VERONA

Enciclopedia Italiana (1937)

VERONA (A. T., 24-25-z6)

Luigi SIMEONI
Emilio MALESANI
Giuseppe FIOCCU
Paola ZANCAN
Tammaro DE MARINIS
Walter MATURI

Città del Veneto, capoluogo di provincia, sulla ferrovia Milano-Venezia, a 45°26′ lat. N. e a 10° 59′ 13″ long. O., a m. 59,10 sul mare. Il territorio del comune fino al 1923 aveva una superficie di 52,89 kmq., ma successivamente vennero aggregati a Verona i comuni di Aversa, Quinzano, Parona di Valpolicella, San Massimo all'Adige, Santa Lucia, Ca' di David, San Michele Extra, Montorio Veronese, Mizzole, Santa Maria in Stelle, Quinto di Valpantena e la frazione Palazzina del comune di S. Giovanni Lupatoto, portando così la sua superficie a kmq. 199,77.

Non si hanno notizie circa il numero degli abitanti di Verona nell'epoca romana, ma poiché l'abitato allora aveva un'estensione di poco superiore a mezzo chilometro quadrato, la popolazione doveva aggirarsi sui 15.000 abitanti. Nel periodo degli Scaligeri sembra che Verona avesse più di 40.000 abitanti, che scesero a 30.000 nel 1473 per risalire poi a 52.000 verso la metà del secolo XVI, sotto il pacifico governo veneziano. Il primo censimento regolare del 1871 accertò una popolazione di 67.080 abitanti, saliti a 92.536 nel 1921, prima dell'allargamento del territorio comunale. Nel 1931 nel territorio del comune allargato furono censiti 153.923 abitanti, ma di essi solo 109.161 appartenevano al centro urbano.

Verona sorge al margine settentrionale della pianura, ai piedi delle propaggini collinari dei Lessini e non lungi dallo sbocco della valle dell'Adige, cosicché riunisce i vantaggi di un centro marginale di pianura, di una città sbocco di valle e di un centro collinare. Ciò spiega l'importanza che essa ha mantenuto attraverso il tempo, nell'antichità, nel Medioevo e nell'età moderna.

Sviluppo topografico. - La posizione, formata dalla grande ansa dell'Adige e dal fiume rapido e gagliardo individuata e difesa, dovette mostrarsi assai presto come un luogo sicuro e idoneo all'insediamento di un centro urbano. E sul colle, che sulla riva sinistra scende a bagnare le sue pendici occidentali e meridionali nelle acque del fiume, dominando la strada pedemontana la quale, provenendo da oriente, correva verso Parona, si formò un minore centro che più tardi, quando il fiume fu attraversato da un ponte, costituì l'arce della città. La città romana era tutta compresa nella penisola circoscritta dalla grande svolta dell'Adige e, come mostra l'iconografia rateriana della fine del sec. X e come viene meglio determinato dalle due porte romane ancora esistenti (dei Borsari e dei Leoni), doveva essere chiusa da un muro che, partendo dalla riva dell'Adige presso San Michele alla Porta, passava per la porta dei Borsari e quindi proseguiva per San Nicolò fino all'attuale via Leoncino; piegava quindi verso nord-est correndo lungo la via Leoncino e passando per la Porta dei Leoni si saldava alla non lontana riva dell'Adige.

L'attuale Corso Porta Borsari e il Corso Santa Anastasia, che lo prolunga, costituivano il decumano massimo, mentre la via Leoni, la via Cappello e la via Sant'Egidio con altri tratti minori intermedî formavano il cardo maximus. All'incontro delle due strade si allargava il foro, l'attuale Piazza delle Erbe.

L'imperatore Gallieno che, secondo la tradizione, nel 265 rimise in piena efficienza le vecchie mura, avrebbe incluso nella città anche l'Arena che era costruita fuori del primo circuito; secondo il Simeoni l'inclusione dell'Arena avvenne per opera di re Teodorico: la ricordata iconografia rateriana ci mostra in effetto un doppio circuito di mura da questa parte della città. Sulla sinistra dell'Adige le mura romane racchiudevano l'Arce, costruita sul colle di San Pietro, e le pendici che scendono al fiume, lasciando fuori la chiesa di Santo Stefano: su quelle pendici sorgeva il teatro, i cui resti testimoniano della potenza e del fasto della città romana.

Due ponti marmorei di cui uno mantiene ancora in gran parte la struttura originaria (Ponte della Pietra) e l'altro fu distrutto nell'alto Medioevo (Ponte Postumio) attraversavano il fiume unendo il castello alla città: sul primo metteva capo la Via Claudia Augusta, la strada del Brennero, e sull'altro correva la via Gallica, verso Aquileia.

Teodorico, restaurò le mura di Gallieno, ma non ne allargò il circuito: questo vanto spetterà al Comune che verso la metà del sec. XII allargherà la città verso sud conducendo un canale (Adigetto) dall'attuale Castel Vecchio al Ponte Aleardi ed erigendo quelle mura che tuttora fanno mostra di sé lungo la via Pallone.

A questo allargamento corrispose un ampliamento sulla riva sinistra, dove furono compresi entro la nuova cinta San Giovanni in Valle e Santa Maria in Organo. Un nuovo allargamento si ebbe come conseguenza dello sviluppo del comune veronese sempre sulla riva sinistra, fino a rinchiudere entro le mura San Nazaro e Santo Stefano passando per il Campofiore, lungo la via segnata dal fiumicello. Un ultimo ampliamento ebbe la città durante il govemo dei primi Scaligeri giacché negli Stati Albertini (1270-80) troviamo la prescrizione di erigere delle fortificazioni verso Santa Lucia e Tomba e poi Can Grande della Scala fece rinnovare le mura dalla Catena alla Trinità e forse quelle che da porta San Giorgio, salendo su per il colle, giungevano fino alla Porta del Vescovo.

La precinzione medievale ebbe in seguito, per l'importanza strategica assunta dalla città allo sbocco della valle dell'Adige e conservatasi fino ai tempi recenti, il vantaggio di attirare le cure di uno dei più grandi architetti militari, il veronese Michele Sanmicheli, che ne fece una meraviglia di fortezza. Benché il precorritore Bastione della Maddalena non spetti a lui, ma a Michele Leoni che lo costruì nel 1527, quasi tutta la restante cortina, rinnovata dopo il 1530, è sua, e diede modo all'insigne maestro di arricchirla di porte famose, come la Porta Nuova, la Porta San Zeno e specialmente quella Palio, vero capolavoro del genere.

Le fortificazioni del Sanmicheli fissarono definitivamente il circuito delle mura, cui l'Austria nei tempi moderni si limitò ad aggiungere ridotti e fortini per rispondere agli ulteriori progressi dell'arte fortificatoria. Purtroppo le mura e le fortificazioni imposero a Verona una pesante servitù militare che durò fino al principio del sec. XX, poiché se le mura costituirono a lungo un vanto e un titolo di onore della città, divennero anche una gravosa cintura, soffocatrice di qualsiasi espansione.

Ma ormai la vita nuova ha fatto varcare anche le antiche e belle mura.

Lo sviluppo dei nuovi quartieri fuori delle mura è del tutto recente: il Borgo Venezia fuori porta Vescovo, verso San Michele Extra, e il Borgo Trento fuori Porta San Giorgio, verso Avesa, sono sorti dopo il 1900, mentre il quartiere di Campagnola, fra Borgo Trento e l'Arsenale di Artiglieria, il Borgo Roma, a sud della Nuova Stazione di Porta Nuova, verso Tombetta, e il Borgo San Pancrazio a sud della Stazione di Porta Vescovo sono stati costruiti dopo la guerra mondiale.

La città odierna. - La zona più fittamente coperta dalle costruzioni rimane sempre il vecchio centro romano e medievale, dove il solo spazio scoperto è costituito dalla piazza Vittorio Emanuele (Bra) che allarga le sue verdi aiuole tra gl'imponenti archi dell'Arena, il colonnato neoclassico del Municipio e la mole severa della Gran Guardia.

La vita cittadina ha il suo centro principale nella vecchia Piazza delle Erbe, dominata dalla svelta torre dei Lamberti (alta m. 83), cui fanno corona sul lato di SO. la Casa dei Mercanti, e sul lato NE. la Casa Mazzanti e il Palazzo del comune, o della Ragione, mentre sulla linea mediana sorgono la fontana di Cansignorio con la celebre statua romana detta "Madonna Verona" e la colonna di San Marco; lì presso si apre l'armoniosa Piazza dei Signori col monumento a Dante, il palazzo della Prefettura già residenza degli Scaligeri e la mirabile Loggia del Consiglio o di Fra Giocondo.

Un secondo centro, che va anzi sempre più acquistando importanza e movimento, è la ricordata piazza Vittorio Emanuele, col monumento al gran re: serve da congiungente fra le due piazze la stretta e lunga Via Mazzini (già Via Nuova) che con la serie ininterrotta delle sue botteghe eleganti ricorda le Mercerie di Venezia, ed è sempre affollata a tutte le ore del giomo.

L'Adige, sorpassato da dieci ponti attraversa la città ed è chiuso tra i grossi muraglioni costruiti a difesa dell'abitato dopo l'inondazione del 1882, sacrificando il pittoresco canale dell'Acqua Morta e le case che sorgevano lungo il fiume; ora sulle due rive corrono i larghi e bellissimi "Lungadigi", decoro e vanto della città, che è giudicata la più bella del Veneto, dopo Venezia.

L'importanza commerciale di Verona è tuttora preminente, come dimostrano i frequentatissimi mercati dei grani e dei bovini, la fiera annuale dell'agricoltura e il traffico attraverso la via del Brennero con il grande movimento delle esportazioni, specie di frutta e di verdura, verso la Germania e i paesi dell'Europa centrale, dove Verona invia non soltanto i prodotti della sua provincia, ma anche quelli di altre regioni d'Italia che si concentrano nei suoi magazzini generali, i più grandi e i meglio attrezzati d'Italia.

Meno fervida l'attività industriale che si esplica però in numerosi campi: si notano alcune officine metallurgiche per la fabbricazione di macchine agricole, utensili per industrie, di rimorchi per autotreni, e una fonderia di campane; fabbriche di mobili di legno e di ferro, varie concerie e calzaturifici; fabbriche di carta e case editrici; 3 grandi molini e un lanificio, oltre a un grandissimo numero di botteghe artigiane.

Degni di ricordo infine gl'istituti culturali e artistici che hanno tradizioni luminose e ricchezza incomparabile di opere d'arte, gli istituti di beneficenza, numerosi e ben provvisti (4 ospedali, 5 case di ricovero e orfanotrofî), i fiorenti istituti di credito e specialmente la Cassa di Risparmio che estende le sue operazioni anche alla provincia di Vicenza.

Monumenti e arte.

Dei maggiori monumenti di Verona romana il più antico è l'Anfiteatro, del quale rimangono grandiosi ruderi restaurati in tempi moderni sì che è possibile darvi ancora rappresentazioni pubbliche. Del Teatro, addossato al colle di S. Pietro, e riconosciuto dal Ghirardini come dell'epoca augustea, restano solenni vestigia, che lavori di scavo e di restauro mettono in luce e conservano. L'arco dei Gavî di età augustea e, sul corso, la doppia porta dei Borsari che reca un'iscrizione di Gallieno, ma che è di qualche poco anteriore; la porta dei Leoni; gli avanzi di terme conservati nella chiesa di S. Zeno e nella fontana Scaligera in piazza delle Erbe; i frammenti di statue e di cornici, rinvenuti in varî scavi e raccolti nel museo; il grande e ricco musaico pavimentale scoperto in vicinanza del duomo, testimoniano della splendidezza di Verona romana e paleocristiana.

Del Medioevo, nulla, se non qualche raro avanzo, resta delle costruzioni (fortificazioni, terme, palazzo) del "veronese" Teodorico. Del periodo longobardo, si ha ricordo nella chiesetta di Santa Teuteria e Tosca, con ogni probabilità del sec. VIII. Altri residui di costruzioni del sec. VIII (capitelli) furono rimessi in opera in S. Zeno, in S. Stefano, nell'antico duomo, dove tuttora si trovano.

S. Zeno è il più insigne degli edifici romanici di Verona: alla sua facciata, ultimata nel 1138, lavorarono gli scultori Guglielmo e Nicolò che vi lasciarono il proprio nome. Nella cripta, un altro scultore eseguì raffigurazioni tratte dai bestiarî e si firmò: Adamino di S. Giorgio. L'architettura del campanile, cominciato nel 1045, e della chiesa, mostra all'esterno, nel nitido giuoco degli archetti e dei risalti, tutto affiorante in superficie, una tendenza a risolvere il denso chiaroscuro lombardo in lieve vibrazione di colore: all'interno tale contemperarsi del romanico lombardo col sentore bizantineggiante proprio del Veneto si determina in un più fluente e pacato volgere degli archi, in una maggiore ampiezza della navata. Le porte bronzee, le sculture, la cripta, il chiostro, fanno di S. Zeno un complesso artistico di altissimo valore. L'arte di Nicolò si ritrova a Verona nel duomo, affine a S. Zeno e ricco di deliziosi particolari; ma nell'insieme reso meno coerente da rifacimenti successivi. In S. Lorenzo il gusto per la policromia s'accentua, pur mantenendo una sobrietà che è altissimo stile; in S. Fermo, come nel duomo, s'avverte il trapasso dal romanico al gotico, il quale s'affermava pienamente in S. Anastasia (dal 1290 in poi). Questo gruppo di chiese, che costituisce uno dei capitoli più intensi e significativi dell'architettura italiana del tempo, s'arricchisce di tutta una trama d'interessanti sculture, specialmente di monumenti sepolcrali, dove pure è da notare la continuità dal romanico al gotico: dalle arche scaligere (es.: quella di Mastino I, del 1277; quella di Cansignorio, di Bonino da Campione, ecc.) alle tombe di Guglielmo di Castelbarco presso S. Anastasia, di S. Agata (1353) al duomo, di Federigo Cavalli (morto nel 1390) in S. Anastasia; in S. Fermo di quel Barnaba Morani che nel 1390 fece eseguire il magnifico pulpito marmoreo per la stessa chiesa. Su questa continuità di tradizione s'innestano agli alborî del sec. XV i primi virgulti del Rinascimento, portati da Firenze dall'allievo di Donatello, Giovanni di Bartolo detto il Rosso: il quale tuttavia nel monumento Brenzoni in S. Fermo quasi subendo la suggestione del Pisanello, che ivi lasciò, nella soave Annunciazione, uno dei suoi capolavori, discioglie in pittoricità la potenza plastica del maestro; mentre la tradizione locale dei monumenti sepolcrali equestri continua nel contemporaneo mausoleo Serego (1429) in S. Anastasia. Altro toscano è quel magister Michael de Florentia, che lavorò nel 1435-36 nella cappella Pellegrini della stessa chiesa, alle numerosissime terrecotte.

Intanto la città s'era ampliata a più riprese, ma soprattutto durante il periodo comunale, e poi in quello scaligero, e s'era empita di case, palazzi, castelli, torri, di cui qualcosa ancora rimane, specie del fiorente Trecento: la casa "di Giulietta" in via Cappello, la casa in via delle Arche scaligere, il ponte di Castelvecchio, unico conservatosi dei ponti scaligeri, edificato tra il 1354 e il 1356, quando Cangrande II fece innalzare il castello, ecc.

Il Rinascimento s'afferma a Verona con fra' Giocondo, che, come il Falconetto, fu più attivo fuori che in patria, dove gli si attribuisce la preziosa Loggia del Consiglio (1475-92) in piazza dei Signori; alla fine del secolo lavorarono anche in architetture o decorazioni architettoniche Pietro da Porlezza, Bartolomeo Giolfino, Gregorio, Matteo e Bernardino Panteo; mentre nelle fabbriche, per così dire, borghesi, continuava a trascinarsi anche in pieno Quattrocento un gusto attardato per il gotico veneziano. Apre il sec. XVI fra' Giovanni, architetto nel campanile di S. Maria in Organo (1495-1533), ma soprattutto intagliatore e maestro di tarsie, come nel candelabro e nel coro della stessa chiesa. Ma il più fecondo dei costruttori veronesi, e quegli che più d'ogni altro seppe improntare di sé la sua città - anche perché la sua architettura rispondeva, pur con altro significato, alla persistente impronta romana di essa - fu Michele Sanmicheli (1484-1559), ingegnere militare tra i massimi, ma grande anche in ogni altro campo dell'arte sua: il quale non lavorò solo al servizio della Serenissima, ma lasciò anche in patria numerosissime opere: dalle mura e le porte (Nuova e del Palio) mirabili, ai palazzi grandiosi: da quello Guastaverza in piazza Bra, dove lo scabro bugnato si lega con singolare effetto all'eleganza ancora di sapore lombardesco dei colonnati superiori, a quelli Bevilacqua, Pompei, Canossa, ecc., dove l'artista s'esprime con una nitida, equilibratissima e dichiarata coerenza costruttiva, non ignara tuttavia di tentativi precorritori di effetti atmosferici e di movimenti di masse.

Il Medioevo pittorico veronese - i cui primi esempî son forse gli affreschi del 996 nella grotta di S. Nazaro - superata nel Duecento una suggestione bizantineggiante avvertibile, per es., in alcuni tra i molti affreschi di S. Zeno; abbandonati i transitorî giottismi (tuttavia mediati attraverso trafile settentrionali, con risultati affini a quelli di Giusto de' Menabuoi) delle pitture trecentesche, specie in S. Zeno e in S. Fermo sfocia in un'attiva scuola col Turone (polittico del Museo civico, firmato e datato 1360) e altri artisti affini e collaterali, e specialmente con Altichieri da Zevio (affresco nella cappella Cavalli in S. Anastasia), il vero fondatore della scuola veronese, derivato non tanto dalla concisa perspicuità giottesca, quanto dalla narratività caratterizzatrice di Tomaso da Modena, sulla quale egli innesta una gotica, ma deliziosa e ricca effusione naturalistica. Da Altichieri dipendono forse l'Avanzo, certo Michele (suoi collaboratori a Padova), e Martino, che dipinge in S. Fermo, Boninsegna (attivo fin dopo il 1428) affrescante nella cappella Salerno in S. Anastasia; e infine anche, pur nell'evolversi della tecnica della scuola Giovanni Badile (circa 1380-1450), che nel 1443 dipinse nella cappella di Filippo Guantieri in S. Maria della Scala e nel polittico firmato del Museo civico rivela influssi tedesco-meridionali; Stefano da Zevio (pitture al Museo civico, a S. Eufemia) il quale accentua il goticismo assorbendo anch'egli elementi della scuola di Colonia, ma portandoli a una eleganza lineare e cromatica, che avrà la sua massima espressione nel Pisanello (1397-1455), il più grande dei medaglisti e il più ricco e raffinato dei pittori gotici, del quale a Verona rimangono l'affresco di San Giorgio in S. Anastasia e l'Annunciazione in S. Fermo. Presentimenti della Rinascenza, oltre che attraverso il Pisanello, approdano a Verona con Iacopo Bellini (Crocifisso al Museo civico); l'affermazione piena vi è portata da Andrea Mantegna, che lascia tra il 1457 e il 1459 il suo famoso trittico in S. Zeno. Ma Domenico, e più Francesco Morone (pala in S. Maria in Organo, ecc.), e Girolamo dei Libri, pittore e miniatore (quadri in S. Maria in Organo, in S. Paolo, in S. Giorgio Maggiore, al Museo, ecc.) pur guardando anche a questo grandissimo esempio si volgono piuttosto verso Venezia, a Giovanni Bellini, non senza qualche antonellismo o montagnismo (il Montagna affrescò tra il 1504 e il 1506 la cappella di S. Biagio in S. Nazaro e Celso). Paolo Morando Cavazzola, rappresentato al Museo civico in tutte le tappe della sua attività, raccolse codeste esperienze quattrocentesche e le maturò in un cinquecentismo affascinato da Giorgione. Si distaccò per molti aspetti da eostoro il ritardatario Francesco Benaglio (tavola del 1462 in S. Bernardino) per un maggiore mantegnismo, sensibile all'interpretazione ferrarese. Il pittore e miniatore Liberale (tavole in Vescovado, in S. Anastasia, al Museo), Francesco Bonsignori (1455-1519: pitture in S. Bernardino e in S. Nazaro) che guardò dapprima ad Alvise Vivarini e poi risentì di Giorgione; Giovan Francesco Caroto (1480-1555: pitture in S. Giorgio Maggiore, al Museo) temperamento mimetico e assimilatore, a cui probabilmente non fu ignoto il Correggio; Gianmaria Falconetto (1458-1534); Niccolò Giolfino (1474-1555), ecc., chiudono degnamente il Quattrocento. Nel Cinquecento i nomi di pittori veronesi lavoranti in Verona son molti: da Michele al Caroto, al Torbido, ai Brusasorzi, al Farinati, allo Zelotti, al Ligozzi. Segnaliamo Antonio Badile (1510-60) maestro di Paolo Caliari (1530-88) massimo dei Veronesi, col quale la scuola pittorica di Verona confluisce nel gran fiume della pittura veneziana. Paolo fu il nume dell'arte veronese fino al Settecento, quando i Cignaroli e il Lorenzi ne ripetevano ancora qualche eco, mentre nel palazzo Canossa il grande Giambattista Tiepolo dispiegava la sua aerea pittura anch'essa non ignara del grande Veronese. (V. tavv. XLI-XLVIII).

Musei. - Il mirabile Castelvecchio, la mole medievale più imponente della città, costruito da Cangrande II (1354-57 e 1375), è stato da poco opportunamente ripristinato, ma meno opportunamente ridotto a ospitare, dentro edifici in gran parte non originali, il museo e una sala per concerti.

Il museo stava un tempo nel palazzo Pompei, costruito dal Sanmicheli (1484-1559) e ora sede delle raccolte di storia naturale, e per certe sezioni, fra cui il legato Monga, in certi locali sopra il teatro antico, dove è ora soltanto il reparto archeologico e preistorico; ma non si può dire si sia avvantaggiato nella nuova sede se non per lo spazio, e questo sia per la decorazione trita e in gran parte rinnovata del lato scaligero, dove pur sono esposti capolavori di Iacopo e Giovanni Bellini, del Crivelli, del Mantegna, di Paolo Veronese, ecc., sia per l'abuso del pseudo-antico nelle stanze delle costruzioni nuove, destinate più che tutto alla scuola veronese. Sta ancora nella sua antica sede invece, completata di recente dall'architetto Fagiuoli secondo il disegno del teatro Filarmonico, o meglio del loggiato che lo precede, il museo lapidario Maffeiano: fondazione che si connette all'accademia, a cui è dovuto il teatro stesso (1716-1760) di Fr. Bibiena e che coltivando, oltre al diletto, gli studî, raccolse alcune poche antichità dei Nichesola, divenute il nucleo di quella famosa raccolta dovuta a Scipione Maffei, prima del suo genere in Europa, sorta fra il 1714 e il 1715, dal fondatore stesso illustrata nel Museum venuto finalmente pubblico.

Bibl.: Valerini, Le bellezze di Verona, 1556; (Anonimo), Ricreazione pittorica, 1720; id., Divertimento historico, 1733; S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1732; Da Persico, Descrizione di Verona e della sua provincia, 1820-21; L. Simeoni, Verona, 3ª ed., 1910 (cfr. anche per la bibliografia). Il periodico Madonna Verona contiene molti studî sulle opere d'arte e sui musei della città. Per arte e per artisti veronesi sono da consultare le storie dell'arte generali e le numerosissime monografie particolari.

Storia.

Antichità. - Della fondazione di Verona (Οὺήρωνα, Verona) non sappiamo nulla: storia e leggenda ne tacciono. S'affaticarono invece gli storici a indagare l'origine degli abitanti: Galli Cenomani secondo alcuni, Reti o Euganei per altri. Le ricerche moderne, così storiche come glottologiche, riconoscono la validità delle notizie antiche anche nelle loro discordanze, ammettendo la prevalenza di un nucleo celtico, ma imbastardito da infiltrazioni retiche ed euganee.

Sul periodo più antico e preromano si ha solo qualche dato sporadico: nel 225 a. C., quando i Galli vennero di nuovo alle armi con Roma, i Veneti e i Cenomani (implicitamente dunque anche i Veronesi) furono alleati di Roma; nel 216 a Canne dalla parte romana militarono anche i Veneti, tra i quali Silio Italico nomina esplicitamente i Veronesi; nel 105 Verona sofferse l'invasione cimbrica. In rapporto più diretto con Roma, Verona dovette venire nell'89 a. C. in virtù della lex Pompeia de Gallia citeriore, che concedeva la latinità, cioè trasformava in colonie di diritto latino, quei centri della regione oltre Po che già non godessero di tale privilegio. Il pieno diritto di cittadinanza romana Verona dovette conseguire nel 49 a. C., grazie alla concessione fatta da Cesare ai Transpadani; e fu allora iscritta alla tribù Poblilia.

Durante il sec. III Verona e il suo territorio furono spesso teatro di lotte; Gallieno dedusse nella città una colonia militare, onde la nuova denominazione di Verona Nova Gallieniana.

Medioevo ed età moderna. - È probabile che a Verona si diffondesse presto il cristianesimo, ma l'organizzazione della sua chiesa risale solo al sec. III: il IV vescovo, Procolo, viveva verso il 304; l'VIII, S. Zeno, patrono della città, morì verso il 380.

Con l'età barbarica continuò l'importanza militare della città: il 27 settembre 489 Teodorico vi otteneva la vittoria su Odoacre; e durante il suo regno egli vi eresse un palazzo e vi soggiornò spesso, come in un eccellente osservatorio del mondo barbarico. Da Verona, il re trasse il nome con cui fu designato nella leggenda che fu scolpita poi sulla facciata della basilica di S. Zeno.

Venuti i Longobardi, Verona fu la sede di re Alboino che vi trovò la morte: fu poi sede di un ducato mentre un gastaldo regio risiedeva nella Valpolicella, e re Adelchi vi tentò l'estrema difesa contro Carlomagno (774). Divenuta con i Franchi centro di un comitato, vi risiedette spesso re Pipino, che fece riedificare la chiesa di S. Zeno, e Verona partecipò al risveglio culturale e artistico dell'età carolingia. Sorto il regno italico, Berengario I catturava a Verona il rivale Lodovico di Provenza (905) che faceva accecare; nel luogo stesso egli fu a sua volta ucciso nel 924. Quando cadde il regno d'Italia, la Marca di Verona fu data da Ottone I ai duchi di Baviera, per assicurarsi l'ingresso in Italia: questa importanza della città per le relazioni italo-tedesche si manifestò anche nell'insediamento di vescovi tedeschi per tutto il sec. XI, mentre l'ufficio comitale diveniva ereditario nella famiglia dei Sambonifacio di lontana origine salica. Date queste strette relazioni con la Germania si spiega come la città durante la lotta delle investiture tenesse costantemente la parte imperiale: Enrico IV vi fece lunghi soggiorni.

Durante i due ultimi secoli l'autorità regia esercitata dai conti era in gran parte andata dispersa, anche se i vescovi non erano divenuti conti della città, e il patrimonio regio nel comitato quasi tutto distribuito in feudi, che aveano fatto sorgere famiglie di potenti militi, molte delle quali si erano arricchite a spese del patrimonio ecclesiastico. A fianco di questa classe feudale se ne era pure formata una di ricchi mercanti (come i Crescenzi e i Monticoli) che miravano a procurarsi anche dominî feudali: fu quindi facile la collaborazione delle due classi per creare il comune che appare costituito con i consoli nel 1136, benché già vi fosse una notevole autonomia se 42 cittadini veronesi stringevano nel 1107 col doge veneto un trattato commerciale e politico (guerra di Padova). Il comune prese forma definitiva solo nel 1135 quando morì il conte Alberto di Sambonifacio, che, quale capo dei vassalli dei Canossa creato marchese nel 1125 dal papa, doveva avere una grande autorità.

La collaborazione delle classi presto si mutò in gravi discordie tra le famiglie feudali e i Crescenzi, con prevalenza delle prime che si schierarono col Barbarossa, malgrado non mancassero opposizioni alle quali risale il tentativo fatto alla Chiusa di Rivoli nel 1155 di esigere da Federico un grave pedaggio per lasciarlo tornare in Germania: pretesa che egli respinse con la forza. Verona fu legata all'imperatore sino al 1164 e quale suo rappresentante egli vi assegnò, anziché un forestiero, un feudale cittadino, Alberto Tenca. Ma già nel '64 Verona crea con Vicenza e Padova la Lega della Marca Veronese, che invano Federico tenta di soffocare intrigando con capitani e valvassori, che furono giustiziati: nel dicembre del '67 essa si fondeva con la nuova Lega Lombarda. Cavalieri veronesi partecipavano alla spedizione della Lega del 1175 per togliere l'assedio di Alessandria, e nel 1176 alla battaglia di Legnano. Nella pace di Costanza l'imperatore espressamente restituiva a Verona la strata, ossia la libertà di commercio con la Germania. Nel 1169 si era avuto il primo podestà cittadino, poi un alternarsi del consolato e della podestaria che diventa definitiva nel 1197. L'ultimo quarto del secolo è un'epoca di espansione: la città acquista dall'impero nel 1193 la Giudicaria Gardense, si afferma su tutto il comitato, avanza sull'Adige contro Ferrara, e lotta con Mantova. Ai conflitti esterni si aggiungono però quelli interni fra il partito dei Conti e quello dei Monticoli, che scoppiano violenti nel 1205 e si fondono in quelli della Marca, di Ferrara e Mantova: con i Conti stanno gli Estensi, e Mantova, con i Monticoli Torello Salinguerra e i da Romano.

Prevalgono dal 1206 a tutto il 1225 i Conti; dal 1226 invece i Monticoli che hanno un energico alleato in Ezzelino III da Romano. In questi anni è compilato il primo Statuto (1228). Nel 1226 Verona è a fianco della Lega Lombarda contro Federico II, ma nel 1232 i Monticoli ed Ezzelino, sdegnati con la Lega che favoriva i Conti, passano alla parte imperiale. Si inizia così la prevalenza di Ezzelino (v.) che, al ritorno di Federico in Italia nel 1236, con l'aiuto imperiale si impadronirà di Vicenza e Padova e sarà non di nome, ma di fatto signore di queste tre città, anche se vi sono podestà e vicarî imperiali, difendendole contro i nemici esterni e reprimendo il malcontento interno con una ferocia che diventa orribile, specie dopo la morte di Federico II. Nel settembre 1259, morto Ezzelino, afferrano il potere le Arti, e lo difendono contro le pretese dei feudali rientrati col conte, che sono nel 1260-61 espulsi: la lotta che i fuorusciti, appoggiati da Padova, Ferrara e Mantova, conducono contro la città e il suo regime, porta nel 1262 all'elezione di un Capitano del popolo annuale che fu Mastino della Scala il quale nel 1260-1269 fu pure podestà dei Mercanti. La minaccia esterna che, dopo il trionfo angioino specie nel 1269-72, fu durissima, prepara l'avvento della signoria come una difesa. Nel 1272 l'espulsione da Mantova dei Sambonifacio per opera dei Bonaccolsi, iniziava una amicizia che, finché durò, fu la fortuna delle due città. Mastino cadeva ucciso nel 1277; al suo posto, col titolo e i poteri di Capitano e Rettore, veniva eletto suo fratello Alberto che lentamente impose alle forme comunali l'autorità della Signoria. Alla sua morte nel 1301 essa è già solida all'interno, sì che nel 1311, dopo i brevi governi dei suoi figli Bartolomeo (morto nel 1304) ed Alboino (morto nel 1311), alla venuta dell'imperatore Enrico VII, il genio audace del suo più giovane figlio, Cangrande, inizia l'espansione, strappando Vicenza a Padova, e dando così occasione a una guerra di 17 anni che finirà con l'occupazione di Padova nel 1328 e nell'anno seguente di Treviso. Con i nuovi signori Alberto e Mastino (1329) Verona pare si avvii ad essere la capitale di un grande stato, che invece è stroncato dalla coalizione veneto-fiorentino-lombarda nella guerra del 1336-39 lasciando la città esausta. I signori scaligeri ridotti a Verona e Vicenza non fanno più la grande politica; abbelliscono la città con le celebri Arche, la fontana di Madonna Verona e ponti marmorei. Cangrande II, tormentato da sospetti, costruisce il Castelvecchio col grandioso ponte. Nel 1387 l'espansione viscontea assorbe lo stato scaligero e tiene saldamente la città.

Allo sfasciarsi nel 1403-4 dello stato visconteo, Verona, attraverso un'effimera restaurazione scaligera e signoria carrarese, passa a Venezia a cui si dà nel 1405. Si inizia così il secolare dominio veneto (1405-1797) interrotto solo dall'occupazione imperiale del 1509-17.

La città governata da due Rettori veneti, aveva ancora a capo un Consiglio dei XII e L; i Dodici avevano funzioni esecutive e duravano un bimestre: ogni fine di anno i XII uscenti con altri XII aggiunti sceglievano i L dell'anno prossimo e le sei mude dei XII: dopo il 1517 la rinnovazione fu solo di un quarto all'anno e dal 1572 la partecipazione al Consiglio venne dal Senato limitata a poche famiglie che costituirono così una piccola oligarchia cittadina.

Il primo secolo di dominio veneto non fu di vera pace, la città essendo stata prima travolta nelle guerre con Milano fino alla pace di Lodi e poi occupata da Massimiliano come base dei suoi sogni imperiali nel 1509, favorito da parte della nobiltà ancora desiderosa di indipendenza. Le estorsioni militari di quegli otto anni resero desiderato a tutti il ritorno di Venezia, che cinse la città di grandi fortificazioni. Nei tre secoli successivi, solo durante la guerre di successione di Spagna il territorio veronese fu corso da Francesi e imperiali (1701-6).

Furono secoli di pace ma anche di decadenza economica e demografica: la peste del 1630 distrusse i 3/5 della popolazione (33.000 persone su 54.000): l'antica arte della lana decadde, sostituita in parte da un grande sviluppo di quella della seta: sola gloria l'attività artistica.

Il 1° giugno 1796 l'ingresso in Verona dei Francesi del Bonaparte, malgrado la neutralità veneta, iniziò quel duro periodo di ruberie e prepotenze che condusse alla sommossa delle Pasque Veronesi (v. veronesi, pasque) del 17-23 aprile 1797 e alla loro severa repressione. Rovinata dalle estorsioni, la città fu consegnata nel gennaio 1798 agli Austriaci che la tennero fino alla pace di Lunéville (1801), per la quale invece fu divisa fra la Repubblica italiana e l'Austria formando l'Adige il confine. Dal 1805 con la Venezia venne a far parte del Regno Italico fino al 4 febbraio 1814 in cui vi entravano le truppe austriache rimaste fino al 16 ottobre 1866. In questi 32 anni di dominio straniero (durante i quali il Congresso di Verona - ottobre-dicembre 1822 - fu l'avvenimento più clamoroso) la città vide rinnovate le potenti mura venete e creata una doppia cinta esterna di forti per trasformarla in quel formidabile campo trincerato che impedì nel 1848 e '59 la sua liberazione dall'Austria. Dopo la riunione alla patria italiana la città ha subito due grandi trasformazioni: quella interna per le grandi difese create contro le piene dell'Adige dopo l'inondazione del 1882, e quella industriale esterna quando fu tolta la servitù militare che pesava sui sobborghi.

Bibl.: Cronache: Chronicon Veronense di Paris da Cerea, in Muratori, Rer. Ital. Script., VIII, e Monum. German., XIX; P. Zagata, Cronaca, ecc., Verona 1745-49; C. Cipolla, Antiche cronache veronesi, I, Venezia 1890. - Statuti: Liber iuris civilis urbis Veronae (1228), Verona 1728; Statuta mag. Civitatis Veronae (1450), ivi 1475; Statuta civilia Domus mercatorum, ivi 1598; L. Simeoni, Gli antichi statuti delle arti veronesi (1319), Venezia 191; C. Cipolla, Statuti rurali veronesi, Venezia 1890; Saraina, Le Histoire e i fatti de' veronesi, Verona 1542; Dalla Corte, Storia di Verona, ivi 1590; Moscardo, Historia di Verona, ivi 1668; Carli, Istoria della città di Verona, ivi 1796; Venturi, Compendio, ecc., ivi 1825; C. Cipolla, Compendio, ecc., ivi 1899; L. Simeoni, Verona, Roma 1929; Biancolini, Dei vescovi e governatori, ecc., Verona 1717-60; Ughelli, Italia sacra, V: Episcopi Veronenses, Venezia 1712-22; Maffei, Verona illustrata, Verona 1732; Biancolini, Notizie sulle chiese, voll. 8, ivi 1749-57; Da Lisca, La fortificazione a Verona, ecc., ivi 1916; L. Simeoni, Le origini del comune di Verona, in Nuovo arch. veneto, 1913; id., Il comune di Verona sino ad Ezzelino e il suo primo statuto, Venezia 1920; id., Il comune rurale nel terr. veronese, 1920; J. M. Gittermann, Ezzelin von Romano, Stoccarda 1890; L. Simeoni, La formazione della Signoria Scaligera, Verona 1926; H. Spangenberg, Cangrande I della Scala, Berlino 1892-1895; G. De Stefani, Bartolomeo e Antonio della Scala, Verona 1884; Galli, La dominazione viscontea a Verona, Milano 1927; G. Bolognini, Verona e la Lega di Cambrai, Verona 1904; O. Perini, Storia di Verona dal 1790 al 1822, ivi 1873-1876; E. Bevilacqua, Le Pasque veronesi, ivi 1897; G. Biadego, La dominazione austriaca e il sentimento pubblico a Verona, Roma 1899; G. Polver, Radetzky a Verona nel 1848, Verona 1913; G. B. C. Giuliari, Le fonti prime della storia veronese, Verona 1880; C. Cipolla, Fonti edite della regia veneta sino al sec. X, Venezia 1882-84; G. Biadego e A. Avena, Fonti della storia di Verona nel Risorgimento (1796-1870), Verona 1906; Da Persico, Descrizione di V. e provincia, ivi 1820-21; Belviglieri, Verona e sua provincia, in Grande illustr. del Lombardo-Veneto, II, Milano 1860; L. Sormani Moretti, La provincia di Verona, Verona 1904; L. Simeoni, Verona, guida stor. artistica, ivi 1909.

Arte della stampa.

Il primo libro a stampa apparso a Verona, il De re militari di R. Valturio, è un volume celebre per essere ornato da 84 figure incise in legno, tratte da disegni esistenti in un codice del 1462 e attribuiti a Matteo de' Pasti: impresso da un Giovanni da Verona nel 1472, esso è uno dei primissimi libri italiani (forse il secondo) con xilografie. Dopo tale anno una inesplicabile lacuna ci conduce al 1478, quando i fratelli Giovanni e Alberto Aluise stabilirono una tipografia da cui uscirono sei volumi, e fra essi l'Arte di ben morire (28 aprile 1478) e il celeberrimo Esopo del 26 giugno 1479, il primo col testo italiano delle Favole, arricchito di 66 xilografie oltremodo interessanti. Dopo, nel 1480, il francese P. Maufer, già attivo tipografo a Padova, vi stampò la bella edizione del De bello Judaico di Giuseppe Flavio. L'anno seguente Boninus de Boninis (v.) di Ragusa pubblicò le due opere di Flavio Biondo, Roma instaurata e Italia illustrata (1481, 1482) e i due testi, latino e volgare, dell'opera di Valturio (13 e 17 febbraio 1843), ornati di xilografie copiate da quelle già apparse nella prima edizione del 1472. Un Paolo Fridenberger, di Passau, pubblicò il 28 settembre 1486 il De rerum natura di Lucrezio e con gli stessi tipi si conoscono impressi alcuni altri libretti del 1489 e 1490.

Bibl.: G. Fumagalli, Lexicon Typogr. Italiae, Firenze 1905, pp. 512-515; Catal. of Books printed in the XV Century now in the British Museum, VII, Londra 1935, pp. xlix e 948-54.

Il congresso di Verona.

Fu l'ultimo dei grandi congressi della Restaurazione: aperto nell'ottobre, si chiuse nel dicembre 1822. Vi convennero gl'imperatori d'Austria e di Russia, e tutti i sovrani italiani, salvo il papa. Le grandi potenze erano rappresentate dal Metternich e dal Lebzeltern per l'Austria; dal Nesselrode, dal Tatiščev, dal Lieven, dal Pozzo di Borgo per la Russia; dal Hardenberg, dal Bernstorff, dal Hatzfeld per la Prussia; dal Wellington, dal Vane-Londonderry, dallo Strangford Canning per l'Inghilterra; dal Montmorency, dallo Chateaubriand, dal Caraman, dal La Ferronnays, dal de Serre per la Francia. I plenipotenziarî degli stati italiani erano il conte La Tour per il Piemonte, il principe Ruffo per Napoli, il cardinale Spina per lo Stato Pontificio, il principe Corsini per la Toscana e il marchese Molza per Modena. Ma, come in tutti i congressi della Restaurazione, le decisioni del congresso furono dovute principalmente a poche persone: al Metternich, al Nesselrode, al Montmorency, al Wellington, che trattarono degli affari più importanti non nelle riunioni ufficiali, bensì nelle loro conversazioni private.

In origine il congresso di Verona avrebbe dovuto trattare solo delle questioni inerenti all'Italia, cioè all'esecuzione dei deliberati del congresso di Lubiana, e all'occupazione austriaca di Napoli e del Piemonte in seguito ai moti del 1820 e del 1821, ma la questione greca e più la questione spagnola finirono col prendere il sopravvento sulle questioni italiane.

Per l'Italia, non vi furono grandi discussioni. Letto un rapporto del La Tour sulle buone condizioni interne del Piemonte nella seduta del 3 dicembre, si decise che quel regno sarebbe stato sgombrato entro il 1° ottobre 1823 da tutte le truppe austriache. Per la successione al trono di Sardegna, si riconfermò la successione nella linea di Savoia Carignano, impersonata da Carlo Alberto, conformemente all'articolo 86 (non 860, come erroneamente si scrive sulle tracce del Bianchi) dell'atto finale del congresso di Vienna, e Carlo Alberto cominciò a riacquistare la fiducia delle potenze, che aveva perduto dopo i moti del 1821. Quanto al regno di Napoli, l'8 dicembre, il Ruffo chiese la riduzione del corpo d'occupazione austriaco e quella delle Consulte delle Due Sicilie da due, come erano state stabilite a Lubiana il 20 febbraio 1821, a una, per la maggiore unità del regno e per combattere il particolarismo siciliano. Le potenze acconsentirono all'una e all'altra domanda. Nella seduta del 13 dicembre, infine, mentre il cardinale Spina e il Corsini fecero l'apologia del governo moderato dei loro stati, il marchese Molza sviluppò le idee reazionarie del duca Francesco IV di Modena. In complesso l'Austria mantenne la sua influenza nella penisola, ma non riuscì a far trionfare un sistema unico postale e un sistema unico di polizia per tutta l'Italia, perché il cardinale Spina vi si oppose tenacemente e il Montmorency lo sostenne con molto impegno. Il piano, costantemente perseguito dal Metternich, di avere integralmente in pugno l'Italia, in un modo qualsiasi, subiva un altro scacco.

Neanche vi furono grandi contrasti nella questione greca, perché la soluzione, o, per essere più esatti, la non soluzione di essa era stata preparata da un pezzo con laboriose trattative diplomatiche. Fin dall'ottobre 1821, nel convegno di Hannover, il ministro degli esteri inglese, lord Castlereagh, che riteneva l'esistenza dell'impero Turco un male necessario, si era messo d'accordo col Metternich per impedire qualsiasi modificazione all'assetto territoriale della penisola balcanica. E, lavorando abilmente da allora, la diplomazia anglo-austriaca riuscì a separare nelle questioni russo-turche le questioni vertenti sull'esecuzione di alcuni articoli del trattato di Bucarest del 1812 (nomina degli ospodari e occupazione militare dei principati di Moldavia e Valacchia, protezione della religione greco-ortodossa, ecc.) da quella della rivoluzione greca: nelle prime la Russia aveva ragione e meritava l'appoggio del concerto delle grandi potenze, ma nella seconda la Russia non avrebbe dovuto disconoscere quel carattere rivoluzionario, che essa aveva combattuto ai congressi di Troppau e di Lubiana, allorché si era trattato dei moti di Napoli. La Russia aderì a questo punto di vista e il congresso di Verona fu su tale oggetto un idillio. I plenipotenziarî greci, conte Andrea Metaxas e conte Jourdain, non furono neppure ammessi al congresso. Metternich fece grandi lodi alla saggezza dell'imperatore Alessandro. L'imperatore Alessandro e l'ambasciatore inglese a Costantinopoli, Strangford Canning, che era stato il più scaltro avversario della politica russa, fecero pace. Infine, nella seduta del 26 novembre, lord Wellington concluse che gli ospodari sarebbero stati nominati, i principati sarebbero stati evacuati e la religione greco-ortodossa sarebbe stata rispettata: tutto ciò sarebbe stato appoggiato a Costantinopoli da Strangford Canning, il quale avrebbe fatte sue le giuste richieste russe.

Conciliante negli affari d'Italia, arrendevole in quelli di Grecia, l'imperatore Alessandro fu fermo e intransigente in quelli di Spagna e giunse a dire che se la Francia, cui spettava l'impresa per la contiguità territoriale, non avesse voluto o non avesse potuto incaricarsi di rimettere con la forza il re di Spagna nel pieno esercizio delle sue funzioni, lo avrebbe fatto la Russia. Ai plenipotenziarî francesi, il visconte di Montmorency prima, il visconte di Chateaubriand poi, la cosa sorrideva: era l'occasione agognata per mostrare che la cocarde blanche valait bien la cocarde tricolore: trasformandosi in campione del principio di legittimità nel quadro della Santa Alleanza, la Francia avrebbe finito col riacquistare la sua influenza in Europa. Il progetto incontrò l'opposizione di lord Wellington, ma, ciò nonostante, fu approvato e, il 21 novembre 1822, venne dato alla Francia il mandato d'intervenire in Spagna.

Riuscì, invece, lord Wellington ad evitare ogni discussione sull'intervento nelle colonie ribelli dell'America spagnola, ma un corrispondente del Morning Chronicle trasmise al suo giornale il testo d'un trattato segreto, che pretendeva essere stato firmato a Verona e che sembrava toccare anche questo punto. Tale rivelazione sensazionale commosse l'opinione pubblica negli Stati Uniti e contribuì a creare quello stato d'animo donde scaturì la formulazione della dottrina di Monroe.

Il congresso di Verona segnò la fine dell'alleanza delle grandi potenze, così come era uscita dalle lotte da esse sostenute contro Napoleone, e il trionfo della Santa Alleanza.

Bibl.: Per un quadro d'insieme: A. Stern, Geschichte Europas seit den Verträgen vom 1815 bis zum Frankfurter Frieden von 1871, II, Stoccarda 1894. Per le questioni italiane: N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall'anno 1814 all'anno 1861, II, Torino 1865, pp. 107-145; N. Rodolico, Carlo Alberto principe di Carignano, Firenze 1931. Per la questione greca: E. Driault-M. Lhéritier, Histoire diplomatique de la Grèce de 1821 à nos jours, I, Parigi 1925, pp. 187-194. Per la questione spagnola: J. Becker, Historia de las relaciones exteriores de Espana durante el siglo XIX, I, Madrid 1924. Per i legami tra il congresso di Verona e la dottrina di Monroe: T. R. Schellenberg, The secret treaty of Verona; a newspaper forgery, in Journal of Modern History, VII (1935), pp. 280-91. Per la politica inglese: H. Temperley, The foreign policy of Canning, Londra 1925. Per la politica francese: R. Chateaubriand, Le Congrès de Vérone, Parigi 1838, su cui cfr. H. Temperley, Canning and the conferences of the four Allied Governments at Paris, in American Historical Review, ottobre 1924, e J. Deschamps, Chateaubriand en Angleterre, Parigi 1934. Per la politica russa: Waliszewski, Le règne d'Alexandre I, II, ivi 1924. Per la politica austriaca: H. von Srbik, Metternich. Der Staatsmann und der Mensch, I, Monaco 1925.

La provincia di Verona.

La provincia di Verona dopo le ultime modificazioni territoriali del 1923 ha una superficie di kmq. 3096,52: sono improduttivi ha. 32.670, pari al 10,5%, mentre l'89,5% costituisce la superficie agraria e forestale i cui 277.154 ha. sono così divisi: ha. 48.340 appartengono alla regione di montagna, 69.309 alla zona collinare, e 135.691 si trovano nella pianura, con prevalenza assoluta quindi di queste ultime regioni.

Il confine della Venezia Tridentina, per note ragioni storiche, soltanto la zona più elevata del Monte Baldo e quella tra il Corno d'Aquiglio e il gruppo della Cima di Posta. Più sviluppata la zona collinare, sia sulla destra dell'Adige dove le pendici meridionali del Baldo si continuano nell'anfiteatro morenico del Garda, sia sulla sinistra dove tra Adige e Alpone si allargano a ventaglio le catene dei Lessini cui si interpongono la Valpolicella con le minori vallette di Negrar, di Avesa, di Quinzano, la Valpantena e le valli di Mizzole, di Mezzane e di Illasi e infine quelle della Tramigna e dell'Alpone. La strada da Verona a Vicenza segna quasi dappertutto il limite della regione collinare. Verso mezzodì la provincia si allarga nella bassa pianura sulle due rive dell'Adige e si raccorda con la regione di Ostiglia (Mantova) e col Polesine nella zona delle Grandi Valli Veronesi, già impaludate dalle acque del Tartaro e dell'Adige e bonificate nella seconda metà del secolo passato.

La popolazione secondo il censimento del 1931 è di 563.159 ed il 41,48% sparsa in case isolate o in aggregati elementari. Oltre al capoluogo di provincia, hanno notevole importanza come centri di ricche plaghe agricole e come mercati Caprino, Soave e Monteforte nella zona collinare, Villafranca, Zevio e Sambonifacio nella alta pianura, Legnago, Cerea, Isola della Scala e Cologna Veneta nella bassa. Si tratta di grossi comuni con forte numero di abitanti, ma la popolazione del centro principale oscilla fra tre e quattro mila anime: solo Legnago concentra 5224 abitanti.

La vita economica si basa principalmente sull'agricoltura. Posto preminente ha la coltura dei cereali cui vengono dedicati in media 80.000 ha.: la produzione media annua si aggira su q. 900.000 di frumento, q. 700.000 di granoturco e q. 100.000 di risone. Seguono le colture industriali della barbabietola da zucchero, del tabacco e del ricino, ma importanza anche superiore hanno quelle ortofrutticole e specialmente la produzione delle pesche, dei cocomeri, dei legumi e degli asparagi largamente esportati. Un posto particolare spetta alla viticoltura con circa 800.000 q. di produzione annua e con vini pregiati come il Valpolicella, il Soave, il Bardolino, ecc.

Completano il quadro dell'attività agraria l'allevamento del baco da seta abbastanza diffuso nella zona collinare con una produzione media di un milione di kg. di bozzoli, e il patrimonio zootecnico con 136.000 bovini, 15.000 cavalli, 27.000 suini e 18.000 pecore.

Degne di menzione le opere di bonifica, che hanno ridato all'agricoltura i terreni paludosi esistenti presso la confluenza dell'Alpone in Adige (Zerpa) e le Grandi Valli Veronesi, e le opere d'irrigazione che nella zona bassa utilizzano i fontanili, mentre nell'alta pianura, arida e sassosa, derivano acque abbondanti dall'Adige, consentendo largo sviluppo alla frutticoltura.

L'industria è, in complesso, modesta: le industrie minerarie comprendono l'estrazione dei celebri marmi colorati di Sant'Ambrogio, delle terre coloranti del veronese, dei calcari da costruzione, da calce, e da cemento, dell'argilla per laterizî e della ghiaia; si aggiunge una piccola produzione di lignite e di scisti bituminosi nel territorio di San Giovanni Ilarione.

Le industrie siderurgiche e metallurgiche hanno proporzioni modeste e impiegano in complesso 1800 operai, mentre uno sviluppo più notevole segnano le industrie edilizie, specialmente le fornaci da laterizî e le fabbriche di granulati, e le industrie chimiche che producono superfosfati, saponi, liscive e solfato di rame. Tra le industrie alimentari meritano particolare ricordo la pilatura del riso e la molitura dei cereali che hanno una tradizione antica, per quanto oramai abbiano sostituito alla forza idraulica, prima prevalente, l'energia idroelettrica. Quattro zuccherifici, che lavorano anche barbabietole prodotte nelle vicine provincie, forniscono annualmente circa 250.000 quintali di zucchero e 70.000 quintali di sciroppi e di melasse. Le industrie tessili segnano purtroppo un continuo declino: le filande per la trattura della seta contano in complesso 1100 bacinelle, mentre l'industria cotoniera ha circa 54.000 fusi e 300 telai; per la lavorazione della lana sono in attività 14.000 fusi e 300 telai.

L'industria idroelettrica trova nell'acqua dell'Adige la principale fonte di energia, e conta una diecina di medie e piccole centrali con 16.700 kW installati.