Dialetto, usi letterari del

Enciclopedia dell'Italiano (2010)

dialetto, usi letterari del

Nicola De Blasi

Introduzione

L’uso letterario del dialetto va considerato in rapporto alla scrittura nella lingua letteraria comune, così come la stessa nozione di dialetto è complementare a quella di lingua. Nella storia linguistica italiana, che si muove tra unità e molteplicità, la tendenza a una lingua come bene comune e la vitalità di variegate tradizioni locali (per i rinvii bibliografici relativi alle diverse aree, vedi i capitoli regionali di Cortelazzo et al. 2002) rientrano in un medesimo orizzonte e non comportano contrapposizione esplicita, poiché «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio» (Contini 19842: 611). Le letterature in dialetto (Beccaria 1975; Haller 2002) pertanto non sono espressione di un’altra Italia, né tanto meno di gruppi etnici perdenti rispetto a un’altra dominante popolazione di lingua diversa.

Il nesso con la letteratura in italiano risalta nella stessa nozione di «letteratura dialettale riflessa», fissata in un saggio di Croce, punto di riferimento non rinunciabile, in cui si criticava un precedente intervento di Ferrari (1839-1840), che prospettava una valenza oppositiva delle letterature in dialetto (in sé ritenute anche popolari) rispetto alla letteratura in italiano, tanto che ad esse era attribuito un «ascoso rancore», laddove la letteratura in dialetto implica la condivisone di una norma letteraria vista «non come un nemico, ma come un modello» (Croce 1952: 358).

Linee storiche

Un problema di fondo riguarda l’avvio dell’uso riflesso del dialetto, che Croce colloca dopo l’avvenuta codificazione bembesca (➔ Bembo, Pietro); invece, secondo Contini (19842: 367) «la polarizzazione di poesia dialettale spontanea e riflessa» risalirebbe addirittura alle origini, tanto che per Castellani (1973: 28) anche l’Indovinello veronese (VIII sec.), fondato sul «confronto tra lo scrittore e il contadino», tra la penna e l’aratro, con consapevole inserimento di volgarismi, «potrebbe quasi essere considerato un testo di letteratura dialettale riflessa», come scelta espressiva rispetto al latino. Nel duecentesco Contrasto di Cielo d’Alcamo sono accostate due diverse soluzioni di stile (Monteverdi 1954: 106-121; Stussi 1993: 9), l’una di tono elevato (per es., nei primi due versi), l’altra con tratti linguistici locali, come nel terzo verso («Tràgemi d’este focora se t’este a bolontate»), citato nel De vulgari eloquentia come esempio di differenza tra lo stile elevato e quello poetico parodico o medio. L’autore del Contrasto metterebbe in parodia un personaggio che non controlla l’interferenza tra due diverse modalità comunicative e di stile. In altro luogo, la parodia si configura «in improperium» di altri e del loro modo di parlare (dei marchigiani, nel caso del Castra nominato sempre nel De vulgari eloquentia).

Nel Trecento il ricorso al dialetto come genere parodico o realistico coincide spesso con la differenziazione diatopica rispetto a un volgare più diffuso e collaudato in letteratura. Ciò presuppone una diversa valutazione delle lingue volgari, esplicita nella celebre dichiarazione (1332) del retore padovano Antonio da Tempo: Lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis; non tamen propter hoc negatur quin et aliis linguis sive idiomatibus aut prolationibus uti possimus (cap. LXXV). Nell’accostamento tra lingua propria e altrui un ruolo centrale è svolto dai toscani, che per primi osservarono altre varietà da un punto di vista letterario. Esemplare è l’Epistola napoletana di ➔ Giovanni Boccaccio (Sabatini 1996: II, 425-466), preceduta da una motivazione in toscano, rispetto alla quale l’occasionale ricorso al napoletano è funzionale alla rappresentazione di fatti, persone e parole di uno spazio geograficamente delimitato. La stessa cosa vale per Francesco Vannozzo, padovano di origine aretina, che, tra veneziano, padovano rustico o pavano, e toscano, si muove nella prospettiva di un uso riflesso (Paccagnella 1994: 514).

Dal momento che la connotazione dialettale dipende dalla percezione e dalla competenza dell’autore, il ricorso a un medesimo volgare per alcuni acquista il contrassegno della dialettalità (di genere), mentre è non marcato e in senso stretto non dialettale per chi adotta l’unico volgare che conosce. La prima soluzione ricorre nello sperimentalismo delle corti quattrocentesche in cui vige un repertorio che comprende latino letterario, latino documentario, volgare locale, volgare letterario diversamente dosato con il toscano, volgari di altra provenienza, anche non italiani (➔ Castiglione, Baldassarre; ➔ koinè). La curiosità verso forme diverse suggerisce tra l’altro le parodie di Luigi Pulci o Benedetto Dei (Folena 1991), o la ripresa del bergamasco, imitato dal veronese Giorgio Sommariva o citato a Genova negli Strambotti a la bergamasca (Paccagnella 1994: 516). La dialettica tra volgare di prestigio e volgare rustico si concretizza nella Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici, mentre gli gliommeri napoletani, monologhi recitativi, alludono alla ➔ variazione diastratica tra letterati di corte e popolo cittadino.

Tra le Prose di Bembo (1525) e il Vocabolario della Crusca (1612), si definisce la codificazione di una lingua letteraria rispetto alla quale si configurano la nozione di dialetto e uno scarto linguistico dialettale ‘riflesso’, a partire dal padovano Ruzzante, «il più antico dialettale raggiunto dal canone» (Contini 19842: 612). Dal Seicento in poi la letteratura dialettale riflessa conosce una consacrazione definitiva, per cui la periodizzazione proposta da Croce non perde del tutto validità. Infatti «non si intende il senso della dialettalità barocca se non si coglie il rapporto che unisce la deviazione dialettale alla ricerca del peregrino, dell’inusitato, del meraviglioso» (Brevini 1999: 678). Al maggiore prosatore in dialetto, il napoletano Giovan Battista Basile, si deve infatti Lo cunto de li cunti, per Croce (1974: XXXIX) «il più bel libro italiano barocco». A partire da quest’epoca l’opzione dialettale permette di raccogliere la sfida di una scelta letteraria scaltrita, anche se apparentemente negata, come negli autori napoletani che indulgono al topos delle parole chiantute «solide, ben piantate» per la loro corposità popolare.

Si pone quindi il (falso) problema dell’autenticità del dialetto letterario: l’autore dialettale, in ogni epoca, non usa, pena l’incomunicabilità, una lingua inventata, ma persegue per iscritto scelte di genere e di stile, a partire da morfologia, fonetica, lessico e sintassi di una varietà reale, usata in genere solo nella comunicazione parlata. Per questa via, anche se con un certo distacco, non sempre parodico, e pur con il filtro di ogni scrittura letteraria, il mondo popolare entra in letteratura, come nel caso di Giulio Cesare Cortese, che osserva la plebe di Napoli con simpatia e «con un’attenzione quasi etnografica, ma anche con una vivacità mimetico-scenica» (Brevini 1999: 688).

La più evidente implicazione letteraria dell’uso riflesso dei dialetti è nel costituirsi di due monolinguismi complementari e distinti, per cui il ricorso al dialetto prescinde dalla lingua italiana, evitando gli accostamenti e le interferenze della lingua corrente. Al processo di occultamento di una lingua (quella italiana) si abbina talvolta lo stesso sdoppiamento con pseudonimo degli autori o perfino una doppia vita, visto per esempio che l’attività di Giulio Cesare Cortese si colloca in parte dopo la data della sua presunta morte (Fulco 1997: 844-850): per l’autore dunque il dialetto non è più lingua di altri, ma può diventare lingua di un altro sé stesso. Il plurilinguismo permane invece nella commedia cinquecentesca, in cui ai personaggi è conferita una tipizzazione linguistica funzionale al genere comico (Folena 1991) o in alcuni generi in cui si alternano lingue diverse ed è in seguito manifestazione ricorrente dell’espressionismo letterario (Segre 1974: 369-426).

L’affermazione della letteratura dialettale dipende anche dall’editoria (➔ editoria e lingua), che favorisce la circolazione delle opere al di fuori del contesto di origine: ne derivano linee comuni alle diverse letterature dialettali italiane, come la traduzione in dialetto di autori italiani o classici (Tasso, Omero), il petrarchismo dialettale, la ripresa di generi alti con abbassamento comico, l’esaltazione dei diversi dialetti (milanese, bolognese, napoletano) condotta, per paradosso o per celia (Croce 1952: 358), da autori che sembrano «farsi beffe dell’ormai più che secolare questione della lingua» (Brevini 1999: 1741; cfr. anche Vitale 1988: 307-326); in qualche caso (come nel Prissiàn de Milan: Lepschy 1978: 177-215) si nota una prima attenzione verso le caratteristiche grammaticali dei dialetti, frequente, anche per il lessico, dal Settecento in poi (Bruni & Marcato 2006).

Grazie al contatto con la letteratura italiana, Giovanni Meli, trasponendo la poetica dell’Arcadia in siciliano, in una lirica non marcata in senso comico, dà luogo a quadretti idilliaci segnati da una nuova e «suggestiva nota di humilitas» (Brevini 1999: 1523). Ancora nel Settecento, l’illuminista napoletano Ferdinando Galiani, storico del dialetto e promotore di una collana editoriale e di un vocabolario, rifiuta un uso comico del dialetto, auspicando il ricorso al napoletano in pluralità di usi scritti anche non letterari e non marcati. In alternativa a queste tendenze si costituiscono in varie forme, in Sicilia, a Napoli e in Veneto, rivendicazioni di usi dialettali fortemente connotati come popolari o plebei.

Nel Settecento il dialetto acquista un ruolo centrale nella scrittura per il teatro grazie a ➔ Carlo Goldoni, che invece di affermare una polarizzazione tra italiano e dialetto porta in scena (e nella pagina) «le infinite sfumature e varianti» della «viva realtà del veneziano parlato, capace di trapassare senza soluzione di continuità dal dialetto ‘sporco’ al dialetto ‘pulito’ alla lingua, di oscillare secondo i momenti espressivi e anche l’età dei parlanti» (Folena 1983: 98).

La soluzione goldoniana si espande ad altri generi letterari, quando in epoca romantica si avverte l’esigenza di dare voce a personaggi e storie della realtà popolare. Il milanese Carlo Porta, dopo aver sondato le potenzialità del dialetto in una traduzione parziale della Divina Commedia, fa parlare in prima persona personaggi umili come La Nineta del Verzee o Giovannin Bongee, «non per farci divertire alle loro spalle, ma per far emergere tutta la loro profonda umanità» (Chiesa & Tesio 1978: 29).

Dalla lettura di Porta sembra sia nata in Giuseppe Gioachino Belli l’idea di edificare «il monumento» della plebe di Roma. Per lui il romanesco, osservato e descritto con grande acume, è (diversamente dal milanese di Porta) «favella non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo» (Belli 1961: 441-442). Il distacco rispetto al popolo che parla nei sonetti conduce peraltro a un ritratto credibile, sia per la visione del mondo veicolata dai «popolari discorsi svolti» nella poesia, sia per la lingua (Serianni 1989: 314; Bertini Malgarini & Vignuzzi 2002: 1014).

Dopo l’Unità, mentre si temeva la crisi dei dialetti, un definitivo salto di qualità si determina grazie al napoletano Salvatore Di Giacomo, che conferisce alla poesia in dialetto temi e prospettive della letteratura europea. Con lui il poeta parla in prima persona e sente empaticamente la realtà osservata. Secondo Contini (1968: 414) la voce di Di Giacomo «è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i Canti di Castelvecchio e Alcyone e i poeti nuovi». Con il suo coinvolgimento individuale diretto, che risalta perfino nel particolare realismo impersonale della raccolta ’O Funneco Verde (Di Giacomo 2009), egli dà avvio alla poesia novecentesca in dialetto, se si accetta la distinzione (Pancrazi 1942: 263) tra poesia dialettale (che si qualifica per la scelta linguistica di genere) e poesia in dialetto (che si qualifica per dignità della poesia in sé). Grazie alla canzone molti versi digiacomiani hanno raggiunto un pubblico ampio e anche popolare, cosa davvero insolita per le opere dialettali, che, al di là di enunciazioni di principio, incontrano per lo più i favori di un (limitato) pubblico colto.

In linea con una poetica verista, il dialetto favorisce a fine Ottocento l’osservazione della sofferta realtà degli emarginati, come gli scugnizzi napoletani (Ferdinando Russo), o delle misere condizioni dei migranti, come nel veronese Berto Barbarani (De Blasi 1999).

Il Novecento

Nel Novecento è stato percepito (e forse enfatizzato) il declino dei dialetti in rapporto al nuovo contesto sociale. Ne è derivata un’imprevista fortuna letteraria dei dialetti, che, in quanto lingue di un mondo scomparso (Brevini 1990), sono sembrati strumenti adeguati all’espressione di un disagio esistenziale vissuto come dramma personale e collettivo. Topos novecentesco è quindi il recupero delle parole perdute nell’esperienza personale degli autori più che nella realtà, visto che tuttora più della metà dei parlanti dichiara di usare i dialetti (dati tratti da ISTAT 2007), mentre la fortuna dei dialetti si avverte attraverso altri canali (canzone, televisione, cinema, Internet). Il senso di perdita ha indotto i poeti a riscoprire i dialetti nativi, spesso di centri piccoli o piccolissimi (Mengaldo 1994): una costante novecentesca è appunto l’approdo alla letteratura di idiomi estranei alle tradizioni letterarie dei dialetti più collaudati.

Per molti il dialetto diventa voce privilegiata della poesia, anche in alternativa (secondo un altro topos) a un italiano ritenuto ormai logoro. Altri autori si muovono tra adesione mimetica alla realtà, tono moraleggiante tradizionale e soluzioni sperimentali. Come in passato alcuni autori scrivono anche in italiano; pochi ricorrono anche al latino: il padovano Fernando Bandini vede ugualmente distanti, come lingue morte, sia il dialetto, sia il latino classicheggiante e metastorico dei suoi poemetti (Cucchi & Giovanardi 1996: 616), mentre per Michele Sovente (Reina & Ravesi 2000: 1234 e 1335) sono lingue palpitanti sia l’italiano, sia il dialetto di Cappella, frazione di Monte di Procida (usato significativamente in luogo del napoletano della tradizione), sia il latino, percepito come vivente nei paesaggi archeologici e vulcanici dei Campi Flegrei.

Più che in passato il dialetto entra anche nella prosa, con l’inserimento di voci dialettali tanto nella narrazione quanto nei dialoghi, come segno di un’adesione letteraria alla realtà o come manifestazione di espressionismo, dagli inserti plurilingui di ➔ Carlo Emilio Gadda fino all’interferenza letteraria di italiano e siciliano in Andrea Camilleri. Come già in Goldoni, infine, ma in un contesto ormai mutato e con diffusione in passato impensabile (si pensi alla televisione), il teatro novecentesco si apre al dialetto nelle sue varie combinazioni con l’italiano per dar luogo a rappresentazioni verosimili (nei napoletani Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo), oppure a uno sperimentalismo variamente orientato in senso espressionistico (dai milanesi Dario Fo e Giovanni Testori alla siciliana Emma Dante).

Tra dialetto proprio e altrui, con intento parodico o mimetico, per ricerca di verosimiglianza, attenzione al popolo, o per testimonianza etnografica, con un’adesione lirica individuale o per dar voce ai diversi aspetti di una realtà plurilingue, o anche per sofisticato sperimentalismo, l’uso letterario del dialetto si articola nei secoli in una serie di opzioni diversamente combinate in rapporto ai contesti storici e grazie all’incontro con grandi personalità, che, senza proporre l’angusta esaltazione di una piccola patria, hanno perseguito strade nuove nella cultura letteraria italiana. In ogni caso si è sempre rivelata valida la formulazione di Carlo Porta, il quale osservava che le parole di una lingua

hin ona tavolozza de color,

che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell

segond la maestria del pittor

(Carlo Porta 1975: sonetto VI, vv. 2-4).

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