nazione sulle altre" (in Formigari 1970, p. 143). L'insegnamento di Lenin venne immediatamente recepito nella fase costitutiva dell'URSS; se nella Costituzione sovietica del 1936, in cui confluivano i principi già enunziati nella Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, si sanciva il diritto all'autodeterminazione nonché alla tutela delle minoranze etnoculturali, nel decreto sull'istruzione inserito nella Dichiarazione al 1° Congresso dei Soviet del 30 dicembre 1922 si stabiliva con chiarezza che "i decreti e le deliberazioni del Comitato centrale esecutivo e dell'Unione dei consigli dei commissari del popolo vengono stampati nelle lingue d'uso (obščeupotrevitel'nyx) delle repubbliche sovietiche (russo, ucraino, bielorusso, georgiano, armeno, ecc.)". La tutela delle lingue nazionali (nacional'nyi jazyki) appare dunque connessa fin dall'inizio alla tutela delle nazioni e delle nazionalità sovietiche (corrispondenti ai termini russi nacija e narodnost').

Una volta sancita l'autonomia amministrativa e scolastica delle singole entità della federazione sovietica ebbe inizio la già ricordata campagna per l'alfabetizzazione che in moltissimi casi significò il passaggio per le lingue coinvolte da un precedente stadio di oralità primaria alla scrittura (Bokarev-Dešeriev 1959). Il processo che portò alla scritturazione o alla riscritturazione delle tradizioni linguistiche locali passò attraverso due tappe fondamentali: la latinografia e la cirillografia. Quest'ultima, dopo vari tentativi, finì con il prevalere per diversi motivi, primo fra tutti la volontà di legare il più possibile l'espressione grafico-linguistica locale al potere centrale che era veicolato pressoché esclusivamente dalla lingua russa. A questa rivoluzione grafica si sottrassero, non senza problemi, solo quelle tradizioni scrittorie che erano già dotate di un forte prestigio storico, come quella armena, quella georgiana, quella baltica (lettone e lituana). L'adozione del repertorio alfabetico cirillico significò indubbiamente un vantaggio tecnico per es. per i popoli dell'Asia centrale turcofona presso i quali − parallelamente a quanto avveniva nella repubblica turca di Kemal Atatürk − l'abbandono del sistema arabo-persiano comportò maggiore trasparenza nella corresponsione fonema/grafema; d'altronde la soluzione cirillica significò anche un incremento relativamente modesto nel numero dei segni diacritici come per es. dimostrano l'alfabeto osseto o quello uzbeko. Uno dei risultati più notevoli di questi lavori sul campo dei linguisti sovietici è la descrizione analitica di tantissime varietà che erano rimaste sino a quel momento pressoché ignote, descrizione confluita nei preziosi volumi della collana Jazyki narodov Azii i Afriki dell'Accademia delle Scienze.

A seguito del consolidamento del potere staliniano negli anni Trenta, in perfetto parallelismo con quanto stava avvenendo in campo grafico con la ''cirillizzazione'' delle scritture nazionali, si assistette a un deciso spostamento del baricentro socio- ed etnolinguistico a tutto vantaggio del russo. Nel programma del PCUS era sancito che "la lingua russa possiede un valore positivo nella misura in cui contribuisce al mutuo scambio di esperienze e all'iniziazione di ciascuna nazione (nacii) e di ciascuna nazionalità (narodnosti) nei confronti delle acquisizioni culturali degli altri popoli dell'URSS e della cultura mondiale. La lingua russa ha rappresentato di fatto una lingua comune della società intranazionale e della collaborazione fra tutti i popoli dell'URSS". In effetti, già nel 1938, il Comitato centrale del Partito aveva sanzionato l'obbligatorietà dell'insegnamento del russo e sostenuto con forza la necessità di attingere a questa lingua le terminologie tecniche. Da questo momento si moltiplicarono gli interventi dei linguisti sovietici volti a giustificare il ruolo centralizzante del russo nella sua qualità di "lingua intranazionale" (Beloded e altri 1976, pp. 21-62; Dešeriev 1982; Mixajlovskaja 1983, con bibl.), nel quadro della "formazione di un bilinguismo armonico fra lingua nazionale e russo" (Ivanov 1981, p. 5; Hagège 1995, pp. 211-27). In pratica il repertorio dei parlanti sovietici, grazie al ruolo del russo come lingua non più e non solo "veicolare" all'interno della federazione, ma anche come lingua ufficiale dell'amministrazione, dell'esercito, del partito, si trasformò in una diglossia di fatto con il russo nella veste di lingua con funzioni ''alte'' e la lingua materna confinata alla comunicazione informale. Conseguenza inevitabile del nuovo assetto del repertorio dei parlanti sovietici − oggi sicuramente in forte regresso − furono la nascita di vere e proprie varietà regionali del russo e nel contempo l'imponente ''russificazione'' dei lessici nazionali. Tale situazione diglottica venne favorita dalla Riforma scolastica del 1958 in cui si lasciava ai genitori la scelta della lingua d'insegnamento dei propri figli.

Non solo sovietismi veri e propri (come staxanovec, komsomol, ecc.), ma anche internazionalismi, spesso attinenti al vocabolario politico, penetrarono direttamente in veste russa (come per es. nel tagico kommunizm, socializm, revoljucija, radio, kino, ecc.). Non mancano i calchi di voci o sintagmi tipici della lingua tecnico-politica sovietica: tagico zamincenkun (cfr. russo zemlemer "agrimensore"), durban (cfr. russo dal'novojnyj "di lunga portata"), o, ancora, moldavo plan de šaite an' (cfr. russo semiletnij plan "piano settennale"), luite pentru pače (cfr. russo bor'ba za mir "battaglia per la pace"). L'interferenza tra russo e varietà locali si fa sentire anche ad altri livelli di analisi oltre a quello lessicale. In questi casi, come è ovvio attendersi, è il russo a risentire dell'influsso delle varie L1: così nei parlanti di madrelingua kazaka l'ordine basico non-marcato del russo viene violato mediante la collocazione del verbo in ultima posizione, conformemente all'ordine tipico delle parlate turche (Pan'kin 1986, p. 11). Influssi in direzione inversa, dal russo alla L1, si notano per es. nelle lingue altaiche che hanno introdotto strutture subordinanti estranee al patrimonio sintattico originario (Comrie 1981, p. 85).

Immediatamente prima della definitiva dissoluzione dell'URSS le singole entità nazionali previste dall'ordinamento sovietico (Repubbliche federate = RF, in numero di 15; Repubbliche autonome = RA, in numero di 20; Regioni autonome = RGA, in numero di 8; Distretti nazionali = DN, in numero di 10) presentavano le seguenti proporzioni di parlanti che, dichiaratisi della nazionalità locale, proclamavano la lingua locale come propria lingua materna. Le quote sono dunque non assolute, ma relative a quei cittadini che sentono di appartenere effettivamente a quella determinata entità nazionale; non si dimentichi, infatti, che larghe fasce della popolazione di ciascuna repubblica o regione o distretto sono di nazionalità russa (i dati provengono da Salvi 1990).

Diamo qui di seguito l'elenco: Ucraina (RF; 85% ucraino); Bielorussia (RF; 80% bielorusso, ma il 50% dichiara di esprimersi in russo); Lituania (RF; 98% lituano); Lettonia (RF; 96% lettone); Estonia (RF; 97% estone); Carelia (RA; 56% finnico, mentre la porzione restante si dichiara russofona); Moldavia (RF; 98% moldavo); Tartaria (RA; 85% la varietà tatara di turco); Baschiria (RA; 66% baškiro); Ciuvassia (RA; 86% ciuvasso); Mordovia (RA; 75% mordvino); Mari (RA; 88% mari); Udmurzia (RA; 80% udmurt); Comi (RA e DN dei Comi Permiacchi; 80% komi); Calmucchia (RA; 92% kalmucco); Cecenia (RA; 98% nah, ossia ceceno e inguscio appartenenti alla famiglia nordorientale caucasica); Dagestan (RA; nella parte settentrionale prevalgono i parlanti lezgi, 98%, con le diverse varianti avare, tabassarane ecc.; nella parte settentrionale prevalgono i parlanti turchi con il kumyk al 95%); Ossezia settentrionale (RA) e Ossezia meridionale (RGA; in entrambe l'osseto è dichiarato lingua madre da circa l'85% della popolazione); Georgia (RF; 98% georgiano); Abkhas (98% abkhazo); Armenia (RF; 98% armeno); Azerbaigian (RF; 99% azero); Uzbekistan (RF; 99% uzbeko); Turkmenistan (RF; 99% turkmeno); Kazakistan (RF; 98% kazako, ma il 42% dichiara di essere perfettamente bilingue kazako-russo); Kirghizistan (RF; 99% kirghiso); Karakalpakstan (RA; 97% karakalpak); Tagikistan (RF; 98% tagico); Altay (RGA; 88% altaico); Khakassia (RGA; 84% khakas, ma il 65% considera il russo seconda lingua materna); Tuva (RA; 80% tuva); Yakuzia (RA; 95% yakuto); Buriazia (RA, DN di Aga e di Ust-Orda; il 98% dei buriati dichiara di parlare il buriato); esistono nella regione siberiana i DN dei Nenci (53.000 abitanti), dello Jamal (383.000 abitanti), del Taymir (54.000 abitanti), dei Čukči (155.000 abitanti), dei Coriacchi (40.000 abitanti), degli Evenki (21.000 abitanti), degli Hanti-Mansi (1.047.000 abitanti di cui solo 25.000 hanti e 8000 mansi). Da questo quadro restano fuori le RGA dell'Adighezia, dei Karačay-Circassi e la RA della Cabardia Balcaria, in quanto la suddivisione linguistica non segue affatto quella politico-amministrativa (vedi le schede in Salvi 1990, pp. 134 e 146). Sul piano statistico e sociolinguistico, può essere utile il dato riportato in Comrie 1981, pp. 1 e 28, secondo cui i Russi costituiscono il 53,7% della popolazione sovietica, ma il russo è dichiarato L1 da circa il 58,6% dei cittadini dell'URSS; d'altronde all'interno di quel 46,3% della popolazione etnicamente non russo, poco più della metà sostiene di non padroneggiare a sufficienza la lingua russa. Bibl.: W.K. Matthews, Languages of the U.S.S.R., Cambridge 1951; Mladopis'mennye jazyki narodov SSSR, a cura di E.A. Bokarev e Ju.D. Dešeriev, Mosca-Leningrado 1959; Jazyki narodov SSSR, a cura di V.V. Vinogradov e al., 5 voll., ivi 1966-68; L. Formigari, Marxismo e teorie della lingua, Messina 1970; E.G. Lewis, Multilingualism in the Soviet Union: Aspects of language policy and its implementation, L'Aia 1972; Russkij jazyk - jazyk mežnacionalnogo obščenija i edinenija narodov SSSR, a cura di I.K. Beloded e al., Kiev 1976; B. Comrie, The languages of the Soviet Union, Cambridge 1981; V.V. Ivanov, Nekotorye voprosy izučenija russkogo jazyka kak sredstva mežnacional'nogo obščenija narodov SSSR, in Voprosy Jazykoznanija, 4 (1981), pp. 3-11; V.V. Ivanov-N.G. Mixajlovskaja, Russkij jazyk kak sredstvo mežnacional'nogo obščenija: aktual'nye aspekty i problemy, ibid., 6 (1982), pp. 3-13; Ju.D. Dešeriev, Jazykovye problemy mnogonacional'nogo sovetskogo obščestva, ibid., pp. 14-27; N.G. Mixajlovskaja, O teoretičeskix i praktičeskix zadačax izučenija russkogo jazyka kak sredstva mežnacional'nogo obščenija, ibid., 1983, fasc. 5, pp. 25-33; G. Imart, Développement et planification des vernaculaires: l'expérience soviétique et le Tiers Monde, in La réforme des langues. Histoire et avenir, a cura di I. Fodor e C. Hagège, ii, Amburgo 1983, pp. 211-40; V.M. Pan'kin, Russkij jazyk v mežnacional'nom obščenii. Problemy interferencii, in Voprosy Jazykoznanija, 2 (1986), pp. 3-16; S. Salvi, La disunione sovietica, Firenze 1990; M. Ruhlen, A guide to the world's languages, Stanford 19912; J. Maurois, Les lois linguistiques soviétiques de 1989 et 1990, in Rivista de llengua i dret, giugno 1991, pp. 75-90; C. Hagège, Storie e destini delle lingue d'Europa, Firenze 1995 (ediz. or., Parigi 19942).

Letteratura. - Il periodo che va dalla fine degli anni Settanta alla metà degli Ottanta non presenta novità di rilievo e si caratterizza piuttosto per l'esasperazione di tendenze già in atto. Conclusosi idealmente nel 1974, con l'emigrazione di parte rilevante dell'intelligencija, il processo di irrigidimento e chiusura iniziato intorno al 1964 −quando le redazioni editoriali avevano iniziato a restituire agli autori quelle opere che in diversa misura riflettevano la tragedia dello stalinismo, come per es. Opustelyj dom di L. Čukovskaja (trad. it., La casa deserta, 1977), Krutoj maršrut di E. Ginzburg (trad. it., Viaggio nella vertigine, 1967), Fakul'tet nenužnych veščej di J. Dombrovskij (pubblicato nel 1978 a Parigi; trad. it., La facoltà di cose inutili, 1979), Žizn' i sud'ba di V. Grossman (trad. it., Vita e destino, 1984) −, la vita culturale ufficiale si sclerotizza e ristagna, sempre più scollata dal paese reale, mentre si agevola la pubblicazione di opere assimilabili a tradizioni e tendenze consolidate: si torna dunque alla ''prosa bellica'', alla ''narrativa campagnola'' (derevenskaja proza), alla ''prosa cittadina'' (gorodskaja o intelligentskaja).

La narrativa campagnola, che permetteva allo scrittore una maggiore libertà creativa, manifesta una netta tendenza lirica: Poslednyj poklon (1978, "L'estremo saluto") di V. Astaf'ev; Cholmy (1973, "Colline") e Kanuny (1976, "Vigilie") di V. Belov; Čistye glaza (1973, "Occhi innocenti") di V. Lichonosov; Mužiki i baby (1976, "Uomini e donne di campagna") di B. Možaev; Kalina krasnaja (1973; trad. it., Il viburno rosso, 1978), Besedy pri jasnoj lune (1974, "Conversazioni al chiaro di luna") e Do tret'ich petuchov (1976, "Prima del terzo gallo") di V. Šukšin. All'analisi di tipo sociologico della realtà rurale percorsa da F. Abramov con la tetralogia Prjasliny (1958-78, "La famiglia Prjaslin") subentra la riflessione morale in opere quali Car-ryba (1976, "Il pesce zar") di Astaf'ev e Proščanie s Materoj (1976, "Addio a Matëra"; trad. it., Il villaggio sommerso, 1980) di V. Rasputin, in cui il rapporto tra l'uomo e la natura è visto nel suo significato più profondo di rapporto dell'uomo con se stesso e con la propria cultura, chiave di volta di un universo di categorie morali che crolla non appena, avvelenati dal falso mito del progresso tecnologico, si prenda a considerare la natura come riserva di risorse da sfruttare a proprio piacimento. Talvolta la narrativa campagnola si interseca con quella bellica quando quest'ultima, proseguendo sulla linea della cosiddetta okopnaja pravda ("verità di trincea"), oppone polemicamente la verità della guerra vissuta come dramma individuale alla retorica di certa prosa eroico-celebrativa; ma nelle opere degli scrittori campagnoli − per es. in Pastuch i pastuška (1973, "Pastore e pastorella") di Astaf'ev, o in Živi i pomni (1974; trad. it., Vivi e ricorda, 1986) di Rasputin − la guerra non è che una ''situazione estrema'' nel senso dostoevskijano, sfondo di problematiche che sono ancora una volta di tipo etico.

La narrativa bellica vera e propria, largamente coltivata negli anni Settanta, è rappresentata da opere di segno diverso: monumentali romanzi celebrativi che, facendo ampio ricorso a materiale documentario, abbracciano l'intero arco del conflitto (Blokada, 1969-75, "L'assedio", e Pobeda, 1979-81, "Vittoria", di A. Čakovskij; Vojna, 1975, "Guerra", di I. Stadnjuk); romanzi brevi bielorussi, segnati dall'esperienza dell'occupazione nazista con le sue vicende di collaborazionismo, villaggi bruciati, partigiani accerchiati (Obelisk, "L'obelisco", 1972; Dožit' do rassveta, 1972, "Sopravvivere sino all'alba"; Sotnikov, 1972, trad. it., Gli ultimi tre giorni, 1974, di V. Bykov; Ja iz ognennoj derevni, 1974, "Vengo dal villaggio bruciato", di A. Adamovič), attenti a problematiche di tipo etico (Znak bedy, 1983, "Segno di sciagura", di Bykov, in cui la tragica fine di una famiglia contadina sterminata dai nazisti è vista come atto conclusivo della sciagura iniziatasi con la collettivizzazione; Karateli, 1984, "Spedizioni punitive", di Adamovič, in cui si tenta il ritratto psicologico di alcuni dirigenti passati al nemico). Anche nella narrativa bellica, come in quella campagnola, alla linea lirica che negli anni Sessanta contrapponeva all'eroe senza macchia e senza paura l'immagine tenera del soldatino adolescente − da Bud' zdorov, školjar di B. Okudžava (1961; trad. it., In prima linea, 1962) fino a Naveki-devjatnadcatiletnie (1979, "Diciannovenni in eterno") di G. Baklanov, dedicato ai ragazzi stroncati dalla guerra nell'età del primo amore, e a Saška (1979) di V. Kondrat'ev − si affiancano opere dal tono più severo: Nadgrudnyj znak OST, 1976, "Sul petto la sigla OST", di V. Semin; Klavdija Vilor, 1976, di D. Granin.

La rievocazione del recente passato che caratterizza la narrativa degli anni Settanta ispira talvolta impacciati sconfinamenti nel campo della filosofia storica: i romanzi brevi di V. Tendrjakov, Noč' posle vypuska (1974; trad. it., La notte dopo l'esame di maturità, 1976), Šest'desjat' svečej (1978, "Sessanta candele") e Rasplata (1979, "La resa dei conti"); i romanzi di J. Trifonov, Neterpenie (1973; trad. it., L'impazienza, 1978); Dom na naberežnoj (1976; trad. it., La casa sul lungofiume, 1977), in cui vengono analizzati i comportamenti di due giovani in epoca staliniana; Starik (1978; trad. it., Il vecchio, 1979), dove dall'intersecarsi di un presente stagnante e di un passato angoscioso nascono riflessioni inquietanti pur nella loro reticenza; Vremja i mesto, pubblicato postumo nel 1981 (trad. it., Il tempo e il luogo, 1983); e ancora le opere di Č. Ajtmatov, Belyj parochod (1970; trad. it., Il battello bianco, 1972); Rannye žuravli (1975; trad. it., Le prime cicogne, 1980); Pegij pes, beguščij kraem morja (1977; trad. it., Il cane pezzato che correva lungo la riva del mare, 1980); I bol'še veka dlit'sja den' (1980; trad. it., Il giorno che durò più di un secolo, 1982); Ja prišel dat' vam volju (1974, "Vengo a darvi la libertà") di Šukšin; Putešestvie diletantov ("Il viaggio dei dilettanti") e Svidanie s Bonapartom (trad. it., Appuntamento con Bonaparte, 1986) di B. Okudžava.

A questi autori più noti si affianca, verso la metà degli anni Settanta, un gruppo di prosatori, battezzati dai critici sorokaletnie ("quarantenni") per motivi meramente anagrafici, raccoltisi sulla base non di scelte estetiche, ma di una visione del mondo comune. Eterogenei tra loro, raccontano le vicende di persone banali, di una generazione, la prima del dopoguerra, che non ha radici né valori, abita in quartieri-dormitorio e lotta per un posticino al sole.

Lo ''stile dell'epoca'', soprattutto per quel che riguarda la produzione ufficiale regolarmente pubblicata in URSS, è una sorta di realismo in sordina, che sa essere storia di antieroi, si tratti dell'intellettuale vinto della prosa cittadina di Trifonov, della contadina strappata alla sua terra di Rasputin o del soldato disperso di Bykov. La prosa prende il sopravvento sulla poesia, tra i generi letterari si prediligono le forme brevi, la sintassi si spezzetta in cadenze disadorne, assume ampia diffusione il monologo, prevale la massima localizzazione spazio-temporale: la trincea, l'appartamento angusto, il paesino, l'arco di una giornata, l'incubo di una notte.

Negli stessi anni, l'esigenza di spaziare, di dare libero sfogo all'invenzione barocca, all'iperbole, alla metafora cosmica in cui liberare l'immaginario, di dare cittadinanza al grottesco, al ludico, all'irrazionale, si esprime nel sempre più vasto settore della letteratura non ufficiale, che accoglie opere estremamente varie, al di là della non adesione ai canoni del realismo tradizionale. L'appartenenza forzata al ''sottosuolo'' può essere determinata da scelte linguistiche, tematiche, ideologiche o formali: tutta la tradizione satirica della letteratura russa, da N. Gogol' a A. Remizov, da M. Zoščenko a J. Oleša, a J. Babel', a E. Zamjatin, Il'f e Petrov, a M. Bulgakov, sino alla ''poetica dell'assurdo'' degli Oberjuty, è rigettata da un potere con i piedi di argilla che ha totalmente perso il senso dell'umorismo.

Svariate sono le tonalità della satira e i generi attraverso cui si esprime: si va dalla satira limpida e bonaria di V. Vojnovič in Žizn' i neobyčajnye priključenija soldata Ivana Čonkina, respinto dalla censura e pubblicato a Parigi nel 1975 (trad. it., Vita e straordinarie avventure del soldato Ivan Čonkin, 1979), in cui Čonkin è uno Svejk russo, candido e irriverente; ai raffinati giochi intellettuali del Puškinskij dom (trad. it., La casa di Puškin, 1988) di A. Bitov, respinto dalla censura e pubblicato negli Stati Uniti nel 1978, con i suoi salti nel tempo e nello spazio, gli sdoppiamenti e le sovrapposizioni di personaggi, la spettrale irrealtà del mondo reale. Thrillers ben congegnati sono Krot istorii, ili revoljucija v respublike S=F (trad. it., La talpa della storia ovvero la rivoluzione nella repubblica di S=F, 1980), una spy-story surreale, e Nasledstvo ("L'eredità") di V. Kormer.

Intorno all'atmosfera kafkiana degli interrogatori polizieschi è costruito il già citato Fakul'tet nenužnych veščej di J. Dombrovskij, alla fine del quale vittima e carnefice si ritrovano simbolicamente accanto; mentre nessun linguaggio comune tra oppresso e oppressore sembra più possibile nel corrosivo Smuta novejšego vremeni, ili Udivitel'nye pochoždenija Vani Čmotanova (trad. it., I nuovi torbidi, ovverossia le mirabolanti avventure di Vanja Čmotanov, 1980) di N. Bokov, racconto fantastico delle disavventure di un ladro che tenta il gran colpo rubando la testa di Lenin dal mausoleo nella speranza di rivenderla a caro prezzo a un collezionista americano; e in Moskva-Petuški (trad. it., Mosca-sulla-vodka, 1990) di V. Erofeev, monologo dissacratore, amaro e irriverente, di un ubriacone che cerca di raggiungere in treno una località, Petuški appunto, dove non arriverà mai. In queste opere, cui possiamo aggiungere Ožog (trad. it., L'ustione, 1980), romanzo chiave nella biografia dell'autore V. Aksenov e della sua generazione letteraria, il fuoco della satira arde senza lasciare residui, la risata serve non già a rinnovare bensì a distruggere, la negatività trionfa e sommerge infine gli stessi autori.

Caratteristica comune a opere così diverse è la tendenza a trasfigurare e metaforizzare l'irrealtà della realtà sovietica senza mai nominarla direttamente, abbandonando il criterio della veridicità per quello della ''adeguatezza'': l'invenzione fantastica diventa così l'unico vero realismo, e l'esopismo tradizionale della letteratura russa dà nuovi splendidi frutti (paradigmatico il caso di F. Iskander, e in particolare del ciclo Sandro iz Čegema, "Sandro di Čegem", pubblicato negli USA nel 1979 e 1981, e di Kroliki & udavy, "Conigli e serpenti boa", pubblicato negli USA nel 1982).

Un simile gioco allusivo e autocensorio perde di attualità per gli scrittori emigrati o che comunque pubblicano le proprie opere all'estero (tamizdat), cui si aprono le vie della satira aperta, con toni prevalentemente pubblicistici (A. Zinov'ev), e della provocazione letteraria: la prosa surrealista di S. Sokolov (Škola dlja durakov, "Scuola per deficienti", pubblicato negli USA nel 1975; Meždu sobakoj i volkom, "Metà cane, metà lupo", pubblicato negli USA nel 1980), i romanzi Eto ja, Edička (1979; trad. it., Il poeta russo preferisce i grandi negri, 1985) e Dnevnik negodjaja (1982, "Diario di un mascalzone") di E. Limonov; i racconti di N. Bokov, J. Aleškovskij, J. Mamleev, V. Erofeev, E. Popov, S. Jur'enev, V. Sorokin.

Non è facile tirare le somme di un periodo in cui si intersecano, o coesistono ignorandosi, diverse sfere di produzione letteraria: accanto alla letteratura ufficiale, la cosiddetta ''emigrazione interna'', che utilizza prevalentemente i canali del tamizdat, l'emigrazione vera e propria (per non parlare di scrittori che pubblicano attraverso canali diversi opere di diverso tenore). È tuttavia possibile individuare due ben distinte opzioni formali, quella di un realismo ''in sordina'' e quella di un grottesco fantastico, mentre il nucleo tematico, esplicitato o rimosso ma comunque sempre aleggiante, degli scrittori d'ogni tendenza sta nella continuità storica, nel retaggio, nella nemesi, nel rapporto tra padri e figli. L'impulso al narrare nasce da un bisogno di comprensione storica profondo e trepido, dettato non già da un desiderio di vendetta, bensì da un'ansia di purificazione, autentica e perciò tanto più intransigente e pericolosa.

L'elezione di M.S. Gorbačëv a segretario generale (1985) e l'affermazione delle parole d'ordine perestrojka ("ristrutturazione") e glasnost ("trasparenza", o meglio libertà di parlare a voce alta) rappresentano una svolta decisiva non solo per la vita, ma anche per la storia culturale dell'Unione Sovietica.

L'interesse nei confronti delle tematiche storiche, che aveva già caratterizzato gli anni Settanta, può ora estendersi per la prima volta ad anni cruciali della storia russa attraverso romanzi-saggi che funzionano come vera e propria ricostruzione storica di momenti ed episodi sconosciuti o falsificati: a Deti Arbata di A. Rybakov (1987; trad. it., I figli dell'Arbat, 1988), grande affresco sugli anni precedenti l'uccisione di Kirov (1934), si affianca Nočevala tučka zolotaja (1987, "Pernottò la nuvoletta d'oro") di A. Pristavkin, romanzo breve, in buona parte autobiografico, in cui si racconta la deportazione in massa di intere popolazioni caucasiche; e ancora, Vas'ka (1987, "Vas'ka") e Ovragi (1988, "Burroni") di S. Antonov.

A sfondo storico, e spesso autobiografico, sono numerosi romanzi − Belye odeždi (1986, "Camici bianchi") di V. Dudincev; Zubr (1987, "Il bisonte") di D. Granin; Opravdan budet každyj čas (1986, "Sarà giustificato ogni momento") di V. Amlinskij − che raccontano le persecuzioni subite da chimici, fisici, biologi, quando Stalin era la massima autorità in ogni campo del sapere. Largamente autobiografico è Izčeznovenie di Trifonov (1987; trad. it., La sparizione, 1988), in cui vittime del terrore staliniano sono intellettuali e dirigenti del partito, condomini dell'ormai famosa "casa sul lungofiume". Al tentativo di spiegare la psicologia di quegli anni sono dedicati Moskovskaja ulica di B. Jampol'skij (1988; trad. it., La grande epoca, 1988), Vstan' i idi di Ju. Nagibin (1987; trad. it., Alzati e cammina, 1988), composti entrambi più di venti anni prima, Kar'er (1986, trad. it., La cava, 1989) di Bykov, a riprova di come per la letteratura dell'ultimo periodo funzioni sempre meno la schematica suddivisione in ''prosa di guerra'', ''campagnola'', ''cittadina'', ecc. Particolare emozione ha suscitato la pubblicazione di Žizn' i sud'ba di V. Grossman, sequestrato dal KGB nel 1962 e pubblicato a Losanna nel 1980 (trad. it., Vita e destino, 1984), saga imperniata sulla battaglia di Stalingrado, in cui l'autore, attraverso la ricostruzione di diversi e tragici destini individuali, si interroga sulla sconvolgente specularità di nazismo e stalinismo.

Gli aspetti più aspri dell'attualità ispirano invece Smirennoe kladbišče (1987, trad it., L'umile cimitero, 1990) e Strojbat (1989; trad. it., IV Compagnia Strojbat, 1993) di S. Kaledin, che con un linguaggio duro, gergale, anti-letterario descrivono l'emarginazione e la violenza, e dettano toni sempre più accesamente antiurbani a rappresentanti della linea ''campagnola'' quali Astaf'ev, Rasputin, Belov, i cui romanzi, rispettivamente Pečal'nyj detektiv (1986, "Il detective triste"), Požar (1985, "L'incendio") e Vse vperedi (1987, "Tutto è ancora da venire"), hanno suscitato aspre polemiche per il loro cupo pessimismo slavofilo circa le possibilità di rigenerazione morale della civiltà industriale. Va ricordato infine il dibattito su Placha di Č. Ajtmatov (1986; trad. it., Il patibolo, 1988) che reintroduce nella letteratura russa temi religiosi da tempo assenti.

Il vorticoso susseguirsi di mutamenti politici, dal crollo del muro di Berlino alla fine dell'URSS, ha esercitato un'azione contraddittoria sulla vita letteraria del paese. La libertà di stampa si è accompagnata a una contrazione tanto del pubblico dei lettori che del tempo a disposizione per la lettura, con conseguente riduzione delle tirature e degli onorari, confusione del mercato editoriale, prevalenza di titoli apertamente commerciali. La massiccia pubblicazione di opere prima inaccessibili al pubblico sovietico ha quasi chiuso l'accesso alla nuova produzione. Uno dopo l'altro sono stati reinseriti nella letteratura russa autori già innominabili (N. Gumilev, V. Chodasevič, V. Nabokov, G. Ivanov, E. Zamjatin), si sono pubblicate le opere proibite di scrittori emigrati (I. Bunin, I. Šmelev, A. Remizov) e quelle di grandi del Novecento sino ad allora edite solo in Occidente: Juvenil'noe more (trad. it., Il mare della giovinezza, 1989) di A. Platonov, Cuore di cane e tutti i drammi di M. Bulgakov, Dottor Živago di B. Pasternak, Requiem di A. Achmatova, Po pravu pamjati ("Autorizzato dalla memoria") di A. Tvardovskij; si stampano inediti e si apprestano edizioni complete di I. Babel', B. Pil'njak, M. Zoščenko, D. Charms, O. Mandel'štam, a riconoscimento della loro statura di classici. Hanno visto la luce sconvolgenti testimonianze sui lager, quali Kolymskie rasskazy (trad. it., I racconti di Kolyma, 1976 e 1995) di V. Šalamov, mentre la pubblicazione delle opere complete di Solženicyn ha acquistato un valore simbolico di definitiva rottura con il passato.

Risultato di questo fervore editoriale è la definitiva fusione di due tradizioni, quella dell'emigrazione e quella sovietica, e dunque la riunificazione della letteratura russa. Molti emigrati sono tornati o trascorrono lunghi periodi in Russia, dove comunque sono pubblicate le loro opere (V. Aksenov, V. Vojnovič, J. Aleškovskij, S. Dovlatov). Alla riunificazione si è accompagnata la ''normalizzazione'' − se prima il significato di un'opera era dato anche dalla sua rilevanza ''sociale'', contavano l'onestà dello scrittore, il suo coraggio, la sua sincerità, oggi tornano in primo piano i valori formali, minacciati solo, e come in Occidente, dal mercato − e la ristrutturazione del sistema dei generi. La fantasia barocca (surreale, assurdo, soc'-art, ecc.), prima confinata nell'underground o nell'emigrazione, è dilagata negli sperimentalismi dei post-modernisti, esplorando sfere prima sottoposte a censura e autocensura (Roman, "Romanzo" di V. Sorokin, 1995), ma non mancano i romanzi storici e filosofici − D. Galkovskij, Beskonečnyj tupik, "Un interminabile vicolo cieco", 1992; M. Charitonov, Linii sud'by, ili Sundučok Milaševiča, "Le linee del destino, ovvero Il bauletto di Milaševič", 1992; V. Šarov, Repeticii, "Prove", 1992; F. Gorenštejn, Mesto, "Un posto", 1992 −, mentre L. Petruševskaja (Vremja noč, "Tempo di notte", 1992) racconta con crudo realismo la vita impossibile di una donna moscovita, e V. Makanin (Laz, 1991; trad. it., Il cunicolo, 1991) inaugura il genere dell'anti-utopia con il quadro terribile di una Mosca post-catastrofica. In letteratura hanno fatto irruzione il privato e l'autobiografico: S. Gandlevskij in Trepanacija čerepa ("Trapanazione del cranio", 1995) costruisce la narrazione intorno al racconto di una sua malattia; A. Sergeev in Al'bom dlja marok ("Album di francobolli", 1995), mostra la sua collezione di ricordi degli anni 1936-57; un flusso di coscienza è Izgnanie iz Edema. Ispoved' evreja ("La cacciata dall'Eden. Confessione di un ebreo", 1995) di A. Melichov; V. Aksenov è autore di una saga familiare che appassiona anche per la riconoscibilità dei personaggi (Moskovskaja saga, "Una saga moscovita", 1994).

Se gli anni Settanta avevano visto l'assoluto predominio della prosa − con le eccezioni di E. Evtušenko, A. Voznesenskij, B. Achmadulina, J. Moric, N. Matveeva − spetta alla poesia il compito di provvedere al rinnovamento del linguaggio, e di dare più immediata espressione alle novità degli ultimi anni. Domina incontrastato su tutto l'universo poetico russo il genio di J. Brodskij. A Leningrado, oggi San Pietroburgo, e a Mosca si è sviluppata una scuola neoclassica, che trova nella tradizione del secolo d'argento, l'antidoto alla corruzione ''sovietica'' del linguaggio (A. Kušner, D. Samojlov, E. Švarc, V. Krivulin, J. Kublanovskij, O. Sedakova). A questa via si è affiancata quella, soprattutto moscovita, dei metaforisti (o metarealisti) che, a differenza dei neoclassici, non si rivolgono alla ricchezza incorrotta della tradizione, ma cercano di descrivere il mondo con un nuovo e più complesso sistema di tropi. Il loro modello è il futurismo; il linguaggio è scevro di reminiscenze classiche e scritturali, ma ricco invece di terminologia scientifica e tecnica, nella rivalutazione di una modernità metareale da contrapporre a quella amorfa e provinciale della letteratura ufficiale (I. Ždanov, A. Parščikov, A. Eremenko). Sia i metaforisti che i neoclassici paiono tuttavia soccombere davanti a una terza scuola che sottrae loro il pubblico dei lettori. Nato nel 1960 con G. Sapgir e V. Nekrasov, e ripreso nel 1975 da D. Prigov e L. Rubinštejn, il concettualismo moscovita post-oberiuta costruisce il proprio linguaggio per mezzo di frammenti dei linguaggi correnti, non escluso quello odioso e screditato, del potere. Pur diversi tra loro, si associano su queste posizioni i poeti del gruppo Al'manach: oltre a D. Prigov e L. Rubinštejn, T. Kibirov, S. Gandlevskij, M. Ajzenberg, D. Novikov, V. Koval' (Ličnoe delo, "Fascicolo personale", 1991). Immediatamente percepita come parodistica e soffusa a un tempo di un surrealismo romantico privo d'asprezza, la loro opera consente forme postmoderne, e in qualche modo rassicuranti, di riappropriazione linguistica ed estetica di un passato individuale (T. Kibirov, Stichi o ljubvi, "Versi d'amore", 1993).

Bibl.: Perestrojka und Literatur, a cura di E. Reißer, Berlino 1990; W. Kasack, Lexicon der russischen Literatur des 20. Jahrhunderts, Monaco 1992; AA.VV., Russian culture in transition, Selected papers of the working group for the study of contemporary Russian culture, 1990-1991, "Stanford Slavic Studies", 7, Stanford 1993; Letteratura e società in Europa Orientale. Analisi di una transizione, quaderno monografico di Europa Orientalis, 13 (1994), 2.

Archeologia. - Nel corso dell'ultimo quindicennio le ricerche condotte nel territorio dell'ex URSS hanno ampliato in modo considerevole e talora modificato le conoscenze archeologiche.

I nuovi dati emersi sulle culture paleolitiche del Caucaso hanno permesso di fissare le prime apparizioni locali di protoantropi a un milione e seicentomila anni orsono. In particolare, nel corso degli scavi effettuati nella stazione di Dmanisi sono stati rinvenuti una mandibola di Homo Erectus e resti di fauna del tipo Villafranca, che risalgono all'epoca suddetta. Inoltre, lo studio degli strumenti litici scoperti nel sito ha gettato nuova luce sull'industria detta ''acheuliaa'', tipica del Paleolitico inferiore: manufatti attribuibili a questa cultura sono recentemente venuti alla luce anche nella valle di Ferghana. All'epoca immediatamente successiva di Riss-Würm-Mindel (Paleolitico inferiore) risalgono i rinvenimenti effettuati nella grotta di Kudaro i, sempre nella regione caucasica. In corrispondenza col Paleolitico medio il quadro delle attestazioni si allarga considerevolmente: resti attribuibili all'industria musteriana sono stati rinvenuti nel Turkmenistan, nella regione di Rovno, nel bacino del Don e in Abkhasia. La presenza di culture comprese nell'orizzonte paleolitico è attestata anche nella regione di Bryansk, nella zona dei laghi di Khakassia, nel bacino dell'Oka, in quello dello Jenisej. Per quanto concerne il Mesolitico, appaiono particolarmente interessanti le testimonianze emerse nella regione dei laghi di Meschera, dove sono stati indagati numerosi campi stagionali per la caccia attribuiti alla Cultura di Butovo, che fiorì durante il 6° millennio a.C. nel territorio compreso tra i fiumi Oka e Volga (Petrusino, Mikulino, Chernaya I). Campagne sistematiche di rilevamento dei siti sono state compiute in Ucraina, Bielorussia, nella penisola di Kola, nei Transurali.

Nell'ambito dei numerosi siti riconducibili al periodo neolitico ed eneolitico, sono di particolare interesse quelli individuati nel Tagikistan (cultura tardo-neolitica detta di Hissar), nel Turkmenistan meridionale (cultura neolitica di Djetun, sito harappiano di Altyn-depe, attribuito alla variante Geoksjur della cultura eneolitica di Anau) e nella Battriana settentrionale (cultura di Andronovo), che appaiono caratterizzati da un'economia agro-pastorale già nel 5° millennio a.C. La precocità di queste testimonianze va imputata all'influsso subito dalle culture contemporanee dell'Iran, dell'India e della Mesopotamia. Parallelamente, il proseguimento degli studi sull'agricoltura arativa transcaucasica ha permesso di retrodatarne ulteriormente gli inizi, fino al 5° millennio a.C. (sito di Giughi nel Dagestan). Tra i rinvenimenti di particolare interesse va ricordato l'insediamento agricolo di Sarazm, presso Penjikent, dove sono state messe in luce abitazioni articolate, necropoli monumentali, templi dotati di pareti dipinte e di altari, riconducibili alla fase eneolitica del sito (seconda metà del 3°-inizi 2° millennio a.C.).

L'altissimo numero delle testimonianze risalenti all'età del Bronzo ci permette solo di fare l'elenco di quelle ritenute eccezionali. A Pilipchatino, nell'Ucraina orientale, è stato condotto lo scavo di una miniera di rame sfruttata dalla popolazione appartenente alla cultura ''delle tombe di legno'' (15°-12° secolo a.C.): vi sono state messe in luce le abitazioni seminterrate dei minatori e tracce dell'impiego di animali da soma per il trasporto. Lo svolgimento di attività legate all'estrazione e alla lavorazione dei metalli è largamente attestato anche nel bacino del Don, nell'area del basso Dnepr, in Azerbaigian, in Ucraina e in Carelia. Nell'area dell'alto Seversky Donets, a Shosseinoe, sono state individuate alcune case seminterrate con tracce di circostanti strutture lignee. Tra i principali complessi funerari dell'epoca si ricordano le catacombe decorate da pitture con soggetti cosmogonici, nella regione del Don (media età del Bronzo), e le coeve tombe a dolmen individuate nel bacino del fiume Kjafar, presso Stavropol. Al periodo di transizione tra l'età del Bronzo e quella del Ferro risalgono numerosi siti della cultura Koban, che fiorì nel Caucaso tra il 14° e il 4° secolo a.C. Nell'ambito degli studi relativi alla metallurgia dell'età del Ferro vanno menzionati quelli dedicati alle tecniche di fusione praticate in Ucraina durante il 1° millennio a.C.; si è appurato che normalmente venivano usate fornaci fisse, anche se non mancano attestazioni isolate di fornaci del tipo ''usa e getta''.

Le manifestazioni dell'arte scitica (che fiorì nelle steppe euroasiatiche tra il 9° e il 3° secolo a.C.) hanno costituito, nel corso dell'ultimo quindicennio, uno dei campi privilegiati della ricerca archeologica: le scoperte che ne sono derivate rivestono un interesse eccezionale (v. sciti e scizia, in questa Appendice).

La geografia della Scizia ha continuato a essere oggetto di dibattiti, che vertono sull'interpretazione delle notizie riportate da Erodoto e dalle altre fonti greche (recentemente si è proposto di identificare la necropoli reale di Gerrhos con un cimitero scitico del 5° secolo a.C., rinvenuto lungo il fiume Sula). Le indagini effettuate in Crimea hanno permesso di retrodatare gli inizi della cultura degli Sciti alla fine del 9° secolo. Inoltre, le prospezioni di superficie compiute su larga scala nella regione tra Don e Dnestr hanno rivelato l'esistenza di insediamenti agricoli, che sembrano documentare la tendenza alla sedentarietà di questo popolo nomade nel periodo compreso tra la seconda metà del 5° e il 4° secolo a.C. Presso il Mar Nero, nella parte meridionale del territorio scitico, sono stati scavati alcuni centri urbani di fondazione greca abitati da questa popolazione nomade: il più importante è Elizavetovskaja, un emporio greco-barbarico fondato nel 6° secolo sul delta del Don, che subì un processo di urbanizzazione nel corso del 4° secolo a.C. (i sondaggi effettuati nella parte meridionale dell'acropoli hanno rivelato la presenza di strutture di fine 5°-inizi 3° secolo). Tratti tipici della cultura scitica sono stati individuati anche a Neapolis (scavi della cinta muraria del 180 a.C. e della necropoli orientale) e a Nymphaion (nel 1982 vi è stato rinvenuto un affresco di 12 m2 con rappresentazione di una flotta di 30 navi, in cui è stato proposto di vedere un'allusione a un'ambasciata inviata da Tolomeo ii d'Egitto). Le ultime campagne di scavo hanno portato anche alla scoperta di alcune tombe scitiche caratterizzate dalla presenza di corredi particolarmente ricchi. A Berdyansk (regione di Žaporože) è stato indagato il tumulo di una sacerdotessa scitica e della sua ancella; nonostante il sito fosse già stato depredato, vi sono stati trovati oggetti in ceramica, elementi d'ornamento e soprattutto il carro funebre con i finimenti e le armi (fine del 4° secolo a.C.). Nella regione dei Cherkassi è stata messa in luce la sepoltura di un guerriero rivestito di una ricca armatura, costituita da una corazza formata da piccole lamine, un elmo con coprinuca e paragnatidi, gli schinieri, una faretra e una lancia (6°-5° secolo a.C.).

Accanto alla cultura degli Sciti merita di essere ricordata quella dei nomadi Sarmati, in un primo tempo stanziati a oriente della Scizia stessa, dove poi si insediarono a partire dal 2° secolo a.C. L'eccezionale abilità di questo popolo nella lavorazione dei metalli è attestata essenzialmente dai preziosi manufatti rinvenuti nelle sepolture di rango elevato. Nella regione di Uralsk, a Dolinnoe, è stata rinvenuta una sepoltura maschile con corredo formato da un rhytón d'oro a forma di protome bovina (di fattura achemenide), un anello con sigillo raffigurante un grifone e varie lamine d'oro (5° secolo a.C.). Si è supposto che il monumento funerario appartenesse a un sarmata arruolato nelle truppe achemenidi. Nelle vicinanze della città di Azov è stato individuato un kurgan sarmatico (1° secolo d.C.) già saccheggiato in antico, in cui è stata scoperta una serie di oggetti d'oro tempestati di turchesi e decorati con stile animalistico (svariati elementi decorativi per i finimenti di un cavallo, un braccialetto e una spada). A Kobiakovo, presso Rostov sul Don, è stata messa in luce la tomba di una presunta sacerdotessa, corredata da numerosi oggetti d'oro con funzione ornamentale (diadema, torques, braccialetti) e di culto (amuleti, vasi di culto) di fine del 1°-inizi 2° secolo d.C. In un primo tempo si è attribuito alla cultura sarmata anche l'importantissimo complesso cultuale di Ustyurt (Kazakistan), in realtà eretto dai nomadi Saci e Massageti: il sito annovera pavimenti circolari lastricati di pietra con al centro altari sacrificali, tumuli funerari e più di cinquanta statue raffiguranti guerrieri armati, note come ''statue sarmate'' (4°-1° secolo a.C.). All'epoca sarmatica risale infine un tumulo localizzato nella regione del basso Don (fine 1°-inizi 2° secolo d.C.), probabilmente eretto dagli Alani, in cui sono stati rinvenuti numerosi oggetti romani d'importazione (ceramica, bacile in bronzo, oggetti militari, morso di cavallo con otto phalerae in bronzo decorate da protomi animali).

Nella Battriana settentrionale sono stati scoperti nuovi siti i cui monumenti presentano evidenti influssi della cultura ellenistica. A Takhti-Sangin, situato sull'alto Amu Darja (Tagikistan), sono state esplorate le favissae e i bothroi sottostanti al tempio, che si sono rivelati ricchi di offerte votive. Benché alcuni manufatti risalgano ancora all'arte achemenide (6°-5° secolo a.C.), la maggior parte degli stessi sono di fattura greca ovvero gandharica (regni dei re Kanishka e Huvishka, della dinastia Kushana: fine 4°-inizi 3° secolo a.C.): si annoverano armi ed elementi di mobilio in avorio (tra i quali si segnala una machaira votiva che reca scolpito sul fodero il ritratto di Alessandro-Eracle), lamine di rivestimento d'oro, oggetti in argento decorati a rilievo e persino reperti scito-siberiani. L'importanza del sito risiede dunque nell'attestazione dei rapporti intercorsi prima con l'Iran achemenide, e successivamente con l'India e la Parthia. Nel 1975-76 è stato esplorato l'insediamento fortificato di Zar-Tepe (Tagikistan). Gli scavatori hanno messo in luce più di 45 edifici e un tratto di strada lungo 75 m, in corrispondenza dei quali sono stati rinvenuti ceramica, monete e un medaglione del re Huvishka della dinastia Kushana (arte gandharica della seconda metà del 4° secolo a.C.).

Negli ultimi anni è proseguita a ritmo incalzante anche l'esplorazione delle città greche e degli insediamenti barbarici nelle vicinanze del Mar Nero. Per quanto concerne il territorio attualmente soggetto all'Ucraina, è doveroso ricordare gli scavi condotti, oltre che negli insediamenti scitici prima citati, nelle colonie greche di Tyros (tratto orientale delle mura, del 4° secolo a.C.), dell'isola di Borysthenes (case seminterrate in legno del 6° secolo a.C., vasta necropoli nella zona nord-occidentale dell'isola), di Olbia (secondo témenos occidentale del 575-550 a.C., con sacelli per Apollo letrós, Meter, Hermes e Afrodite; fonderia per il bronzo), Chersonesos (skené e párodos sinistra del teatro; necropoli di età classica; abitazione privata nella zona nord-orientale della città; tomba a drómos presso la torre di Zenone; studi sulla suddivisione agraria del territorio), Pantikapaion (scavi dell'acropoli, dove sono stati messi in luce un edificio circolare, alcune strade e un edificio rettangolare del 525-500 a.C.; palazzo a peristilio con doppio colonnato, della seconda metà del 4° secolo a.C., nel pianoro occidentale) e Phanagoria (edifici in legno del 5° secolo a.C. nella parte meridionale della città; necropoli; heróon absidato con strutture in legno; tempio in calcare locale con decorazione architettonica fittile); inoltre vanno segnalati i monumenti funerari venuti alla luce a Jubileinoye, nella penisola di Taman (due stele attiche del 4° secolo a.C. reimpiegate nelle pareti di una casa del 1° secolo a.C.; alcuni frammenti di un rilievo con Amazzonomachia). Invece sul litorale orientale del Mar Nero, ora soggetto alla Georgia e Abkhasia, sono state investigate Pichori (individuati 8 livelli culturali, databili dal 3° millennio al 3° secolo a.C.), Vani (strutture di culto annesse al tempio principale, con statue e iscrizioni in bronzo; edifici di culto nella parte centrale e orientale della medesima terrazza) e Dzalisi (nella città bassa sono stati scoperti un palazzo ad atrio, una basilica e un palazzo a peristilio databili dal 2° al 5° secolo d.C.). Vedi tav. f.t.

Bibl.: L'archéologie de la Bactrianne ancienne, Actes du Colloque franco-soviétique (Dushambe 27 ottobre-3 novembre 1982), Parigi 1985; Archeologija Ukrainskoj SSR. 1: Pervobitnaja archeologija. 2: Skifo-sarmatskaja i anticnaja archeologija, Kiev 1985-86; R. Rolle, The world of the Scythians, Londra 1989; B. Brentjes, B. Jacobs, L. Kolmer, Armenien. Beiträge zur Sprache, Geschichte und Archäologie, Linz 1990; Gold der Steppe. Archäologie der Ukraine (Katalog Ausstellung Schlewig 1991), Neumünster 1991; D. Kacharava, Archaeology in Georgia, 1980-1990. Post-prehistoric to pre-medieval, in Archaeological Reports, 38 (1991), pp. 79-86; J.G.F. Hind, Archaeology of the Greeks and Barbarian peoples around the Black Sea, 1982-1992: Former URSS, Ukraine; Georgia and Abkhazia: East Black Sea Littoral, ibid., 39 (1992-93), pp. 91-110. Si vedano inoltre le riviste: Akademija Nauk Ukrainskoj SSR (Institut Archaeologij); Archeologija SSSR; Materialy i issledovanija po archeologij SSSR; Rossijskaja Archeologija; Sovietskaja Archeologija.

Arte. - Dalla fine degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta il processo artistico in URSS è stato accompagnato da un inasprimento delle contraddizioni a esso intrinseche, che hanno acquistato talvolta carattere acutamente drammatico. Il ruolo predominante nella cultura e nelle istituzioni artistiche era mantenuto dall'Accademia di belle arti e dall'Unione degli artisti, organi portanti della cosiddetta arte ufficiale. Anche la concezione del ''realismo socialista'' conservava la sua autorità formale, sostenuta dai teorici-guida dei due decenni precedenti M. Lifšic, A. Kamenskij, V. Vanslov e altri. Tuttavia, anche nell'arte sovietica ufficiale cominciava a svolgere un ruolo più attivo la generazione formatasi fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, nell'epoca del cosiddetto ''disgelo'', che era caratterizzata da una maggiore tolleranza verso il nuovo e dall'apertura di orizzonti estetici più ampi.

Sulle pagine delle riviste ufficiali i critici J. Gerčuk, V. Lebedeva, A. Kantor, E. Murina, A. Kamenskij, M. Jablonskaja e altri sostenevano le tendenze più attuali e innovative nell'arte di maggiore risonanza sociale. Da segnalare la particolare importanza assunta dalle grandi mostre pansovietiche, tenute a Mosca nella Sala centrale delle esposizioni, il cosiddetto Manège: si trattava di rassegne rappresentative o tematiche, come SSSR: Naša rodina (1983, "L'URSS: la nostra Patria") oppure Strana sovetov (1988, "Il Paese dei Soviet"). Grande attenzione si prestava anche alle mostre annuali pansovietiche dei giovani artisti, a livello di repubblica e di città.

Dalla seconda metà degli anni Ottanta, poi, le riforme ideologiche e politiche del nuovo corso del paese hanno provocato una radicale frattura con la situazione precedente: è stato definitivamente riconosciuto il valore dell'eredità dell'avanguardia storica russa, in precedenza soffocata dai dogmi estetici dominanti; sono state organizzate grandi mostre monografiche di M. Chagall (1988), di P. Filonov (1988), di K. Malevič (1988), di V. Kandinskij (1989). È stata ''legalmente riconosciuta'' l'esistenza della cosiddetta arte non ufficiale le cui tendenze innovative si sono affermate in modo evidente nella Mostra giovanile degli artisti moscoviti (1986). L'associazione Ermitage, creata nel 1987 su iniziativa del critico L. Bažanov, ha organizzato una serie di esposizioni volte a presentare un'ampia rassegna delle esperienze alternative dell'arte sovietica del secondo dopoguerra. Importante centro delle tendenze più radicali dell'arte uscita dalla clandestinità è diventato il Klub avangardistov ("Club degli avanguardisti"), creato per iniziativa degli artisti D. Prigov, S. Gundlach, S. Anufriev e del sociologo J. Bakštejn. Importanti rassegne dell'arte sovietica non ufficiale hanno fornito le mostre Labirint (1988, "Il labirinto") e Dorogoe iskusstvo (1989, "Cara arte").

Grande eco nel paese hanno suscitato la comparsa dell'arte sovietica sulla scena artistica dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti, e il successo registrato da mostre di singoli autori − I. Kabakov, E. Bulatov, V. Jankilevskij, E. Štejnberg e altri − o da rassegne panoramiche del tipo di Ich lebe. Ich sehe (Kunstmuseum di Berna, 1988). Si è notevolmente ampliata in questo periodo anche la conoscenza dell'arte dell'Occidente da parte della cultura artistica sovietica, grazie a importanti mostre, come le antologiche di G. Jukker (1988), R. Rauschenberg (1989), F. Bacon (1989), o come Vek otkrytij. Iskusstvo XX veka vo Francii (1989, "Un secolo di scoperte. L'arte del XX secolo in Francia"), Iskusstvo v Rime. 1945-89 (1989, "L'arte a Roma. 1945-89"), e altre ancora. Un avvenimento di portata eccezionale può essere senz'altro considerata la prima vendita all'asta Sotheby's dell'arte sovietica contemporanea, tenutasi a Mosca (1988), che ha segnato l'iniziazione della cultura sovietica al mercato internazionale e la fine del pluridecennale monopolio dello stato nell'acquisizione di opere di arte contemporanea.

I più importanti pittori russi di questo periodo sono artisti che hanno fatto il loro ingresso nell'arte sovietica tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta nell'ambito della tendenza definita ''stile austero''. Nelle sue composizioni storiche o di genere G. Koržev (n. 1925) si rivolge alla riproduzione strettamente documentaria e criticamente veritiera della realtà. Nelle sue tele monumentali, plasticamente severe, V. Ivanov (n. 1924) sviluppa il tema della campagna, rivelandosi l'analogo pittorico della letteratura della cosiddetta scuola degli ''scrittori contadini''. Sono inclini all'interpretazione eroico-romantica dei soggetti del passato rivoluzionario e bellico i fratelli B. e A. Tkačëv (nati rispettivamente nel 1922 e nel 1925), che lavorano insieme. Eminente maestro del genere paesaggistico è riconosciuto V. Sidorov (n. 1928). E. Moiseenko (n. 1916) si distingue per la caratteristica libertà espressiva e il virtuosismo dell'esecuzione. Un posto particolare occupa D. Žilinskij (n. 1928), autore di composizioni allegoriche intellettualmente complesse, che stilizzano la maniera e la tecnica dell'antica pittura olandese e dell'iconografia russa.

Al centro della polemica artistica in questo periodo si è venuta a trovare la generazione degli artisti affermatisi nel decennio precedente, riuniti all'inizio degli anni Ottanta nel Gruppa 13 ("Gruppo 13"): T. Nazarenko, A. Sitnikov, O. Bulgakova, N. Nesterova, A. Volkov, A. Petrov, T. Nasipova, I. Strarženeckaja, K. Nečitajlo e altri. Pur avendo conservato nella propria opera la forma del quadro tradizionale, questi artisti hanno cercato, tuttavia, di arricchirne le possibilità espressive e comunicative, volgendosi alla stilizzazione retrospettiva (Nazarenko, Bulgakova), all'appropriazione delle forme del lubok, cioè della stampa popolare (Nesterova), o della fotografia (Petrov, Volkov), alle complesse composizioni a montaggio (Nečitajlo, Nazarenko), o al quasi completo annullamento della figurazione attraverso l'elemento pittorico (Strarženeckaja). È proprio di questi artisti anche il rifarsi a temi e soggetti pubblicitari (Nazarenko), il ricorso al soggettivismo visionario (Sitnikov), alle intonazioni intimistiche e soggettivamente dolenti (Nazarenko, Bulgakova, Volkov). Il Gruppa 13 ha fortemente influenzato la generazione giunta sulla scena artistica ufficiale negli anni Ottanta: V. Brajnin ha raccolto il tema cittadino e l'intonazione esistenziale nostalgica, I. Lubennikov l'immaginosità folclorica del lubok. Il gruppo di giovani artisti, portando avanti la tendenza verso un freddo oggettivismo, si è rivolto ai procedimenti del realismo fotografico (A. Tegin, S. Šerstjuk, S. Bazilev, S. Geta), attuando un felice compromesso fra la pittura sovietica tradizionale e l'esperienza occidentale.

Nella seconda metà degli anni Ottanta la nuova generazione si è segnalata con due tendenze contrapposte, quella critico-sociale (M. Kantor, A. Sundukov, L. Tabenkin) e quella lirico-pittorica (I. Ganikovskij, E. Dybskij, B. Morkovnikov, N. Turnova). Infine, continua a occupare un posto particolare nella cultura artistica attuale l'opera di I. Glazunov e A. Šilov. Il primo, nelle forme del grande quadro tematico o del ciclo pittorico, si volge al tema del destino nazionale russo; il secondo, utilizzando il genere del ritratto e la stilistica del neoclassicismo pittorico russo del 19° secolo, crea una galleria di ''eroi del nostro tempo''. La reputazione di questi artisti eccezionalmente popolari, che gli ''addetti ai lavori'' giudicano tuttavia in modo critico, ha un evidente carattere scandalistico-sensazionale.

In questo periodo si è sviluppata dinamicamente anche la tradizione artistica non ufficiale. Continuano a lavorare attivamente anche i più anziani rappresentanti dell'arte alternativa: il maestro delle nature morte ''metafisiche'' D. Krasnopevcev (n. 1925), l'artista fantastico B. Svešnikov (n. 1927), l'autore di imponenti progetti plastici V. Sedur (1924-1986). Ha conservato la sua vitalità la linea pittorico-plastica dell'arte alternativa sovietica, rappresentata dall'astrazione lirica di V. Nemuchin (n. 1925), dall'astrazione geometrica di E. Štejnberg (n. 1937), dalla mitopoiesi esoterica di V. Jankilevskij (n. 1938) e di D. Plavinskij (n. 1937), dalle improvvisazioni virtuosistiche di A. Zverev (1931-1986) e da altri artisti. Tuttavia in questi anni acquista un ruolo di primo piano la linea socio-concettuale. Indiscutibile nell'ambiente creativo dell'avanguardia è l'autorità di I. Kabakov (n. 1933), che utilizza il linguaggio dell'arte concettuale per l'analisi dei temi dell'esistenza quotidiana nella collettività sociale sovietica. E. Bulatov (n. 1933), uno dei principali esponenti del concettualismo moscovita, ha tentato l'accostamento paradossale del quadro di cavalletto tradizionale con i modelli della propaganda ideologica, del manifesto politico.

Tenendo conto dell'intenso dialogo con la realtà sociale e con l'ideologia ufficiale, proprio di questi autori, e considerando la loro assimilazione delle forme artistiche del ''realismo socialista'', si usa definire la loro opera con il termine ironico di soc'-art (cioè arte socialista). La paternità di questo termine appartiene ai maggiori rappresentanti di questa tendenza, V. Komar (n. 1943) e A. Melamid (n. 1945), che lavorano insieme e la cui opera, sviluppatasi negli anni Ottanta negli Stati Uniti, è inseparabile dalla formazione dell'avanguardia sovietica. Fra i più eminenti rappresentanti della soc'-art ricordiamo L. Sokov (n. 1941) e A. Kosolapov (n. 1943), che lavorano negli Stati Uniti, e i loro omologhi moscoviti B. Orlov (n. 1941), R. Lebedev (n. 1941) e D. Prigov (n. 1941). Entro la linea concettuale dell'avanguardia sovietica si sono affermate anche notevoli e indipendenti individualità: l'analista del linguaggio pittorico I. Čujkov (n. 1935), il maestro delle installazioni neocostruttivistiche F. Infante (n. 1943), il grafico concettualista E. Gorochovskij (n. 1929). Fenomeno di spicco è diventato il gruppo Kolletivnye dejstvija ("Azioni collettive"), comprendente A. Monastyrskij, N. Alekseev, I. Makarevič, G. Kizival'ter, N. Panitkov, P. Romaško, che ha organizzato performances a cui ha preso parte tutta la comunità artistica alternativa.

Alla fine degli anni Settanta è emersa anche una nuova generazione di artisti alternativi, che ha dato vita a due tendenze contrapposte: vitalista e aggressiva, la prima ha messo in atto performances provocatorie ed è rappresentata nel suo aspetto più vivace dal gruppo Muchomor ("L'ovolo malefico"; ne fanno parte K. Zvezdočetov, S. Gundlach, V. e S. Mironenko); l'altra, più riflessiva e strutturalisticamente analitica, ha trovato espressione nell'attività del gruppo S/Z (V. Skersis, V. Zacharov).

Scontratasi fin dai primi passi con le condizioni dell'esistenza clandestina, la nuova generazione ha compreso la necessità di creare una strategia estetica a essa adeguata. In questo modo è nata la cosiddetta apt-art ("arte d'appartamento"), che ha allestito in ambienti domestici e per consumo domestico mostre-installazioni concettuali (1982-84). Nel periodo della apt-art si sono segnalati i nuovi artisti: A. Filippov, Ju. Al'bert, Ju. Lejderman, S. Anufriev, O. Petrenko, L. Skripkina, L. Rezun e altri. A metà degli anni Ottanta sulla giovane scena moscovita si sono delineati i sintomi di una rinascita delle tendenze pittorico-espressive attraverso l'attività del gruppo Detskij sad ("Giardino d'infanzia", comprendente A. Rojter, G. Vinogradov, N. Filatov). Nell'ambito di queste tendenze si riconosce l'opera di G. Litičevskij, G. Ostricov, S. Volkov, S. Šutov, A. Žuravlëv e altri. Nella seconda metà degli anni Ottanta l'attività dei gruppi Čempiony mira ("Campioni del mondo": K. Zvezdočetov, G. Abramišvili, K. Latyšev, B. Matrosov, A. Jachnin, I. Zajdel') e Medicinskaja germenevtika ("Ermeneutica medica": P. Pepperštejn, Ju. Lejderman, S. Anufriev) ha inasprito fino all'estremo la dialettica della tradizione vitalistica, provocatorio-estremistica e intellettuale, concettuale-analitica, sulla scena artistica moscovita.

Un panorama generale della cultura artistica delle diverse repubbliche già facenti parte dell'URSS presenta un quadro estremamente vario e contraddittorio. Lo sviluppo artistico si è svolto più che mai all'insegna della diversificazione, dell'assimilazione del retaggio regionale nazionale e della ricerca delle proprie radici originali.

Quanto ai paesi baltici, caratteristica della tradizione pittorica dell'Estonia è la trattazione freddamente oggettivizzata della realtà, impostazione evidente nell'opera dei maggiori artisti della repubblica, T. Vinta, V. Tommi e dei loro giovani seguaci E. Tammika, A. Keskkjula. È normale perciò che nella cultura artistica dell'Estonia occupino un ruolo guida diversi aspetti dell'arte applicata: la ceramica (Ch. Kuma, T. Lass, S. Symer), la tessitura di tappeti e tessuti (E. Reemete, M. Tomberg, E. Chanzen), la lavorazione della pelle (S. Kalda, A. Rejndorf), il vetro (E. Mjael't, S. Raudvee). Al contrario, tratto distintivo della scuola artistica della Lettonia è la tendenza al principio espressivo, simbolico. Nel campo della pittura si pone in primo piano l'opera di A. Skulme, M. Tabaka, I. Zarinja, R. Val'nere. La generazione di artisti affermatasi negli anni Ottanta ha definito la propria opera ''post-tradizionalismo'' e ha lavorato in evidente dialogo con le tendenze post-moderniste occidentali (I. Il'tnere, F. Kirke, I. Avotoni, E. Verne, A. Zarinja, S. Krastini, Ja. Marevica, M. Polis, V. Rubulis, D. Liely e altri). La situazione artistica della Lituania si contraddistingue per la particolare rilevanza della tradizione scultorea nazionale, che è stata continuata in questo periodo da P. Aleksandravičus, A. Ambrazjunas, K. Bogdanas, K. Kiselis, Ju. Mikenas, N. Petrulis e altri. È propria dei maggiori esponenti della pittura lituana una particolare drammaticità di percezione del mondo e l'inclinazione all'espressione austera (V. Vejverite, A. Gaudajtis, A. Savickas, L. Tulejkis).

Un posto particolare nel contesto generale della cultura artistica dell'area ex sovietica occupano altresì le scuole della Transcaucasia. Un'antica tradizione di elevata cultura pittorica è propria dell'arte armena, nella quale hanno continuato a esercitare un ruolo guida nel periodo attuale i maggiori maestri della vecchia generazione: il cupo ''metafisico'' A. Akopjan e il suo seguace S. Muradjan, il brutale espressionista G. Elibekajan, il lirico-visionario R. Elibekajan, il freddo analitico A. Oganesjan e il neofolclorista M. Petrosjan. Fra i giovani artisti ha proseguito la linea ''metafisica'' della pittura armena A. Gabrieljan, e quella pittorico-lirica K. Mkrtčjan, R. Abovjan, V. Vartanjan. Nel campo della scultura si sono affermati G. Bagdasarjan e S. Kazarjan. Un netto risveglio ha mostrato dalla seconda metà degli anni Ottanta la vita artistica della Georgia. Da un lato hanno continuato a lavorare attivamente i maestri della vecchia generazione, come M. Šanidze, G. Taidze, Ch. Inanišvili, che hanno vivificato il loro linguaggio tradizionale con una maggiore libertà pittorica e una scelta artistica più autosufficiente. Tuttavia la pleiade di giovani autori che ha fatto irruzione sulla scena artistica (L. Lasarešvili, G. Zautašvili, G. Ezgvergadze, G. Mgaloblišvili e altri) ha cominciato a coltivare una immaginosità non figurativa, coniugandola alle tradizioni dell'ornamentalismo orientale. La scuola dell'Azerbaigian invece non ha vissuto un rinnovamento così radicale e ha continuato a basarsi sull'autorità dei vecchi maestri T. Salachov, N. Abdulaev, N. Abdurachmanov, R. Bataev, e dell'artista nazionale più originale, T. Narinbekov.

Nella pittura dell'Ucraina continua a conservare la sua attualità la forma del quadro tematico, sostenuta dall'autorità di eminenti maestri quali T. Jablonskaja e G. Gljuk. Perciò è divenuto caratteristico delle giovani generazioni o il tentativo di un completo rifiuto dell'immagine figurativa (D. Virgun, V. Laskarževskij, V. Reunov, T. Sil'vaši) o, al contrario, il tentativo di conservare il legame con il quadro tradizionale attraverso i procedimenti della paradossale assimilazione postmodernista (A. Savadov, Ju. Sančenko).

Nell'arte della vecchia generazione della Bielorussia ha conservato importanza eccezionale il tema della guerra (M. Savickij, V. Gromyko, V. Stel'mašonok, A. Mališevskij). Per contrasto la nuova generazione, che ha conservato il legame con la pittura tradizionale, tende a volgersi alla realtà della vita quotidiana contemporanea e alla pittura di costume (B. Makerič, V. Markovec, M. Merenkov, P. Sventachovskij, V. Sumarëv e altri). Tuttavia il rinnovamento radicale della situazione artistica in Bielorussia è avvenuto con la comparsa di un gruppo di giovani artisti, che si sono rivolti alla prassi della scuola moscovita e all'esperienza della cultura occidentale (A. Cirkunov, N. Buščik, L. Chobjatov, S. Kirjušenko, A. Mališevskij).

Caratteristiche peculiari mostrano le scuole delle repubbliche dell'Asia centrale. Nel periodo precedente qui si è compiuto definitivamente il processo di adattamento delle forme tradizionali dell'arte europea, e nelle nuove generazioni di artisti è sorta l'aspirazione opposta, di un ritorno alla tradizione locale, di una riabilitazione dell'ornamento, del folclore, dei modelli mitologici del pensiero. In modo particolarmente vivido queste aspirazioni hanno influito sull'opera degli artisti del Kirghizistan, sul maestro della vecchia generazione S. Ajtiev e sui suoi giovani seguaci T. Ogobaev, Ž. Žakopov, E. Tochtaliev. Il rinnovamento della situazione artistica ha avuto luogo anche in Uzbekistan con l'affermarsi della generazione di Ž. Umarebekov, M. Tochtaev, A. Turdiev, M. Vardanjan, Z. Sapidžanov, A. Kirikis, come pure nel Kazakistan, dove si sono affermati E. Tulejbaev, Ž. Kajrambaev, G. Kodžamkulov, B. Tjul'kiev.

Fotografia artistica. - Il ritorno in auge della fotografia artistica può essere riconosciuto come evento particolare della cultura artistica sovietica degli anni Ottanta. Questo fenomeno, dopo un lungo periodo di decadenza della fotografia artistica nell'URSS, è legato al movimento di massa dei fotoamatori.

Lavorando nel campo del reportage, questi autori, in contrapposizione al fotogiornalismo ufficiale, aspiravano alla riproduzione veritiera della realtà circostante. Perseguendo questo fine L. Kuznecova (n. 1946), che opera a Kazan', il moscovita Ju. Rybčinskij (n. 1935), e V. Filonov (n. 1948), originario di Doneck, hanno trovato la loro vena nelle forme di un ampio ciclo narrativo. Dalla meditata assimilazione del retaggio di H. Cartier-Bresson è nata la tendenza opposta nel reportage sociale, che parte dal riconoscimento del valore intrinseco del singolo fotogramma, della sua perfezione plastica e della portata del contenuto. I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono i moscoviti A. Lapin (n. 1945), V. Semin (n. 1938), G. Pinchasov (n. 1952). In polemica con la fotografia socialmente impegnata è nata la tendenza che aspira alla soluzione di problemi squisitamente formali e che coltiva una figuratività ricercatamente preziosa. Fra i più brillanti rappresentanti di questa linea estetizzante della fotografia sovietica ricorderemo i moscoviti B. Samojlov, N. Kulebjakin e il leningradese B. Smelov. L'arte della fotografia si è sviluppata in modo straordinariamente vivace in Lituania dove, grazie agli sforzi di una pleiade di autori, si è formata una originale scuola nazionale (A. Sutkus, V. Luckus, V. Pačesa, V. Šonta e altri). La comparsa di una linea sperimentale di avanguardia nell'arte della fotografia sovietica è legata all'attività di B. Michajlov (n. 1938) e dei suoi seguaci V. Petrov e R. Pjatkova, a lui vicini nella città di Char'kov. Se i fotografi char'koviani costituiscono l'analogo dell'estetica della soc'-art, il moscovita A. Sljusarev e V. Tarnoveckij, che opera a Černovcy, sostengono nella propria opera la fotografia minimalista. Dalla metà degli anni Ottanta centro della fotografia di avanguardia diventa Mosca dove, sulla base dell'autorità e dell'esperienza di V. Kuprejanov (n. 1949), si distinguono numerosi giovani autori, raccolti in due principali raggruppamenti, Dekabr' ("Dicembre": Ju. Babič, A. Aksënov, V. Dianov e altri) e Neposredstvennaja fotografija ("Fotografia diretta": A. Šul'gin, I. Piganov, S. Leont'ev e altri). Vedi tav. f.t.

Bibl.: Ich lebe - Ich sehe. Künstler der 80er Jahre in Moskau, catalogo della mostra, a cura di H.-Chr. von Travel e M. Landert, Kunstmuseum, Berna 1988; L'art au pays des soviets, 1963-1988, in Cahiers du Musée national d'art moderne, Centre Georges Pompidou, 26 (1988); Künstler in Moskau. Die neue Avantgarde, a cura di E.A. Peschler, Zurigo 1989; Die zeitgenössische Photographie in der Sowjetunion, ivi 1989; Von der Revolution zur Perestroika. Sowjetische Kunst aus der Sammlung Ludwig, mostra itinerante, catalogo a cura di M. Kunz e altri, Lucerna 1989; M. Cullerne Brown, Contemporary Russian art, Oxford 1989; M. Tupitsyn, Arte sovietica contemporanea. Dal realismo sovietico ad oggi, Milano 1989; Iskusstvo ("Arte"), numero speciale, Mosca 1990; In de USSR en erbuiten. Kunstenaars 1970-1990, catalogo della mostra, Stedelijk Museum, Amsterdam 1990; Artisti russi contemporanei, catalogo della mostra, a cura di A. Barzel e C. Jolles, Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci - Museo d'arte contemporanea, Prato 1990; B. Groys, Zeitgenössische Kunst aus Moskau. Von Neo-Avantgarde zum Post-Stalinismus, Monaco di B. 1991; A. Solomon, The irony tower. Soviet art in a time of glasnost, New York 1991; S. Hochfield, Reinventing an art world, in Art News, febbraio 1991, pp. 90-93; Chudožestvennyj žurnal ("Rivista d'arte"), 1-7, Mosca 1993-95; No man's land, catalogo della mostra, Københavns Museum for moderne kunst (Nikolaj Kirke), Copenaghen 1995.

Architettura. - Tradizionale laboratorio di ricerca, volto ad accogliere i contenuti di rinnovamento predisposti per ampie masse, l'architettura dell'URSS approda negli anni Settanta a una fase disciplinare più attenta a cogliere i fermenti dell'attuale pluralismo dei linguaggi, forte anche della compiuta rivalutazione dei sintagmi dell'avanguardia storica. Dai conglomerati urbanisticamente efficaci ma compositivamente poco soddisfacenti, maturano concezioni aperte all'ambiente e ai potenziali espressivi dello sperimentalismo, che sostituiscono perciò all'uniformità del funzionalismo un ventaglio di soluzioni plurime. Mosca, città dal difficile destino, centro della sognata società di liberi e di uguali, è, in tale senso, emblematica, presentando un'immagine variegata e densa di contrasti.

Megalopoli di problematica gestione con i suoi dieci milioni circa di abitanti, che hanno richiesto sempre nuovi modelli pianificatori, si poneva tuttavia, e assai prima dell'era della perestrojka, come centro propulsivo di orientamenti figurativi pronti ad assumersi il carico dell'enorme divario delle identità nazionali e, insieme, di tendenze avveniristiche, futuribili, segno inequivocabile di una fattuale ripresa dello slancio utopico (la casa-teatro; l'"architettura cosmica'' di V. Loktev). Infatti, all'inizio degli anni Ottanta, un gruppo di giovani ''architetti concettuali'', presto conosciuti in tutto il mondo, dava vita ai metaprogetti dell'''architettura di carta'', disegni cioè volontariamente avulsi dalla pratica professionale in decisa opposizione al generale decadimento culturale. Ne prende atto persino l'Istituto di Architettura dell'università di Mosca, inserendo intelligentemente nei propri programmi l'esercizio di progetti sperimentali e di concorso.

Al ''deserto emotivo'' dell'architettura ''come burocrazia'', univoco ma richiesto dalle necessità della ricostruzione, si sostituisce via via un largo spettro di tendenze. Come nel resto dell'Occidente, anche in URSS le correnti più rappresentative si indirizzano verso figuratività legate al territorio con lo slogan "meno tecnologia edilizia, più ricerca". Si passa, pertanto, da un severo neostoricismo all'impiego di archetipi classici (Museo Lenin a Podmoskovye Gorki di L. Pavlov, 1987; Palazzo dei Pionieri a Mosca di V. Lebedev e altri, 1988); dalla citazione libera di fonti disparate ai progetti utopici non scevri di tentazioni decostruttiviste (Caffè Atrium di A. Brodskij e J. Utkin, 1988), cui si aggiungono realizzazioni plasticamente articolate (Centro nautico di Tallin di C. Loover e altri, 1980). Domina dovunque, però, l'interesse verso la ''complessità''; questa, per sua natura, riflettendo le interferenze e le caotiche contemporaneità degli accadimenti reali, non può che porsi come contraddittoria e talora disarmonica. Tali connotazioni diventano parte di una nuova concezione estetica, segno inequivocabile del moderno.

L'aggiornamento russo non si discosta di molto dalle linee tracciate dal diorama architettonico. In un quadro schematico, negli anni Ottanta e Novanta si evidenziano quattro filoni di ricerca, in un certo qual modo collegati al ''tipo'' di intervento richiesto. Così il Neoclassicismo moderno (sviluppo del monumentalismo stilistico dell'età staliniana) si incarna soprattutto nei manufatti di rappresentanza, come le strutture per i Giochi Olimpici del 1980 a Mosca e Leningrado (attuale San Pietroburgo); l'area sempre più sofisticata del Neorazionalismo (non manca chi guarda a R. Meier e a P. Eisenman, ex componenti dei Five Architects newyorkesi) copre gli edifici di utilità, trovando espressione macroscopica nell'albergo ''più grande del mondo'', il moscovita Izmajlovo (1980), paragonabile a una piccola movimentata città. Il Romanticismo espressivo informa fabbriche spettacolari per l'arte e il teatro (Teatro dell'Accademia dell'Arte di Stanislavskij, di V. Kubasov e V. Uljasov, 1973), radicalizzandosi nell'architettura-scultura per il Crematorio di Kiev di A. Mileckij (1985) e ponendo in essere composizioni piuttosto estemporanee quando cede alla contaminazione lessicale con le tradizioni del luogo. Infine una formulazione piuttosto singolare del post modern, elaborata liricamente, include sia le auliche associazioni mnemoniche tra passato e presente sia motivi tratti dalle diverse culture etniche della sterminata terra russa (Complesso sanitario di Alma-Ata di V. Chvan, 1981-83). Dalla combinazione, sia pure solamente allusiva, di elementi che reinterpretano il contesto, non sfugge nemmeno il Presidium dell'Accademia delle Scienze dell'URSS a Mosca (di Y. Platonov e altri, 1992), dove i cubi traforati e dorati posti sulla sommità delle doppie torri vogliono richiamare visivamente la città dalle cupole d'oro. Tema dell'imponente costruzione sulla Moscova, a fianco di un vecchio monastero, è quello di rispecchiare (nell'insieme di volumi organizzati con corti-piazze aperte e chiuse, secondo l'antico costume russo, sull'emergenza delle torri) la tradizione nella contemporaneità: tutto ciò sottolinea il primato di una ricerca scientifica tesa verso il futuro ma pur sempre rispettosa delle ragioni della storia.

I più recenti sviluppi dell'architettura russa sono ancora in atto, quindi non ancora definibili storicamente, anche perché da una parte risentono della grave situazione economica delle nuove repubbliche, dall'altra sono soggetti alla multiforme frantumazione in etnie del territorio, che non consente attualmente di comprendere per quali itinerari si svolgerà il tendenziale processo disciplinare.

Bibl.: V. Quilici, Architettura sovietica contemporanea, Bologna 1965; J.L. Cohen, M. De Michelis, M. Tafuri, URSS 1917-1978: la città l'architettura, Roma 1979; Architettura in URSS, in l'Arca, 27 (maggio 1989), numero monografico; A. Rjabušin, N. Rudenko, Il Presidium delle Scienze a Mosca, ibid., 33 (dicembre 1989), pp. 26-37; AA.VV., Arte dell'architettura in Unione Sovietica, catalogo del padiglione sovietico alla v Biennale di architettura di Venezia 1991, a cura di A. Cammara, Roma-Reggio 1991; AA.VV., MAPXN, catalogo della v Biennale di architettura di Venezia 1991, a cura di A. Nekrasov, ivi 1991; AA.VV., Mosca. Capitale dell'Utopia, catalogo della mostra al Palazzo della Civiltà di Roma 1991, Milano 1991; G. Fonio, Mosca, capitale dell'utopia, in l'Arca, 56 (gennaio 1992), pp. 8-13.

Musica. - Dei molti musicisti russi che abbandonarono il loro paese all'indomani della rivoluzione socialista del 1917, alcuni fecero ritorno in URSS all'inizio degli anni Trenta, come S. Prokof'ev (1891-1953), rientrato nel 1932 dopo una assenza di quasi quindici anni; altri mantennero la loro residenza in Occidente, dove ottennero un largo successo, e videro riconosciuta la loro opera anche in URSS solo negli anni successivi alla morte di Stalin: è questo il caso di I. Stravinskij (1882-1971), che, invitato dalle autorità sovietiche, tenne una serie di concerti a Mosca e a Leningrado nel 1962.

Legata al nuovo clima che, con la rivoluzione socialista, aveva investito da ultimo anche la vita culturale del paese, e a quello spirito di sperimentazione che caratterizzò l'attività musicale degli anni Venti e Trenta, è la vicenda artistica di D. Šostakovič (1906-1975), uno dei grandi della musica sovietica di questo secolo. A questo periodo risalgono la Sinfonia n. 1 (1925), e soprattutto l'opera Lady Macbeth del distretto di Mzensk (1930-32), più tardi duramente attaccata dai critici del regime staliniano. Agli stessi anni appartiene la Sinfonia n. 4 (1934-35), che non fu rappresentata prima del 1961, quando la musica di Šostakovič prese a esercitare un'influenza decisiva per gli sviluppi della musica sovietica.

Indicato come il maggiore fra i compositori dell'URSS di provenienza etnica non russa, e in generale come uno dei più rappresentativi della musica sovietica contemporanea, A. Chačaturjan (1904-1978) ha svolto un'opera determinante nello sviluppo della musica armena degli anni Venti, attraverso la rielaborazione dei motivi della tradizione popolare. Si impose sulla scena musicale del suo paese alla metà degli anni Trenta, con il Concerto per pianoforte e orchestra (1936), cui fece seguito il Concerto per violino e orchestra (1940), con il quale riscosse un analogo successo.

Agli anni Trenta, che si aprivano con la formulazione del programma del PCUS rivolto all'organizzazione e al controllo della vita artistica del paese, appartengono alcune delle opere più importanti della seconda fase compositiva di Prokof'ev, come il balletto Romeo e Giulietta (1935-36) e la favola sinfonica Pierino e il lupo per voce recitante e orchestra (1936).

Fra i compositori più anziani particolarmente attivi in questi anni si ricordano, oltre a N. Miaskovskij (1881-1950) e A. Davidenko (1899-1934), R. Glière (1875-1956), autore dei balletti I Commedianti (1931) e Il cavaliere di bronzo (1946), e J. Saporin (1887-1963), autore dell'opera teatrale I decabristi, capolavoro al quale Saporin lavorò per circa trent'anni (1920-53).

Fra i più giovani spiccano durante gli anni Trenta V. Sebalin (1902-1963), autore dell'opera teatrale La bisbetica domata (1955), costretto nel 1948 a dimettersi dall'incarico di insegnante di composizione al Conservatorio di Mosca a causa delle tendenze ''formalistiche'' delle sue composizioni, il compositore leningradese A. Zivotov (1904-1964), autore di Frammenti per più strumenti (1929), G. Popov (1904-1972), autore della Sinfonia da camera (1927), V. Belyi (1904-1983) e M. Koval' (1907-1971), ai quali si devono alcune fra le più importanti composizioni per musica corale di quegli anni, V. Solov'ev-Sedoj (1907-1979), considerato il maestro della lirica sovietica per voce e pianoforte, autore di oltre 250 liriche su testi di A. Puškin, S. Esenin e testi popolari per le quali è ben conosciuto anche fuori del suo paese, e il compositore georgiano V.I. Muradeli (1908-1970), autore della Seconda Sinfonia ''La guerra di liberazione'' (1944-45) e dei Canti dei Gori (1946), in cui vengono rielaborati motivi del folclore georgiano e armeno.

Non meno rilevante l'attività di musicisti come S. Balasanjan (1902-1982), fondatore dell'opera teatrale tagika, fortemente influenzato da elementi della musica popolare orientale, D. Kabalevskij (1904-1987), la cui opera Il maestro di Clamecy (1938) è ben nota anche fuori dell'URSS, I. Dzeržinskij (1909-1978), autore de Il placido Don (1934), il suo lavoro più importante, una delle tappe essenziali nella storia del teatro musicale realista sovietico, V. Serbacev, autore di Nonet per soprano, flauto, arpa, pianoforte, quartetto d'archi ed esecutori di movimenti plastici, e A. Mosolov (1900-1973), autore di Annunci di giornale, ciclo vocale (1926).

Delle opere più significative comparse nel clima degli anni Quaranta, caratterizzato dalla rinnovata campagna ideologica che Stalin intese condurre contro l'''arte degenerata'' di derivazione occidentale, e in particolare contro l'adozione da parte dei compositori sovietici della tecnica dodecafonica di A. Schönberg, si ricordano, la Settima Sinfonia (1941), dedicata alla Resistenza di Leningrado e l'Ottava Sinfonia (1943), che incorse nella censura ždanoviana, di Šostakovic; la Sinfonia n. 6 (1946) e la Sinfonia n. 7 (1951-52), l'opera Guerra e Pace (1943-1953) e il balletto Novella del fiore di pietra (1949) di Prokof'ev; il Concerto per violoncello, la Sinfonia n. 25 (1946) e la Sinfonia n. 27 (1950) di N. Miaskovskij; la Seconda Sinfonia (1943) di Chačaturjan.

Dei compositori che fecero il loro ingresso sulla scena musicale sovietica degli anni Quaranta si ricordano V. Salmanov (1912-1978), autore dell'opera I dodici (1957), i compositori georgiani A. Mačavariani (n. 1913), autore dell'opera teatrale Otello (1955), e O. Taktakishvilli (1924-1989), G. Sviridov (n. 1915), autore del poema vocale La terra dei padri (1950), il compositore azerbaigiano K.A. Karayev (1918-1982), dal 1946 insegnante al Conservatorio di Baku, dove fu maestro di alcuni dei maggiori compositori azerbaigiani della seconda metà del secolo, A. Arutjunian (n. 1920), figura preminente nella musica armena nel periodo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, autore del poema sinfonico-corale La leggenda del popolo armeno (1961) e dell'opera Sajat-Nova (1969), F.M.D. Amirov (1922-1984), che risente nelle sue composizioni del folclore azerbaigiano, autore dei poemi sinfonici Sur (1948) e Kjurd-Ovsary (1948), A. Petrov (n. 1930), autore di alcune liriche, fra cui Canzoni semplici per soprano, su testi di G. Rodari (1956).

Con il tramontare dell'epoca staliniana, intorno alla metà degli anni Cinquanta, anche nel campo musicale cominciarono ad avvertirsi i primi segnali di rinnovamento, grazie anzitutto all'opera di alcuni dei compositori appartenenti alla ''generazione di mezzo'', come M. Vainberg (n. 1919), musicista di origine polacca, tra i compositori sovietici maggiormente rappresentativi nel campo della musica sinfonica, A. Eshpai (n. 1925), che risente della musica popolare del popolo ugro-finnico dei Mari, autore di numerose liriche di grande popolarità, B. Čajkovskij (n. 1925), autore di varia musica per orchestra, fra cui la Seconda Sinfonia (1967), per la quale ha ricevuto il Premio di stato dell'URSS nel 1969, e A. Babagianjan (n. 1921), autore di Sei schizzi per pianoforte (1965), in cui fa uso della tecnica dodecafonica, tra i più significativi rappresentanti della musica armena durante gli anni Sessanta e Settanta accanto a G. Ustvolskaja (n. 1919), K. Chačaturjan (n. 1920), K. Orbelyan (n. 1928) e A. Terteryan (n. 1929).

Il ritorno in URSS nel 1962 di I. Stravinskij, che dopo aver lungamente avversato la musica schönberghiana aderì al serialismo in alcune composizioni di quegli anni, come Movements per pianoforte e orchestra, presentata in URSS in quello stesso anno, rese più spedito in molti dei compositori della giovane generazione l'interesse per le opere di Webern e Schönberg, e conseguentemente l'adozione delle nuove tecniche compositive. Tra i capifila dell'avanguardia sovietica degli anni Sessanta si ricordano in particolare E. Denisov (n. 1929), S. Goubaidoulina (n. 1931), R. Ščedrin (n. 1932), S. Slonimskij (n. 1932), A. Shnitke (n. 1934), L. Grabovskij (n. 1935), A. Paart (n. 1935) e M. Skorik (n. 1938).

E. Denisov fu il primo compositore sovietico a rinunciare al linguaggio tradizionale imposto negli ambienti accademici: caposcuola del ''gruppo di Mosca'', di cui fece parte, oltre a Ščedrin, anche A. Volkonskij (n. 1934), nel 1960 prese a insegnare presso il Conservatorio di Mosca. Le composizioni degli anni Sessanta risentono di un impiego rigoroso della tecnica dodecafonica e di un serialismo integrale (Sonata per violino e pianoforte), sfociato più tardi in un'utilizzazione controllata della tecnica aleatoria (Crescendo e diminuendo, per clavicembalo e 12 archi, 1965). I lavori successivi (come La vie en rouge d'apres Boris Vian, per orchestra da camera e pianoforte, del 1973, e L'écume des jours, del 1981), sono improntati a una tendenza neoromantica. Fra le sue composizioni si ricordano ancora il Requiem per voci, coro e orchestra (1980), la Sinfonia da camera (1982), il Concerto per fagotto e violoncello (1982). S. Goubaidoulina, che ha raggiunto grande notorietà in occidente (un'attenzione particolare le è stata riservata al Festival di Vienna del 1989), figura tra i più importanti rappresentanti dell'avanguardia sovietica; agli anni Settanta appartengono composizioni come il Concerto per tromba e orchestra con mezzosoprano (1976) e la Sonata (Detto I) per orchestra da camera (1978). Ščedrin, insignito del titolo di ''Artista popolare dell'URSS'' nel 1981, si è imposto a partire dagli anni Cinquanta con alcuni lavori particolarmente importanti, come il Concerto per pianoforte e orchestra (1954), la Prima Sinfonia (1958), il balletto Il cavallino gobbo (1960), utilizzando tecniche compositive di avanguardia (serialismo, alea, politonalismo), e richiamandosi a motivi della musica popolare russa. Agli anni Sessanta appartengono opere teatrali di largo successo, come Non solo amore (1961) e Le anime morte (1977). Tra le sue composizioni degli anni Ottanta si ricordano l'Offerta musicale per organo e orchestra da camera, composto per il tricentenario della nascita di J.S. Bach (1983), l'Autoritratto per orchestra (1984), il balletto La signora con il cagnolino (1985). Slonimskij, che dal 1976 insegna presso il Conservatorio di Leningrado, nel 1983 ha ricevuto il Premio Glinka per l'opera Maria Stuarda (1981). Esponente dell'avanguardia di Leningrado assieme a B. Tiscenko (n. 1929), si impose nel 1966 vincendo il Festival di Primavera di Praga per giovani compositori. Durante gli anni Ottanta ha prodotto, oltre alle Sinfonie n. 4-6 (1983) e la Sinfonia n. 7 (1985), anche varie composizioni per musica da camera e vocale. Shnitke, che ha collaborato allo Studio di Musica Elettronica di Mosca, è docente presso la Hochschule für Musik di Vienna dal 1980. Le sue opere degli anni Sessanta riflettono una piena adesione alle tecniche dell'avanguardia (serialismo). Al periodo successivo appartengono i Concerti grossi (1977-82), il Terzo concerto per violino (1978), il Secondo concerto per pianoforte (1979), e ancora il Quarto concerto per violino e orchestra, e Quasi una sonata per violino e orchestra da camera, del 1987. Grabovskij, compositore ucraino, figura con V. Silvestrov (1937), fra i membri del ''gruppo di Kiev''. Paart, che assieme a K. Sink ha dato un contributo decisivo al rinnovamento della tradizione musicale dell'Estonia, ha fatto uso della tecnica seriale nelle composizioni degli anni Sessanta, come l'oratorio Il cammino del mondo (1961). Fra i compositori estoni della sua generazione si ricordano V. Tormis (n. 1930), E. Tamberg (n. 1930), e J. Raaets (n. 1932), dal 1968 insegnante al Conservatorio di Tallin, autore di diversa musica per orchestra (8 Sinfonie, 1957-73) e da camera. Skorik (n. 1938) e L. Hrabovsky (n. 1935) figurano fra i più rappresentativi compositori ucraini dell'ultimo periodo. Accanto a questi devono essere ricordati A. Pakhmutova (n. 1929), A. Petrov (1930) e A. Nikolaev (n. 1931).

Alla metà degli anni Settanta appartengono i primi lavori dei compositori della generazione degli anni Quaranta, che si era formata durante il periodo della nuova avanguardia: fra questi, V. Artemov (n. 1940), V. Schut (n. 1941), V. Suslin (n. 1942), A. Vustin (n. 1943), V. Martinov (n. 1946), V. Echimovski (n. 1947), V. Lobanov (n. 1947), D. Smirnov (n. 1948), E. Firsova (n. 1950), che è tra le compositrici sovietiche più in vista assieme a R. Vintule (n. 1944).

Delle loro opere è possibile ricordare il Capriccio per quartetto di sassofoni (1975), la Sinfonia di elegie per 2 violini, e Totem per strumenti a percussione (1976) di Artemov; le Sinfonie da camera (1973, 1975, 1978), il Trio per fagotto, violoncello e percussione (1978) e il Concerto per fagotto e archi, flauto, pianoforte (1979) di Schut; 24 Triadi per cembalo (1973), Gioco appassionato per archi (1974), Musica di mezzanotte per violino, cembalo e contrabbasso (1976), Poco a poco per organo (1978) e Capriccio per 2 violini (1979) di Suslin; Improvisation (1972), Sonata (1973), Fiaba musicale (1974), Memoria I (1975), e Memoria 2 (1977) di Vustin; Canzone per 2 violini (1970), Varianti per violino e pianoforte (1972), Gioco per quattro (1975) di Martinov; Ave Maria - Canto per violini per 48 violini (1974), Concerto brandeburghese per 12 strumenti (1979) di Echimovski; Concerto per violoncello (1969), Sinfonia (1972), 2 Sonate per violino e pianoforte (1973, 1975), 2 Sonate per pianoforte (1974, 1980) e Modulazione e solfeggio per flauto (1978) di Lobanov; 2 Concerti per pianoforte (1978), Sonate per fagotto (1977), per violoncello (1978) e per violino (1979), Cinque poesie di Puskin per voce, flauto, violino, violoncello e batteria (1976) di Smirnov; Sonetti di Petrarca (1976) ed Elegia per pianoforte (1979) di E. Firsova. Sempre durante gli anni Settanta si sono affermati G. Dmitriev (n. 1942), N. Korndorf (n. 1947), V. Lobanov (n. 1947), S. Pavlenko (n. 1952); vanno inoltre ricordati i coetanei E. Erkanjan, I. Karabiz, A. Knaifel.

Bibl.: V. Gibelli, Musicisti d'oggi nell'URSS, Milano 1972; B. Schwarz, Music and musical life in Soviet Republics 1917-1970, Londra-New York 1972; H. Olt, Modern Estonian composers, Tallin 1972; G. Tschkhikvadze, La musique géorgienne, in Revue de Kartvélogie, 29-30 (1972), p. 245; V. Nakas, The music of Lithuania -a historical sketch, in Lituanus, 20/4 (Chicago 1974), p. 55; L. Adkalns, Lettische Musik, Wiesbaden 1976; V. Nersessian, Essays on Armenian music, Londra 1978; The New Grove dictionary of music and musicians, vol. 19, ivi 1980, pp. 334-424; D. Gojowy, Moderne Musik in der Sowjetunion bis 1930, Laaber 1980; I. Nestjew, Sowietische Musik heute, in Neue Zeitschrift für Musik, 2 (1981), pp. 109-14; D. Gojowy, Marginalien zur neuen sowietischen Musik, ibid., pp. 139-45; M. Stahnke, Junge Moskauer Komponisten. Notizen zu Biografie und Werk, ibid., pp. 146-51; B. e J. Massin, Histoire de la musique occidentale, Parigi 1983, pp. 1260-61; V. Cenova, Arte contemporanea: sulla musica dei compositori sovietici, in Musica/Realtà, 22 (aprile 1987), pp. 65-83; A. Ivaskin, Dall'immagine e la forma al simbolo e alla metafora. L'arte sovietica degli anni Venti-Trenta e la musica oggi, ibid., 26 (agosto 1988), pp. 21-40; C. Casini, Musicisti russi tra '800 e '900, Novara 1992.

Cinema. - Il cinema sovietico degli anni Settanta e Ottanta, precedente il nuovo corso gorbačëviano, ha continuato a caratterizzarsi per il massiccio controllo ideologico delle organizzazione statali (il Goskino) sulla produzione. La censura ha colpito gli autori più vitali e difficili, mentre il cinema ufficiale si è mosso sui binari di un nuovo conformismo, tendenzialmente aperto alle ragioni del mercato e alla necessità di competere con i prodotti occidentali. Su questa linea si sono confezionati i grandi kolossal bellici, i film storici, le riduzioni letterarie. Accanto a S.F. Bondarčuk (v. App. IV, i, p. 305), protagonista indiscusso di siffatto cinema di regime (con il dittico dedicato alla vita di J. Reed e con Boris Godunov, 1986), operano S. Rostockij (A zori zdes' tichie, "Qui le albe sono quiete", 1972), J. Ozerov, V. Zalakjavičius, E. Matveev. Negli anni Settanta si è sviluppato anche un altro genere tipicamente sovietico, quello dei cosiddetti ''film di produzione'' dedicati alle realtà delle fabbriche e del mondo del lavoro, messe in scena da V. Tregubovič, J. Karasik e soprattutto da S. Mikaelijan (Premija, "Il premio", 1974), in sostanziale obbedienza, nonostante certe apparenze critiche, all'ortodossia ufficiale. Il genere di maggior successo popolare è stato tuttavia la ''commedia alla sovietica'', cui si riconosce un forte spessore sociologico, la capacità di cogliere gli indici più tipici del costume e i problemi più scottanti della contemporaneità. I film migliori, su questo versante, sono stati realizzati da G. Danelija (Afonja, 1975; Osennij marafon, "Maratona d'autunno", 1979) e E. Rjazanov (Služebnyj roman, "Romanzo d'ufficio", 1977; Vokzal' dlja dvoich, "Una stazione per due", 1983). Da ricordare, inoltre, il favore accordato ai melodrammi commerciali sul tipo di Moskva slezam ne verit (Mosca non crede alle lacrime, 1980) di V. Menšov, con cui l'URSS ha cercato di penetrare nei mercati esteri. Su un altro piano, infine, si segnala la diffusione del filone legato ai temi dell'adolescenza e dell'educazione sentimentale (D. Asanova, R. Bykov, S. Solov'ëv, K. Šachnazarov, N. Gubenko e V. Abdrašitov).

Di contro ai motivi della retorica ufficiale e alle sue scenografie canoniche, negli anni Settanta nasce all'interno della Lenfil'm, la cosiddetta ''Scuola di Leningrado'', che affronta temi intimistici e quotidiani tracciando una radiografia dei comportamenti e dei sentimenti contemporanei senza artificiali sovrapposizioni ideologiche e soprattutto al di fuori delle rigide strutture drammaturgiche previste dal cinema di regime. Su questa linea, animata da una forte tensione morale, si pongono i film di I. Averbach (Monolog, "Monologo", 1973; Čužie pis'ma, "Lettere altrui", 1976; Ob'javlenie v ljubvi, "Dichiarazione d'amore", 1978; Golos, "La voce", 1982), alcune prove di G. Panfilov sceneggiate dallo scrittore E. Gabrilovič (personalità di punta, collaboratore anche di Averbach oltre che di un veterano come J. Rajzman), le opere di A. German e, più recentemente, quelle di V. Sorokin e di A. Sokurov, ossia di alcuni fra i maggiori registi degli ultimi anni, che, con altri (per es. E. Klimov, K. Muratova, L. Šepitko), vennero ''perseguitati'', ridotti al silenzio e alla clandestinità, prima che i ''tempi nuovi'' della perestrojka li rivalutassero, portandone alla luce i film a lungo ''congelati'' negli archivi.

Fra minori, anche se non inesistenti difficoltà, sono proseguite nel frattempo le carriere dei massimi autori sovietici, già rivelatisi negli anni Sessanta: in primo luogo A. Tarkóvskij (v. in questa Appendice) che, al di là di ogni compromesso, rafforza il proprio impegno nella direzione di un cinema profondamente poetico, espressione di un ininterrotto travaglio spirituale. Un'altra strada percorsa all'insegna della poetica rigorosa e sempre fedele a se stessa, nonostante le ripetute esperienze all'estero, è quella del georgiano O. Ioseliani. La sua vena originalmente ironica, la sua scrittura che ribalta i canoni drammaturgici correnti incontrano il favore della critica europea e l'opposizione della burocrazia interna. Così, in seguito alle difficoltà incontrate per Žil pevčij drožd (C'era una volta un merlo canterino, 1971, il suo film più noto) e Pastoral' ("Pastorale", 1976), ha girato in Francia Les favoris de la lune (I favoriti della luna, 1984), Et la lumière fut (Un incendio visto da lontano, 1989), La chasse au papillon (Caccia alle farfalle, 1992), il documentario Seule, Georgie (1994). Diverso, invece, è il percorso seguito da un altro grande protagonista del dissenso degli anni Sessanta, A. Michalkov-Končalovskij che, pur all'interno di una linea autoriale, ha giocato la carta del grande spettacolo (Romans o vljublënnych, "La romanza degli innamorati", 1974; Sibiriada, "Siberiade", 1978), prima di lasciare comunque la Russia e aprire la serie delle sue realizzazioni in Occidente (Maria's lovers, 1984; Runaway train, A trenta secondi dalla fine, 1985; Shy people, I diffidenti, 1987). Nei primi anni Settanta, quando si chiude la breve carriera dello scrittore e regista V.M. Šukšin (v. App. IV, iii, p. 544), ha esordito il fratello di A. Michalkov-Končalovskij, N. Michalkov, un nome destinato a segnare fortemente la produzione sovietica dell'ultimo quindicennio finendo per rappresentare, in opposizione a Tarkovskij, una sorta di seconda via del cinema d'autore. Al tormento esistenziale e religioso del primo, Michalkov oppone innanzitutto il piacere della messa in scena e il gioco del cinema che lavora su materiali ''preformati'': i generi (Svoj sredi čužich, čužoj sredi svoich, "Amico fra i nemici, nemico fra gli amici", 1974, è strutturato come un western), la storia (Raba ljubvi, Schiava d'amore, 1976, è un omaggio all'epoca del muto), la letteratura (Neskol'ko dnej iz žizni I.I. Oblomova, Oblomov, 1980, è tratto dal romanzo di I. Gončarov mentre Neokončennaja p'esa dlja mechaničeskogo pianino, Partitura incompiuta per pianola meccanica, 1977, e Oci ciornie, 1987 sono adattamenti di testi cechoviani). All'avventura esotica, con affettuose componenti ironiche, è ispirato Urga (Urga - Territorio d'amore, 1991), cui hanno fatto seguito Anna 6-18 (1994), gustoso ritratto di sua figlia sullo sfondo delle vicissitudini del paese, e Utomlennye solncem (Sole ingannatore, 1994), che ha vinto il Gran Premio della giuria al festival di Cannes 1994 e l'Oscar per il miglior film straniero 1995.

Un discorso a parte meritano le cinematografie delle varie repubbliche sovietiche che, oltre a una feconda tradizione legata al folklore locale, producono in questi anni autori e tendenze particolarmente vitali. Ci limitiamo a segnalare i nomi di J. Il'enko (Belaja ptica s čërnoj otmetinoj, "L'uccello bianco con la macchia nera", 1970; Legenda o knjagine Ol'ge, "La leggenda della principessa Olga", 1983) in Ucraina; di K. Kiisk (Cena smerti sprosi u mërtvych, "Il prezzo della morte chiedilo ai morti", 1977; Iskatel' priključenij, "In cerca di avventure", 1983) in Estonia; di A. Chamraev (Čelovek uchodit za pticami, "L'uomo segue gli uccelli", 1976; Triptich, "Trittico", 1980) in Uzbekistan; di E. Lotjanu (Lautary, I Lautari, 1971; Tabor uchodit v nebo, Anche gli zingari vanno in cielo, 1976) in Moldavia; e di A. Pelešjan (My, "Noi", 1969; Vremena goda, "Le stagioni", 1975; Naš vek, "Il nostro secolo", 1982), autore armeno di spicco internazionale, segnalatosi per la teoria del ''montaggio a distanza'' (che consiste nel ripetere inquadrature uguali o simili in momenti diversi del film). È la Georgia, tuttavia, la regione cinematograficamente più ricca: accanto a G. Šengelaja (Pirosmani, 1969; Putešestvie molodogo kompositora, "Il viaggio del giovane compositore", 1985) e a O. Ioseliani, troviamo E. Šengelaja, fratello maggiore di Georgij (Golubye gory, Le montagne azzurre, 1985) e, soprattutto T. Abuladze, un regista già acclamato negli anni Sessanta per il film Mol'ba ("La supplica", 1968) che, tra il 1983 e il 1986, realizza Pokajanie (Pentimento), opera di grande risonanza per l'aperta denuncia antitotalitaria. E proprio il film di Abuladze, distribuito nell'ormai avviata era della glasnost' e della perestrojka, che avrebbero modificato profondamente il paesaggio cinematografico dell'URSS, segna l'inizio di tempi nuovi.

Dei giovani registi (A. Sokurov, K. Šachnazarov, S. Bodrov), già mortificati dalla censura e/o ostacolati nella loro attività, firmano opere di rilievo. Vengono distribuiti nella versione originale film manomessi negli anni della stagnazione brežneviana come Ošibki junosti ("Errori di gioventù", 1974) di B. Frumin e Plovec ("Il nuotatore", 1981) di I. Kvirikadze. Vengono liberate opere bloccate nel medesimo periodo e negli anni immediatamente successivi: Asino ščast'e - Istorija Asjej Kljačinoj (La storia di Asia Kljacina che amò senza sposarsi, 1967) di A. Michalkov-Končalovskij; Komissar ("Il commissario", 1967) di A. Askoldov; Rodina električestva ("La patria dell'elettricità", 1967) di L. Šepitko; Angel ("Angelo", 1967) di A. Smirnov; Korotkie vstreči ("Brevi incontri", 1967) e Dolgie provody ("Lunghi addii", 1971) di K. Muratova; Bezumie ("Pazzia", 1969) di K. Kiisk; Proverka na dorogach ("Controllo sulle strade", 1973) e Moj drug Ivan Lapšin ("Il mio amico I.L.", 1985) di A. German; Agonija ("Agonia", 1975) e Proščanie ("L'addio", 1981) di E. Klimov; Odinokij golos čeloveka ("La solitaria voce di un uomo", 1978) di A. Sokurov; Tema (Thema, 1979) di G. Panfilov.

Il clima della glasnost' ha permesso poi l'esordio di nuovi registi nelle varie repubbliche dell'URSS (oltre a K. Lopušanskij con Pis'ma mërtogo čeloveka, Lettere di un uomo morto, 1986, N. Džordžadze, A. Kajdanovskij, V. Kanevskij, V. Pičul, S. Rogoškin, J. Mamin, I. Minaev, A. Iho, J. Sillart, V. Ogorodnikov, R. Nugamov, E. Cymbal', L. Filatov, D. Meschiev) e ha reso possibile sia una rappresentazione ''laica'' della realtà sovietica, una denuncia dei guasti nell'ambiente, nella vita pubblica e privata (i documentari di J. Podnieks, H. Frank, N. Obuchovič, V. Djakonov, G. Aratunjan, D. Delov, G. Gavrilov, M. Soosaar e, fra i film a soggetto, Pljumbum, ili opasnaja igra, Plumbum - Un gioco pericoloso, 1986, di V. Abdrašitov; Neprofessionaly, "Dilettanti", 1987, di S. Bodrov; Vzlomčik, "Lo scassinatore", 1987, di V. Ogorodnikov; Dorogaja Elena Sergeevna, "Cara E.S.", di E. Rjazanov; Podžigateli, "Gli incendiari", 1989, di A. Surin; S.E.R., "La libertà è il paradiso", 1989, di S. Bodrov; Neožidannyj val's, "Valzer inatteso", 1990, di S. Proskurina), sia una riflessione sui drammi del passato, una loro esplorazione diretta e indiretta: dai documentari di M. Goldovskaja, S. Aranovič, V. Eisner, O. Neuland ai fiction films di J. Kara (Zavtra byla vojna, "Domani c'era la guerra", 1987; Pir Valtazara, ili noč so Stalinym, "Il banchetto di Baltazar ovvero una notte con Stalin", 1990), A. Proškin (Cholodnoe leto 1953ego, "La fredda estate del 1953", 1988), V. Chotinenko (Zerkalo dlja geroja, "Uno specchio per l'eroe", 1988), M. Ptašuk (Naš bronepoezd, "Il nostro treno blindato", 1989), E. Cymbal' (Zaščitnik Sedov, "L'avvocato difensore S.", 1989; Istorija nepogašennoj luny, "La storia della luna che non si spense", 1991), V. Ogorodnikov (Bumažnye glaza Privšina, "Gli occhi cartacei di Privšin", 1989), V. Abdrašitov (Sluga, "Il servo", 1989), L. Filatov (Sukiny deti, "Figli di cagna", 1990).

Il peggioramento della situazione economico-finanziaria, il turbolento risveglio delle nazionalità, le richieste di indipendenza dei paesi baltici, il tentativo di ''golpe'' dell'agosto 1991, la dissoluzione dell'URSS nel dicembre successivo sono eventi che si sono ripercossi nel settore cinematografico: è scomparso il Goskino e con esso il monopolio centralizzato della progettazione, produzione e distribuzione; gli ''studi'' sono entrati in crisi; si girano meno film (dai circa 400 del 1986 ai 137 del 1993); è cresciuta la concorrenza dei filmati televisivi di importazione; si è espanso vertigiosamente il mercato delle videocassette clandestine; è partita una massiccia invasione di pellicole americane e asiatiche. I registi, gli sceneggiatori, gli interpreti, i ''quadri'' tecnici lavorano sempre meno e, per lo più, in film di basso intrattenimento (pellicole malamente esemplate sulle ''storie'' dei ''rambo'', dei ''duri'' hollywoodiani o ''copiate'' dai film ''kung-fu'' cinesi; racconti d'avventura e ambientati nel mondo del crimine e della mafia e film polizieschi, gli uni e gli altri modellati sugli schemi dei rispettivi generi hollywoodiani; risibili, fiacche, sboccate commedie e lacrimosi intrecci melodrammatici ricavati dalle trame delle telenovelas e soap-operas sudamericane).

L'era gorbačëviana e poi l'indipendenza, pur all'interno della CSI, hanno invece favorito una felice stagione creativa dei cineasti di alcune repubbliche dell'Asia Centrale: registi kazaki (E. Sinarbaev con Mest', "Vendetta", 1990 e con Azghyin ushtykzyn azaby, "La mia vita al binocolo", 1993; D. Manabaev con Surženej, angel smerti, "S., angelo della morte", 1990; A. Karakulov con Razlučnica, "La mestatrice", 1991; D. Omirbaev con Kairat, 1991; S. Aprymov con Son vo sne, "Un sogno nel sogno", 1993; B. Iskakov e B. Kalimbetov con Poslednie choloda, "Gli ultimi freddi", 1993), turkmeni (A. Kakabaev con Syn, "Il figlio", 1990, e con Rajskaja ptica, "L'uccello del paradiso", 1991; B. Mamedov con Destan moej junosti, "D. della mia giovinezza", 1992) e tagiki (B. Chudojnazarov con Bratan, "Fratelli", 1991 e con Kosh ba kosh, 1993, Leone d'argento a Venezia; B. Sadykov con Džosus, 1992) dedicano attenzione al passato, ma soprattutto volgono in immagini vicende private, si soffermano sulle relazioni fra i giovani e sui loro rapporti con i genitori e gli adulti.

Incertezze politiche, difficoltà finanziarie, ostilità etnico-nazionalistiche, ideologiche e religiose ostacolano la fioritura di queste cinematografie così come il prolungarsi della cruenta crisi fra Armenia e Azerbaigian blocca l'attività del loro cinema. Le stesse incertezze e difficoltà hanno ridotto al minimo la produzione in Bielorussia e in Ucraina gravano sul futuro del cinema russo: il mercato è quasi monopolizzato da film americani e di Hong Kong; la scomparsa delle vecchie strutture e la provvisorietà del quadro politico hanno avuto un impatto negativo sui registi che o cercano altre occupazioni o licenziano film commerciali o lavorano per lo più in Occidente (A. Michalkov-Končalovskij gira in Russia, con soldi di produttori italiani e hollywoodiani, The inner circle, Il proiezionista, 1991) o tentano la via delle coproduzioni con l'estero (P. Lunguin con Taxi blues, 1989, e con Luna Park, 1992; I. Dychovičnyj con Prorva, "Una voragine onnivora", 1991; V. Kanevskij con Samostajatel'naja žizn', "Una vita indipendente", 1991; A. Sokurov con Tichie stranicy, "Pagine silenti", 1993; J. Mamin con Okno v Pariž, Insalata russa, 1993). Alcuni, infine, grazie a entità produttive presto scomparse o all'impegno di istituti finanziari in alcuni casi di dubbia costituzione, hanno potuto realizzare opere personali, che non sempre però sono state totalmente soddisfacenti: M. Chuciev (Beckonečnost', "Infinità", 1991), V. Todorovskij (Ljubov', "Amore", 1991), N. Dostal' (Oblako-raj, "Una nuvola - il paradiso", 1991) e, inoltre, S. Bodrov (Ja chotela uvidet' angelov, "Volevo vedere gli angeli", 1992), A. Sokurov (Kamen', "La pietra", 1992), K. Muratova (Asteničeskij sindrom, "Sindrome astenica", 1992, e Uvlečenija, "Passioni", 1994) e K. Lopušanskij (Russkaja simfonija, "Sinfonia russa", 1994).

Bibl.: AA.VV., URSS '70, 2 voll., Venezia 1980; AA.VV., Le cinéma russe et soviétique, Parigi 1981; AA.VV., Il cinema delle repubbliche asiatiche sovietiche, 2 voll., Venezia 1986; AA.VV., Esteuropa '80. Gli schemi di Gorbaciov, ivi 1987; AA.VV., Le cinéma géorgien, Parigi 1988; N. Galichenko, Glasnost. Soviet cinema responds, Austin (Texas) 1991; A. Lawton, Kinoglasnost: soviet cinema in our time, Cambridge 1992; A. Horton, M. Brashinski, The zero hour (Glasnost and soviet cinema in transition), Princeton 1992; A. Frezzato, Russia: la rivoluzione dell'intrattenimento, in Cineforum, 320 (dicembre 1992); Id., Russia: il lato oscuro del cambiamento, ibid., 322 (marzo 1993); Id., Russia: da 4 miliardi e 700 milioni di spettatori, ibid., 336 (luglio-agosto 1994); Id., Riga: lo ''stato delle cose'' nell'ex URSS, ibid., 339 (novembre 1994). V. inoltre Variety international film guide, a cura di P. Cowie, Londra 1990-95.

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