Verita

Enciclopedia Dantesca (1970)

verità (veritade; veritate)

Alfonso Maierù

Il termine designa la struttura ontologica delle cose considerata in rapporto all'ordinamento generale dell'universo; insieme, designa la conoscenza che attua l'intelletto umano, del quale costituisce il fine proprio.

La definizione di verità. - In prima istanza, v. si oppone a errore e falsitade (Cv IV I 3 Cominciai... ad amare li seguitatori de la veritade e odiare li seguitatori de lo errore e de la falsitade; Quaestio 3 tum veritatis amore, tum etiam odio falsitatis), e a menzogna (If XX 99 la verità nulla menzogna frodi); in positivo, invece, v. definisce lo statuto ontologico dell'essere: Sicut dicit Phylosophus in secundo Metaphysicorum, " sicut res se habet ad esse, sic se habet ad veritatem "; cuius ratio est, quia veritas de re, quae in veritate consistit tanquam in subiecto, est similitudo perfecta rei sicut est. Forum vero quae sunt, quaedam sic sunt ut habeant esse absolutum in se; quaedam sunt ita ut habeant esse dependens ab alio per relationem quandam, ut eodem tempore esse et ad aliud se habere ut relativa... Propterea quod esse talium dependet ab alio, consequens est quod eorum veritas ab alio dependeat (Ep XIII 14-16). Il passo aristotelico è tratto da Metaph. II 1, 993b 30 s. (" Quare unumquodque sicut se habet ut sit, ita et ad veritatem ") e fissa il criterio in base al quale il rapporto che ciascun ente ha verso l'essere è analogo a quello che lo stesso ente ha nei confronti della v.; tale criterio è fondato sull'affermazione che la conoscenza del vero si realizza a partire dalla conoscenza delle cause di esso (993b 23 ss.), e quindi il rapporto è inteso come dipendenza causale (cfr. Averroè Metaph. II comm. 4; Tomm. Exp. Metaph. II lect. II; Duns Scoto, In XII libros Metaph. Exp., Lugduni 1639, 65b). Da ciò consegue che la dipendenza di un ente nell'essere importa la dipendenza dell'ente nella v.; di qui l'inclusione della v., insieme con l'essere, l'unità e la bontà, tra gli attributi universalissimi dell'ente, e la ‛ convertibilità ' di essi: in Dio si ha convertibilità delle proprietà considerate in quanto tali, e indicate dal nome che le designa assunto alla forma astratta (v., bontà, unità, ecc.); nella creatura si ha convertibilità di esse in quanto ‛ forme partecipate ' inerenti a uno stesso ente, e sono perciò indicate dalla forma concreta dell'aggettivo (vero, buono, uno, ecc.): cfr. Alb. Magno I Sent. d. 46, N, a. 13 " potest dici, quod ista quattuor convertuntur concretive sumpta, scilicet quod ens, unum, verum, bonum, in recto, scilicet quod ens est bonum, et verum, et unum, et sic de omnibus. Si autem sumantur abstractive, non credo quod secundum rectam praedicationem, nisi in Deo, in creaturis autem non ".

Dell'analogia di rapporti che una res ha nei confronti dell'esse e della v. viene fornita la seguente ratio: ciascuna cosa in veritate consistit tanquam in subiecto, e la v. intorno a essa è similitudo perfecta rei sicut est. In altre parole, la v. è il ‛ fondamento ' (‛ subiectum ') di ciascun essere e insieme è la ‛ perfetta somiglianza della cosa com'è '. Il tema della ‛ similitudo ' riporta il discorso nell'ambito della tradizione agostiniana. In Sol. II 7 Agostino indica nella ‛ similitudo ' la madre della v., e nella ‛ dissimilitudo ' quella della falsità (" nonne similitudinem veritatis matrem, et dissimilitudinem falsitatis esse fatendum est? "), e poiché ogni cosa sensibile partecipa della somiglianza e della dissimiglianza (II 8), si afferma che la v. è permanenza al di là del mutevole, ciò che resta quando le cose ‛ vere ' sono distrutte, e quindi ciò grazie a cui le cose vere sono tali (I 15 " nonne tibi videtur intereuntibus rebus veris veritatem non interire, ut non mori casto mortuo castitatem? "). Il principio della v. come permanenza e immutabilità è presente nel Medioevo (Uguccione da Pisa Derivationes " Veritas, tis, scilicet per quam manent immutata quae sunt, vel fuerunt, vel futura sunt, vel quae dicuntur vel dicta sunt, vel dicentur "; Summa fr. Alexandri, ediz. Quaracchi, 1924, I, p. 146: " Veritas... causae non est in rebus ut dependens ab illis: et ideo, quamvis res verae intereant, non interit veritas "), ed è coordinato all'affermazione che la v. di una cosa è effetto della V. prima (Summa fr. Alexandri, I, pp. 152-153: " Sicut a prima essentia est omne quod est in quantum est, et a prima bonitate omne quod bonum est in quantum bonum est, ita a summa veritate est omne verum in quantum verum est "). Bisogna perciò distinguere un duplice livello di v. in ogni cosa (" Veritas rei "): la v. che è " indivisio esse et quod est " (affermazione fondata su di una definizione di v. - " Veritas est id quod est " - derivata da Agostino, per cui cfr. Sol. II 5, e De vera rel. XXVI 66) e che consiste nel debito rapporto dei principi dell'essenza tra loro nella costituzione di ciascun ente, ed è la v. della creatura; e la v. che " tenet et conservat in esse, quemadmodum lux est principium constitutivum suorum effectuum... hoc modo una est et sola veritas, quae est divina, qua manifestantur omnia vera et conservantur in esse et mensurantur " (Summa fr. Alexandri, I, p. 147). La v.-causa è la v. divina, prima e immutabile, criterio supremo a cui ogni v. creata è rapportata, da cui è misurata (emergono qui i temi della partecipazione e dell'esemplarismo nei quali si specifica, per la tradizione agostiniana, la dottrina della causalità divina); ma se si considera la v. " quae est in creatura ratione eius quod habet similitudinem cum Deo... alla veritas fundatur super aliquod unde habet similitudinem cum Deo " (ibid., I, p. 151); così il tempo " in non permanendo habet quandam permanentiam ": ma " haec veritas est immutabilis in re. Unde haec veritas non interit... existente re scilicet quae est fundamentum veritatis " (p. 152) e rinvia all'essenza di una cosa, " quae est subiectum veritatis invariabilis " (ibid.). Ma nella tradizione ‛ agostiniana ', ‛ similitudo ' può essere usato in duplice accezione: " uno modo secundum convenientiam duorum in tertio... allo modo est similitudo, secundum quod unum dicitur similitudo alterius; et haec similitudo non concernit convenientiam in aliquo communi, quia similitudo se ipsa est similis, non in tertio; et hoc modo dicitur creatura similitudo Dei, vel e converso Deus similitudo creaturae " (Bonaventura I Sent. d. 35, a. unic., q. 1, resp.). Nel caso della ‛ similitudo '-v., bisogna assumere il termine nella seconda accezione: Dio è ‛ similitudo ' della creatura, e la creatura è ‛ similitudo ' di Dio; la creatura partecipa e imita il creatore " quantum potest " (solo il Verbo è somma similitudine del Principio: cfr. Agostino De vera rel. XXXVI 66); il creatore è infinitamente e profondamente simile alla creatura, pur trascendendola.

Consideriamo, ora, in quali termini D. esponga i fondamenti della ‛ similitudo ' della creatura al creatore. In Mn I VIII 2 D. afferma: De intentione Dei est ut omne causatum divinam similitudinem repraesentet in quantum propria natura recipere potest... cum totum universum nichil aliud sit quam vestigium quoddam divinae bonitatis (cfr. anche IX 1); ‛ strumento ' mediante il quale la ‛ similitudo ' del creatore è partecipata alla creatura è il cielo, natura universale (Est... natura... in caelo, tanquam in organo quo mediante similitudo bonitatis aecternae in fluitantem materiam explicatur, II II 2). La natura di ciascuna cosa è fatta a somiglianza dei cieli, natura universale, e trova il suo ‛ exemplar ' ultimo nella natura quale è presente nella mente di Dio. D'altra parte ciascun essere, operando, esplica la propria natura e quindi la ‛ propria similitudine ' (I XIII 1-2 in omni actione principaliter intenditur ab agente... propriam similitudinem explicare... cum omne quod est appetat suum esse, ac in agendo agentis esse quodammodo amplietur: cfr. Pd VIII 143 [il] fondamento che natura pone, con riferimento alle inclinazioni naturali di ciascuno); allo stesso modo in cui il fiore che tende al frutto tende alla propria vera natura, che è norma intrinseca di sviluppo del proprio essere, a meno che non sia impedito da condizioni avverse (cfr. Pd XXVII 125-126 ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le sosine vere, e v. 148 e vero frutto verrà dopo 'l fiore). Per questa via forse si può precisare che similitudo perfecta è da intendere come la piena attuazione della natura di ciascuno (sosine vere, vero frutto) e l'esplicazione del proprio essere (propriam similitudinem explicare; cfr. in altro senso Pd XXX 78 di lor vero umbriferi prefazi), che ha il suo fondamento (in subiecto) nella v. intesa come ‛ rapporto essenziale dei principi ontologici del proprio essere ', fondato sull' ‛ imitazione ' dei cieli, e in ultima analisi di Dio, ‛ fondamento ' ultimo del creato.

A un secondo livello, la v. delle cose fonda la v. dell'intelletto, giacché " veritas in intellectu oritur ex veritate in re, idcirco sicut res habet esse, sic etiam est apta nata vere cognosci; ut sic semper ab ipso esse rei oriatur conformitas veritatis, sive in re, sive in intellectu ", Duns Scoto, loc. cit.). La conoscenza è riconoscimento della natura delle cose secondo l'ordine stabilito da dio (cfr. Cv II I 13 e IV VIII 15, di cui si dirà). Perciò v. è l'oggetto dell'intelletto umano, il suo bene, e speculare la v. è operazione nella quale l'uomo in quanto tale si realizza pienamente, consegue la sua perfezione (v.) e quindi la sua felicità (v.): per l'abito [delle scienze] potemo la veritade speculare, che è l'ultima perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene de lo intelletto (Cv II XIV 6). E poiché v. per eccellenza è Dio (Quaestio 1 principium veritatis et lumen; Cv III XIV 15 la veritade etterna; Ep XIII 89, due volte), egli è il bene proprio e ultimo dell'uomo (cfr. Pd IV 124-126 già mai non si sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia, e Cv II XIV 19-20).

Ancora, v. è l'oggetto della rivelazione, e quindi la " dottrina " rivelata (cfr. la veritade cristiana di Vn XXIX 2) contenuta nel Vecchio e nel Nuovo Testamento (Pd XXIV 135) che trascende le argomentazioni tratte dall'ambito del divenire o dalla scienza dell'essere in quanto tale (prove / fisice e metafisice, vv. 133-134); la rivelazione, infatti, ha come oggetto la veritade di quelle cose che noi sapere... non potevamo, né veder veramente (Cv II V 3); si tratta di v. ‛ supernaturalis ' (Mn III XV 9), dunque, perché trascende la nostra natura, e ‛ infallibilis ' (I V 8; cfr. Vn XXIX 3) perché non soffera alcuno errore (Cv II VIII 14, seconda occorrenza). La rivelazione si è compiuta in Cristo, via, v. e luce (ibid., cfr. V 3), colui che 'n terra addusse / la verità che tanto ci soblima (Pd XXII 42), al quale fu congiunta la natura umana che in Adamo si era allontanata da via di verità e da sua vita (VII 39).

Infine, V. è la nona virtù etica, la quale modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone (Cv IV XVII 6); v. in tal senso è il giusto mezzo che regola il ‛ parlare di sé ' secondo il debito riconoscimento del proprio essere.

L'Amore della verità. - Ogni essere creato tende all'attuazione piena di sé stesso e alla propria perfezione, cioè al proprio bene; facoltà propria dell'uomo è l'intelletto; bene sommo dell'intelletto è la v.; l'uomo, in quanto essere razionale, tende alla v.: per la quinta e ultima natura, cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l'uomo amore a la veritade e a la vertude (Cv III III 11; cfr. § 12); la natura infatti ha impresso nell'uomo l'amore alla v. (Mn I I 1) o al sapere (Cv I 11), e la v. è nient'altro che lume di sapienza (IV XVI 1: il vero rege deve perciò massimamente amare la veritade). In tale contesto va intesa la definizione di Filosofia come amistanza a sapienza, o vero a sapere, per cui si può concludere che ciascun uomo è filosofo secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere (III XI 6). Tuttavia, aggiunge D., si chiama propriamente filosofo colui nel quale il naturale amore di sapere è coltivato (Quaestio 3 cum in amore veritatis a pueritia mea continue sim nutritus) con studio e sollecitudine (Cv III XI 8) non per diletto o per utilitade (§§ 9-10), ma per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l'anima amica, che è per diritto appetito e per diritta ragione (§ 11). E poiché si ha compiuta conoscenza delle cose quando se ne conoscono le cause, il poeta determina la sua concezione della filosofia indicandone la causa materiale (subietto) nello 'ntendere, la causa formale (forma) in uno quasi divino amore a lo 'ntelletto, la cagione efficiente nella veritade, e ritrova la causa finale (fine) nella vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista (§§ 13-14). Altrove (III XIV 1) si afferma che Filosofia per subietto materiale... ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di speculazione; la filosofia, quindi, in tal senso, è amoroso uso di sapienza (XII 12). Ancora, la filosofia, da D. personificata nella Donna gentile, è donna primamente di Dio e secondariamente de l'altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e appresso de l'umana intelligenza per riguardare discontinuato (XIII 7); in altre parole, sommamente presente in Dio, in cui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto (XII 12), la Filosofia è partecipata in primo luogo dalle Intelligenze separate, che sono sempre in atto (per continuo sguardare) e infine dall'uomo il cui intelletto è in potenza a conoscere e non sempre in atto (per riguardare discontinuato; cfr. Mn I III 6-7).

È da rilevare la terminologia dantesca in questi passi: la v., causa efficiente della filosofia, non è altro che lume di sapienza; la sapienza o sapere, a sua volta, è oggetto, o causa materiale, della filosofia, partecipato all'uomo secondo i limiti delle sue capacità naturali; e poiché niente passa dalla potenza all'atto se non grazie a un ente in atto (Mn I XIII 3 Omne... quod reducitur de potentia in actum, reducitur per tale existens actu; cfr. Arist. Metaph. IX 1049b 24-27), è l'oggetto-sapienza che attua l'intelletto umano col suo lume-v.; in termini operativi, causa materiale della filosofia è intendere (riguardare, e dà luogo allo speculare, o speculazione, e al contemplare, o contemplazione: cfr. Cv IV II 18 l'anima filosofante... contempla essa veritade); è quindi esercizio dell'intelletto che, se mosso dalla luce della v. (causa efficiente) e realizzato con amore disinteressato (causa formale), dà la felicità (causa finale). Per tal via l'amore per la sapienza trapassa nell'amore per la v., lume che risplende nelle anime che partecipano di quella (‛ splendore ' è lo lume... in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso, III XIV 5). Di qui il tema della v.-luce contrapposto a quello dell'ombra-tenebra-errore (di cui si dirà), che richiama altre contrapposizioni come quelle sanità-infermità e libertà-schiavitù: IV XV 17 intelletti che per malizia d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani a la luce de la veritade; II 14 lo giudicio de la gente piena d'errore; falso, cioè rimosso da la veritade, e vile, cioè da viltà d'animo affermato e fortificato; § 17 [la v.] bene è signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti è serva fuori d'ogni libertade (cfr. § 2 domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può, cioè a la veritade). Che l'intelletto umano subisca i condizionamenti del corpo (cfr. la mente [v.] secondo malizia, o vero difetto di corpo... non sana di IV XV 17, e Vn XXIII 22) e delle funzioni del senso e dell'immaginazione a partire dalle quali si compie il cammino verso la conoscenza intellettuale, è tema toccato anche a proposito del vispistrello (v.) o vespertilione, di cui parla Aristotele in Metaph. Il 2, 993b 7 (" sicut… nycticorarum oculi ad lucem diei se habent, sic et animae nostrae intellectus ad quae omnium natura manifestissima "), che simboleggia l'intelletto umano nel suo processo verso la luce della v.; cfr. Alb. Magno Metaph., ad 1. " Intellectus... humanus, eo quod est animae intellectus, quae imaginatione distenditur et sensu patitur et alteratur, coniunctus est imaginationi et sensui. Et ideo incipit ab eo lumine quod est permixtum tenebris, et per separationem apud se factam tandem venit ad intelligibile sincerum; propter quod est sicut visus nycticoracis in inceptione sua. Sed quia praeexistentium cognitio multum confortat lumen ipsius, per studium facit quod visus noctuae non habet. Venit enim ab intellectu oscuro ad lumen sincerum, et a lumine sincero coadunato visu venit ad lumen perpurum et per gradus ascendens tandem accipit ipsum in fonte. luminis, sicut aquila contuetur lumen in rota solis. Et haec est summa felicitas; et in eo finitur desiderium, quo ‛ omnes homines natura scire desiderant ' " (cfr. Pd XXXIII 48 l'ardor del desiderio in me finii); a proposito nei tema del pipistrello, Bonaventura (In Hexaem. I I 2, ediz. F. Delorme, p. 49) rileva: " Licet ex parte vespertilionis notet impossibilitatem, ex parte intellectus magnam difficultatem, ut dicit Averroes commentator super illum locum ". La v., essendo bene del nostro intelletto e insieme l'agente-signore che lo attua, è ciò a cui tutto bisogna preferire, l'amico che ripaga l'uomo a condizione di un'assoluta fedeltà: Aristotele, nel principio de l'Etica... dice: " Se due sono li amici, e l'uno è la verità, a la verità è da consentire " (Cv IV VIII 15; cfr. Eth. Nic. I 4, 1906a 16 " Ambobus... existentibus amicis, sanctam praehonorare veritatem "; Ep XI 11 [Aristotele] amicis omnibus veritatem docuit praeferendam; cfr. Mn III I 3, quattro occorrenze). Bisogna perciò ‛ confiteri veritatem ' (Ep XI 10, due volte), ‛ applaudere veritati ' (VI 3), ‛ annuere veritati ' (V 28); ‛ sostenere ' la v. (Fiore CXIX 10); non riconoscere il debito ordine delle cose è invece ‛ offendere la v. ' (Cv IV VIII 12, due volte; cfr. Rime CVI 2 ardire / a voler ch'è di veritate amico, " desiderio amico di v. ", e LXXXV 8 ne la sua sentenzia non dimora / cosa che amica sia di veritade, " niente di vero ").

La concezione dantesca della v. quale emerge da questi contesti richiama l'anselmiana definizione di v., ampiamente ripresa e diffusa nei testi dei secoli XIII e XIV. Secondo Anselmo d'Aosta, v. è una " rectitudo ", definita in rapporto a un modello o " exemplar " che è norma dell'uomo nel pensare, nel volere, nel fare. Anselmo definisce la v. " rectitudo mentis sola perceptibilis " (De Verit. c. 11), dopo averne verificato la validità nell'ambito del ‛ cogitare ' (c. 3 " nihil rectius dicitur veritas cogitationis quam rectitudo eius. Ad hoc namque nobis datum est posse cogitare esse vel non esse aliquid, ut cogitemus esse quod est, et non esse quod non est. Quapropter qui putat esse quod est, putat quod debet, atque ideo recta est cogitatio "), del ‛ velie ' (c. 4 " Sed et in voluntate dicit veritas ipsa veritatem esse, cum dicit diabolum non stetisse ‛ in veritate ' [Ioann. 8, 44] ... Nam si quandiu voluit quod debuit, ad quod scilicet voluntatem acceperat, in rectitudine et in veritate fuit, et cum voluit quod non debuit, rectitudinem et veritatem deseruit: non aliud ibi potest intelligi veritas quam rectitudo, quoniam sive veritas sive rectitudo non aliud in eius voluntate fuit quam velle quod debuit "), dell' ‛ agere ' (c. 5 " si male agere et veritatem facere opposita sunt, sicut ostendit dominus cum dicit: ‛ qui male agit, odit lucem ' [Ioann. 3, 20] et: ‛ qui facit veritatem, venit ad lucem ' [Ioann. 3, 21] idem est veritatem facere quod est bene facere... Sed sententia est omnium quia qui facit quod debet, bene facit et rectitudinem facit. Unde sequitur quia rectitudinem facere est facere veritatem "). Ma la v. è, si è visto, fondamento ed essenza di una cosa, il ‛ debito ordine ' delle sue parti essenziali in rapporto all'ordine generale dell'universo (cfr. Alb. Magno I Seni., d. 46, N, a. 13 " Verum... dicitur a veritate quae est dispositio entis generaliter fluentis a causa prima "), e, di conseguenza, è per l'uomo norma nell'intelletto e nella volontà, nel conoscere e nel fare; il moto ‛ naturale ' dell'uomo verso la v., che non è altro che naturale desiderio del bene, si attua pienamente quando l'uomo riconosce la natura delle cose e l'ordine che la regge; di qui l'affermazione che è tracotanza aver riverenza a ciò a cui non si deve, perché in tal caso in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe, cioè de la natura e de la veritade (Cv IV VIII 15). In conclusione, l'intelletto umano è nella v. quando riconosce la natura delle cose; ancora, il discorso umano è vero quando significa uno ‛ stato di cose ' dato (cfr. Arist. Cat. 5, 4b 8 " Eo enim quo res est vel non est, eo oratio vel vera vel falsa dicitur ", e la notissima formula " veritas est adaequatio rei et intellectus ", che ha avuto il suo punto di partenza in Avicenna Metaph. I 9 " Veritas... intelligitur: et esse absolute in singularibus, et intelligitur esse aeternum, et intelligitur dispositio dictionis vel intellectus qui signat dispositionem in re exteriori cum est ei aequalis "; la definizione di v. come " adaequatio " è fatta propria da Tommaso: cfr. Verit. I; si veda, per quanto qui si dice, Cont. Gent. I 62 " veritas divina est mensura omnis veritatis. Veritas enim nostri intellectus mensuratur a re quae est extra animam, ex hoc enim intellectus noster verus dicitur quod consonat rei: veritas autem rei mensuratur ad intellectum divinum, qui est causa rerum "); l'azione umana è vera quando è mossa da appetito illuminato da retta ragione (cfr. Arist. Eth. Nic. VI 2, 1139a 27-31 " Speculativae... mentis et non practicae, bene et male verum est et falsum, hoc enim est omnis intellectivi opus. Practici autem et intellectivi veritas confesse habens appetitui recto "; e Tomm. Eth. Nic. exp. VI lect. II " bonum practici intellectus non est veritas absoluta, sed veritas confesse se habens, id est concorditer, ad appetitum rectum... Et ideo dicendum est quod appetitus est finis et eorum quae sunt ad finem; finis autem determinatus est homini a natura... ea autem quae sunt ad finem non sunt nobis determinata a natura, sed per rationem investigantur; sic ergo manifestum est quod rectitudo appetitus per respectum ad finem est mensura veritatis in ratione practica et secundum hoc determinatur veritas rationis practicae secundum concordiam ad appetitum rectum, ipsa autem veritas rationis practicae est regula rectitudinis appetitus circa ea quae sunt ad finem, et ideo secundum hoc dicitur appetitus rectus qui persequitur quae vera ratio dicit ").

Nella speculazione della v. l'uomo è sostenuto da quelle virtù dianoetiche che sono dette scienze... per l'abito de le quali potemo la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra (Cv II XIII 6); più generalmente, facilius et perfectius veniunt ad habitum phylosophicae veritatis qui nichil unquam audiverunt (Mn I XIII 6): l'abito della v. filosofica è l'insieme delle virtù che sostengono l'uomo nell'acquisizione della v. investigata dalla filosofia.

La ricerca della verità. - Se la v. è il bene dell'intelletto umano che dà la felicità a chi a essa è fedele, essa tuttavia non è sempre immediatamente evidente all'uomo; più spesso resta nascosta: e non ci si riferisce qui tanto al senso allegorico di una scrittura che è coperto sotto il velo della lettera (è una veritade ascosa sotto bella menzogna, Cv II I 3, e § 15 ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; III X 10 e IV XXVIII 14) e neppure alla tematica della donna schermo de la veritade di Vn V 3, quanto piuttosto alla v. che è nascosta a chi accoglie una falsa opinione (Pg XVIII 35 Or ti puote apparer quant'è nascosa / la veritate a la gente ch'avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa), o che è preda del dubbio (IX 66 A guisa d'uom che 'n dubbio si raccerta / e che muta in conforto sua paura, / poi che la verità li è discoperta; Pd III 2 [Beatrice] di bella verità m'avea scoverto, / provando e riprovando, il dolce aspetto), a chiarire il quale si pone una domanda (IV 135 Questo m'invita... a dimandarvi / d'un'altra verità che m'è oscura), a partire dalla quale s'instaura una ricerca, inquisitio o investigatio, della verità.

Esemplare in tal senso il procedimento della Monarchia (che trova riscontro nelle altre opere, soprattutto nel Convivio e nella Quaestio): proposito dell'autore è intemptatas ab aliis ostendere veritates (Mn I I 3); la v. relativa alla monarchia temporale inter alias veritates occultas et utiles... è utilissima... et maxime latens et, propter non se habere inmediate ad lucrum, ab omnibus intemptata (§ 5); intorno al tema della monarchia, continua D., maxime... tria dubitata quaeruntur: primo... dubitatur et quaeritur an ad bene esse mundi necessaria sit; secundo an romanus populus de iure Monarchae offitium sibi asciverit; et tertio an auctoritas Monarchae dependeat a Deo inmediate vel ab alio, Dei ministro seu vicario (II 3); queste tre questioni, sulle quali è impostata la divisione dell'opera in tre libri, vengono continuamente richiamate (II II 1, due prime occorrenze; III I 2; III 1, 3 e 18, due volte; XII 1, seconda occorrenza; XV 16 e 17); si tratta di ostendere la v. di esse (II I 6 instantis quaestionis veritatem ostendero) in modo che possa essere manifesta (§ 7 Veritas... quaestionis patere potest), attraverso una ricerca - presentata come ‛ caccia ' (VII 1 Ad bene... venandum veritatem quaesiti; III III 16 hanc veritatem venantes) - che assuma come guida un principio, la v. del quale funga da fondamento della v. delle proposizioni da esso dedotte: quia... veritas quae non est principium ex veritate alicuius principii fit manifesta, necesse est in qualibet inquisitione habere notitiam de principio, in quo analetice recurratur pro certitudine omnium propositionum quae inferius assummuntur (I II 4); tale principio sarà velut signum praefixum in quo quicquid probandum est resolvatur tanquam in manifestissimam veritatem (IV 6; cfr. Ep XIII 65 ‛ habere veritatem in manifesto '); lo stesso tema torna in Mn II II 1 cuius quidem inquisitionis principium est videre quae sit illa veritas, in quam rationes inquisitionis praesentis velut in principium proprium reducantur, e III II 1 aliquod principium est assummendum in virtute cuius aperiendae veritatis argumenta formentur (il principio assunto in tal caso è irrefragabilis veritas [§ 2] perché il suo contradittorio è falso; in Quaestio 5 principium investigandae veritatis è l'argomento preciso [restricta fuit quaestio ad hoc] a chiarire il quale si procede, e che, essendo il fine della ricerca o quaestio, è ‛ principio ' primo nell'intenzione).

Uno dei più antichi usi del termine inquisitio nell'accezione che è propria di D. è in Cic. Off. I IV 3 (" Inprimisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio ") dove esso è dato in endiadi con investigatio; in contesti analoghi si trova nel Medioevo (cfr. Tomm. Cont. Gent. I IV, dove la " rationis inquisitio ", che si specifica come " veritatis inquisitio ", trapassa nell'" investigatio rationis humanae " o nell'" investigari ratione ", mentre il frutto della ricerca è l'" inventio veritatis "). Altre volte inquisitio ha come sinonimo inventio (Tomm. Sum. theol. I 70 8c " ratiocinatio humana, secundum viam inquisitionis, vel inventionis "); a sua volta, inventio è da ricondurre alla bipartizione della logica in inventio e iudicium, tramandata da Cicerone (Top. II 6; cfr. Boezio In Top. Cic. Comm. I, Patrol. Lat. LXIV 1047B): ma l'inventio è subordinata al iudicium, come la ragione lo è all'intelletto e la ricerca della v. alla contemplazione della v. (Tomm. Eth. Nic. exp. X lect. X " Speculatio veritatis est duplex: una quidem quae consistit in inquisitione veritatis; alia vero quae consistit in contemplatione veritatis iam inventae et cognitae. Et hoc perfectius est, cum sit terminus et finis inquisitionis. Unde et maior est delectatio in consideratione veritatis iam cognitae, quam in inquisitione eius "). Per altro verso, l'inquisitio dà luogo alla quaestio e si specifica in essa (Tomm. Eth. Nic. exp. III lect. VIII " quaestio, idest inquisitio "), e la quaestio, nella definizione boeziana, è posta in immediata relazione al dubbio e prende forma in una domanda (De diff. top. I, Patrol. Lat. LXIV 1174B " Quaestio est in dubietatem ambiguitatemque adducta propositio, ut si quis quaerat an coelum sit volubile "); così quaestio finisce per esser sinonimo d'interrogatio e problema (Ars Emmerana, ediz. L. M. De Rijk, in Logica modernorum II II, Assen 1967, 161: " Et sive dicatur interrogatio vel quaestio sive problema, idem est "). Sotto la spinta dell'affermazione della dialettica si costituisce, dal sec. XII in poi, il metodo scolastico della ‛ quaestio ' (v.): cfr. Tractatus Anagnini, ediz. L. M. De Rijk, op. cit., p. 260: " Cum totius dialecticae fructus in quaestionis solutione tanquam suo fine reperiatur, ut ad ipsum tanquam ad metam perveniri possit diligenter est elaborandum "; e Abelardo Sic et non prol., Patrol. Lat. CLXXVIII 1349A " placet... diversa sanctorum patrum dicta colligere... aliqua ex dissonantia, quam habere videntur, quaestionem contraentia, quae teneros lectores ad maximum inquirendae veritatis exercitium provocent et acutiores ex inquisitione reddant. Haec quippe prima sapientiae clavis definitur, assidua scilicet seu frequens interrogatio; ad quam quidem toto desiderio arripiendam philosophus ille omnium perspicacissimus Aristoteles in praedicamento ad aliquid [Cat. 7, 8b 21-24] studiosos adhortatur, dicens: ‛ Fortasse autem difficile est da huiusmodi rebus confidenter daclarare, nisi pertractatae sint saepe. Dubitare autem de singulis non erit inutile '. Dubitando enim ad inquisitionem venimus; inquirendo veritatem percipimus "; cfr. Pd IV 130-132 Nasce per quello [il disio di v. 129], a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch'al sommo pinge noi di collo in collo.

D. dunque, che presenta la sua ricerca di filosofia politica come una inquisitio e che fa proprio il metodo della quaestio, esplicita di volta in volta il principio (v.) muovendo dal quale la ricerca può compiersi, seguendo in ciò l'insegnamento di Aristotele, che può essere così riassunto (An. Post. I 2): perché si abbia dimostrazione bisogna procedere dal noto all'ignoto, cioè da ciò che è noto e primo a ciò che è ignoto e risultato, dal principio alla conclusione; ‛ principio ' ha però due valori: ciò che è noto a noi è il principio secondo il senso, è il singolare; ciò che è noto secondo la natura delle cose è l'universale; in ciascuna materia l'universale è dato dalla definizione della natura della cosa trattata, e costituisce il principio da cui bisogna procedere; non si ha conoscenza, infatti, se non dell'universale. Al di sopra delle conoscenze che fungono da principi nei singoli campi del sapere, Aristotele colloca i primi principi immediatamente evidenti, intuiti dall'intelletto (II 19), sull'evidenza dei quali riposa tutto l'edificio della scienza.

Ma il Filosofo aggiunge (Eth. Nic. I I, 1094b 12 e 24-25, e 7, 1098a 28, cit. da D. in Mn II II 7 [e cfr. V 6], Cv IV XIII 8, Quaestio 60; cfr. Tomm. Eth. Nic. I lect. III) che in ciascun campo d'indagine la certezza dell'argomentazione è da assumere secondo la materia trattata; e inoltre (Phys. I 2, 184b 15-20, cit. in Cv II I 13 dove si discute della via di conoscere che è in noi naturalmente innata, discostarsi dalla quale sarebbe inrazionale, cioè fuori d'ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe, e Quaestio 61 Cum... innata sit nobis via investigandae veritatis circa naturalia ex notioribus nobis, naturae vero minus notis, in certiora naturae et notiora) Aristotele avverte che, poiché il principio è duplice, secondo noi e secondo natura, si muoverà " ex incertioribus naturae, nobis autem certioribus, in certiora naturae et notiora ", salvo poi a ritornare a considerare il particolare a partire dall'universale, e cioè dal certo e noto ‛ secondo natura ' (" ex universalibus ad singularia oportet procedere "). I criteri dettati da Aristotele circa la funzione dei principi e l'assunzione di essi mirano a fondare un discorso scientificamente valido, tessuto cioè di argomenti la cui ‛ certezza ' (v.) sia debitamente fondata sui principi e garantita dalla congruità e correttezza dei procedimenti dimostrativi (cfr. Cv III XV 2 li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni, con le quali si vede la veritade certissimamente, e IV II 17 la veritade... la quale è quello signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora; cfr. II XV 5 ‛ lite di dubitazione ', le quali dal principio de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono... e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto). Nella costruzione della Monarchia D., il quale avverte che in operabilibus principium... è ultimus finis (I II 7), muove dall'identificazione del principio, sulla ‛ virtus ' del quale riposino gli argomenti formati, e in quod analetice recurratur pro certitudine omnium propositionum quae inferius assummuntur (§ 4; per il rapporto principi-conclusione, cfr. Cv IV IX 6 silogismo con falsi principii non può concludere veritade dimostrando).

Per affermare la v., bisogna rimuovere le argomentazioni che a essa si oppongono, sicché il processo attraverso il quale la ricerca si compie passa attraverso una prima fase, " destruens ", che consiste nel mostrare l'errore dell'avversario (di chi argomenta contro la v.: Mn II IX 1 1 si contra veritatem ostensam... instetur; III III 6 contra veritatem quae quaeritur tria hominum genera maxime colluctantur, e 7 veritati... de zelo forsan... non de superbia contradicunt) sulla quale s'imposta poi l'esposizione della verità: III XII 1 Positis et exclusis erroribus... redeundum est ad ostendendum veritatem huius tertiae quaestionis. La dialettica errore-v. che s'instaura in ogni ricerca è bene illustrata nel Convivio: in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l'opposito; ché prima si ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire a la promessione. Però è da sapere che tutto che a l'uno e a l'altro s'intenda, al trattare lo vero s'intende principalmente; a riprovare lo falso s'intende in tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire...; nel trattato, continua D., prima si ripruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro de l'umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li avversari de la veritade e poi, quelli convinti, la veritade mostroe (IV II 15-16, in tutto quattro occorrenze; e VIII 4). Il discorso dantesco cade all'inizio del trattato sulla nobiltà, nel quale, in via preliminare, D. procede a dimostrare lo scarso fondamento razionale delle definizioni e opinioni circa la nobiltà correnti al suo tempo. La prima opinione si appoggiava sull'autorità dell'imperatore (Federico II, cui è attribuita una definizione di nobiltà), la seconda, che è quasi di tutti (III 8), si fonda su quella di Aristotele, che aveva affermato: quello che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso (III 9; v. OPPINIONE). D. è indotto così a precisare cosa s'intenda per ‛ autorità ' (v.), e soprattutto a mostrare in che rapporto siano le due somme autorità, filosofica e imperiale, con la ricerca della v. fondata sulla ragione: E perché meglio si veggia... la vertude de la veritade, che ogni autoritade convince, ragionare intendo quanto l'una e l'altra di queste ragioni aiutatrice e possente è (§ 10; si ricordi quelli [gli avversari] convinti di II 16). Anche in questo caso, la v. è metro supremo di giudizio nella valutazione dell'autorità, e delle ‛ ragioni ' o argomenti che si servono dell'autorità a sostegno di una certa tesi. L'autorità dell'imperatore è riconosciuta incompetente in questo ambito (VIII 10 ss.); dell'autorità del Filosofo - riconosciuta piena di tutto vigore (VI 17), e altra volta sufficiente a confondere (rompere con le sue ragioni) i sostenitori di oppinioni... false e affermare la veritade (III V 7) - s'interpreta il testo (IV VIII 6) nel senso che l'affermazione ha valore nel caso del parere razionale, e non del parere sensuale (al § sensuale apparenza; v. RAZIONALE; sensuale). S'introduce in tal modo una distinzione tra apparenza razionale e apparenza sensibile, l'una e l'altra fonte di opinione; D. precisa il valore e l'uso che si può fare di esse: l'apparenza o parere sensibile è ritenuto molte volte falissimo (IV VIII 6, a proposito dei ‛ sensibili comuni ' [v.]); l'uomo che si affida a esso giudica... quasi come altro animale pur secondo l'apparenza, non discernendo la veritade (III X 2), perché l'anima è impedita dalle passioni che nascono nella facoltà sensibile (§ 1 secondo l'apparenza, discordante dal vero per infertade de l'anima, che di troppo disio era passionata; cfr. ancora IX 5, IV II 4); il parere razionale, invece, non è senz'altro da rifiutare, ma sono da saggiare i fondamenti razionali di esso (Cv IV XXI 3 Se ciascuno fosse a difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si vedrebbe essere in tutte), e mostrare la consistenza degli argomenti, o ragioni, addotti a sostenerlo: solo le male oppinioni, fondate su false ragioni, sono da rifiutare, in modo da sgombrare l'animo e far posto all'accoglimento della v. (IV XV 1 seguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia disposta; nello stesso senso § 10 conchiudo lo loro errore essere confuso [v. Pd XXIX 74 perché tu veggi pura I la verità che là giù si confonde], e dico che tempo è d'aprire li occhi a la veritade [v. Pg XXV 67 Apri a la verità che viene il petto]). Caso particolare è quello in cui i detti degli avversari sono vani, cioè sanza midolla di veritade (IV XV 10; cfr. § 17 oppinione... vana, cioè sanza valore) perché il loro intelletto, o mente, è infermo per malizia d'animo o di corpo (§§ 11-17); generici Quaestio 2 quaestio... dilatrata multotiens ad apparentiam magis quam ad veritatem, e Ep VII 7 facies veritatis. L'avversario la cui opinione non sia sufficientemente fornita di ragioni è ‛ calunniatore di v. ' (XII 11), mira a turbarla (VIII 10 però che, dinanzi da l'avversario s[e] ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l'avversario quindi non prenda materia di turbare la veritade).

La " pars construens " della ricerca filosofica, di conseguenza, è caratterizzata dall'intendere a la veritade (XIV 2; cfr. Quaestio 78), ‛ penetrare ' in essa (Pd IV 71 Ma perché puote vostro accorgimento / ben penetrare a questa veritate, / come disiri, ti farò contento), in modo che con aiuto di ragione, esperienza e ammaestramenti essa possa essere ‛ vista ' (Cv II IV 8 avvegna che per ragione umana queste oppinioni... fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non fue e per difetto di ragione e per difetto di ammaestramento; V 1; cfr. III X 1 questa digressione... mestiere è stata a vedere la veritade), o ‛ trovata ' (II III 3, IV 2), e ‛ mostrata ' (IV XV 18, cfr. II III 18), e comunque ‛ trattata ' (IV XVI 2, prima occorrenza).

Altre occorrenze. - Con riferimento alla dottrina della v. come norma nel conoscere e nel fare, sono da ricordare una serie di locuzioni: ‛ dire la v. ' (Fiore LXXXVIII 3) o ‛ contare v. ' (CXXXV 3); ‛ seguire la v. ' (Cv III X 10 l'ordine de l'opera domanda a l'allegorica esposizione... seguendo la veritade, procedere; IV VI 9 [gli stoici] credettero... fine de la vita umana essere... la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire); ‛ secondo la v. ' (III X 3 questa canzone considera questa donna secondo la veritade; IV XVI 2 diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade [cfr. Mn III XV 2 ad perfectam determinationem propositi, con chiaro uso del linguaggio della ‛ quaestio ']; VE II V 4 secundum rei veritatem; Vn XXV 1); ‛ secondo la stretta v. ' (Cv II III 17 avvegna che detto sia essere diece cieli secondo la stretta veritade); ‛ in v. ' (Rime L 51; Fiore II 12, CIX 2, CXVI 3); ‛ restringersi a v. (Rime XCI 57); ‛ partirsi da la v. ' (Cv I X 11); ‛ oltre a la v. ' (Cv I III 6, due volte; XI 15 commendare... oltre a la verità); ‛ per ', ‛ a rispetto de la v. ' (II III 2 quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano; III IV 3); ‛ amico di v. ' (Rime LXXXV 8 e CVI 2, già citati); ciò è veritade di Fiore LXXXI 10 vale " ciò è vero " (v. VERO).

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