Verità

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Verità

Massimo Dell'Utri

(XXXV, p. 164)

In sintonia o in contrasto con la tradizione, buona parte della riflessione novecentesca sul concetto di v. può essere vista come un tentativo di esplicitare un'intuizione fondamentale: che cioè la v. riguardi il 'corrispondere' del linguaggio (mente, conoscenza) alla realtà. Di là dalle varie opinioni su quali siano i cosiddetti portatori di verità - cui vanno applicate le parole vero e falso (enunciati, asserti, credenze, pensieri, proposizioni, giudizi ecc.) -, è convinzione diffusa che in tanto è possibile affermare che essi siano veri in quanto c'è qualcosa nella realtà a renderli tali. In quel che segue si ripercorreranno le tappe più importanti dell'indagine sulla v. svolta all'interno della 'filosofia analitica' e della cosiddetta filosofia continentale, le due aree in cui si suole suddividere la ricerca filosofica contemporanea, considerando il tentativo di esplicitare l'intuizione corrispondentista come una sorta di filo rosso sotteso a diverse teorie (un filo che tuttavia la filosofia continentale spezza o situa in un ambito 'originario'), e prestando particolare attenzione, nell'area analitica, al contributo logico-semantico di A. Tarski, uno dei maggiori risultati della ricerca sulla v. nel 20° secolo.

Filosofia analitica

La verità come proprietà primitiva

Tra la fine del 19° e l'inizio del 20° secolo G. Frege (1897, 1918) avanza la tesi secondo cui la v. è indefinibile, in quanto ogni definizione di 'vero' comporta inevitabilmente un regresso all'infinito. Per Frege, poiché una qualsiasi definizione D non fa che specificare un aspetto (il corrispondere, l'essere coerente, l'essere cognitivamente utile ecc.) inteso come ciò in cui la v. consiste, dato un enunciato p, allo scopo di stabilire se p è vero si pone a chi sostenga D la questione di stabilire se l'aspetto prescelto caratterizzi o no p, cosa che sarà fatta usando un enunciato p'; a questo punto si presenta il problema di stabilire se p' è vero, e così via all'infinito. Non rimane dunque che concludere che la v. è un concetto filosofico primitivo, inesplicitabile.

Tesi analoghe sarebbero state espresse anche da G.E. Moore (1911) per il quale l'aggettivo vero - così come rosso - sta per una proprietà semplice e quindi non analizzabile: una sorta di proprietà primitiva applicabile a qualsiasi cosa si ritenga debbano essere i 'portatori di verità'. La tesi secondo cui la v. è una proprietà semplice e non analizzabile - tesi temporaneamente sostenuta anche da B. Russell (1904) - va tuttavia incontro a obiezioni decisive. Se consideriamo infatti un enunciato contingentemente vero, come 'Il re di Spagna è arrivato a Roma', si avrà che al fine di dichiararlo vero sarebbe sufficiente analizzare l'enunciato in sé, accertando il possesso della proprietà in questione su un piano esclusivamente linguistico e del tutto indipendentemente dalla porzione di mondo su cui esso verte. D'altro canto, se prendiamo un enunciato la cui v. si può considerare necessaria - per es., l'enunciato matematico '5+11=16' - e ci domandiamo che cosa lo rende vero, stando alla tesi secondo cui la v. è una proprietà inanalizzabile non si può che dare risposte tipo 'Perché così è': una domanda perfettamente lecita non può allora che ricevere risposte prive della benché minima informazione, risposte che, di nuovo, non fanno nessun appello alle entità extralinguistiche coinvolte dai termini dell'enunciato.

La teoria della verità come corrispondenza

Una naturale via d'uscita da tale impasse consiste nel considerare la v. non già come una proprietà ma come una relazione tra un qualche portatore di v. e un fatto, un evento, uno stato di cose e simili; di qui a intendere tale relazione come una corrispondenza il passo è breve e - da Platone ai nostri giorni - è stato più volte compiuto.

Agli inizi del 20° secolo una teoria della v. come corrispondenza viene elaborata da Russell (1910, 1912) a partire dalla sua concezione della credenza. Abbandonata la tesi secondo cui una credenza è una relazione semplice tra una persona e una proposizione concepita come un'entità indecomponibile (dove con 'proposizione' si intende il contenuto esprimibile da uno o più enunciati, anche appartenenti a lingue diverse), Russell scinde la proposizione in più componenti, interpretando il credere qualcosa da parte di una persona y nei termini di una relazione multipla tra y, due o più elementi (il primo dei quali si può considerare come il soggetto di un enunciato, gli altri come l'oggetto, ossia come ciò su cui si concentra l'azione del soggetto), e un nesso, quello che sussiste tra gli elementi appena descritti e che, esprimendo l'azione compiuta dal soggetto, si può considerare analogo al verbo di un enunciato. Così, la credenza (falsa) di Otello che Desdemona ama Cassio non consiste in una relazione semplice tra Otello e una proposizione intesa come un'unità singola ('l'amore di Desdemona per Cassio'), bensì in una relazione tra Otello, Desdemona, l'amare e Cassio. In più, il credere possiede ciò che Russell chiama un senso o una direzione, cosa che rende differente la credenza di Otello ora citata dalla sua credenza che Cassio ama Desdemona, sebbene le proposizioni cui le due credenze si applicano abbiano gli stessi componenti. Pertanto, stando alla concezione russelliana, quando si verifica un atto di credenza si crea un'unità complessa saldata dalla relazione di credere e formata da vari elementi disposti in una certa direzione; quando la credenza è vera c'è un'altra unità complessa composta degli stessi elementi della credenza disposti nello stesso ordine; quando la credenza è falsa non c'è nessuna unità complessa del genere. La v. comporta dunque per Russell una corrispondenza tra due relazioni complesse, la prima delle quali sarebbe - nell'esempio citato - la relazione a quattro elementi intercorrente tra Otello, Desdemona, l'amare e Cassio, mentre la seconda è la relazione a tre elementi vigente tra Desdemona, l'amare e Cassio, entrambe dotate della stessa direzione. Poiché per Russell la seconda relazione - qualora sia effettivamente data - non è che un fatto, si ha che una credenza è vera se esiste un fatto corrispondente, falsa in caso contrario. Da notare che tale tipo di corrispondenza comporta un isomorfismo tra la proposizione su cui la credenza verte e il fatto che le corrisponde.

Un isomorfismo del genere sta alla base della celebre concezione raffigurativa del linguaggio elaborata da L. Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, in cui l'isomorfismo tra linguaggio e realtà viene spiegato come possesso della medesima forma logica. Considerando non le proposizioni ma gli enunciati come portatori di v., Wittgenstein mette in luce come 'comprendere' un enunciato - o, in altre parole, conoscerne il senso - equivalga a conoscere quel che esso dice, ossia di quale situazione parla. Affinché ciò sia possibile, l'enunciato deve essere in grado di mostrare di per sé, senza alcuna mediazione, la situazione a cui si riferisce. Poiché questo è proprio quel che fanno le immagini, ne segue che l'enunciato deve funzionare come un'immagine, deve cioè raffigurare il fatto di cui intende parlare, esattamente come la grafia geroglifica "che raffigura i fatti che descrive" (4.016). Non può che essere così, sostiene il filosofo austriaco, dato che comprendiamo il senso di un enunciato "senza che ci sia stato spiegato quel senso" (4.02), senza passare per la mediazione conoscitiva di qualcuno o qualcosa, ma direttamente. Tuttavia, se con i nostri enunciati "noi ci facciamo immagini dei fatti" (2.1), sorge un problema affrontato più volte nella storia della filosofia (e a cui intendeva fornire soluzione la stessa teoria russelliana della credenza) - l'impossibilità di dire il falso -, un problema cui Wittgenstein dà una sua peculiare soluzione. È chiaro che il problema nasce nel momento in cui, se gli enunciati corrispondono immediatamente ai fatti che descrivono, non sembrerebbe possibile asserirli senza per ciò stesso dire qualcosa di vero. Wittgenstein concepisce allora lo spazio in cui un qualsiasi enunciato presenta una situazione come uno spazio logico, uno spazio che dischiude 'possibilità', in modo che ciò cui l'enunciato si rapporta non è che una situazione 'possibile', espressa da Wittgenstein tramite la nozione di Sachverhalt ('stato di cose'). Lo stato di cose diventa così la condizione della 'sensatezza' dell'enunciato: questo avrà significato qualora gli corrisponda uno stato di cose; se inoltre tale situazione possibile si dà effettivamente, ossia sussiste realmente - ed è ciò che Wittgenstein chiama Tatsache ('fatto') -, l'enunciato non solo sarà sensato, ma anche vero, mentre sarà falso in caso contrario.

Il modo di concepire la corrispondenza tra linguaggio e realtà in termini di un isomorfismo, o comunque in termini di 'rispecchiamento' della realtà da parte del linguaggio (dove la corrispondenza viene considerata qualcosa di intrinseco al linguaggio stesso), avrebbe trovato un severo critico in J.L. Austin, fautore di un modo diverso di intendere la relazione di corrispondenza (Austin 1950). Per essere vero, un enunciato (o l'asserzione di un enunciato, come egli preferisce dire sottolineando l'uso concreto che in differenti occasioni particolari si può fare di un medesimo enunciato) non ha bisogno di rispecchiare parola per parola le caratteristiche della situazione che descrive, non ha bisogno di riprodurne la molteplicità o la forma, non più di quanto una parola abbia bisogno di essere ecoica o la scrittura di essere pittografica. Secondo Austin la correlazione tra linguaggio e realtà è infatti puramente convenzionale, una libera e non preordinata associazione tra parole e tipi di situazioni che avviene in virtù dello stesso sviluppo casuale e arbitrario caratteristico di qualsiasi lingua. Due sono gli insiemi di convenzioni su cui tale correlazione è basata: da un lato, un insieme di convenzioni 'descrittive', che correlano un enunciato con un tipo di situazione o un tipo di evento nel mondo; dall'altro, un insieme di convenzioni 'dimostrative', che correlano un'asserzione con una determinata situazione o un determinato evento nel mondo. Stando così le cose, sostiene Austin, un'asserzione è vera quando la situazione storica a cui è correlata in virtù delle convenzioni dimostrative è di un tipo con cui l'enunciato usato per esprimerla è correlato in virtù delle convenzioni descrittive.

La teoria semantica della verità

Prima di Austin si situa una particolare definizione della parola vero il cui impatto sulla ricerca filosofica del Novecento è difficile esagerare. Si tratta della teoria semantica della verità elaborata negli anni Trenta dal logico e filosofo polacco A. Tarski (1933, 1936, 1944, 1969) e ispirata al tentativo di rendere conto del rapporto tra linguaggio e realtà indipendentemente da qualsiasi presupposizione metafisica. Lo scopo dichiarato di Tarski è quello di fornire una formulazione rigorosa dell'interpretazione classica della v., quella che nella Metafisica aristotelica (IV [Γ], 7, 1011 b) viene espressa con le parole "dire [...] che l'ente non è e il non ente è, è la falsità, mentre dire che l'ente è e il non ente non è, è la verità". Tali parole incarnano per Tarski l'essenza della 'semantica', da lui intesa come quella disciplina che ha come suo compito principale lo studio del rapporto tra il linguaggio e il mondo, ed è da qui che deriva il nome attribuito alla propria teoria della verità.

Nell'ambito della cosiddetta Scuola logica polacca S. Leśniewski aveva sintetizzato l'interpretazione classica mediante la formula 'x è un enunciato vero se e solo se p', che - in virtù del significato della locuzione se e solo se - pone un'equivalenza tra la parte a sinistra e quella a destra della locuzione, ed esprime appunto l'idea secondo cui l'enunciato x è vero esattamente quando le cose stanno proprio come x dice. Tale formula non è che uno 'schema enunciativo', ossia un'espressione suscettibile di diventare un enunciato (che verte su un altro enunciato) tramite un 'esempio per sostituzione' ottenuto sostituendo la variabile x con il nome di un enunciato della lingua sotto esame, e la variabile p con questo medesimo enunciato (o con una sua traduzione, nel caso l'enunciato appartenga a una lingua diversa da quella in cui si articola lo schema), in modo che quest'ultimo venga prima citato e poi usato in quanto tale. Che occorra citare l'enunciato appare chiaro se si presta attenzione al fatto che nella formula si predica qualcosa di un oggetto (ossia la v. di un enunciato), e dunque che per applicare il relativo predicato linguistico 'è vero' si ha bisogno di un elemento del linguaggio che si riferisca a quell'oggetto, non dell'oggetto stesso. È a questo proposito che Tarski suggerisce un modo particolare e piuttosto diffuso di citare enunciati, che consiste semplicemente nel metterli tra virgolette, e sottolinea come ogni esempio dello schema enunciativo ottenuto per sostituzione nel modo accennato produca una definizione 'parziale' della v., relativa, cioè, soltanto a un particolare enunciato.

L'aver riformulato sulla scorta di Leśniewski il passo aristotelico permette poi a Tarski di porre due condizioni su qualsiasi definizione di v.: la condizione di adeguatezza materiale e la condizione di correttezza formale. La prima impone - a qualsiasi definizione che pretenda di cogliere il contenuto del predicato 'è vero' - di avere come propria conseguenza un esempio della formula summenzionata per ogni enunciato appartenente alla lingua per la quale si presenta la definizione, giacché - essendo ciascun esempio una definizione parziale - l'insieme degli esempi individuerà l'esatto 'contenuto' della definizione generale (l'insieme di condizioni per far parte dell'estensione del predicato 'è vero' applicato a una determinata lingua). La seconda condizione impone invece a una definizione di v. di acquisire una determinata 'forma', ossia di assumere per così dire la configurazione adatta per accogliere la materia specificata dalla prima condizione. Questo è un aspetto di grande importanza, in quanto l'uso di termini semantici nonché la tipica scarsa chiarezza dei passaggi logici nei ragionamenti del linguaggio quotidiano hanno di frequente generato errori e fraintendimenti non facilmente individuabili, quando non veri e propri paradossi. Per chiarire questo punto Tarski analizza diversi paradossi, ma finisce per concentrarsi in maniera particolare su quello detto paradosso del mentitore - noto anche come paradosso di Eubulide -, al quale si può per es. arrivare cercando di stabilire il valore di v. dell'enunciato che segue:

{L'enunciato tra parentesi graffe in questa voce è falso},

il quale, come si vede, è un enunciato che, trovandosi nella esatta posizione da se stesso indicata, dichiara la propria falsità. Per comodità chiamiamo tale enunciato col nome k e, secondo l'uso corrente, abbreviamo la locuzione se e solo se, che esprime la relazione di equivalenza, in sse. Un esempio della formula di Leśniewski sarà allora:

k è vero sse l'enunciato tra parentesi graffe in questa voce è falso.

Poiché abbiamo appena stabilito cosa si debba intendere con k, possiamo fare un'enunciazione empirica del tipo:

k è identico all'enunciato tra parentesi graffe in questa voce,

la quale ci permette di sostituire identità con identità nel nostro esempio della formula di Leśniewski, ottenendo:

k è vero sse k è falso,

ossia, appunto, un paradosso.

Sottoponendo a un'attenta analisi i passi argomentativi che conducono al paradosso, Tarski rileva che tra i fattori che lo determinano vi è il fatto che esso ha luogo all'interno di una lingua naturale (nel nostro caso l'italiano), la quale possiede la caratteristica di essere semanticamente chiusa, ossia di possedere, oltre che espressioni, anche loro nomi, più dei predicati semantici come vero e falso applicati a quelle espressioni. Un primo aspetto della condizione di correttezza formale che ogni definizione deve osservare consiste dunque nel distinguere tra un linguaggio in cui vi siano predicati semantici e nomi di espressioni - il metalinguaggio nel quale formulare la definizione di v. -, e un altro linguaggio in cui vi siano le espressioni a cui applicare quei predicati e quei nomi - il linguaggio oggetto per il quale si formula la definizione. Tale distinzione nell'ambito della teoria della v. di due linguaggi separati evita l'insorgere del paradosso del mentitore. L'enunciato k porta infatti al paradosso perché applica il termine semantico falso a se stesso. Una volta imposta la restrizione tarskiana sull'uso dei termini semantici (la restrizione per cui i termini semantici devono comparire soltanto in un metalinguaggio, e devono essere applicati soltanto a enunciati del linguaggio oggetto sottostante), k non può più essere formulato.

Di per sé non c'è nulla che impedisca di usare una lingua naturale per formulare metalinguaggio e linguaggio oggetto; pure, ai fini dell'univocità nel significato di qualsiasi espressione, nonché della precisione nei passaggi argomentativi dei ragionamenti, una lingua del genere è di scarsa utilità. Di qui e dalla chiusura semantica delle lingue naturali deriva una tesi piuttosto radicale di Tarski, l'impossibilità di definire la v. in modo coerente (immune cioè dal rischio di paradossi) per una lingua naturale, tesi da cui egli ricava il secondo aspetto della condizione di correttezza formale: il significato delle espressioni coinvolte nella teoria non deve dipendere da altro che dalla loro forma, di modo che una qualsiasi espressione possieda sempre lo stesso significato in qualunque contesto possa ricorrere. Tale scopo viene raggiunto qualora si sappia in anticipo di quali e quanti elementi è composto il vocabolario della teoria - che perciò non potrà che essere finito - e quali sono le regole sintattiche per formare espressioni complesse a partire da espressioni semplici. Gli unici linguaggi che soddisfano il requisito di correttezza formale, pertanto, sono i linguaggi formalizzati secondo le regole della logica simbolica - gli unici linguaggi per i quali si può stabilire con precisione che cosa considerare un 'enunciato' e in che modo ricavare enunciati da enunciati. Il connubio di condizione di adeguatezza materiale e condizione di correttezza formale è ciò che Tarski chiama Convenzione V (dove V sta per 'verità'), in base alla quale si stabilisce appunto che qualunque definizione di v. che pretenda di essere accettabile deve assumere una forma particolare e comportare come conseguenze un esempio della formula di Leśniewski per ogni enunciato del linguaggio oggetto, del linguaggio cioè per il quale si intende definire il predicato è vero.

Approntate le coordinate entro cui elaborare una qualsiasi definizione di v., Tarski passa dapprima a esaminare le fasi attraverso cui una tale definizione deve passare, e poi - come concreta illustrazione del suo intero progetto - a presentare una definizione particolare per il linguaggio del calcolo delle classi. Non esporremo qui quest'ultima, ma dedicheremo il resto di questo paragrafo a una descrizione informale di un aspetto che per Tarski qualsiasi definizione deve contemplare.

La definizione del concetto semantico di v. non viene affrontata subito, ma viene fatta precedere dalla definizione di un altro concetto semantico, quello di soddisfacimento, un concetto della matematica e della logica che esprime l'appartenenza effettiva di determinati oggetti all'ambito di applicazione di una funzione.

Le funzioni che interessano Tarski in questo contesto sono ovviamente funzioni enunciative, operatori che, al pari di qualsiasi funzione, possono avere uno o più 'argomenti' (la x in f(x)=y) ma sempre un unico 'valore' (la y in f(x) = y): per es., f₁(x₁), f₂(x₁, x₂) e f₃(x₁, x₂, x₃) interpretate sull'insieme degli esseri umani, rispettivamente, come 'x₁ è calvo', 'x₁ è più alto di x₂' e 'x₁ è figlio di x₂ e x₃', sono funzioni enunciative a uno, due e tre argomenti che come risultato danno comunque un unico valore (gli enunciati 'Ugo è calvo', 'Ugo è più alto di Andrea', 'Ugo è figlio di Andrea e Pia'). Le x₁, x₂ e x₃ che nell'esempio compaiono nei posti degli argomenti svolgono il ruolo di 'variabili', e come tali sono suscettibili di venire sostituite dai nomi degli oggetti del dominio specificato (nel nostro esempio il dominio è l'insieme del genere umano e gli oggetti uomini e donne): una volta operate le sostituzioni, la funzione enunciativa perde il carattere di struttura 'aperta' e diventa un enunciato propriamente detto. Ora, qualsiasi oggetto a cui una funzione si applichi con diritto, ossia che abbia la proprietà o sia nella relazione da questa specificata, è un oggetto che soddisfa la funzione.

Ma perché la definizione tarskiana di v. deve passare per una definizione del soddisfacimento? La risposta è già adombrata in quanto appena detto. La definizione di v. deve riguardare tutti gli enunciati del linguaggio oggetto considerato, tra i quali vi sono quelli formati applicando un quantificatore a una funzione enunciativa (applicazione che 'chiude' la funzione vincolandone le variabili); questa però - essendo una struttura aperta - non può essere vera o falsa, bensì soddisfatta o non soddisfatta da oggetti. Di qui la necessità di una definizione del concetto semantico di soddisfacimento. Una volta definito, è grazie a questo concetto che Tarski formula infatti il primo gradino della definizione di v., la quale viene infine compiuta considerando che un enunciato non è che una funzione enunciativa 'chiusa', ossia priva di variabili libere da sostituire, e sarà quindi vero se viene soddisfatto non da questo o quell'oggetto del dominio bensì da tutti gli oggetti, falso se non viene soddisfatto da nessuno.

Come si vede, nulla in quanto detto lega la teoria di Tarski alla concezione della v. come corrispondenza. Tuttavia, a dispetto delle indicazioni dello stesso Tarski volte a sottolineare la neutralità metafisica della teoria semantica e dunque il suo essere compatibile con posizioni differenti e addirittura opposte riguardo alla struttura ultima della realtà, la tendenza interpretativa a lungo dominante nei confronti della teoria tarskiana è stata quella corrispondentistica di stampo realista. Tipico esempio ne è la convinzione di K.R. Popper (1963, 1972) - un filosofo dichiaratamente realista - secondo la quale il contributo fondamentale del logico polacco risiede nell'aver riabilitato la concezione della v. come "corrispondenza ai fatti". Tale interpretazione sembra però effettivamente in contrasto con quanto proposto da Tarski: a parte la mancanza del riferimento a presunti 'fatti' con i quali mettere in relazione gli enunciati considerati, la stessa distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio mostra come non possa esistere una definizione semantica della v. in assoluto, bensì soltanto relativamente a un determinato linguaggio oggetto, dando luogo a una pluralità di definizioni semantiche quanti sono i linguaggi considerati. E questo - insieme alla sopra richiamata convinzione tarskiana dell'impossibilità di una definizione per un linguaggio naturale - vieta allora ogni tentativo di attirare la definizione semantica nell'ambito di una determinata teoria della v. che, in quanto tale, pretenda di avere validità assoluta. A ogni modo, è interessante notare come, più che la definizione semantica, un suo elemento particolare - la formula di Leśniewski - sia stato isolato da alcuni filosofi riuniti sotto l'etichetta di 'deflazionisti' come l'unico aspetto a cui è possibile ridurre la verità salvando al contempo l'idea basilare della corrispondenza.

Le teorie deflazioniste della verità

Benché teorie deflazioniste siano presenti sin dall'inizio del 20° secolo, il termine deflazionismo è entrato nel lessico filosofico solo negli anni Ottanta grazie a P. Horwich (1982), il quale ne ha giustificato la scelta in base alla tesi secondo cui i vari tentativi, fatti in secoli di storia della filosofia, di interpretare il concetto di v. scorgendovi una natura corrispondentista, coerentista, pragmatista e via dicendo sono stati tutti in un modo o nell'altro sostanziali fallimenti. Individuato il motivo profondo di tali fallimenti nel fatto che il concetto di v. è in realtà vuoto e perciò privo di una natura da indagare ed esplicitare, Horwich ne ha concluso che i tentativi interpretativi sopra richiamati non hanno fatto altro che introdurre nel concetto elementi estranei 'gonfiandolo', per così dire, in maniera illecita, e che dunque l'unica posizione corretta riguardo alla v. è quella che si propone di sgonfiarla, ossia - considerando il termine non nel suo significato economico bensì in quello etimologico - di 'deflazionarla', prendendo atto che la v. non è suscettibile di svolgere alcun ruolo esplicativo all'interno del nostro sistema concettuale complessivo (Horwich 1990).

Attorno a questa che si può considerare la tesi fondamentale del deflazionismo si situa un gruppo di teorie, ma quella che ne è considerata la capostipite è la teoria della verità come ridondanza, associata al nome di F.P. Ramsey (1927). Questi isola due casi in cui si può attribuire la v. o la falsità a una proposizione (che, ricordiamo, è da intendersi come il contenuto informativo di un enunciato): il caso in cui la proposizione è data esplicitamente, come in 'È vero che Cesare fu assassinato', e il caso in cui viene solo descritta implicitamente, come in 'Tutto ciò che egli dice è vero', dove si attribuisce ciecamente la v. a tutte le proposizioni espresse dagli enunciati proferibili dal soggetto in questione. Nel primo caso Ramsey nota che l'enunciato dell'esempio ha lo stesso significato dell'enunciato 'Cesare fu assassinato', e che l'aggiunta delle parole 'È vero che' non muta in alcun modo l'informazione comunicata da quest'ultimo. Se dunque tutto ciò che si può dire con il primo enunciato (quello in cui compare la parola vero) si può dire col secondo (quello in cui non compare), la parola vero si rivela pleonastica e ridondante, un mero orpello utile soltanto a fini stilistico-formali, e - conclude Ramsey - la si può perciò eliminare senza che il linguaggio ne perda in potenzialità espressiva. Nel secondo caso un'eliminazione del genere non è così facilmente ottenibile, poiché abolire ogni riferimento alla v. da 'Tutto ciò che egli dice è vero' lascerebbe qualcosa di grammaticalmente incompleto. Tuttavia, ricorrendo alla notazione di un linguaggio semiformalizzato nella logica del secondo ordine, è possibile tradurre l'enunciato in questione nell'enunciato '(∀p) (se egli dice p, allora p è vera)', in cui la variabile p sta per proposizione e il quantificatore universale posto all'inizio si legge come al solito 'per ogni'; applicando poi al conseguente dell'enunciato condizionale lo stesso ragionamento adottato nel caso precedente, si riesce a ottenere la voluta eliminazione della v. - '(∀p) (se egli dice p, allora p)' - e dunque una sorta di conferma della tesi della sua ridondanza.

Se un'eliminazione completa della v. sia effettivamente ottenibile lungo le coordinate indicate nel secondo caso da Ramsey è stato oggetto di un dibattito che ha percorso pressoché tutto il sec. 20° (v., tra gli altri, Ayer 1936, Strawson 1950, Heidelberger 1968, Prior 1971, Williams 1976, Field 1986, Grover 1992). Un eminente filosofo deflazionista che non sottoscrive la tesi dell'eliminabilità della parola vero dal nostro linguaggio è W.V.O. Quine (1970, 1990), il quale ha proposto una concezione della v. come devirgolettatura (disquotation). Il nome dato da Quine alla propria concezione si spiega col fatto che questa si basa sulla formula di Leśniewski i cui esempi permettono, analogamente al primo caso esaminato da Ramsey, una effettiva eliminazione del predicato 'è vero' tramite una simultanea eliminazione delle virgolette attorno agli enunciati usati per esemplificare la formula: così, da '"La neve è bianca" è vero' si ottiene come risultato dell'operazione di devirgolettatura 'La neve è bianca'. Il predicato di v. è in tali casi trasparente, permettendo dapprima un'ascesa semantica, ossia lo spostamento su un piano metalinguistico, e poi una palese discesa semantica sul piano del linguaggio, dove si parla non più di oggetti linguistici (gli enunciati cui si attribuisce la v.) ma del mondo.

È tuttavia il caso delle attribuzioni cieche di v. che marca la differenza tra il deflazionismo quineano e quello ramseyano. Per Quine infatti proprio in tali attribuzioni risalta l'indispensabilità della parola vero: in primo luogo perché essa rende possibile esprimere cose che il nostro linguaggio non ci permetterebbe di esprimere altrimenti, quali le affermazioni di generalità su totalità non direttamente padroneggiabili, rappresentando in tal modo una sorta di meccanismo per abbreviare una lista potenzialmente infinita o indefinita di enunciati, per es. quella che comprende gli enunciati a cui rinvia l'affermazione 'Tutto ciò che egli dice è vero'. In secondo luogo perché, sebbene in casi del genere siamo costretti ad ascendere e a rimanere formalmente su un piano metalinguistico, è proprio la parola vero che sta a indicare come il peso del discorso verta non tanto su enunciati quanto sul mondo, ed è quindi essa a permettere una discesa semantica, ancorché sottintesa, rivelandosi come un comodo intermediario tra il linguaggio e il mondo. A differenza di Ramsey, pertanto, Quine non ritiene proponibile una rifondazione del nostro linguaggio che ne espunga qualsiasi uso della parola vero, e in questo concorda con un altro filosofo annoverato tra i deflazionisti, L. Wittgenstein. Se infatti nella prima fase della sua riflessione filosofica Wittgenstein aveva elaborato una particolare interpretazione della teoria della v. come corrispondenza, il cosiddetto secondo Wittgenstein matura la consapevolezza dell'implausibilità dell'idea di un linguaggio perfetto sottostante al linguaggio ordinario e in grado di conferirgli il suo ordine logico, poiché il linguaggio ordinario "è in ordine così com'è" (Wittgenstein 1953, § 98) e noi non dobbiamo fare altro che prenderne atto. In particolare, per quanto riguarda la v., non dobbiamo fare altro che osservare le innumerevoli equivalenze che il linguaggio ordinario ci offre tra un qualsiasi enunciato e l'attribuzione di v. a questo stesso enunciato. È alla posizione di Wittgenstein che in sostanza si rifà Horwich proponendo la sua teoria minimale della verità - consistente nella lista infinita di equivalenze ricavabili dallo schema '〈p〉 è vera sse p', dove la prima occorrenza di p è una proposizione (convenzionalmente indicata con le parentesi uncinate) e la seconda l'enunciato che la esprime - e difendendo poi il minimalismo, inteso come la posizione filosofica secondo cui tutto ciò che c'è da dire sulla v. si esaurisce nella teoria minimale.

Come è stato anticipato sopra, quel che è interessante notare a proposito della corrente deflazionista è che, a dispetto della sua radicalità, i suoi due più eminenti rappresentanti - Ramsey e Quine - legano in qualche modo la propria posizione alla teoria della v. come corrispondenza. Anche se piuttosto laconicamente, Ramsey (1991) ammette infatti la possibilità di intendere la p a destra del sse in 'È vero che p sse p' come una variabile che sta per il fatto a cui far corrispondere l'enunciato di cui la prima occorrenza di p fa le veci, mentre in maniera più sofisticata Quine (1987, 1990) - pur essendo da sempre dichiaratamente contro la teoria della corrispondenza e giudicandola un'autentica "beffa" -, equiparando 'È un fatto che p' e p, conclude che l'equivalenza corrispondentista '"p" è vero sse è un fatto che p' si riduce all'equivalenza di devirgolettatura '"p" è vero sse p', e presenta così la teoria della devirgolettatura come l'unico valido residuo della teoria della corrispondenza.

Le concezioni epistemiche della verità

Tutte le concezioni della v. che coinvolgano nell'esplicazione della nozione di v. la conoscenza, la conoscibilità o, comunque, le procedure di giustificazione della conoscenza espressa da determinati enunciati sono dette concezioni epistemiche. Sotto tale denominazione si può far rientrare la teoria della verità come coerenza, secondo la quale un enunciato è vero se 'concorda' con una totalità specificata di enunciati. A esiti coerentistici è alla fine approdato il neoempirismo nel suo progressivo spostamento di attenzione dal rapporto tra enunciati e realtà extralinguistica a quello, interno al linguaggio, tra enunciati ed enunciati. Partito da una sostanziale condivisione delle tesi wittgensteiniane espresse nel Tractatus, con R. Carnap e O. Neurath il movimento neoempirista mise ben presto in questione la possibilità di confrontare un qualsiasi enunciato p con un 'fatto', evidenziando come ai fini della sua verifica empirica p possa essere confrontato unicamente con altri enunciati. Sebbene ciò non equivalga necessariamente a un preciso e deliberato sostegno della teoria della v. come coerenza, è fuor di dubbio che l'allargamento del processo giustificativo all'intero linguaggio riduce il discorso sulla v. al problema della convalida degli enunciati, introducendovi, da un lato, elementi coerentistici e, dall'altro, elementi riconducibili alla concezione deflazionistica (Ayer 1936).

In generale, due sono i modi in cui è possibile concepire la coerenza: come ciò in cui risiede il 'criterio' della v. o come ciò in cui consiste la 'natura' della verità. Nel primo caso la coerenza, in quanto segno della (probabile) v. di un enunciato, specifica una condizione sufficiente della v. il cui soddisfacimento giustifica l'accettazione di quell'enunciato; nel secondo caso, la coerenza specifica una condizione necessaria e sufficiente della v. in base a cui è possibile fornire una definizione della v. stessa. Chi identifica i due aspetti della coerenza è B. Blanshard (1939) il quale, affrontando il tradizionale problema del rapporto tra la mente e il mondo e ritenendo impossibile la conoscenza se il mondo fosse puramente esterno alla mente, elabora una posizione di stampo idealistico secondo cui gli oggetti presenti nella mente in quanto pensati non sono del tutto distinti dagli oggetti nel mondo, ma sono dotati rispetto a questi di un minore 'grado di sviluppo' che, qualora venisse completato, renderebbe l'oggetto mentale indistinto da quello reale. Di qui, muovendo dall'assunto metafisico della coerenza del mondo, Blanshard individua nella coerenza di credenze ed enunciati intorno al mondo il criterio della loro v.: una credenza è giustificata nella misura in cui è coerente con le credenze già accettate. Avendo così stabilito il criterio per l'accettabilità delle nostre pretese di conoscenza, Blanshard nota che l'aspetto che funge da criterio non può non specificare anche la natura della v., poiché altrimenti lo stesso criterio non potrebbe funzionare come tale. Le procedure in base a cui vengono giustificati i tentativi di conoscenza costituiscono dunque per Blanshard una dimostrazione della v. di quei tentativi, dove le condizioni di v. si identificano con le condizioni di giustificazione.

A ogni modo, il riconoscimento dell'importanza della coerenza nelle questioni gnoseologiche, e dunque del suo ruolo come criterio della v., non conduce automaticamente a definire la v. in termini di coerenza. Diversi autori che sottoscrivono una teoria coerentista della giustificazione (per es., Rescher 1973, Lehrer 1974, Davidson 1983, Bonjour 1985) non abbracciano ipso facto una teoria coerentista della v. al modo di Blanshard. Anzi, Davidson e Bonjour, nel ritenere la coerenza il test della v. di una credenza o di un enunciato, arrivano ad attribuire proprio alla corrispondenza il compito di specificare ciò in cui l'essere vero consiste. L'intuizione corrispondentistica fa perciò sentire la sua cogenza anche in posizioni con essa apparentemente in conflitto.

Fa parte delle teorie epistemiche anche la teoria pragmatista della verità che nel corso del 20° secolo, in conformità a quanto avveniva per le sue formulazioni originarie, dimostra di essere suscettibile di più di una interpretazione. Ricollegandosi al pensiero di W. James (1907, 1909), R. Rorty (1979, 1982) ha sostenuto che, lungi dal rimandare a una qualche corrispondenza tra il linguaggio e la realtà a esso esterna, vero non rappresenta altro che un omaggio riservato a quegli enunciati dei nostri 'pari' culturali che giudichiamo utili e coerenti, e quindi asseribili secondo i canoni correnti di valutazione razionale. Da tale prospettiva la v. diventa una sorta di asseribilità garantita corrente, una nozione 'intraculturale' in quanto ricavata a partire dalle migliori procedure di giustificazione offerte dall'attuale sistema di conoscenze.

A tale interpretazione si è opposto H. Putnam, mosso dalla preoccupazione di salvare quella che ritiene una nostra intuizione fondamentale relativa alla v.: il fatto che essa sia qualcosa di 'oggettivo', 'stabile' e perciò indipendente dall'attuale sistema concettuale, esprimendo quest'ultimo un punto di vista transitorio e 'soggettivo'. Si tratta allora di conciliare l'intuizione dell'oggettività con il carattere epistemico della v., con una nozione di v. secondo la quale l'esser vero non travalica completamente la possibilità di giustificare la validità dei nostri enunciati, ma rimane comunque dipendente dalle facoltà conoscitive umane. Riprendendo tesi di Ch.S. Peirce, Putnam (1981, 1990) sostiene così che dire che un enunciato p è vero equivale a dire che è possibile giustificare p qualora si ottengano delle condizioni epistemiche sufficientemente buone per questo scopo. Similmente, secondo Peirce, la v. si chiarisce 'nel lungo periodo', in una sorta di limite ideale della ricerca dove le nostre facoltà conoscitive arrivino a dispiegare pienamente le loro potenzialità: essa non è altro, nella terminologia di Putnam, che asseribilità garantita ideale, indipendente dalla conoscenza corrente ma non dalla conoscenza possibile.

Una spinta alla formulazione di una teoria epistemica della v. scaturisce dal tentativo di evitare alcune indesiderabili conseguenze cui la concezione opposta, quella 'non epistemica', va incontro. Secondo quest'ultima è possibile che la v. di un enunciato non venga mai conosciuta, nemmeno in linea di principio (nemmeno cioè idealizzando il potere delle nostre facoltà conoscitive): sostenendo la validità di un principio cardine della logica classica, il 'principio di bivalenza', per il quale o un enunciato è vero oppure è falso, autori come G. Frege, K.R. Popper e Th. Nagel finiscono per ritenere che enunciati dei quali non siamo in grado di accertare il valore di v. - per es., 'Se mi fossi dato alla politica, oggi sarei capo del governo' e 'Romolo e Remo avevano un identico neo dietro al collo', che chiameremo rispettivamente μ e ϱ - debbano essere, nondimeno, o veri o falsi. Proprio per evitare implicazioni di questo genere, autori come M. Dummett (1959, 1975, 1976, 1991) e D. Prawitz (1980, 1987), nel quadro della loro analisi del rapporto tra le nozioni di significato e v., hanno escluso che quest'ultima sia di tipo non epistemico (in che modo infatti rendere conto della conoscenza delle condizioni di v. - della comprensione - di enunciati come μ e ϱ se tali condizioni trascendono l'effettivo potere delle nostre facoltà conoscitive?), delineando così le coordinate per la formulazione di una soddisfacente nozione epistemica. Se sia possibile da tale punto di vista continuare a sostenere la validità del principio di bivalenza costituisce uno dei punti intorno a cui il dibattito si è fatto più acceso (per articolati sviluppi delle posizioni di Dummett e Prawitz, v. Wright 1987 e Cozzo 1994).

Abbandonata la sua iniziale propensione a favore dell'interpretazione coerentista, D. Davidson ha avanzato forti critiche tanto nei confronti della nozione non epistemica quanto di quella epistemica di v., entrambe ritenute una via verso lo scetticismo: la prima perché - separando ciò che è vero da ciò che può essere creduto - finisce col mettere in dubbio non solo la realtà che trascende quanto è ottenibile in linea di principio, ma anche quella che pensiamo di aver già conosciuta; la seconda perché - identificando ciò che è vero con ciò che può essere creduto - finisce col rendere angusta la nozione di v., riducendo la realtà a meno di quanto crediamo effettivamente ci sia.

In particolare, secondo Davidson la nozione epistemica nella versione di Rorty e Dummett oblitererebbe la connessione tra la v. e il significato, da una parte, e tra la v. e la credenza, dall'altra: stando a tale versione, infatti, è possibile conoscere il significato di μ e ϱ senza avere la più pallida idea di quale potrebbe essere il loro valore di v., così come è possibile credere quel che μ e ϱ dicono anche se queste credenze non saranno mai né vere né false. La versione offerta da Putnam, invece, sarebbe vuota, poiché - anche supponendo un effettivo raggiungimento di condizioni epistemiche ideali per l'asseribilità di un enunciato - queste o non escluderebbero dopotutto la possibilità dell'errore, oppure sarebbero talmente ideali da rendere del tutto vana la voluta connessione con le facoltà conoscitive umane. La proposta positiva di Davidson (1990, 1996) poggia sulla convinzione che la v. sia un concetto chiaro, semplice, non problematico e quindi non bisognoso di alcuna definizione. Si tratta dunque di un concetto primitivo le cui manifestazioni verbali - le parole vero e falso - hanno un uso intuitivo e autoevidente perfettamente spiegato dall'apparato logico-linguistico approntato da Tarski. Tale apparato viene anzi concepito da Davidson come il nucleo fondamentale di una teoria del significato per una lingua particolare: la differenza con Tarski sarebbe data dal fatto che mentre questi assumeva come primitivo il concetto di significato (e quello di traduzione) piegandolo ai fini di una teoria della v., Davidson fa esattamente l'opposto (v. anche significato: Teorie filosofiche del significato, App. V).

A posizioni analoghe sembra essersi avvicinato l'ultimo Putnam (1994), il quale - con l'intento di offrire un resoconto della v. il più fedele possibile al nostro comportamento linguistico effettivo - è pervenuto ad abbandonare la propria precedente interpretazione della v. come nozione epistemica. Le intuizioni spontanee e 'preteoriche' implicite nel nostro comportamento linguistico mostrano infatti che siamo in grado di comprendere anche usi della parola vero che trascendono il raggio d'azione delle nostre facoltà conoscitive, e proprio il fatto che concepiamo enunciati quali μ o ϱ come possibili v. starebbe a dimostrarlo. Non tutta la v. è dunque secondo Putnam interpretabile in termini di conoscibilità, e ciò sembrerebbe far convergere Putnam sull'idea davidsoniana della v. come concetto primitivo che permea l'uso che facciamo del linguaggio e il rapporto che intratteniamo col mondo.

Così, alla fine del secolo, la riflessione analitica sulla v., pur facendo tesoro di un dibattito secolare, torna in qualche modo alle sue origini: alle tesi di Frege e Moore da cui aveva iniziato il suo cammino.

Filosofia continentale

Se le teorie della v. proposte nell'ambito della filosofia analitica possono essere caratterizzate, con i dovuti distinguo, dal tentativo di fornire un contenuto plausibile all'idea tradizionale della corrispondenza, nella cosiddetta filosofia continentale è possibile constatare per un verso un convinto distacco nei confronti della tradizione corrispondentistica, e per l'altro verso il tentativo di recuperare il luogo originario ove si costituisce il senso autentico dell'idea di corrispondenza.

Una critica radicale all'atteggiamento positivistico e alla sua concezione della v. si deve a F.W. Nietzsche. L'ossequio verso la scienza e i suoi metodi conoscitivi non ha fatto altro secondo Nietzsche che generare un'immotivata fiducia nella possibilità di pervenire alla v. concepita come 'assoluta', come fondante la serie di valori eterni in cui la tradizione ha voluto credere. Su un piano filosofico, opporsi a tale atteggiamento equivale per Nietzsche a opporsi al pensiero di Socrate, mosso dallo sforzo di imporre un ordine razionalistico al caos dell'esistenza, e più in generale al platonismo, considerato all'origine, da un lato, della pervasiva ma fallace credenza nella distinzione tra apparenza e realtà e, dall'altro, del vano tentativo di fondare la nostra esistenza su una sorta di 'punti archimedei', ossia su concetti e valori esterni e indipendenti dall'esistenza umana stessa. L'atteggiamento positivistico rivelerebbe in tal modo un'incapacità a prendere atto di ciò in cui effettivamente la vita consiste: insensatezza e circolarità delle situazioni, anziché un progressivo e lineare avvicinamento a un punto finale, immutabile, eterno e trascendente i vari momenti storici (Nietzsche 1872, 1883-85, 1888). Se dunque il platonismo ha incarnato la storia della metafisica occidentale, allora la sua critica radicale conduce alla consapevolezza della "morte di Dio" - l'obliterazione dell'idea di v. - e del carattere 'umano' dei valori. La v., in sé, cessa di essere considerata un valore: per la nostra vita possono giocare un ruolo maggiore i giudizi falsi e la menzogna, nella misura in cui sono in grado di garantire la nostra conservazione, la nostra sopravvivenza come specie (Nietzsche 1873, 1886).

In polemica con lo stesso Nietzsche, inteso come l'ultimo esponente di una tradizione metafisica che, anziché tematizzare l'essere, ne ha prodotto un inevitabile oblio, e lungi dall'intento di 'sconvolgere' la tradizione, M. Heidegger ne tenta al contrario una 'appropriazione originaria'. Compendiata la concezione tradizionale nelle due tesi secondo cui il luogo della v. è il giudizio o l'asserzione e l'essenza della v. consiste nell'adeguazione di questi al loro oggetto, Heidegger (1927) sottopone a un attento scrutinio la stessa relazione di adeguazione, cercando di dissiparne la genericità e, soprattutto, di rendere esplicito ciò che a suo parere in essa è implicito. Egli mette in tal modo in luce che l'adeguazione riguarda una connessione tra il contenuto ideale del giudizio e la cosa reale, e che in tale connessione ciò che risalta in primo piano è la cosa a cui il giudizio si riferisce: in termini heideggeriani, il giudizio si qualifica come un 'esser-per' la cosa stessa, tanto che, in sede di giustificazione del giudizio, è proprio la cosa - l'ente - a manifestarsi così come essa è. Di qui un primo risultato: dire che un giudizio è vero equivale a dire che esso scopre l'ente in se stesso. 'Esser-vero' del giudizio non ha la struttura dell'adeguazione, ma significa 'esser-scoprente'.

Tuttavia, prosegue Heidegger, così ancora non si è colto il fenomeno originario della v.; a ben vedere, 'esser-scoprente', più che al giudizio, pertiene alla realtà umana, all'Esserci, è un modo di essere dell'Esserci. Ora, poiché un modo fondamentale dell'Esserci è ciò che Heidegger chiama apertura - apertura al mondo e ai suoi enti -, è in questa che l'esser-vero come esser-scoprente trova il suo fondamento e la v. il suo fenomeno originario. Qui risiede il luogo della v., e non nell'asserzione come tradizionalmente sostenuto: piuttosto, è nella v. così concepita che l'asserzione trova il suo luogo. Da ciò segue che se l'Esserci è essenzialmente la sua apertura, in virtù della quale apre e scopre, allora esso è nella verità. Questa però, si affretta a precisare Heidegger, è già una conquista: il processo di comprensione di se stesso attraverso lo scoprimento degli enti è sempre a rischio a causa di un altro modo fondamentale dell'essere dell'Esserci - quello della 'deiezione' - che fa sì che ciò che era stato scoperto risprofondi nel nascondimento. Così l'Esserci è, insieme, nella v. e nella non v., cosa che lo costringe non solo a scoprire nuovi enti, ma anche a riappropriarsi continuamente delle scoperte già conseguite. "La verità, afferma Heidegger, deve sempre essere strappata all'ente, [il quale] viene sottratto a forza all'esser-nascosto". Non a caso il termine con cui gli antichi Greci rendevano l'essenza della v., ἀ-λήθεια, contiene una particella indicante 'privazione' prefissa a un elemento linguistico derivante dal tema di λανθάνω ('sto nascosto'), attraverso cui si esprime appunto l'eliminazione del coprimento che nasconde l'ente e l'originaria situazione di non v. in cui si trova l'Esserci. Contrariamente dunque a quanto supposto dalla tradizione, l'essenza della v. risiede non nell'adeguazione bensì nell'apertura. È proprio da questa infatti che secondo Heidegger l'adeguazione proviene e dipende: è l'apertura che fornisce la possibilità del rapporto dell'Esserci con gli enti e, poiché dell'apertura fa parte il discorso, è nell'asserzione che l'Esserci si esprime sull'ente scoperto, istituendo con esso una relazione di riferimento che, a sua volta, può essere letta come adeguatio intellectus et rei.

La nota svolta che in seguito Heidegger avrebbe impresso alla propria filosofia (una svolta che per certi aspetti lo porta a dirigere anche contro se stesso la critica al pensiero metafisico come responsabile dell'oblio dell'essere) non poteva non riverberarsi sul concetto di v.; già nel 1930, pochi anni dopo la pubblicazione di Sein und Zeit, egli richiama l'attenzione su un tratto essenziale della v., la libertà, precisando che questa va intesa come libertà non del soggetto ma dell'essere: libertà nel senso di 'lasciar-essere' l'ente (Heidegger 1943). In una mutata ottica antiumanistica e antisoggettivistica, Heidegger sposta così il luogo della v. dall'uomo all'essere, individuando il difetto del pensiero metafisico, cui egli stesso non era sfuggito, nel tentativo di afferrare l'essere tramite il ragionamento e il pensiero speculativo (Heidegger 1942), e concependo la v. non più come un modo fondamentale dell'Esserci (l'apertura) bensì come un 'evento' ontologico da cogliere nell''ascolto' dell'essere così come si rivela nel linguaggio.

All'impostazione heideggeriana si rifà H.G. Gadamer (1960), il quale ribalta la tendenza (invalsa almeno a partire dalla fine del 19° secolo) a considerare un'applicazione del metodo scientifico tipico delle scienze naturali alle scienze umane come l'unica risorsa per garantire a queste ultime un reale progresso e una pertinenza alla v.: al contrario, secondo Gadamer nelle scienze umane - e in particolare nell'arte - è possibile un'esperienza di v. che si pone al di fuori del metodo scientifico e del suo rigido schema soggetto-oggetto, situandosi all'interno di un 'gioco' in cui la v. dell'opera d'arte si configura non come copia della realtà ma come 'evento', incontro della realtà dell'opera d'arte e della realtà dell'artista o del fruitore, un incontro che, dato il reciproco influsso delle due realtà, si instaura in una cornice tipicamente ermeneutica imponendo il compito di una loro 'integrazione'. È così che il gioco entro cui cogliere la v. si rivela come gioco del linguaggio, come "una disciplina del domandare e del ricercare" che, come tale, sottostà anche alle procedure conoscitive delle scienze naturali.

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