Vedanta

Dizionario di filosofia (2009)

Vedanta


Vedānta

Denonimazione comune a varie correnti filosofiche (➔ anche Śaṅkara; Madhva; Rāmānuja; Vedānta Deśika) che si richiamano esplicitamente alle Upaniṣad, di cui sistematizzano in vari modi gli spunti. Particolarmente citato è il detto upaniṣadico tat tvam asi («questo sei tu»), normalmente letto come un’affermazione dell’identità fra il brahman e l’anima individuale. Variamente interpretato dalle varie correnti è il senso di tale identità (uguaglianza assoluta o caratterizzazione reciproca?), fino all’estremo dualismo di Madhva. Il testo aforistico alla base del V. è invece il Brahmasūtra (➔), anche detto Vedānta­sūtra, frutto di una lunga elaborazione, forse ter­minata solo nel sec. 5°. Il Brahmasūtra sembra avversare il dualismo del Sāṅkhya sostenendo invece che il mondo fenomenico sia frutto solo dell’evoluzione del brahman. Upaniṣad, Brahmasūtra e Bhagavadgītā costituiscono insieme il triplice fondamento delle scuole vedāntiche, i cui esponenti commentano tutti e tre questi testi, pur divergendo in parte circa le Upaniṣad da accettare come autorevoli.

Advaita Vedānta

È la corrente del V. più nota in Occidente e spesso identificata con il V. tout court. Il primo testo ascrivibile a questa sono le Māṇḍūkya Kārikā (strofe di commento alla Māṇḍūkya Upaniṣad, di cui però non esiste una trasmissione indipendente) attribuite a Gauḍapāda, di cui nulla si sa, ma che si presume vissuto nel sec 6°. Il testo propone un monismo assoluto, secondo cui il mondo fenomenico non è che apparenza (māyā) e la realtà è invece nonduale (advaita). La teoria della causalità (causalità, dottrine indiane della) presupposta da Gauḍapāda è dunque un ajātivāda («dottrina della non nascita») poiché in senso stretto nulla sorge realmente dal brahman, che, data la propria natura nonduale, è anche identico all’ātman (principio cosciente). Le Māṇḍūkya Kārikā, specie nel quarto capitolo, mostrano una forte influenza della terminologia del buddismo Mahāyāna, la quale è evidente anche nel più noto esponente della scuola, Śaṅkara (). Nel panorama della filosofia indiana fino al 10° sec., molto più citato di Śaṅkara è però Maṇḍana Miśra, a lui coevo e poco successivo a Kumārila e Prabhākara, che scrive opere di ­Advaita V. (soprattutto la Brahmasiddhi), ma anche di Mīmāṃsā (Vidhiviveka e Bhāvanāviveka), oltre alla più citata difesa filosofica dello sphoṭa e del non-dualismo linguistico (śabda-advaita) evocato da Bhartr̥hari, la Sphoṭasiddhi. Responsabili della fortuna successiva di Śaṅkara sembrano essere stati i suoi discepoli Sureśvara e Padmapāda e il poligrafo Vācaspati Miśra (9°-10° sec. ca.), che individuò nell’Advaita V. di Śaṅkara il compimento di tutta la filosofia. Riconducibili all’Advaita V. sono poi Śrīdhara (13° sec.) e Madhusūdana Sarasvatī (16° sec.), ai cui insegnamenti si rifà però anche l’Acintyabhedābhedavāda. In generale, nella filosofia indiana moderna e contemporanea l’Advaita V. viene spesso letto come la sintesi superiore dei vari punti di vista espressi dai darśana, cioè negli altri sistemi filosofici (➔ in proposito Mādhava; Hiriyanna; Mahadevan; Radhakrishnan). Sul piano dottrinale, secondo l’Advaita V. di Śaṅkara il mondo è un’apparenza illusoria (māyā) del brahman, creata dall’ignoranza (avidyā) dell’identità fra sé (ātman) e brahman. Esistono due livelli di realtà ( Madhyamaka), la realtà pratica e illusoria e quella non-duale, visibile solo dal punto di vista dell’esperienza del brahman. Solo nella prima ha senso parlare di Dio e di mondo.

Svābhāvikabhedābheda

Per poter render conto dei passaggi dualisti e non-dualisti contenuti in diverse Upaniṣad, Nimbārka teorizza un’intrinseca (svābhāvika) differenza-nondifferenza (bheda-abheda) fra brahman, anime individuali e materia incosciente. Materia e anime individuali dipendono dal brahman, che è invece assolutamente libero e non contaminato dalle limitazioni di materia e anime. Esso è identificato con Dio ed è il creatore della materia e l’autore per le anime di legami e liberazione ( Śaivasiddhānta), sicché Nimbārka lo chiama «controllore», mentre l’anima è il fruitore e la materia il fruibile. La teoria della causalità proposta da questa scuola è perciò il pariṇāmavāda del Sāṅkhya, secondo cui l’effetto è una trasformazione della causa. Conseguentemente, Dio è la causa immanente del mondo (inteso come l’insieme di anime e materia incosciente), come per un vaso l’argilla (e non il vasaio, che sarebbe una causa esterna), pur non esaurendosi in questo, come un ragno crea la propria ragnatela da sé stesso pur non identificandosi con questa. La materia e le anime sono reali poiché esistono in Dio come sue potenzialità, non sono cioè mere qualificazioni di Dio (come, secondo gli appartenenti a questa scuola, sosterrebbe Rāmānuja). In partic., l’anima esiste come una parte, ossia una potenza, di Dio ed è in questo senso differente e nondifferente da lui. In quanto parte di Dio, ha tutti i suoi attributi, ma velati per l’influenza del karma, che ne determina lo stato di legame. Essa è invece distinta dalla materia (e quindi anche dagli organi di senso e dal corpo che, solo, decade e muore), è di dimensione atomica ed eterna. Dio è percepibile direttamente ai devoti che meditino intensamente su di lui in accordo con i testi vedici ( ­Rāmānuja). Sul piano etico, Nimbārka sostiene che la liberazione (mokṣa) sia possibile anche senza rinunciare al mondo, purché si continui a compiere i propri doveri con spirito disinteressato. La datazione controversa di Nimbārka rende difficile stabilire la direzione delle influenze reciproche fra le varie scuole del V. teista. Il commento di Nimbārka al Brahmasūtra è estremamente semplice e non cita altre forme di V., mentre il commento di Rāmānuja confuta una forma di ­bhedābheda che potrebbe essere ricondotta a Nimbārka. Tuttavia, la maggior parte degli studiosi tendono a considerare Nimbārka debitore di ­Rāmānuja e a collocarlo prima o dopo Madhva.

Śuddhādvaita

Vallabhācārya (1479 ca. - 1532) è considerato il fondatore di questa corrente che letteralmente si chiama «puro nondualismo», ma il cui autore dedica molta attenzione alla bhakti, considerandola il cammino più alto verso la liberazione (sopra karmamārga e jñānamārga), e analizzandola anche filosoficamente in tutte le sue componenti. Vallabha, che scrisse anche opere di Mīmāṃsā, accetta quattro mezzi di valida conoscenza (pramāṇa): comunicazione linguistica (śabda, ossia Veda, Bhagavadgītā, Brahmasūtra, Bhāgavatapurāṇa – un testo mitologico-religioso che ha al suo centro la figura divina di Kr̥ṣṇa – e Mīmāṃsāsūtra), percezione diretta (pratyakṣa), inferenza (anumāna) e tradizione (aithya, che comprende testi di autorità secondaria, le smr̥ti, ➔ Veda). Śabda è elencato per primo invece che per terzo come negli elenchi delle altre scuole, compresa la Mīmāṃsā, perché secondo Vallabha tutti gli altri mezzi di valida conoscenza dipendono da questo. Sul piano ontologico, Vallabha definisce il brahman allo stesso tempo qualificato e non qualificato (➔ guṇa), poiché in quanto Dio personale è qualificato, ma non è qualificato da caratteristiche negative. Nel suo stadio di Akṣara, il brahman consiste di prakr̥ti e puruṣa (➔ anche Sāṃkhya) ed è la causa materiale del mondo. Dei tre attributi riconosciuti dal V. al brahman, sat (esistenza) si manifesta anche nella materia, cit (coscienza) anche nelle anime individuali e ānanda (beatitudine) all’interno dell’anima (può per es. essere esperito durante il sonno profondo). Sul piano della realtà ultima, però, non esiste che un unico puruṣa, perché unico è il principio cosciente (cit); la parvenza di una pluralità di anime individuali è dovuta a māyā. La distinzione fra ātman/puruṣa e brahman consiste solo nel fatto che nel brahman i tre suddetti attributi siano completamente disvelati.

Acintyabhedābheda

È così denominata la forma di V. teista ricondotta a Śrī Kr̥ṣṇa Caitanya (1486-1533), cui sono attribuiti solo otto versi, e sistematizzata dai suoi discepoli Rūpa e Sanātana Gosvāmin e dal loro nipote e discepolo Jīva Gosvāmin. Anche per questa forma di V., śabda (che comprende anche i Purāṇa, in partic. il ­Bhāgavatapurāṇa, considerati da Jīva più adatti alle generazioni attuali, dato che la tradizione vedica è interrotta) è l’unico strumento per conoscere la realtà ultima, giacché gli altri mezzi di valida conoscenza (spiega Jīva) sono soggetti ai difetti umani e possono quindi solo coadiuvare śabda, che è invece considerato perfetto perché non dipendente da un autore personale ( Kumārila). Un’eccezione è la percezione priva di difetti del perfetto devoto, una forma di yogipratyakṣa (➔ pratyakṣa). Il brahman consiste secondo Jīva di potenze che da questo dipendono, fra cui le principali sono esistenza-coscienza-beatitudine (sat-cit-ānanda), māyā e anime individuali ­(jīva), dette rispettivamente potenza interna (poiché costituisce la natura fondamentale di Dio), potenza esterna (poiché māyā è deputata alla gestione del mondo e non costituisce quindi la natura di Dio, né può influenzarlo in alcun modo) e potenza marginale (poiché le anime individuali si trovano ‘sulla riva’ tra le due altre potenze e possono trascendere māyā abbandonandosi a Dio). Rifacendosi a un verso del Bhāgavatapurāṇa, gli autori di questa scuola sottolineano come Dio appaia in modo diverso a seconda degli occhi di chi lo guarda. Il brahman non-duale, quindi, è un aspetto di Dio, anche se la sua manifestazione somma è quella di Kr̥ṣṇa, completa di tutti i suoi attributi. Rūpa e Jīva elaborano inoltre un’estetica teologica in cui gli strumenti della riflessione estetica (➔ rasa) vengono messi al servizio della bhakti.