Utilitarismo

Enciclopedia delle scienze sociali (1998)

Utilitarismo

Carlo Augusto Viano

Le origini

John Stuart Mill diceva che "in uno dei romanzi di Galt, Gli annali della parrocchia, [...] il membro della Chiesa scozzese di cui il libro costituisce un'immaginaria autobiografia viene rappresentato nell'atto di ammonire i suoi parrocchiani a non abbandonare il Vangelo e a non diventare, in conseguenza di ciò, utilitaristi". Di lì Mill prese il termine quando, nel 1822, fondò una piccola 'Società utilitaristica': "era la prima volta che qualcuno assumeva il titolo di utilitarista e il termine si fece strada [...] a partire da questa umile origine". La società si sciolse già nel 1826 e non arrivò mai a dieci persone. Ma il suo nome avrebbe avuto fortuna, perché "man mano che quelle opinioni provocavano un interesse crescente il termine fu ripetuto da estranei e oppositori e divenne di uso piuttosto comune proprio intorno all'epoca in cui quelli che l'avevano originariamente assunto lo abbandonarono, insieme ad altre caratteristiche di setta" (John Stuart Mill, Autobiography, 1873; tr. it.: Autobiografia, Roma-Bari 1976, pp. 63-64).

Le prime riunioni della Società si tennero nella casa di Jeremy Bentham, che era il vero ispiratore di Mill e dei giovani raccoltisi intorno a lui. Bentham aveva dedicato il suo primo scritto impegnativo, Commento ai Commentari: critica ai Commentari sulle leggi d'Inghilterra di William Blackstone, incominciato nel 1774, ma mai pubblicato, appunto alla critica dell'opera principale, pubblicata dal 1765 al 1769, di William Blackstone, alla cui scuola si era formato a Oxford tra il 1767 e il 1770. Blackstone aveva utilizzato la teoria tradizionale della legge di natura, immettendo le leggi positive, "municipali" come le chiamava, in un sistema di leggi (di natura, divine, delle nazioni) che le sovrastano, e nel quale intervengono soltanto a confermare obblighi e divieti o a introdurre obblighi e divieti nuovi in materie indifferenti, cioè non disciplinate dalle leggi superiori.

Per Bentham quelle leggi 'superiori' erano soltanto metafore, come lo era il contratto originario che, per Blackstone e la teoria tradizionale, aveva messo fine allo stato di natura e aveva istituito il potere del re, con i suoi limiti e contrappesi costituzionali. Attingendo a David Hume come a Joseph Priestley, alla letteratura anticonformistica come alla scuola scozzese e all'illuminismo continentale di Claude-Adrien Helvétius o di Cesare Beccaria, Bentham criticava l'interpretazione tradizionale della costituzione inglese, che mescolava teoria del contratto originario, fedeltà alle tradizioni giuridiche consacrate dalla common law e lealismo monarchico. In particolare riconosceva di aver imparato da Hume a considerare il contratto originario una "chimera" e una "finzione" dai "fondamenti sabbiosi". Eliminate quelle finzioni, la legge municipale rimane la sola "cui gli uomini nel loro modo ordinario di parlare darebbero il nome di 'legge' ", la sola "che vediamo fatta in ogni nazione, per esprimere la volontà del corpo che in essa governa" (A fragment on government, 1776, Introduzione 3, in The collected works, a cura di J. H. Burns, Principles of legislation, London 1977, p. 422). Perché una legge è "un insieme di parole [...] che siano segni di quella che potremmo dire una volizione e servano a esprimerla" (A comment on the Commentaries, ibid., p. 7).

La riforma delle leggi

Bentham riteneva che alla "scoperta e al progresso nel mondo naturale" corrispondesse in quello morale "la riforma", che deve muovere da "questo assioma fondamentale: è la massima felicità del massimo numero che costituisce la misura di ciò che è corretto o sbagliato" (A fragment on government, cit., Prefazione, p. 393). Usando questa regola il censore delle leggi deve criticare le leggi esistenti, valutando la loro tendenza a promuovere o a ostacolare "la Felicità", il "fine comune" di tutti gli uomini. La tendenza a promuovere la felicità "è ciò che in un atto chiamiamo la sua utilità" (ibid., p. 415). Bentham riteneva, come Hume, "che i fondamenti di tutte le virtù consistono nell'utilità", che "l'utilità sia la prova e la misura di ogni virtù [...] e che l'obbligo di provvedere alla felicità generale venga prima di ogni altro e includa ogni altro" (ibid., vol. I, 36, p. 440). Il compito censorio della giurisprudenza dovrebbe consistere soprattutto nello sfrondamento delle legislazioni e nell'eliminazione delle leggi inutili, che creano reati artificiali. Si potrebbe così fare a meno delle tecniche usate dai giuristi alla Blackstone per adattare le consuetudini inglesi ai tempi moderni, e si potrebbe liberare la politica dagli inutili impedimenti costituzionali. La contrapposizione tra un governo libero e un governo dispotico riguardava, secondo Bentham, la distribuzione del potere, la fonte dei titoli di potere, la frequenza dei mutamenti dei governanti, la loro responsabilità, la presenza o assenza della libertà di stampa e di associazione. Ma la critica delle leggi tradizionali e la proposta di nuove leggi non poteva essere affidata a meccanismi politici o giudiziari, perché chiunque può giudicare le leggi, pur obbedendo a esse, senza bisogno di mediazioni costituzionali. "Sotto il governo delle leggi [...] il motto di un buon cittadino [è] obbedire puntualmente, censurare liberamente" (ibid., p. 399).

Il politico da parte sua deve realizzare l'interesse generale, senza intenderlo come qualcosa che si sovrappone all'interesse dei singoli, e provvedere alla felicità comune considerata come felicità di ciascuno dei suoi membri. Pertanto chi detiene il potere politico deve promulgare leggi efficaci, che innanzitutto non nuocciano troppo alla felicità generale, affliggendo inutilmente i cittadini con le pene, e deve astenersi dal punire quando la punizione è inefficace, accettando perfino che si compiano reati difficilmente perseguibili. La punizione è infatti un danno, e perciò un male, che andrebbe evitato, se le leggi devono "aumentare la felicità totale della comunità" ed "escludere nella misura del possibile ogni cosa che tenda a diminuirla"; a meno che possa "escludere qualche male maggiore" (An introduction to the principles of morals and legislation, New York 1948, XIII, i, ii, p. 171). Pertanto bisogna identificare i casi nei quali la punizione è infondata (cioè non c'è un danno da prevenire), inefficace, svantaggiosa o troppo dispendiosa (quando arreca più danno di quello che dovrebbe prevenire) oppure non necessaria. Le sanzioni devono essere proporzionate ai danni da prevenire, cioè devono arrecare danni superiori ai benefici che si possono attendere dai comportamenti proibiti, ma non devono arrecare più danni di quelli necessari per dissuadere da quei comportamenti. Inoltre devono essere comparabili, in modo da rendere possibile il confronto tra comportamenti dannosi qualitativamente diversi, devono colpire gli abiti più che gli atti, devono essere certe, prossime ed esemplari.

La teoria del piacere

Constatare che una condotta è dannosa è "una materia di fatto", "una questione di esperienza", perché le sole cose alle quali gli uomini sono interessati "quando si tratta delle conseguenze di una legge o di un atto che è fatto oggetto di una legge [...] sono il dolore e il piacere": e piacere e dolore sono criteri disponibili a tutti, che non richiedono il parere di tecnici delle leggi (A fragment on government, cit., Prefazione, pp. 416-418). Nell'Introduction to the principles of morals and legislation del 1789 Bentham attenuò il riferimento all'idea humiana di utilità, presente nel Commento ai Commentari e nel Frammento sul governo che nel 1776 ne aveva tratto, e sviluppò un'organica teoria del piacere. "La natura - diceva - ha posto l'umanità sotto il governo di due padroni sovrani, il dolore e il piacere" (Introduction, cit., p. 1), cause delle azioni, criteri per il loro giudizio e fini da perseguire. In una nota del 1822 dichiarava di preferire la formulazione del principio utilitaristico in termini di massima felicità, che ammetteva di aver preso da Priestley e Beccaria, a quella humiana in termini di utilità, perché così emergeva un riferimento più diretto al piacere e al dolore. Infatti l'utilità è "la proprietà di un oggetto con la quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità (e tutte queste determinazioni ora si riducono alla medesima cosa) o (e di nuovo si tratta della stessa cosa) a prevenire danno, dolore, male o infelicità alla parte il cui interesse è preso in considerazione: e se la parte è la comunità in generale, allora si tratterà della felicità della comunità, se è un individuo particolare, allora si tratterà della felicità di quell'individuo" (ibid., I, iii, p. 2). Bentham rifiutava qualsiasi distinzione tra il bene comune della società e il bene dei suoi membri e qualsiasi idea del dovere che fosse diverso dal fine che i singoli si possono porre tenendo conto delle cause per le quali agiscono.

Bentham distingueva piaceri e dolori in semplici e complessi, enumerava quattordici varietà di piaceri semplici e dodici di dolori semplici, che poi analizzava minutamente, e teneva anche conto del grado di sensibilità a piacere e dolore, che dipende da diverse circostanze. A piacere e dolore, considerati in se stessi, si possono assegnare valori, che dipendono da intensità, durata, certezza o incertezza e prossimità o lontananza. In base alla loro tendenza, piacere e dolore devono essere valutati anche secondo fecondità e purezza. Se poi si considera il numero delle persone coinvolte, ai valori precedenti bisogna aggiungere l'estensione. Per ogni individuo, se la somma dei valori del piacere prevale su quella dei valori del dolore, si avrà una tendenza buona, che si ripercuoterà favorevolmente sulla società. Ma l'effetto sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il numero delle persone interessate, perché "la tendenza generale di un atto è più o meno dannosa secondo la somma totale delle sue conseguenze, cioè secondo la differenza tra la somma di quelle che sono buone e la somma di quelle che sono cattive" (ibid., VII, ii, p. 70). Poiché deve "promuovere la felicità della società, punendo e premiando", il governo deve punire gli atti che tendono a disturbare quella felicità (ibid., VII, i, p. 70). A questo scopo esso deve giudicare le azioni non soltanto in se stesse, ma anche in base alle circostanze, all'intenzionalità e alla consapevolezza di chi le compie e deve prendere in considerazione i moventi che "agiscono sulla volontà" (ibid., X, iii, p. 98). La volontà buona è quella i cui dettami "coincidono con maggiore certezza con quelli del principio di utilità", perché questi sono "i dettami della benevolenza più estesa e illuminata" (ibid. X, xxxvi, p. 121).

L'etica pubblica e il programma politico

Bentham riteneva che la sanzione giudiziaria non fosse l'unico strumento del quale la politica deve servirsi. L'arte di governo, accanto alla legislazione e all'amministrazione, ha anche il compito dell'educazione pubblica dei non adulti e non è estranea neppure all'"etica privata" (Introduction, cit., XVII, i, p. 309), che è un'"arte di autogoverno" (ibid., XVII, iii, p. 310). L'etica comprende doveri verso se stessi, ai quali corrisponde la qualità della prudenza, e doveri verso gli altri, che possono essere negativi, se impediscono di diminuire la felicità del prossimo, o positivi, se impongono di accrescerla. Ai doveri negativi corrisponde la probità, a quelli negativi la beneficenza. A prima vista sembra che ciascuno debba pensare alla propria felicità e che non ci siano ragioni per probità e beneficenza; eppure gli uomini sono mossi anche dalla simpatia e dalla benevolenza, che sono motivi puramente sociali, o dall'amicizia e dall'amore della reputazione, che sono motivi semisociali. Perciò etica privata e legislazione "vanno mano nella mano" (ibid., XVII, viii, p. 313), perché entrambe hanno come fine la felicità degli individui, anche se c'è una differenza, perché all'etica non sfugge nessun atto, mentre la legislazione non può raggiungerli tutti. Quando le punizioni legali sono infondate, inefficaci, svantaggiose o superflue interviene l'etica, e la legislazione può aiutarla, non tanto accrescendo la prudenza, perché gli individui sanno badare a se stessi, quanto incoraggiando la probità, mentre la beneficenza appartiene totalmente all'etica privata.

Gli avversari dell'utilitarismo hanno spesso sostenuto che esso fosse una negazione della morale. Bentham delineava invece un'etica pubblica che i governanti possono e devono seguire, e in base alla quale i cittadini possono giudicarli. La guida della società non può essere affidata a giuristi o a politici chiusi all'interno della propria tradizione. Nella nota del 1822 a An introduction to the principles of morals and legislation Bentham contrapponeva i governanti che si occupano della felicità di uno solo o di un piccolo numero di cittadini a quelli che tengono presente la felicità del maggior numero. Il programma benthamiano pretendeva di porsi fuori delle tradizioni politiche inglesi dominanti, di quella tory come di quella whig che, entrambe, puntavano più sulle istituzioni che sulla capacità dei singoli di giudicare le leggi. Dell'etica tradizionale Bentham rifiutava quelli che considerava falsi principî e che chiamava principio "ascetico" e "principio di simpatia e antipatia": chi li accetta pretende che la morale sia una rinuncia ai piaceri o dipenda da sentimenti, di simpatia e antipatia appunto, diversi dai piaceri e dai dolori, mentre di fatto esprime, senza riconoscerlo, l'apprezzamento di tipi particolari di piaceri. In realtà si tratta di tentativi di sottrarre le scelte morali al vaglio del criterio dell'utilità e al giudizio diretto dei cittadini.

Bentham guardava con simpatia agli esperimenti fatti in Francia dopo il 1789. Pierre-Étienne-Louis Dumont favorì i rapporti tra Bentham e gli esponenti della Rivoluzione francese, in particolare Mirabeau, trasse da un'ingente massa di manoscritti benthamiani i tre volumi del Traité de législation civile et pénale, pubblicati nel 1802, e contribuì al successo dell'opera di Bentham in Europa come in America. Molte cose dividevano Bentham dai programmi della Rivoluzione americana e di quella francese, in particolare dal giusnaturalismo che ispirava le dichiarazioni dei diritti. Bentham poteva accettare la rivendicazione della piena capacità legislativa da parte dei giacobini, ma non era disposto a riconoscere la delega dell'interpretazione degli interessi dei cittadini al governo centrale: l'idea russoiana di popolo gli era del tutto estranea. In Inghilterra il programma benthamiano trovò affinità con i movimenti riformatori che chiedevano una modificazione della tradizione costituzionale, ma non si ridusse mai a una difesa della democrazia, perché puntò sempre sull'opera riformatrice di uomini illuminati, capaci di promuovere la felicità collettiva nei modi che ciascuno avrebbe potuto giudicare. In questa prospettiva Bentham propose molte idee nuove in materia di codificazione, proprietà, sicurezza, uguaglianza, rapporti di lavoro, relazioni personali, schiavitù, famiglia, condizione delle donne, libertà sessuale per gli adulti e riconoscimento di tutte le forme di vita oltre quella umana.

Intorno a Bentham si raccolsero personaggi che cercarono di dare forma alle sue idee e ai suoi scritti, spesso disordinati e mal costruiti, e svolsero un'intensa propaganda per liberare l'umanità da pregiudizi morali e religiosi. John Stuart Mill (Autobiography, cit., III; tr. it., p. 56) cita "un libro (scritto sulla base di alcuni manoscritti di Bentham e pubblicato sotto lo pseudonimo di Philip Beauchamp) intitolato Analisi dell'influenza della religione naturale sulla felicità temporale degli uomini" nel quale si mettevano in luce le "contraddizioni [...] pervertitrici dei sentimenti morali" nella religione naturale "quanto [in] qualsiasi forma di cristianesimo se realizzata davvero compiutamente". Oltre a Dumont, John Austin diede forma sistematica alle teorie giuridiche benthamiane con Province of jurisprudence determined del 1832. Ma il vero costruttore della dottrina utilitaristica fu James Mill, che nel 1820 pubblicò Jurisprudence (un compendio delle teorie giuridiche di Bentham) ed Essay on government, nel 1821 Elements of political economy, e tra il 1822 e il 1829 scrisse Analysis of the phenomena of the human mind, per dare una base filosofica alle dottrine benthamiane, attingendo alle Observations on man, his frame, his duty and his expectations, un'opera di David Hartley in due volumi pubblicata nel 1749 e riedita in forma ridotta nel 1775 a cura di Joseph Priestley. John Stuart Mill non sapeva più in che occasione suo padre, James, avesse conosciuto Bentham, probabilmente tra il 1806 e il 1808, ma era sicuro che egli fosse "comunque il primo inglese di grande valore che comprese perfettamente e adottò nel loro complesso le concezioni generali di Bentham sull'etica, sullo Stato e sulla legislazione. La qual cosa costituì una base di accordo naturale fra di loro e li rese amici intimi" (Autobiography, cit., II; tr. it., p. 41). Tra la famiglia di Mill e Bentham si stabilì un solido legame e quasi una forma di convivenza.

Negli Elements of political economy James Mill riprendeva i Principles of political economy and taxation che David Ricardo aveva pubblicato nel 1817. Ma fin dal 1787 in A defence of usury Bentham aveva invocato la completa abolizione di ogni legge in materia di interesse finanziario, applicando il principio che faceva valere contro le leggi inefficaci, una linea alla quale convertì lo stesso Adam Smith. Insieme con quelle di Ricardo, nel circolo benthamiano entrarono le teorie di Thomas Robert Malthus sulla popolazione, e l'attenzione si spostò verso la trasformazione dell'Inghilterra da paese agricolo a paese industriale e verso i problemi di riforma politica posti da questo processo. I programmi demografici ispirati a Malthus sembravano l'unico mezzo per assicurare pieno impiego con alti salari, attraverso la limitazione volontaria della crescita numerica della popolazione lavoratrice. A questo si poteva giungere soltanto impartendo un'educazione che mettesse tutti in grado di leggere, perché tutte le opinioni potessero esprimersi con la parola e gli scritti e, su questa base, i cittadini potessero orientarsi per eleggere un'assemblea legislativa. Mentre la fiducia nel governo rappresentativo e nella completa libertà di discussione era quasi illimitata, la società aristocratica tradizionale e la Chiesa erano considerate gli ostacoli maggiori al progresso della ragione umana. Verso il 1819 al gruppo benthamiano si unì George Grote che, presentato a James Mill da Ricardo, nel 1820 scrisse un opuscolo in difesa della riforma radicale, in risposta a un articolo di James Mackintosh sulla "Edinburgh review". Charles Austin, fratello di John, fece conoscere soprattutto a Cambridge, nella Union Debating Society, le idee politiche dei benthamiani. Nel 1822-1823 John Stuart Mill costituì la piccola 'Società utilitaristica', che avrebbe determinato la fortuna del termine sia tra i benthamiani sia tra estranei e oppositori. Intorno alla Società si raccolsero personaggi come William Eyton Tooke, figlio dell'economista, William Ellis, economista, George Graham e John Arthur Roebuck. La "Westminster review", uscita nel 1824 per iniziativa di John Bowring, e lo "Spectator" di R. S. Rintoul, uscito nel 1828, furono i periodici che propagandarono le idee benthamiane.

Utilitarismo e progresso storico

In parte proseguendo l'opera del padre, John Stuart Mill cercò di dare un preciso statuto filosofico all'utilitarismo. Come Bentham, egli riteneva che l'etica tradizionale avesse dato una veste dottrinale ai pregiudizi morali correnti: la "scuola intuitiva" richiamandosi a "principî [...] evidenti a priori", la "scuola induttiva" pretendendo di ricavare lecito e illecito dalla "esperienza" (Utilitarianism, 1861, 1863, I; tr. it.: Utilitarismo, Milano 1946, p. 179). In realtà ogni regola o consuetudine morale deve il proprio successo all'utilità che possiede, e deve essere vagliata alla luce del principio di utilità o della massima felicità, per il quale "le azioni sono lecite proporzionatamente alla felicità che promuovono", dove "per felicità s'intende piacere e assenza di dolore" (ibid., II, p. 184). La maggior parte delle buone azioni ha per scopo non il bene dell'umanità o della società in generale, bensì quello degli individui, e le preoccupazioni dell'uomo più scrupoloso non devono andare oltre le persone che sono comprese nella sfera delle sue azioni. La prima forma, elementare, di rispetto per l'interesse generale consiste nell'astensione dalle azioni vantaggiose che, se compiute da tutti, sarebbero dannose alla società. Le occasioni di promuovere "la moltiplicazione della felicità", che è "l'oggetto della virtù", cioè di diventare pubblici benefattori, sono rarissime. Solo coloro che si occupano della società in generale devono preoccuparsi abitualmente di un così vasto campo d'azione. Tuttavia, per i postulati fondamentali dell'utilitarismo, che faceva consistere l'utilità collettiva nella somma delle utilità individuali, anche badando al proprio vantaggio si contribuisce alla felicità generale purché si evitino i comportamenti dannosi.

Mill introduceva però una differenza qualitativa tra i piaceri che costituiscono la felicità, e contrapponeva alla semplice ricerca della serenità, che induce ad accontentarsi, il desiderio, che sollecita a sopportare anche dei dolori e a rifiutare un'idea statica di felicità come soddisfazione. È la cultura che, rendendo gli uomini interessati ai fenomeni della natura, ai capolavori dell'arte, alle immaginazioni della poesia, agli avvenimenti della storia, al progresso dell'umanità e alle sue possibilità future, permette di apprezzare le differenze qualitative tra i piaceri: ogni uomo nato in un paese civile può giungere a godere di una felicità superiore.

Mill riteneva che la storia procedesse verso società di uguali, nelle quali gli interessi di tutti sono considerati nella medesima misura e ciascuno è obbligato a basare la propria vita sul rispetto degli interessi collettivi. Pur attribuendo alla propria età un progresso appena incipiente, Mill riteneva che già in essa ogni individuo si considerasse un essere sociale e sentisse un bisogno naturale di armonia tra i propri fini e quelli degli altri, anche se il sentimento della socialità era ancora molto meno intenso dei sentimenti egoistici, e spesso mancava completamente. Era soprattutto l'educazione che, sostituendosi alla religione, poteva irrobustire il senso di solidarietà, risolvere i contrasti fra gli interessi e livellare le ineguaglianze dovute a privilegi di individui e categorie. Questo processo avrebbe generato in ogni individuo un sentimento di unità con tutto ciò che lo circonda e lo avrebbe indotto a non desiderare per se stesso un benessere che non includesse il benessere degli altri. Attraverso l'educazione il senso di socialità, sempre presente ma originariamente ridotto, si sarebbe esteso e sarebbe diventato anch'esso a suo modo naturale. D'altra parte non occorre che le azioni produttrici di benessere generale, giustamente considerate virtuose, siano compiute esclusivamente per senso del dovere. Anche motivazioni egoistiche possono rendere virtuosi i comportamenti che generano, perché il movente delle azioni riguarda il merito di chi agisce, non il contenuto delle sue azioni, che è determinato dalle loro conseguenze sulla felicità di chi le compie e della società cui appartiene.

Per Bentham il principio di utilità non era dimostrabile, proprio perché è un principio dal quale si deve partire per provare tutto il resto. Anche Mill ammetteva che dell'utilitarismo non ci fosse una prova, "nel significato ordinario della parola", ma pensava di poter mostrare che il principio di utilità è conforme alla struttura dei nostri desideri: "l'unico oggetto di desiderio è la felicità. Qualunque cosa venga desiderata, in quanto strumento per il raggiungimento di altri fini oltre se stessa, e alla fine per la felicità, non può essere desiderata che come parte della felicità medesima" (ibid., IV, p. 223). In realtà la 'prova' milliana (tutt'altro che chiara e lineare) consisteva nel mostrare che tutti gli atti umani, anche quelli che sembrano non rivelare questo scopo, hanno come fine la ricerca della felicità e che ogni valutazione morale può essere ricondotta al contributo che i singoli atti arrecano alla felicità collettiva. Bentham aveva presentato come una scelta preliminare quella di pubblici ufficiali che si servano di mezzi di governo in grado di rendere minime le afflizioni degli individui, partendo dal riconoscimento che non esiste altra felicità collettiva che non sia quella costituita dalla somma delle felicità individuali. Mill intendeva mostrare che l'idea di felicità muta nel corso della storia umana e può via via incorporare contenuti diversi, fino a comprendere molte delle cose che la teoria etica tradizionale in qualche modo conteneva. La prova di Mill consisteva in sostanza nel mostrare che il principio di utilità resta costante nello sviluppo storico nonostante che si configuri in modi diversi, perché gli uomini tendono pur sempre alla felicità e ogni loro fine si configura come parte della felicità cui tendono. Bentham passava dalla teoria etica edonistica a un programma politico di promozione del benessere collettivo, facendo valere con forza la riduzione della felicità totale alla somma delle felicità individuali. Mill ricorreva invece alla mediazione della storia: soltanto al termine di un processo storico ancora agli inizi la ricerca della felicità individuale sarebbe potuta coincidere con la ricerca della felicità collettiva, e il senso di solidarietà avrebbe fatto parte della felicità di ciascuno. Come già Bentham, Mill assegnava un posto importante all'educazione e, come lui, riteneva che malattie e povertà fossero due impedimenti gravi alla possibilità di istruire tutti in modo adeguato. Ma malattie e povertà sarebbero stati sconfitti. In questo senso Mill riprendeva temi propri dell'utilitarismo della prima generazione, ma introduceva nelle dottrine utilitaristiche temi che aveva importato dalla cultura europea continentale, dal sansimonismo e positivismo comtiano alla cultura idealistica e romantica tedesca, conosciuta attraverso Coleridge e Carlyle.

Alla concezione fondamentalmente individualistica della società propria dell'utilitarismo, nella quale ricevevano un'attenzione speciale la sicurezza degli individui e delle loro proprietà, si contrapponevano i nuovi sistemi che arrivavano dalla Francia, e che dipingevano la società come un tutto complesso, nel quale interagivano tra loro organizzazione del lavoro, cultura e strutture sociali, politiche e familiari. Gli intellettuali erano gli eredi dei sacerdoti e dovevano riformare la società esercitando un potere simile a quello che un tempo era spettato ai sacerdoti. I positivisti, stabilendo un collegamento più stretto, organico, tra cultura e società, sembravano in grado di prospettare mutamenti sociali molto più profondi di quelli proposti dai benthamiani. D'altra parte la cultura tedesca sembrava offrire contenuti più sostanziosi per i progetti educativi cari agli utilitaristi: i letterati tedeschi, da Goethe a Humboldt, mettevano a disposizione strumenti con i quali stimolare la sensibilità per i piaceri qualitativamente superiori, che Mill aveva introdotto nella teoria utilitaristica.

L'utilitarismo nella cultura accademica

Per realizzare i propri programmi educativi gli utilitaristi promossero la fondazione dell'University College che, all'interno dell'Università di Londra, doveva trasmettere un sapere non dominato dalla teologia e accessibile anche alle donne. Ma l'utilitarismo penetrò anche nella cultura inglese più legata alla tradizione. Charles Austin propagandò le idee utilitaristiche a Cambridge, e proprio qui l'utilitarismo trovò la massima attenzione presso un professore importante come Henry Sidgwick.

Sidgwick riconosceva l'utilitarismo quale uno dei Metodi dell'etica, come si intitolava la sua celebre opera (pubblicata nel 1874 e destinata ad avere molte edizioni), accanto alle teorie intuizionistiche, che Mill considerava alternative a quelle utilitaristiche. Per Sidgwick l'intuizionismo dava ragione del fatto che l'uomo comune di solito non ha difficoltà a conoscere quali comportamenti, indipendentemente dalle loro conseguenze, imponga il dovere: ha appunto intuizioni etiche. Gli stessi utilitaristi avevano avuto bisogno di integrazioni intuizionistiche perché, se si fossero affidati al puro edonismo, che pure è uno dei metodi possibili dell'etica, non avrebbero potuto introdurre gli elementi universalistici, come il riferimento alla felicità generale, che la loro dottrina conteneva. Mill aveva cercato di non riconoscere quell'integrazione, costruendo una 'prova' del principio utilitaristico che, basata com'era sul corso della storia, dava l'impressione di rifarsi alla struttura del desiderio umano; in realtà aveva fatto di quel principio una regola, l'indicazione di un fine da perseguire o la prescrizione di un dovere. Ciò mostrava che, malgrado i loro sotterfugi, gli utilitaristi sostenevano un "edonismo universalistico" molto più affine all'intuizionismo che all'"edonismo egoistico". Sidgwick riteneva che il tentativo di Mill, di tener ferma la base edonistica pur arricchendola, senza compromettersi con l'intuizionismo, con l'introduzione di differenze qualitative tra i piaceri, fosse fallito, perché ogni confronto qualitativo di piaceri si risolve in un confronto quantitativo. Anziché cercare nel desiderio di felicità comune a tutti gli uomini la base del principio di utilità, bisognava spostarsi sul piano delle regole e delle obbligazioni: così quel principio sarebbe diventato non tanto una generalizzazione fattuale o quasi fattuale, ma una regola applicabile per rendere coerenti tutte le obbligazioni che a prima vista vincolano gli individui.

Perché effettivamente l'utilitarismo aveva contribuito a mettere in luce i conflitti tra principî morali diversi, richiamando l'attenzione sulle ripercussioni dei comportamenti sulla felicità, cosa alla quale non sempre l'intuizionismo si era mostrato sensibile. Ma lo stesso principio di utilità si prestava a interpretazioni diverse. Infatti esso affermava che la felicità collettiva deve consistere nella somma delle felicità individuali, ma ammetteva che il massimo di felicità collettiva potesse comportare il sacrificio degli individui. Già Bentham aveva osservato che non conviene punire tutte le trasgressioni, che si deve preferire la tutela della sicurezza a quella dei diritti di proprietà, che si può togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno. Mill aveva riconosciuto che esistono diverse concezioni della giustizia e dell'uguaglianza, e che soltanto tenendo conto dell'utilità generale sarebbe possibile scegliere quella più opportuna. Mill aveva cercato nello sviluppo della storia le indicazioni per conciliare cose diverse tra loro: l'utilitarismo originario con le dottrine socialiste, quelle positiviste e il liberalismo europeo continentale, e aveva finito con l'elaborare una teoria della libertà nella quale le differenze sono in generale un arricchimento della società, purché si tuteli il diritto dei singoli a non essere danneggiati. La matrice utilitaristica delle sue dottrine lo induceva a pensare che esistesse una base comune per intendere i danni che si possono arrecare agli individui.

Sidgwick riconosceva che le teorie intuizionistiche erano incomplete e inadeguate, e che potevano aver ragione gli utilitaristi quando si richiamavano al principio di utilità per stabilire quali regole di comportamento applicare nei singoli casi. Ma anche l'utilitarismo aveva le proprie difficoltà interne. Altro è ammettere che una regola generale possa avere conseguenze svantaggiose e debba essere specificata con regole meno generali per adattarla a circostanze particolari; altro è ammettere che atti singoli di trasgressione delle regole generalmente seguite costituiscano la soluzione più vantaggiosa. Se tutti osservano le regole e un individuo le trasgredisce, il vantaggio di questo individuo, e perciò della società cui esso appartiene, cresce. Ma il riconoscimento dell'eccezione rischia di minare l'osservanza generale della regola, che è la condizione perché l'eccezione sia vantaggiosa. Se l'osservanza diffusa è fondata su tendenze extramorali, l'eccezione può essere ammessa più facilmente, perché non mina l'osservanza diffusa della regola. Se invece il rispetto della regola dipende da ragioni morali, l'eccezione utilitaristica crea delle difficoltà, soprattutto se la società in cui opera l'utilitarista non è costituita da "utilitaristi illuminati". In questo caso l'utilitarista può privatamente praticare un'etica diversa da quella che consiglia in pubblico. Si arriverebbe così ad approvare una "morale esoterica", cioè diversa da quella corrente, che dovrebbe esser mantenuta segreta per non incoraggiare la violazione della moralità corrente. Mentre Mill aveva contato sulla possibilità che lo sviluppo della storia stessa avrebbe reso compatibile l'estrinsecazione massima delle preferenze individuali con la massima felicità collettiva, Sidgwick vedeva le cose dal punto di vista del senso comune, inteso come un insieme di obbligazioni non del tutto coerenti, che il principio di utilità avrebbe potuto contribuire a rendere compatibili. In realtà l'utilitarismo si proponeva di riuscire dove non riuscivano gli altri metodi etici, cioè di garantire la coincidenza tra l'osservanza dei doveri verso gli altri e l'esercizio delle virtù sociali da una parte, e il raggiungimento della massima felicità possibile per chi agisce virtuosamente dall'altra. Ma per Sidgwick la coincidenza di felicità individuale e felicità collettiva era fuori della portata di qualsiasi teoria etica, e le ambizioni dell'utilitarismo rischiavano di mettere in pericolo l'idea stessa di un sistema di obbligazioni, introducendo la possibilità di ammettere eccezioni o di giustificare una doppia morale. Sidgwick riportava l'utilitarismo entro il solco della tradizione filosofica accademica, e cercava di mostrare come neppur esso potesse offrire una teoria etica totalmente immune da incompletezze e compromessi. A questo modo egli apriva anche la strada alle critiche dell'utilitarismo che costituiranno tanta parte della filosofia, soprattutto della filosofia morale, della seconda metà dell'Ottocento e del Novecento. Ma Sidgwick riprendeva anche i temi propriamente economici dell'utilitarismo. In un primo tempo era sembrato che la liberazione del mondo economico da leggi inutili avrebbe condotto alla massima felicità degli individui e della società: in questo senso si era mosso Bentham criticando la proibizione dell'usura. Ma Ricardo e Malthus avevano delineato soprattutto le minacce che insidiavano il libero sviluppo delle attività economiche, e Mill aveva mostrato interesse per dottrine positiviste e socialiste, che pretendevano di intervenire pesantemente nel mondo economico. Formulato dapprima come una teoria della giustizia legale, l'utilitarismo aveva presto incontrato il problema della giustizia come distribuzione di ricchezza. Già Bentham, proprio per il principio della trasferibilità dei benefici, aveva ammesso che si potesse prendere un po' ai ricchi, che non ne avrebbero sofferto molto, per darlo ai poveri, che ne avrebbero tratto un giovamento significativo. Mill osservava che la giustizia ha che fare con la divisione in ricchi e poveri o con la distribuzione degli oneri collettivi attraverso le tasse, una distribuzione che poteva rispettare l'assoluta libertà economica o ispirarsi a criteri di uguaglianza, e di uguaglianza stretta oppure di proporzionalità. E Sidgwick rilevava come una teoria utilitaristica della giustizia potesse suggerire limitazioni alla libera concorrenza e alla libertà economica individuale.

Utilitarismo ed economia

I dubbi di Sidgwick sulla possibilità di giustificare con una filosofia edonistica di tipo 'egoistico' la promozione dell'interesse generale, ammessa dall'utilitarismo, erano ripresi da F. Y. Edgeworth. Questi riteneva che "il linguaggio ambiguo di Mill, e forse di Bentham" avesse creato l'"illusione" di poter far coincidere interesse individuale e interesse generale (Mathematical psychics. An essay on the application of mathematics to the moral sciences, London 1881, p. 52). Tuttavia anche Sidgwick era stato vittima dei miraggi utilitaristici quando aveva associato un'assegnazione diseguale, ma efficiente, dei mezzi di felicità a una distribuzione uguale di felicità, da perseguire in nome della giustizia intesa come uguaglianza.

Sidgwick usava ancora il vecchio linguaggio filosofico degli utilitaristi alla Bentham e alla Mill e si riferiva a un semplice calcolo algebrico dei piaceri e dei dolori. Edgeworth applicava sistematicamente il principio della diminuzione marginale del piacere (e dell'utilità) e si serviva del calcolo infinitesimale, usando anche modelli fisici per raffigurare fenomeni economici: così poteva esprimere l'utilità con una funzione, e non con una somma, e riprendere il concetto utilitaristico di un massimo di utilità. Ma soltanto in un mercato perfetto "l'utilità totale del sistema è un massimo relativo in qualsiasi punto sulla curva pura del contratto" (ibid., p. 25), mentre nei mercati reali, che hanno limiti nella libera contrattabilità e nel libero accesso alla contrattazione, il massimo di utilità collettiva può essere raggiunto solo attraverso un arbitrato, in grado di allocare le risorse nel modo più efficiente. Qui può trovare posto una concezione utilitaristica della giustizia che cerchi di conciliare uguaglianza ed efficienza, evitando che per favorire il progresso generale della società i più progrediti progrediscano più degli altri. Non quando la felicità di tutti cresce indefinitamente, ma solo quando i membri della società si muovono lungo curve di indifferenza, cioè non hanno interesse a passare da un livello all'altro del sistema economico, l'utilità collettiva raggiunge un massimo compatibile con la soddisfazione degli individui.

Questa impostazione dava una singolare configurazione ai tentativi di Mill e di Sidgwick di introdurre nell'utilitarismo motivi altruistici. La giustizia utilitaristica avrebbe sancito le più dure differenze sociali per garantire il progresso in generale, trascurando la felicità individuale in nome dell'utilità collettiva e il benessere delle generazioni presenti in nome del benessere delle generazioni future; in particolare sul terreno politico essa rischiava di compromettere i tentativi, perseguiti dagli utilitaristi, di assorbire le concezioni della giustizia intesa come uguaglianza. Sulla strada aperta da Edgeworth si sarebbe giunti ad affermare che le differenze tra i gruppi sociali si sarebbero potute spostare solo aumentando il prodotto globale rispetto alla popolazione, anche se la forma delle differenze sarebbe rimasta costante. Perciò solo una legislazione che avesse incoraggiato la produzione avrebbe potuto condurre a un miglioramento assoluto della società e anche a un miglioramento relativo dei più svantaggiati. Ogni altro tentativo di modificare la distribuzione delle risorse tra i gruppi sociali, indipendentemente dalla loro posizione nel processo economico, avrebbe provocato delle oscillazioni, alla fine delle quali si sarebbe riprodotta la situazione originaria, ma dopo gravosi sprechi. Perciò la struttura della società sarebbe rimasta fissa e, a meno di variazioni della ricchezza totale che avrebbero coinvolto le quote assegnate ai diversi livelli sociali, ma non l'esistenza dei livelli stessi, si sarebbero registrati solo passaggi individuali da un livello all'altro. Questa era l'unica forma possibile di equilibrio tra il perseguimento dell'interesse generale e il rispetto per gli interessi individuali.

L'utilitarismo originario non aveva mai cercato un fondamento teorico della compatibilità tra aspetti individualistici e aspetti universalistici della propria dottrina in presunte armonie economiche naturali, e aveva difeso insieme liberismo e interventi nel campo economico. Collocandosi in una prospettiva prevalentemente legislativa, gli utilitaristi avevano sostenuto l'inutilità di leggi inefficaci per disciplinare fenomeni economici, come di altro tipo, e la possibilità di correggere con interventi semplici i processi economici: era inutile vietare l'usura, ma era auspicabile promuovere riforme sociali con la tassazione. Ora le cose cambiavano nella teoria economica: in un mercato perfetto diventava inutile qualsiasi intervento, indipendentemente da considerazioni di carattere legislativo. Ma neppure nei mercati imperfetti era possibile intervenire con misure che cambiassero la "forma della società", come avrebbe detto Vilfredo Pareto, che permettessero di togliere ai ricchi per dare ai poveri il minimo che facesse soffrire poco i ricchi, accontentasse assai i poveri e aumentasse il benessere collettivo, come proponevano Bentham e Mill. Via via che emergevano le differenze tra il mercato perfetto e i mercati reali la convergenza tra interessi individuali e benessere collettivo appariva più difficile.

L'economia del benessere

La vena riformatrice dell'utilitarismo sopravvisse alla crisi dell'economia classica e anzi trovò una nuova formulazione. Se fosse stato possibile misurare esattamente lo scostamento dei mercati reali dal mercato perfetto si sarebbe potuto intervenire per riavvicinare i primi alle condizioni del secondo. Nel mercato reale i poveri sono svantaggiati perché non hanno le conoscenze, il tempo e la mobilità necessari per vendere al meglio la propria merce, cioè il lavoro. Ma differenze dei salari dipendenti da distribuzione, prezzo del lavoro e salari lontani dalla condizione di uguaglianza, a parità di livello, tra luoghi e occupazioni, danneggiano la stessa ricchezza nazionale. Colmando i divari tra il prodotto sociale marginale netto e il prodotto commerciale marginale netto, o il prodotto sociale marginale netto e il prodotto individuale marginale netto con premi e tasse, si potrebbero migliorare contemporaneamente i livelli più bassi di benessere individuale e il benessere collettivo.

Assumendo che il mercato perfetto sia una condizione che nessun intervento può migliorare, si potrebbe dire che le correzioni delle situazioni reali approssimano il mercato perfetto se producono un benessere collettivo massimo, tale cioè che nessun aggiustamento normativo possa ulteriormente migliorarlo. Furono tentate diverse strade per identificare una condizione di questo genere: si pensò a quella in cui, a parità di condizioni, lo spostamento di un fattore di produzione, eccetto il lavoro, da una produzione all'altra è indifferente; oppure a quella in cui, a distribuzione di risorse e tipi di lavoro costante per tutti gli individui, c'è un individuo per il quale le diverse combinazioni di risorse e lavoro sono indifferenti; oppure ancora a quella in cui, a partecipazioni identiche degli individui e a prezzi e salari costanti, il trasferimento di una piccola quota di partecipazione da un individuo all'altro lascerebbe il benessere inalterato.

In quest'ultimo caso si sarebbero potute trasferire quote di beni da un individuo all'altro, come aveva pensato Bentham; ma ora risultava chiaro che ci doveva essere una scala per misurare il benessere delle singole persone interessate e un'unità di misura. Invece negli altri casi si identificavano situazioni di indifferenza, rispetto alle quali non c'è nessun'altra posizione nella quale il benessere di un individuo sia maggiore senza che quella di un altro sia minore, senza asserire che non c'è un'altra situazione nella quale il benessere totale sia maggiore. Non si escludeva cioè che in certi casi si sarebbe potuto aumentare il benessere collettivo, ma migliorando la posizione di alcuni e peggiorando quella di altri. A maggior ragione, se tutti avessero mantenuto le proprie posizioni e quella di uno solo fosse migliorata, il benessere totale sarebbe migliorato.

Riformulati a questo modo, i contenuti dell'utilitarismo diventavano di nuovo problematici. Per costruire una scala di misura del benessere individuale con un'unità di misura bisognava presumere di sapere che cosa e a quali prezzi tutti avrebbero acquistato in un mercato perfetto, dando delle misure cardinali ai desideri di ciascuno. Tornava cioè il semplice calcolo dei piaceri e dei dolori, dal quale era partito Bentham. Ma in mancanza di uno strumento di misura di questo genere, ci si doveva affidare non alla misura assoluta del piacere e del dolore, ma all'ordine in cui gli individui mettono le proprie preferenze. E altro è parlare dell'intensità assoluta di un desiderio e della sua soddisfazione, altro è dire che si desidera una cosa più di un'altra. Soprattutto diventava difficile stabilire quando si può dire che un ordinamento sociale sia preferibile a un altro. Se fossero possibili misure cardinali si potrebbero ordinare gli stati sociali complessivi sommando i valori dei loro componenti, mentre è difficile ordinare gli stati sociali esponendoli direttamente alla scelta degli individui. Ciò che si può dire in questo caso è molto poco: che uno stato complessivo della società è preferibile a un altro se in esso nessuno sta peggio di prima e c'è almeno uno che sta meglio. Una condizione, chiamata di 'ottimalità paretiana', che limita fortemente interventi volti a correggere gli assetti fondamentali di una società. Tuttavia la possibilità di mettere direttamente a confronto gli assetti complessivi di una società, senza passare dall'assegnazione di fini agli individui, avrebbe potuto evitare i dubbi sulla possibilità di assegnare a tutti gli individui gli stessi fini, di ricavare da essi i fini comuni della società e di rimodellare la società a partire di qui. In base al criterio dell'ottimalità paretiana si poteva supporre che in una votazione con la quale si dovesse scegliere tra l'assetto A e l'assetto B, differente da A soltanto perché l'individuo I sta meglio in B che in A, tutti, meno I, sarebbero indifferenti tra A e B (cioè non voterebbero, darebbero scheda bianca o si dividerebbero a metà) e soltanto I voterebbe per B, che sarebbe preferito ad A. A questo modo si potrebbero ordinare gli assetti di una società indipendentemente dal loro contenuto e senza assegnare a essi un indice costituito da un numero cardinale.

L'utilitarismo della regola

Nel momento in cui diventava difficile confrontare comportamenti dando a essi un numero, e soprattutto sistemi di comportamento valutati con la somma di quei numeri, erano ancora gli economisti a proporre una nuova formulazione dell'utilitarismo. In Utilitarianism revised, pubblicato nel 1936 sul volume XLV di "Mind", R. F. Harrod sosteneva che l'utilitarismo classico aveva preteso di delineare situazioni desiderabili da tutti e fini che tutti perseguirebbero, applicando il termine 'buono' a situazioni, e non solo a comportamenti, a fini, e non solo a mezzi. Inoltre gli utilitaristi avevano guardato con sospetto alle obbligazioni, che sembravano prodotti spuri del linguaggio giuridico, riducibili a nessi causali. Invece Harrod, richiamandosi a W. D. Ross (The right and the good, Oxford 1930), per il quale le obbligazioni erano un aspetto primario e indipendente della condotta umana, introduceva obbligazioni anche nel campo economico: nei settori a rendimenti crescenti a parità di investimenti, per impedire che qualcuno tragga profitti indebiti, bisogna passare dal libero corso dei rapporti economici alla pianificazione, e le norme di pianificazione sono appunto obbligazioni. In generale le obbligazioni nascono quando le conseguenze di un atto vanno al di là dell'atto stesso: per esempio a volte mentire potrebbe determinare mali minori che dire la verità, e tuttavia c'è un obbligo di dire la verità, perché la menzogna produce un effetto ulteriore rispetto al beneficio che procura, minando la credibilità anche nei casi nei quali si dice la verità.

Nell'interpretazione di Harrod la morale non consisteva nel perseguimento di beni uniformi, apprezzati da tutti gli individui e la somma dei quali costituisse il bene collettivo, né da situazioni nelle quali si potesse presumere che i singoli avrebbero voluto trovarsi. Ciascuno determina da sé i propri fini e ci possono essere conflitti sui fini, anche se alcun fini rilevanti sono largamente condivisi. Buoni sono i mezzi che permettono di realizzare fini buoni, e sono moralmente buoni i mezzi che permettono di realizzare fini largamente condivisi o fini apprezzati dagli altri. Talvolta il rapporto di conseguenza tra mezzi e fini è diretto, ma non quando si tratta di atti con conseguenze non lineari: allora si devono stabilire regole generali, e si valutano le conseguenze delle regole, non degli atti. Questa forma di utilitarismo, chiamata 'utilitarismo della regola' per distinguerlo dall''utilitarismo dell'atto' (anche se Harrod non usò questi termini, introdotti da R. B. Brandt in Ethical theory. The problems of normative and critical ethics, Englewood Cliffs, N.J., 1959), ebbe una grande fortuna. Il riferimento alle regole e alle obbligazioni permetteva infatti di riformulare l'utilitarismo come una teoria morale che valuta le norme in base alle loro conseguenze. Dell'utilitarismo si ricuperava perciò quello che nel gergo dei moralisti veniva chiamato 'conseguenzialismo', ma nello stesso tempo si poteva introdurre l'utilitarismo nelle teorie metaetiche che interpretavano il discorso morale come un sistema di norme.

Il ritorno dell'economia

L'utilitarismo della regola si presentò come un mezzo per salvare da un nuovo naufragio anche la versione debole dell'utilitarismo, che si limitava a un'assegnazione di numeri ordinali alle preferenze e accettava il vincolo dell'ottimalità paretiana. Infatti anche questa versione presentava difficoltà perché, se era possibile fare supposizioni considerando le preferenze di due persone su due oggetti, bastava considerare le preferenze di tre persone su tre oggetti, ancorché presi a due a due, per ottenere risultati non univoci e rendere impossibile qualsiasi passaggio dalle preferenze degli individui alla preferibilità di un assetto globale. Sembrava che l'utilitarismo, per la sua impostazione fondamentale, non fosse in grado di affrontare i problemi posti dall'interazione di individui, ciascuno con le proprie preferenze: presupponeva quella che fu chiamata l''economia di Robinson Crusoe', nella quale ogni persona è sola, appunto come Robinson Crusoe, e il suo problema è solo quello di determinare il massimo di una funzione, in situazioni di certezza o di rischio, utilizzando probabilità oggettive associate con frequenze note. Ma risultava difficile passare dalla funzione di utilità individuale di tanti Robinson Crusoe a una funzione di utilità collettiva, anche perché l'utilità di un attore economico che tenga conto di altri individui sarebbe rappresentata dal massimo di una funzione della quale non controlla tutte le variabili. Era stata proprio l'indebita riduzione dell'utilità di individui in interazione reciproca all'utilità di Robinson Crusoe quella che aveva dato origine alla formula utilitaristica del 'maggior benessere possibile per il maggior numero possibile', che presupponeva la massimizzazione di due funzioni insieme. Per interpretare l'interazione di più individui, ciascuno dei quali persegue il proprio interesse individuale tenendo conto del comportamento degli altri, J. von Neumann e O. Morgenstern (Theory of games and economic behavior, Princeton, N.J., 1944) proposero di utilizzare la teoria dei giochi. Riprendendo quella proposta, J. C. Harsanyi ha suggerito (a partire da Cardinal utility in welfare economics and in the theory of risk-taking, in "Journal of political economy", 1953, LXI) che nelle situazioni di incertezza le probabilità oggettive devono essere sostituite dalle probabilità soggettive, cioè dalle stime di probabilità, che costituiscono la misura delle preferenze. Gli individui possono cercare di rendere massima la propria utilità facendo leva sulle certezze sulle quali possono contare, sulle previsioni oggettive di rischio, e mettendo in gioco le cose che stanno loro a cuore in situazioni di incertezza, nelle quali le probabilità soggettive sono gli indici del valore che essi danno a esse. Ma altro è il comportamento che mira alla massimizzazione dell'utilità individuale, altro quello che ha di mira l'utilità collettiva. Per formulare un giudizio morale, cioè un giudizio che tenga nel medesimo conto gli interessi di tutti, si dovrà rinunciare a utilizzare le conoscenze che servono a massimizzare l'utilità individuale, e che riguardano soprattutto la posizione che un individuo occupa nella società. Ciò si può ottenere delineando la posizione tipica di n membri individuali della società, dall'individuo nella posizione sociale migliore a quello nella posizione peggiore, e cercando quale possa essere l'utilità massima per un individuo che abbia la medesima probabilità di ogni altro di esser collocato nel posto di uno qualsiasi tra gli n membri della società. Il giudizio morale valuterebbe ciascun assetto sociale possibile in termini di livello medio di utilità, e sarebbe quello che potrebbe formulare un osservatore simpatetico ma imparziale, che abbia interesse per il benessere di ciascun partecipante, ma non abbia nessuna parzialità in favore di uno di essi. Un giudizio di questo genere non impone nulla alle preferenze degli attori sociali e parte dalle loro preferenze effettive, ma deve tener conto non tanto delle preferenze personali reali, quanto delle preferenze estese. Bisogna cioè che si attribuiscano agli individui collocati a ciascun livello dell'assetto sociale non solo le preferenze che avrebbe chi giudica, se occupasse quella posizione, ma anche le preferenze attribuibili ad altri. Inoltre le preferenze delle quali si deve tener conto devono essere depurate dagli errori fattuali e devono essere eliminati gli atteggiamenti antisociali. Infine bisogna adottare l'utilitarismo della regola, evitando di considerare moralmente corretta un'azione singola che massimizzi l'utilità collettiva. Perciò bisogna considerare ogni atto come un obbligo derivante da una regola.

Questa forma di utilitarismo, stabilendo la separazione tra la ricerca dell'utilità individuale e quella dell'utilità collettiva, sanciva la crisi della tesi che aveva caratterizzato l'utilitarismo originario. Allora gli utilitaristi avevano soprattutto contrastato l'imposizione di restrizioni morali o legali inutili, promosso una libera ricerca della felicità da parte dei singoli e stimolato la manifestazione più ricca possibile delle differenze che, secondo loro, avrebbe giovato ai singoli e alla società nel suo complesso. Nella versione dell'economia del benessere l'utilitarismo aveva mantenuto il programma di riforma della società, ma con l'obiettivo di migliorare la posizione dei più svantaggiati. Anche in questo caso il miglioramento dei singoli avrebbe prodotto un miglioramento della collettività, soprattutto perché sul benessere collettivo pesavano negativamente proprio le posizioni dei meno fortunati. Era stato tuttavia difficile formulare in modo tecnicamente corretto questa idea, che pareva semplice e intuitivamente evidente, immaginare cioè un modo in cui si potesse migliorare la posizione dei più svantaggiati senza danneggiare nessuno o senza danneggiare qualcuno in modo tale da non cambiare l'assetto totale della società o addirittura da peggiorarlo.

Per riproporre le riforme della società che l'utilitarismo aveva sempre promosso bisognava distinguere nettamente tra il modo in cui si massimizza il benessere individuale da quello in cui si massimizza il benessere collettivo. Erano modi analoghi - come aveva detto Harrod - nel senso che in entrambi i casi si procedeva a un calcolo. Ma nel caso del benessere individuale il calcolo si fa attribuendo probabilità soggettive agli esiti possibili, mentre quando si deve calcolare il benessere collettivo si assume l'equiprobabilità di occupare un livello qualsiasi di un assetto sociale nel quale agli individui appartenenti a ciascun livello vengono attribuite preferenze che non sono quelle reali, ma quelle che si suppone che essi dovrebbero avere, si censurano le preferenze antisociali, quelle generate da errori di fatto, e soprattutto si fanno dipendere le preferenze assegnabili ai diversi livelli da sistemi di regole.

Il ritorno dell'utilitarismo

Contro l'utilitarismo della regola D. Lyons (Forms and limits of utilitarianism, Oxford 1965) ha obiettato che esso pretende di considerare simili due menzogne che abbiano conseguenze diverse, una conseguenze benefiche e l'altra dannose, considerandole entrambe ingiustificate. Invece per l'utilitarismo valgono esclusivamente le conseguenze degli atti, e perciò atti con conseguenze diverse, dal punto di vista del danno e del beneficio che arrecano, sono estensivamente diversi. Considerare menzogne allo stesso titolo atti che generano conseguenze buone e atti che generano conseguenze cattive significa far prevalere il riferimento alle norme che proprio l'utilitarismo aveva voluto evitare. Fin dal 1956 J. J. C. Smart (Extreme and restricted utilitarism in "Philosophical quarterly", VI, ripubblicato poi, in versione corretta, in Theories of ethics, a cura di P. Foot, Oxford 1967) aveva riproposto una forma radicale di utilitarismo dell'atto, rivalutando l'edonismo, che gran parte delle riforme dell'utilitarismo avevano cercato di censurare. Negava che ci potessero essere piaceri intrinsecamente cattivi e che tra i diversi tipi di piacere ci fosse una differenza intrinseca, anche se ammetteva l'esistenza di conflitti, che vanno risolti valutandoli per le loro conseguenze: ci sono piaceri più fecondi di conseguenze, e di conseguenze rilevanti per tutta l'umanità, o forse per tutti gli esseri senzienti. Poiché è ispirato alla preferenza per le situazioni nelle quali la felicità totale è più alta, l'utilitarismo deve suggerire decisioni assunte tenendo conto delle loro conseguenze probabili e del modo di ragionare e di agire della media degli altri. Pertanto il culto della regola va respinto in ogni sua forma e si devono ammettere eccezioni rispetto alle regole generali, quando si sa che non recano danno e che altri le osserveranno.

A partire dagli anni settanta la fortuna dell'utilitarismo è progressivamente diminuita e si sono moltiplicate le critiche nei suoi confronti. Si è ritenuto che da un lato esso pretendesse di stabilire criteri indebitamente uniformi per immaginare ciò che le persone apprezzano, dall'altro che facesse consistere la felicità individuale e collettiva con la migliore allocazione delle risorse in vista della produzione di beni materiali. La difficoltà che l'utilitarismo aveva incontrato, di dare una forma rigorosa a programmi di riforma sociale che non si sovrapponessero ai desideri degli individui, fu intesa come un buon motivo per ritornare alle teorie etiche che ponevano al proprio centro l'appello ai diritti o il primato della virtù, dei principî e delle regole. Un'ispirazione utilitaristica si è conservata invece in alcuni indirizzi di bioetica, un campo nel quale i filosofi di formazione utilitaristica hanno sostenuto il primato della qualità della vita sulla sua sacralità e la necessità di includere nell'ambito dell'etica il rispetto per tutti gli esseri senzienti. La cura nell'evitare la sofferenza di tutti gli esseri capaci di provare dolore, e perciò l'inclusione degli animali nella sfera dei comportamenti etici, era un tema proprio dell'utilitarismo fin dai tempi di Bentham, che tuttavia è tornato nella cultura contemporanea e che ha fortemente contribuito ad attenuare il carattere antropocentrico dell'etica tradizionale e delle dottrine etiche prevalenti. (V. anche Benessere, Stato del; Decisioni, teoria delle; Etica; Giustizia).

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