VERGHINA

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1981)

VERGHINA

Luigi Rocchetti

Località della Grecia, in Macedonia, a S di Verria, che scavi tuttora in corso hanno fatto identificare con l'antica città di Ege Aegae (Αιγαί), prima capitale del regno macedone, presso la quale venivano sepolti i monarchi. Tutta la zona di V. ha restituito documenti archeologici risalenti in massima parte al periodo tra il 4° e il 3° secolo a. C.; presso il villaggio di Palatitsa, già esplorazioni della seconda metà dell'Ottocento fanno intravedere i resti di un grande palazzo identificato come una residenza reale: scavi effettuati tra il 1939 e il 1950 convalidano l'ipotesi riportando alla luce una grande costruzione (4°-3° secolo) la cui ampiezza e sontuosità si addice benissimo a una dimora aulica.

Tra V. e Palatitsa fu inoltre scoperta una fitta necropoli di tumuli - elevazioni di circa due metri con un diametro di 10 o 20 metri - risalenti per lo più al periodo tra il 1000 e il 700 a. Cristo. Domina questa necropoli un tumulo grandissimo alto 12 metri e con un diametro di circa 110 metri presso il quale sono evidenti le tracce di saccheggio e d'incendio. L'archeologo M. Andronikos, che dal 1937 perlustrava la zona di V., riteneva che queste tracce di distruzioni fossero dovute al passaggio dei Galati guidati da Pirro che nel 273 vinsero Antigono Gonata e, secondo Plutarco, depredarono le tombe reali macedoni. Le tombe reali dovevano essere quindi vicine; e infatti alla fine del 1977, durante un saggio presso il grande tumulo, sono tornati alla luce documenti assai importanti sia sul piano storico che su quello artistico perché forniscono documenti originali nel campo della grande pittura greca nota a noi solo attraverso copie tarde rinvenute per lo più a Pompei, Ercolano e Boscoreale.

Fino a oggi, nel tumulo sono state ritrovate tre tombe a camera.

La prima è stata rinvenuta completamente vuota, con tracce di saccheggio; sulla parete della cella è visibile un grande affresco raffigurante Plutone che rapisce Persefone, una scena che da Plinio (N.H. 35,108) sappiamo dipinta da Nicomaco, celebre pittore della metà del 4° secolo: l'intensità drammatica dei gesti, la sicurezza del disegno, e tutta l'alta qualità dell'opera fanno pensare a un originale di questo pittore; anche se così non fosse, si tratta pur sempre dell'unico affresco, in terra greca, della grande pittura del 4° secolo, completamente scomparsa nei suoi documenti originali. La seconda tomba presenta una facciata con fregio dorico a metope e triglifi policromi, sul quale si stende un grande affresco con scena di caccia al leone, che presenta impressionanti analogie, nei vari dettagli, con il mosaico della Battaglia di Isso al Museo Nazionale di Napoli, tanto da far pensare che questo affresco possa essere un originale di Filosseno di Eretria, allievo di Nicomaco, cui è attribuito l'originale dal quale deriva il mosaico napoletano.

La porta della tomba è apparsa chiusa e gli scavatori sono penetrati in essa attraverso la chiave di volta. La tomba, intatta, è formata da due ambienti attigui coperti da volta a botte. Nel primo ambiente, in un sarcofago di pietra è stata rinvenuta un'urna in oro massiccio, decorata a rosette e tralci di vite e sul coperchio una grande stella, simbolo della regalità; all'interno dell'urna erano le ceneri del defunto, una corona aurea a spighe di grano e foglie di quercia. Nello stesso vano sono stati rinvenuti tripodi, piatti, armi di bronzo, resti di uno scudo dalla ricca decorazione in oro, argento e avorio, vasi d'argento, un elmo macedone con una figura di Atena sul frontale, una corona di ferro decorata da otto teste leonine. Oltremodo interessanti 5 testine in avorio, forse decorazione di un letto, identificate dallo scavatore come ritratti di membri della famiglia di Alessandro: Filippo II, il padre, raffigurato in età matura e con un occhio spento - come sappiamo dalle fonti -; il giovane Alessandro, già caratterizzato dallo sguardo volto verso l'alto, sua madre Olimpiade, Aminta, padre di Filippo ed Euridice, ultima moglie di Filippo. Pausania (V, 20,9) dice che Leocare fece i ritratti crisoelefantini della famiglia reale macedone per il Philippeion di Olimpia dopo la battaglia di Cheronea (338 a. C.): le testine potrebbero quindi essere associate all'opera di questo sculture o alla sua bottega. Nell'altro ambiente fu rinvenuto un secondo sarcofago in pietra in cui era un'altra urna più piccola della precedente; dentro di essa i resti cremati del defunto erano avvolti in un panno blu decorato con fiori e foglie e un meandro dorato sull'orlo. È stata rinvenuta pure una superba faretra d'oro, decorata con scene dell'Iliupersis attribuibile all'arte scitica (le fonti storiche menzionano una spedizione vittoriosa di Filippo II in Scizia) e due schinieri di bronzo d'ineguale grandezza (le stesse fonti ci dicono che Filippo era claudicante). Il materiale ceramico è databile tutto intorno al 340 a. C., all'epoca quindi del padre di Alessandro Magno, del quale, con tutta verosimiglianza, questa potrebbe essere la sepoltura. Una terza tomba con ricco materiale, ancora in fase di restauro, è stata scoperta nel 1978.

Circa le datazioni, le identificazioni e le attribuzioni, sono vive le polemiche nel mondo archeologico, man mano che il materiale è pubblicato. È certamente molto indicativa la concordanza tra i reperti e le notizie che abbiamo dagli storici. Secondo Andronikos il tumulo sarebbe stato costruito da Antigono Gonata verso il 272 per proteggere le tombe che l'anno precedente erano state depredate dai Galati guidati da Pirro, e per proteggere, eventualmente, la sua stessa sepoltura che, forse, è vicina alle tombe scavate. Vedi tav. f. t.

Bibl.: M. Andronikos e altri, Το ανακτορον ιης Βερηινας, Atene 1961; id., ΒΕΠΘΙΝΑ. Το Νεκροταζειον των τυμβων, ivi 1969; id., Royal treasures from a macedonian tomb, in National geographic, 154 (1978), i, p. 55; id., The royal tomb of Philip II, in Archaeology, 31 (1978), 4, p. 33; M. E. Caskey, News from Greece, in American journal of archaeology, 82 (1978), 2, p. 342.

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