Vangelo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Vangelo (Vangelio; Evangelio)

Kenelm Foster

In grafia volgare D. usa indifferentemente le forme Evangelio (Pd IX 133, XXIV 137, XXIX 114, Cv II I 5, III XIV 7) e Vangelio (Pg XXII 154, Pd XXIX 96, Cv IV XVI 10, XVII 10 [due volte], XXII 14; v. anche GUAGNELE) di regola con riferimento a uno, o più, dei quattro racconti degli atti e delle parole di Gesù, mentre in Pd IX 133, XXIX 96 e 114 sembra indicare il ‛ messaggio ' cristiano, conformemente al senso originario di εὐαγγέλιον-evangelium (v. A. Blaise, Dictionnaire latin-français des auteurs chrétiens, Turnhout 1954, 317). La forma latina evangelium è usata da D. solo in quest'ultimo senso, con valore proprio e concreto (Mn II VII 6, IX 5, XI 6), e così pure evangelicum in Mn II III 5, ed evangelico in Pg XIX 136. In Mn II IX 7, invece, tubam evangelicam si riferisce genericamente alla predicazione cristiana, e questo sembra anche il senso di Pd XXIV 144. Ancora, il verbo evangelizare è usato in Ep V 27 (cfr. Matt. 4,23) per la predicazione di Cristo, mentre in Ep VII 14 è riferito al V. di Luca.

Il compilatore di un V. è detto Evangelista (Cv II V 3; IV V 8) o Vangelista (If XIX 106) o, ancora, ‛ scriba Cristi ' (Mn II X 6, III IX 9) e, nel caso di Luca, scriba mansuetudinis Cristi (I XVI 2). I quattro libri dei V. si trovano simboleggiati nella processione mistica di Pg XXIX 88-105 nella tradizionale figurazione dei quattro animali, tratta da Ezechiele (1,4-14) ma lievemente modificata sulla base di Apoc. 4,6-8. In Ep VII 14, infine, Luca è chiamato bos poster evangelizans, probabilmente in segno di speciale affezione.

Testo e traduzioni. - D. lesse la Bibbia unicamente nella versione latina della Vulgata e in gran parte, forse, secondo il testo cosiddetto Parigino, risalente ai primi del XIII secolo (v. F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962², 21-28).

Che in qualche caso - come ad es. Quaestio 77 - le citazioni latine dei V. siano fatte a memoria è possibile, anche se non lo si può mai presumere con certezza (cfr. Introduzione di P. G. Ricci a D.A. Monarchia, Milano 1965, 125, e F. Groppi, op. cit., 20-21). Per le citazioni bibliche in volgare, soprattutto nel Convivio, non sembra che D. dipenda da una qualche traduzione precedente: le 12 citazioni dei V. presenti nel Convivio differiscono tutte, come traduzioni, da quelle conservate nella Bibbia volgare stampata a Venezia nel 1471 da N. Jenson (che però riproduce manoscritti trecenteschi); peraltro la versione di D. è, nella maggior parte dei casi, più aderente alla lezione della Vulgata (v. K. Foster, in The Cambridge History of the Bible, II, Cambridge 1969, 464-465; L. Negri, D. e il testo della Vulgata, in " Giorn. stor. " LXXXV [1925] 441 ss.; per la Bibbia di Jenson, v. la Bibbia Volgare a c. di C. Negroni, Bologna 1882-1887, e anche Bibbia; Scrittura: La Sacra Scrittura).

I Vangeli nelle opere di Dante. - In D. la presenza dei V. si manifesta con toni e accenti diversi, a seconda del contesto in cui i vari echi, allusioni o citazioni dirette sono inseriti. In qualche misura tali variazioni riflettono l'evolversi di D., dalla giovinezza alla maturità (maturità, in questo senso, come cristiano), ma ovviamente, oltre a questo elemento cronologico, va tenuto conto della particolare natura dell'opera in cui una data allusione o citazione occorre. Ognuna di esse, infatti, può assumere una funzione volta a volta poetica, filosofica o politica a seconda che compaia, rispettivamente, nella Vita Nuova e, con diversi presupposti, nella Commedia, oppure nel Convivio o nella Monarchia. E nell'ipotesi - tutt'altro che improbabile - che D. scrivesse la Monarchia dopo aver composto una parte considerevole della Commedia, allora qualsiasi diversità nell'uso dei testi evangelici nelle due opere andrà imputata più alla natura particolare di ciascuna che non a una presunta ‛ immaturità ' di una di esse.

I riferimenti ai V. nelle opere di D. sono stati calcolati - comprese le circa 60 citazioni esplicite - intorno ai 150 (v. SCRTTURA: Nuovo Testamento) e, com'è ovvio, le citazioni esplicite ricorrono con maggior frequenza nelle opere in prosa. Una breve rassegna di queste citazioni e allusioni consentirà di farci una idea sufficientemente esatta delle costanti tematiche che caratterizzano il persistente interesse di D. per i V. e, così pure, delle variazioni di tono e di atteggiamento tra un periodo e l'altro della sua vita.

Vita Nuova e Rime. - Vita Nuova a parte, nelle Rime gli occasionali echeggiamenti dei V. (ad es. Rime LXVI 1-2, cfr. Luc. 23,46; Cv II Voi che 'ntendendo 51-52, cfr. Luc. 1,38) sono altrettanti saggi di retorica cortese giuocati sull'ambivalenza del termine ‛ amore ' e sull'ovvia trasferibilità del linguaggio biblico e liturgico entro la sfera dell'amore profano.

Da un certo punto di vista, la stessa Vita Nuova - si sottoscriva o meno la formula del Contini: " poesia di cultura cristiana più che poesia cristiana " (Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, 300) - non fa altro che portare agli estremi sviluppi il medesimo stile. In tutti i casi, elemento essenziale della ‛ retorica ' del libello dantesco, è l'assimilazione di Beatrice a Cristo attraverso una fitta tessitura di allusioni alla vita e alla morte del Salvatore. Tali allusioni appaiono in Vn VII 7 con l'implicito riferimento alla crocifissione (O vos omnes...); in XII 3 con quello, anch'esso implicito, alla resurrezione mediante la figura del giovane vestito di bianchissime vestimenta (cfr. Marc. 16,5); in XV 5 8 con un'eco di Luc. 19,39 (" lapides clamabunt "); di nuovo con il riferimento alla crocifissione, nella definizione del forte smarrimento di XXIII 5, attraverso l'attribuzione alla morte di Beatrice dei medesimi segni che accompagnarono la morte di Gesù (cfr. Matt. 27,45,51-52; Marc. 15,33; Luc. 23,44), mentre il passo di XXIII 7, oltre al richiamo all'entrata di Cristo a Gerusalemme (cfr. .Marc. 11,9), suggerisce inevitabilmente l'Ascensione (Act. Ap. 1,9-11). In XXIV 4, l'analogia Beatrice-Cristo si rende finalmente esplicita attraverso l'assimilazione di Giovanna-Primavera - la quale ‛ precederà l'avvento ' di Beatrice (Primavera, cioè prima verrà...) - con quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: ‛ Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini '. Per finire, nella domanda dei vv. 5-8 del sonetto del ‛ pellegrino ' (XL 9) sono echeggiate alcune parole dell'episodio di Emmaus descritto in Luc. 24,18.

Dall'analisi che precede, tre elementi paiono emergere: in primo luogo, che tema centrale della Vita Nuova è quello di Beatrice-miracolo, in quanto manifestazione di Dio sulla terra, e che il materiale evangelico è interamente subordinato a questo tema, il quale trova espressione nello stilo de la sua loda (XXVI 4) proprio in quanto oggetto specifico di tale loda non è Cristo o Dio, ma Beatrice.

In secondo luogo va rilevato che, nella Vita Nuova, è la figura umana di Beatrice a venir assimilata a Cristo, e ciò attraverso un'applicazione retorica del materiale evangelico alla figura della donna. Ciò che ne risulta è la rappresentazione di una sorta di " imitatio Christi ", piuttosto sulla linea dell'agiografia duecentesca, specialmente francescana (Schiaffini, Branca). Comunque, è nella Commedia che si opera definitivamente la subordinazione di Beatrice a Cristo (il Dio-uomo), e se tale assimilazione avviene è, da un lato, perché Beatrice è una dei beati che vedono Cristo (e in questo senso il Paradiso sviluppa alcune suggestioni presenti in Vn XL 1 e XLII 3), dall'altro, perché la sua funzione è quella di simboleggiare - ma con una certa spersonalizzazione rispetto alla Vita Nuova - la Sapienza cristiana o la sacra doctrina.

In terzo luogo, andrà notato che gran parte del materiale evangelico usato nella Vita Nuova si riferisce alla passione e alla resurrezione, e che tale insistenza, specie per quanto riguarda la passione, sarà mantenuta da D. sino alla fine. Interessante è anche la menzione di Giovanni Battista in Vn XXIV 4, in quanto il D. della Commedia mostrerà per lui una certa predilezione.

Convivio. - Data la natura dell'opera, il materiale evangelico usato in essa assolve alla funzione d'illustrare o rafforzare determinati punti dottrinali o determinate argomentazioni. Il materiale, piuttosto abbondante, assomma a circa 20 riferimenti, 13 dei quali sono citazioni (o 14, se vogliamo includere la reminiscenza giovannea di Cv II VIII 14).

Questi riferimenti possono suddividersi in quattro gruppi, a seconda che i V. vengano arrecati in appoggio a una tesi di natura linguistica (la difesa e l'esaltazione del volgare nel primo trattato), o filosofica, o politica, oppure a una questione di morale pratica.

1. Se da un punto di vista obiettivo i V. risultano ovviamente irrilevanti rispetto al problema se bisogna scrivere in latino oppure in volgare, tale ‛ irrilevanza ' caratterizza abbastanza il modo con cui D. fa riferimento ai V. nel Convivio, e serve a evidenziare il particolare significato di tali riferimenti. È questo il caso di due notevoli passi presenti nell'argomentazione dantesca sulla lingua. In Cv I XI 4, la citazione di un logion conservatoci da Matteo (15,14 e cfr. Luc. 6,39) sul cieco che fa da guida al cieco, serve a introdurre la polemica contro quegl'italiani, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano ma, nel contempo, ha la funzione d'illustrare - con felice scelta del testo la caratteristica tesi dantesca (di significato più vasto ed elevato) dell'‛ occhio ' interno della ragione che s'identifica col lume de la discrezione. Il secondo passo (Cv I XIII 12) rappresenta sicuramente una delle più audaci utilizzazioni del V. da parte di D., per l'analogia che essa implica tra d. e la persona stessa di Cristo: come Cristo, con cinque pani d'orzo, saziò cinquemila persone nel deserto (Ioann. 6,5-13), così D. ne sazierà migliaia, con il pane orzato del suo commento in volgare.

2. L'espressione ‛ tesi filosofica ' da noi usata va intesa in senso lato, in quanto la maggior parte delle 10 allusioni che hanno un rilievo in tal senso, occorrono nel corso di argomentazioni che potrebbero considerarsi a pari diritto teologiche. Tali argomentazioni riguardano: l'esistenza e la natura degli angeli in Cv II V 1-4, con riferimento a Giovanni (8,1 o, forse, 1,4), a Luca (1,26 ss.) e a Matteo (26,53); la natura della teologia in Cv II XIV 19, con una citazione di Giovanni (14,27); la credibilità dei miracoli operati da Cristo in Cv III VII 16 (senza specifici riferimenti); l'eternità del logos in III XIV 7 - col quale D. identifica la Filosofia in quanto risiede in Dio (cfr. III XII 12, XIII 7) - in riferimento al prologo del V. di Giovanni; e, infine, la tesi di IV XXII 13-18 (secondo cui la perfetta felicità è da ricercarsi soltanto dopo la morte, nella visione di Dio) con riferimento al racconto delle donne che andarono al sepolcro vuoto di Cristo fatto da Marco (16), episodio del quale D. fornisce un'interpretazione bella ma singolare.

In nessuno di questi casi il ricorso ai V. giunge inatteso. Lo stesso si potrebbe dire dell'argomentazione più strettamente filosofica dell'immortalità dell'anima, dove D. conclude con un appello alla dottrina veracissima di Cristo, lo quale è via, verità e luce (II VIII 14) che rappresenta, se preso nel suo contesto, un significativo adattamento alle finalità di D. del passo di Giovanni 14,6.

Dove il ricorso ai V. giunge inatteso è nel passo di Cv IV XVI 10, nel quale il luogo di Matt. 7,15-16 è usato per illustrare una questione concernente il metodo logico della definizione, e in IV XXIII 10,11, dove per comprovare un punto di filosofia naturale, D. si serve di una bizzarra allegorizzazione di Luc. 23,46.

3. In Cv IV V 8, come riprova della pace universale avutasi sotto Augusto, D. cita il testo di Luc. 2,1, testo che verrà usato più volte nella Monarchia (I XVI 2, II VIII 14, X 6-7) e, ancora, in Ep VII 14. Un altro testo chiave, in ordine alla posizione assunta più tardi da D. rispetto alla Chiesa e all'Impero, cioè quello di Mali. 22,21, è invece usato piuttosto casualmente in Cv IV IX 15, per negare all'imperatore qualsiasi autorità nell'ambito della filosofia.

4. Delle allusioni ‛ morali ', quelle di Cv II I 5 e IV XXX 4 non rivestono altro interesse che quello di testimoniare la facilità con cui D. usava testi evangelici in argomentazioni quasi di ogni genere. In IV XVII 10-11, D. cita le parole rivolte da Cristo a Marta (riportate da Luc. 10,38 ss.) come riprova della superiorità della vita contemplativa. Anche se si trattava di un uso comune, è comunque da notare che D. prende l'espressione " porro unum est necessarium " come riferita, a mo' di approvazione, all'attivismo di Marta. In questo - e nel dare a " porro " un valore concessivo (certamente) invece del corretto valore avversativo - D. si discosta da Agostino e dall'uso corrente (cfr. Agost. Sermo CVI, in Patrol. Lat. XXXXVIII 616-618; Alb. Magno In Evang. Lucae X, ediz. Borgnet, XXII 88-89; Tomm. Sum. theol. II II 182 1). Infine, in Cv IV XII 8 e XXVII 8, D. impiega i V. per la sua costante polemica contro l'avarizia e le ricchezze.

Monarchia ed epistole. - Le allusioni e le 19 citazioni dei V. presenti nella Monarchia sono arrecate rispettivamente in appoggio alla tesi dell'Impero (I e II libro) e a quella della Chiesa (III libro).

Per quanto riguarda la tesi imperiale, i V. sono usati per illustrare la pace (I IV 3-4) e l'unità (V 8) quali condizioni preliminari dell'Impero. Nel primo passo è ricordato l'inno cantato dagli angeli alla nascita di Cristo (da Luc. 2,13-14) e, subito dopo, il saluto del Salvatore " Pax vobis " con indiretto riferimento a Luc. 24,36 e Ioann. 20,21 e 26. Nel secondo passo è riportato il luogo di Luc. 11,17 (ma cfr. anche Matt. 12,25). Particolarmente efficaci sono i testi concernenti la pace che saranno ripresi, non a caso, in Pg XX 136-141 e XXI 13. La citazione concernente l'unità imperiale (" omne regnum in se divisum desolabitur ") interessa, più che altro, come esempio della tendenza dantesca ad appropriarsi di testi - comunemente intesi in maniera assai differente - per le proprie finalità politiche. Questa tendenza si fa sempre più evidente via via che D. procede a sviluppare la sua tesi della sacralità dell'impero romano, mediante l'affermazione che il processo di consolidamento di Roma con la forza delle armi fu guidato da Dio (II III-IX) e che il trionfo finale fu sanzionato da lui per mezzo di Cristo in utroque termino suae militiae (I XVI 1-2, II X e XI). Esempi significativi di tale tendenza sono l'uso di Luc. 6,38 (cfr. anche Matt. 7,2) in Mn II III 5 e, in modo particolare, quello di Matt. 18,20 in Mn II IX 5. Ma dove la peculiarità dell'uso dantesco dei V. raggiunge il suo culmine, è nell'audacia teologica di Mn II X-XI (v. CRISTO), anche se il significato diretto attribuito ai testi effettivamente citati (Luc. 2,1 e 23,11, Ioann. 19,30) è sufficientemente ortodosso.

Su questa linea di sviluppo, particolare rilievo è attribuito al passo di Luca (2,1) concernente il censimento ordinato da Augusto, passo che D. citerà per ben tre volte (Mn I XVI 2, II VIII 14 e X 6-7).

La tesi dantesca sulla Chiesa è una conseguenza naturale e diretta dello studio dei V. da parte di D., proprio in quanto forma... Ecclesiae nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa (III XIV 3). Di qui deriva la maggior importanza che assumono i riferimenti evangelici di III XIV 4-7 e X 14, i quali, in primo luogo, stabiliscono il principio generale secondo cui Cristo è l'exemplum della Chiesa e, in particolare, del Papato (con le citazioni di Ioann. 13,15 e 21 in Mn III XIV 4) e, in secondo luogo, forniscono l'applicazione di tale principio alla realtà politica, attraverso il logion di Ioann. 18,36 " regnum meum non est de hoc mundo ", citato in Mn III XIV 5. Conseguenze etiche di più vasta portata sono quelle tratte, già in precedenza, nel passo III X 14, a partire dal testo chiave " nolite possidere aurum... " (Matt. 10, 9-10, Luc. 9,3; 10,4; 22,36).

Se, dal punto di vista dell'ascetica cristiana, tali allusioni costituiscono il cuore vero e proprio della Monarchia, ad esse tuttavia già preludevano le argomentazioni di III III che, utilizzando i passi di Matt. 28,20 e 15,2-3, miravano a subordinare le tradizioni ecclesiastiche alla parola della Scrittura e, infine, la Chiesa stessa al governo diretto di Dio (per questo v. Mn III XIII 3, con riferimento a Matt. 16,18 e Ioann. 17,4). Nel contempo, nel corso della polemica anticurialista di Mn III VII-IX, D. aveva a sua volta discusso i luoghi di Matt. 2,11; 16,19 e Luc. 22,38. Particolarmente interessante è la discussione di quest'ultimo passo sia per l'acutezza e la sobrietà del metodo esegetico impiegato (Mn III IX 3-8, 18-19), sia per la fine analisi del carattere di Pietro (§§ 9-17).

Delle epistole, quelle maggiormente ‛ evangeliche ' sono la V e la VII (vicine, ovviamente, alla Monarchia e per contenuto e per tono) e la XI (più affine, invece, al Purgatorio e al Paradiso).

Ciò che caratterizza il legame tra Ep VI e VII e Monarchia nell'uso dei V. è, in primo luogo, l'audace utilizzazione a fini politici di testi direttamente riferentisi al regnum Dei (Ep V 3,6,15 e 17, VII 2,7 e 9; i passi. di V 15 e 17 e VII 7 e 9, in particolare, attuano con tale audacia questo tipo di ‛ secolarizzazione ' da non trovare confronti nello stesso trattato) e, in secondo luogo, il risalto conferito a quei passi evangelici che fossero in grado di rafforzare le tesi dantesche sulla missione oltremondana della Chiesa (V 27-28, dove l'allusione a Ioann. 19,11 è parallela a quella di Mn III XIV 5 a Ioann. 18,36) e sulla sacralità dell'impero romano (di qui la nuova citazione di Luc. 2,1, in Ep VII 14).

In Ep XI D. pone l'accento, più che altro, sul carattere cristiano di Roma in quanto sede della Chiesa. Qui, data la minore portata politica del tema, ne deriva una minore tendenziosità nell'uso dei Vangeli. In questo caso, difatti, l'uso dei V. è tutto in funzione del tema di Cristo come exemplum della Chiesa (Ep XI 3,6,10 e 12), tema già elaborato nella Monarchia, ma qui sviluppato, a tratti, secondo moduli che rimandano più direttamente al Paradiso (§ 6, con l'allusione a Ioann. 2,14 e passi paralleli, cfr. Pd XVIII 121-123) o all'Ep XIII (cfr. Ep XI 10, per l'uso di Ioann. 9 passim, ed Ep XIII 81-82). Di maggior rilievo dottrinale sono le due citazioni dei V. presenti nell'Ep XIII: al § 80 il racconto della trasfigurazione fatto da Matteo (17,6, e cfr. Pg XXXII 73-78) è citato a illustrare il trascendere della memoria nella visione mistica (cfr. Pd I 7-9), mentre al § 89 il passo di Ioann. 17,3 è citato per confermare la tesi secondo cui la beatitudine ultima consiste nel conoscere il vero (e così in Pd XXVIII 106-111). Meno importante, ma pur sempre significativa, è l'analogia istituita nella captatio benevolentiae del § 3 (con un'implicita allusione a Matt. 12,42) tra la regina di Saba e Salomone da un lato, e D. e Cangrande dall'altra.

Prima di concludere con le epistole sarà bene notare la strana ma caratteristica ‛ trasposizione ' di un testo sacro, operata nella lettera a Cino (Ep III 8) a proposito di Ioann. 15,19.

Commedia. - Il materiale evangelico della Commedia, anche se abbondante (per lo meno nelle due ultime cantiche), costituisce, più che altro, soltanto una riorganizzazione di materiale già esistente nelle opere minori. La novità, più che tematica, è di natura strutturale e retorica. Certo, è anche vero che nella Commedia un buon numero di logia ed episodi evangelici compaiono per la prima volta.

È il caso di If VIII 45 (cfr. Luc. 11,27), XXXIII 145-146 (cfr. Ioann. 13,27); e così per la serie delle beatitudini di Pg XII 110, XV 38-39, XVII 68-69, XIX 50, XXII 4-6, XXIV 151-154, XXVII 8; per alcuni episodi mariani usati come exempla, quali il matrimonio di Cana, in Pg XIII 28-29 e XXII 142-144, il ritrovamento di Gesù fanciullo nel Tempio, in XV 85-92, la visita a Elisabetta, in XXVII 100; per il Pater noster di XI 1-24, per la samaritana di XXI 1-4, e per i detti del Signore citati o riecheggiati in XIII 36, XIX 136-138, XXIII 73-75, XXVII 58, XXXII 48 (forse Matt. 3,15), e XXXIII 10-12; Pd XVII 51 (cfr. Matt. 26,14-16), XX 94 (cfr. Matt. 11,12), XXIV 39 (cfr. Matt. 14,28-31) e 125-126 (cfr. Ioann. 20,4-6). XXV 112-114 (cfr. Ioann. 13, 23 e 20,25-27) e 124-126 (cfr. Ioann. 21,22-23). Così pure, particolarmente interessanti sono quei passi dove i V. sono oggetto di un'interpretazione dottrinale non riscontrabile in altre opere di D., come nel caso di Pg XIX 136-138, XXI 1-4, Pd XX 94 e XXV 124-126. A ciò si aggiunga che, nel complesso, la Commedia tende a ridurre (se si eccettua If VII 45) quella caratteristica tendenza di D. a ‛ secolarizzare ' testi sacri, tipica - come si è visto - della Monarchia (II trattato) e di Ep V e VII. Questo, peraltro, aiuta a comprendere perché l'imperialismo della Commedia sia meno spinto che non quello delle altre due opere.

Con tutto ciò, l'evangelismo di D. presenta una profonda continuità da un capo all'altro della sua opera. Infatti, proprio quegli aspetti del racconto evangelico verso cui D. aveva mostrato un crescente interesse nelle opere minori, sono quelli che dominano i passi di contenuto evangelico nella Commedia. Al riguardo, basti ricordare la narrazione della nascita e dell'infanzia di Cristo, in cui è dato particolare risalto all'annunciazione (Pg III 39, X 34 ss., XXV 128, Pd IX 137-138, XIV 36, XVI 34, XXIII 103-111, XXXII 94 ss.); la predicazione del Battista (Pg XVI 16-21, XXII 151 ss., Pd XVIII 133 ss.); il conferimento a Pietro della custodia delle chiavi e del primato pastorale (If XIX 91 ss., XXVII 103-105, Pg IX 103 ss., Pd V 57, XXIV 34-36, XXXII 129); la trasfigurazione (Pg XXXII 73-81, Pd XXV 32-33) e, infine, la passione (troppe le allusioni per poterle elencare tutte; tra le più rilevanti ricordiamo quelle di Pg XX 85-93, XXIII 73-75, XXVII 2, XXXIII 5-6, Pd VI 88-93, VII 40 ss., XI 71-72, XIV 103 ss., XXVI 59 e XXXI 3).

Per concludere, diremo che, nel complesso, l'atteggiamento del D. maturo nei confronti del V. può venir riassunto come segue.

D. si mostra interessato assai più al senso letterale dei V. che non a qualsivoglia altro senso allegorico, pur non escludendolo del tutto (cfr. Mn III IX 18-19, Pd XXV 32-33, e v. ALLEGORIA; figura; scrittura).

Un interesse ancora più intenso D. avverte per i V. come fonte di dottrina: nel Convivio per rafforzare (talvolta con una certa artificiosità) le proprie posizioni filosofiche; nella Monarchia e in Ep V e VII per rafforzare, con maggiore originalità, una tesi di natura storica o politica; nella Commedia, invece, in quanto principali fonti del dogma cristiano (specialmente Pd XXIV 91-96, 140-141), le quali possono andar soggette a fraintendimenti in senso eretico (XIII 127-129, XIX 82-84) oppure a cattivo uso per vanità o superstizione (XXIX 88-126).

D., inoltre, ricorre costantemente ai V. per quanto riguarda insegnamenti ed esempi morali, specie nel libro III della Monarchia e nella Commedia, dove la morale evangelica assurge ripetutamente a misura di giudizio per la Chiesa del tempo, e per il Papato in particolare; la ragione sta nel fatto che la " forma " della Chiesa è quella dispiegata negli atti e nelle parole di Cristo e dei suoi Apostoli (cfr. Mn III XIV 3-7).

D., infine, tende a focalizzare il proprio interesse su tre aspetti del racconto evangelico: quello della figura di Maria, quello degli Apostoli nei loro rapporti con Gesù, e quello della morte del Salvatore.

Bibl. - E. Moore, Studies in D., First Series, Oxford 1896, 1-91; G. Poletto, Le sante scritture nelle opere e nel pensiero di D.A., Siena 1909; The Cambridge story of the Bible, II, The West from the Fathers to the Reformation, Cambridge 1969; F. Groppi, D. traduttore, Roma 1962²; G. Marzot, Il linguaggio biblico nella D.C., Pisa 1956; G. R. Sarolli, Prolegomena alla D.C., Firenze 1961; A. C. Charity, Events and their Afterlife. The Dialectics of Christian Typology in the Bible and D., Cambridge 1966.

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