DORICO, Valerio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORICO, Valerio

Lorenzo Baldacchini

Nacque a Ghedi nel Bresciano intorno al 1500.

Fu uno dei numerosi tipografi dell'area lombardo-veneta attivi a Roma e in altre località (tra cui Venezia) nel sec. XVI, molti dei quali provenivano proprio da Brescia e dintorni. In alcune delle prime edizioni da lui stampate si sottoscrive "Valerius Dorich Gedensis".

Iniziò la sua attività nel 1526 immediatamente prima del sacco che doveva sconvolgere ogni tipo di attività a Roma, comprese quelle legate alla produzione e al commercio dei libri stampati: segnò infatti la fine di grandi aziende, quali quelle di Giacomo Mazzocchi, Marcello Silber, Ludovico Arrighi, detto il Vicentino. Solo il D., Antonio Blado e Francesco Giulio (Minizio) Calvo ripresero l'esercizio dell'arte dopo qualche anno di interruzione. Inizialmente le edizioni stampate dal D. furono prevalentemente di carattere musicale, in collaborazione col tipografo parmense Gian Giacomo Pasotti e col finanziamento del fiorentino Giacomo Giunta. Tra il 1526 e il 1527 il D. stampò almeno quattro libri di argomento musicale. Per i tre anni successivi non si conoscono invece edizioni doriciane. È facile riconoscere in ciò gli effetti tragici del sacco. Nel 1531 ricomincia la sua attività, sempre nel campo dell'editoria musicale. Si può dire che dal 1527 fino alla venuta a Roma di Paolo Manuzio nel 1561, l'officina del D., che dal 1538 si associò il fratello Luigi, fu, dopo quella del Blado, l'azienda tipografica più importante della città. Infatti il Barberi ha identificato 270 edizioni, comprese quelle degli eredi, numero probabilmente destinato a salire, in mancanza finora dei cataloghi di tante biblioteche italiane.

Come capita spesso per i tipografi dei primi secoli della stampa, anche per il D. sono poche le notizie riguardanti la vita e la personalità. Esse si deducono quasi integralmente dalle edizioni. Dall'epistola dedicatoria che premise alla versione latina dell'opuscolo di Plutarco Quomodo aliquis sese laudare sine invidia possit di Giulio Gabrielli si dovrebbe dedurre che conoscesse il greco, oltre al latino. Sembra strano però - avverte Barberi - che non publicasse nulla in quella lingua.

È invece da verificare l'opinione secondo la quale il D. fu anche incisore di caratteri e illustratore di libri. Il Colombo gli attribuisce infatti le silografle delle Stanze sopra le statue di Laocoonte di Eurialo d'Ascoli (1539). Effettivamente alcune tavole dell'Essemplario de scrittori di L. Arrighi (1557) recano la firma "Lovise Dorico fecit", per cui si dovrebbe parlare di una simile attività da parte del fratello Luigi.

L'officina dei Dorico ebbe sede, fino al 1555, a Campo de' Fiori. Da quella data in poi comincia ad apparire nelle sottoscrizioni l'indirizzo "alla chiavica di S. Lucia" (nel 1557 si trova un'indicazione "in vico Peregrini", strada dove si trovavano tradizionalmente le botteghe dei librai). In un'edizione del 1544 i due fratelli Dorico si definiscono "Academiae Romanae impressores", qualifica che era stata già del Mazzocchi. In due libri del 1544 si dicono invece "impressori del popolo romano". Il Barberi non accetta però giustamente la tesi del Sartori, ripetuta dall'Ascarelli, secondo la quale i Dorico sarebbero succeduti al Mazzocchi come stampatori dell'Accademia romana. Una sola sottoscrizione non basta infatti per accreditare tale ipotesi. Entrando nello specifico della produzione, si rileva che poche furono le commissioni da parte dell'università e del Comune. Più numerose invece quelle di librai e privati: il già ricordato Giacomo Giunta, il libraio senese Girolamo Menchini, il mercante di stampe, editore e tipografo Antonio Salamanca, Nicolò d'Aristotele, detto Zoppino, il figlio di Stefano Guillery, Marcantonio, i librai bresciani Francesco e Faustino, Stefano Niccolini da Sabbio e Marco Amadori. Tra i privati vanno ricordati Girolamo Gregna per gli Statuta et ordinationes della città di Velletri, Antonio Macro per La Italia liberata da Gotthi di G. G. Trissino del 1547 e l'etiope Tasfá Seyon per il Nuovo Testamento in etiopico del 1548-49, Poi Carlo Gualteruzzi per due edizioni del Bembo del 1548, Lorenzo Virili per il Monte d'oratione di Lorenzo Davidico, stampato nel 1550, Battista di Rosi per un paio di avvisi a stampa, il cardinale Francesco di Tournon per i Varia epigrammata di Matteo Spinelli (1552), Dionigi Atanagi, Agostino di Cravaliz e altri. Per la stampa delle Messe di Cristoforo Morales del 1544 si conoscono due convenzioni stipulate tra autore ed editori e tra questi e il tipografo. Il numero delle copie previsto non era altissimo (525), mentre le spese della stampa andavano divise tra l'autore e gli editori Antonio Salamanca e Giovanni della Gatta. Il D. ricevette 40 scudi doro impegnandosi a stampare le copie entro il mese di luglio. Un altro contratto fu stipulato tra il D. e A. Barré per la stampa di libri musicali nel 1564.

La produzione del D. rispecchia abbastanza fedelmente la cultura romana tra Tardorinascimento e Controriforma. In maggioranza si tratta di edizioni di opere di autori minori legati all'ambiente romano, pubblicate per la prima (e spesso ultima) volta. Tra questi ricorderemo Andrea Bacci, Francesco Belo, Lorenzo Davidico, Ambrogio Novidio Fracco, Luca Gaurico, Bartolomeo Georgevic, Antonio Massa, Giambattista Palatino, Basilio Zanchi. Sono evidenti inoltre le relazioni con il circolo di letterati facente capo ai Farnese. Come autori e traduttori troviamo infatti anche Giovanni Della Casa, Alfonso Ferri, Diego Mantino, Pietro Bembo, Carlo Gualteruzzi, Eurialo d'Ascoli, Luca Gaurico, Dionigi Atanagi. Ma in realtà si può dire che mancarono in quel periodo a Roma grandi imprese tipografico-editoriali. Unica attività di grande respiro fu quella calcografica legata al libro. Gli stampatori miravano piuttosto ad impegni ufficiali che permettessero loro di stampare poche e costose edizioni a spese di ricchi personaggi, affiancando a questa una produzione minore di attualità, a basso costo e di facile smercio: Mirabilia, avvisi, lunari, medicina pratica, ecc.

Per quanto riguarda i filoni editoriali, abbiamo già ricordato l'importanza delle edizioni musicali del Dorico. Gli annali del Barberi ne riportano una quarantina. Va sottolineato che i Dorico furono i primi e principali editori della Scuola polifonica romana. Più numerose furono le edizioni di carattere letterario (oltre sessanta). Tra queste in primo luogo le opere di Bembo e Trissino. La letteratura profana appartiene quasi tutta agli anni precedenti il pontificato di Pio IV (1559) e persino di Paolo IV (1555). Si avverte anche nella produzione doriciana il peso della svolta controriformista, destinata a mutare radicalmente gli indirizzi editoriali di tutte le principali aziende italiane del periodo. Le cinquanta edizioni di carattere religioso cominciano infatti a comparire nel 1546 e diventano col passare degli anni sempre più frequenti. Poche invece le pubblicazioni di carattere filosofico. Più consistenti quelle di argomento medico, astrologico e scientifico (Galeno e Tolomeo, ma soprattutto di autori contemporanei), prive però di pregi tipografici e illustrazioni notevoli. Non molte le edizioni di carattere popolare: ventidue Mirabilia, sette avvisi, tre stampe popolari.

L'anno in cui la produzione doriciana tocca la punta massima è il 1552: venti edizioni (non se ne conoscono invece per i tre anni posteriori al sacco e per il 1571). La media annua è di sei edizioni, non eccezionale, ma ragguardevole. Le opere di maggior impegno editoriale e rilevanza letteraria vedono la luce nel periodo 1547-49: Trissino, Bembo e il Nuovo Testamento in etiopico. Di quest'ultimo conosciamo, dal colofon, anche il nome del compositore: si tratta di Angelo degli Oldradi, del quale i D. pubblicarono in quegli anni numerose opere.

Per quanto riguarda i caratteri usati dai Dorico, fino al 1537 si riscontra quasi esclusivamente il romano. Raramente compare il gotico. Il corsivo o, meglio, i corsivi presentano un'evoluzione, in sintonia con le modificazioni degli stili calligrafici, rimanendo comunque abbastanza fedeli ai modelli dell'Arrighi. Una sua particolare variante, usata anche dal Blado, ha fatto sì che alcune edizioni non sottoscritte fossero attribuite all'asolano, essendo invece sicuramente da assegnare al Dorico. Di rilievo estetico le marche usate. Se ne conoscono due tipi che compaiono più di frequente: uno con Pegaso che fa scaturire l'Ippocrene e il motto "invia virtuti nulla est via", l'altra con Febo nel cocchio tirato dai cavalli alati con identica legenda. Data la somiglianza di queste due marche con i medaglioni delle legature cosiddette "Canevari", il Fumagalli avanzò l'ipotesi che dovesse esservi una derivazione iconografica, senza però pronunciarsi al riguardo all'originale, la marca oppure il medaglione delle legature. Il Barberi preferisce seguire l'ipotesi prudente del Fumagalli, piuttosto che quella del Colombo, che attribuì senz'altro le famose legature a cammeo all'officina dei Dorico, ipotizzando una attività di incisore e illustratore di Valerio. Si può formulare l'ipotesi che queste provengano dall'ambiente farnesiano e che il disegnatore della decorazione e quello della marca siano la stessa persona, ma non ci sono elementi sufficienti per affermare che si tratti del Dorico. Del resto nell'ambito della produzione doriciana non sono molte le edizioni illustrate. Ricordiamo l'opera di Favio Marco Calvo Antiquae urbis Romae ... simulachrum (1532), con ventuno silografle riproducenti la Roma quadrata e i principali monumenti dell'età imperiale, l'Urbis Romae topographia di B. Marliano (1544) e la seconda edizione del Labacco (1557) con numerose tavole in rame che il Barberi attribuisce al D. e non al Blado. Oltre al Labacco si trovano incisioni in rame nell'ultima carta di una rarissima edizione della Operina dell'Arrighi (1550) e nel frontespizio dei Privilegi et gratie concessi alla venerabile Compagnia de S. Giovanni Decollato del 1560.

Il D. morì probabilmente nel 1565, verosimilmente a Roma, dal momento che dal 1566 nelle sottoscrizioni figurano gli eredi.

Luigi, suo fratello, fu socio nell'officina fino al 1559, anno della sua probabile morte. Non compare mai da solo. Quanto agli eredi, non si è in grado di identificarli in base alle edizioni. Si sa solo che una Lucrezia Dorico "stampatrice alli Coronati" collaborò nel 1569 con Paolo Manuzio per la stampa del Breviario: si tratta probabilmente della vedova di Luigi, il quale ebbe due figli maschi, Ottavio e Vincenzo, e una femmina, Livia, che andò in moglie a Stefano Blado. L'attività dell'azienda continuò fino al 1572.

Bibl: F. Barberi, I Dorico, tipografi a Roma nel Cinquecento, in La Bibliofilia, LXVII (1965), pp. 221 -261, ora anche in Id., Tipografi romani del Cinquecento, Firenze 1983, pp. 99-146; J. Ruysschaert, Les différents colophons de l'"Antiquae Urbis Romae cum Regionibus Simulacrum" de 1532, in Contributi alla storia del libro italiano. Miscell. in on. di L. Donati, Firenze 1969, pp. 297-304; V. Romani, La stampa del N. T. in etiopico (1548-49): figure e temi del Cinquecento romano, in Studi di biblioteconomia e storia del libro in on. di F. Barberi, Roma 1976, pp. 484-485; G. L. Masetti Zannini, Stampatori e librai a Roma nella seconda metà del Cinquecento, Roma 1980, pp. 70, 149, 164, 168, 195; S. G. Cusick, V. D.: music printer in Sixteenth Century Rome, Ann Arbor 1981.

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