GAMBARA, Veronica

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GAMBARA, Veronica

Franco Pignatti

, Veronica. - Nacque a Pralboino, presso Brescia, feudo della famiglia Gambara, nella notte tra il 29 e il 30 nov. 1485, dal conte Gianfrancesco e da Alda Pio, della famiglia dei signori di Carpi.

Non si hanno notizie sulla sua infanzia e sulla sua educazione (mera ipotesi è che abbia avuto come precettore Giovanni Britannico, insegnante di grammatica a Brescia nei primi anni del sec. XVI), che dovette contemplare l'apprendimento del latino, mentre è inverosimile quello del greco, così come la notizia riportata da alcuni biografi che la G. si applicasse a studi filosofici, arrivando a conseguire il dottorato, e alle lettere sacre, interesse quest'ultimo invece abbastanza accertato per gli anni della maturità. Sicura è invece la precocità dell'esercizio poetico, come testimoniano la pubblicazione di un componimento (nr. 10 dell'ed. Bullock) nelle Frottole. Libro quinto, Venezia, O. Petrucci, 1505 e una affettuosa lettera di Pietro Bembo dell'11 sett. 1504, nella quale viene fatto esplicito riferimento alle poesie della G. e si ricava che la conoscenza tra i due risaliva a due anni prima.

Evento decisivo nella vita della G. fu il matrimonio con il conte Giberto (X) da Correggio, rimasto vedovo, senza discendenza maschile, di Violante Pico. Il contratto, che prevedeva una dote di 4000 ducati d'oro e una controdote di 2000 ducati, fu concluso per procura nel 1507, ma per celebrare le nozze si dovette attendere la dispensa papale (emessa il 6 ott. 1508), a causa dei vincoli di consanguineità che legavano i due sposi in virtù delle rispettive madri, l'una figlia e l'altra pronipote di Marco Pio. La G. si stabilì a Correggio solo nel corso del 1509 e diede presto al marito la sospirata prole maschile: Ippolito ricevette il battesimo il 27 genn. 1510, avendo come padrini il cardinale Ippolito d'Este e Isabella d'Este, moglie di Francesco Gonzaga; Girolamo fu battezzato il 17 febbr. 1511. Recatasi a Brescia con i due figli piccoli per riunirsi con i familiari in occasione della morte del padre, occorsa allo scadere del 1511, la G. si trovava nella città quando (nel febbraio 1512) essa insorse contro il dominio francese per istigazione dei Veneziani e riuscì a sfuggire al saccheggio del palazzo avito e alle violenze rifugiandosi con la madre nella rocca. Riacquistò la libertà poco dopo grazie al fulmineo intervento delle truppe francesi guidate da Gaston de Foix. Nel 1515 fu a Bologna con Giberto in occasione dell'incontro tra il re di Francia Francesco I e il papa Leone X. Le cure per una grave malattia contratta dopo il secondo parto la avrebbero resa incapace di procreare, tuttavia il legame con il marito sussistette saldo nella stima e nell'affetto reciproco fino alla morte di Giberto, sopravvenuta il 26 ag. 1518, alla cui postuma fedeltà la vedova si votò, respingendo l'ipotesi di seconde nozze e imponendo alla piccola corte correggesca un'austerità confacente al suo stato vedovile. Costituita dal defunto usufruttuaria dei suoi beni e tutrice dei figli, la G. fu assorbita dalle cure dell'amministrazione dello Stato e della sistemazione della prole, comprese le due figlie di primo letto di Giberto. Si dimostrò all'altezza della responsabilità, rivelando un'indole energica e pratica, e una chiara coscienza della politica di prudente e guardinga amicizia cui la piccola contea di Correggio era obbligata se voleva garantire la sua indipendenza a contatto con i potenti vicini, più di loro esposta alle conseguenze militari e politiche del conflitto tra le grandi potenze. La lettura lungimirante della situazione determinatasi nell'Italia settentrionale portò la G. ad abbandonare il tradizionale orientamento filofrancese dei feudatari padani, seguito anche dalla famiglia patema, per legare con sempre maggior determinazione le sorti dello Stato al partito imperiale (nel 1520 il feudo ricevette una nuova investitura da Carlo V), secondo una linea che caratterizzò la politica della contea fino al termine del sec. XVI. Al contempo, l'atteggiamento di prudente e tenace amministratrice delle proprie fortune si evidenzia nella politica familiare, condotta con sagacia appoggiandosi ai potenti fratelli e finalizzata a consolidare le sorti dello Stato attraverso la scalata a cariche prestigiose. Onde evitare divisioni dell'esiguo patrimonio, Ippolito fu destinato alla successione e, dopo avere ricevuto la necessaria istruzione, avviato al mestiere delle armi, che esercitò sotto le insegne cesaree; Girolamo abbracciò lo stato ecclesiastico.

Nel 1528 Clemente VII inviò Uberto Gambara a Bologna in qualità di governatore e col titolo di vicelegato del cardo Innocenzo Cibo. La G. si affrettò a inviare il secondogenito presso lo zio, affinché si impratichisse dei maneggi diplomatici, e a ottenere per Ippolito una condotta nell'esercito imperiale. Verso la fine dell'anno si trasferì lei stessa a Bologna, allestendovi una dimora confacente: nella città si trovava anche l'altro fratello Brunoro, esule da Brescia occupata dai Veneziani (a Bologna nel 1529 celebrò le nozze con Virginia Pallavicini vedova di Ranuccio Farnese). In una posizione di primo piano grazie alla parentela col governatore, la G. si trovò a godere di un rango prestigioso in occasione dell'incontro tra il papa e l'imperatore avvenuto nel 1529-30 e poté assistere ai riconoscimenti tributati a Uberto e Brunoro, i quali, nella pace che fu conclusa dall'imperatore con Venezia, ottennero la restituzione di tutti i feudi di famiglia usurpati durante la guerra. Al contempo, la fama che si era acquisita con le sue rime e la presenza dei più celebri letterati del tempo convenuti a Bologna consentirono alla G. di intensificare le frequentazioni erudite e di intrattenere relazioni che nella provinciale Correggio non aveva potuto che coltivare per via epistolare: nella casa di Bologna ricevette P. Bernbo, Francesco Maria Molza, Bernardo Cappello, Giovanni Mauro, Gian Giorgio Trissino. Il favore imperiale e la stima che circondava la G. si concretarono specialmente nella tappa di due giorni che Carlo V fece a Correggio dal 23 marzo 1530, sulla via del ritorno in Germania. Lo sfarzo e la dedizione profuse nell'accogliere il sovrano valsero come prezioso guiderdone per la salvaguardia del territorio correggesco dai danni delle prossime guerre (ai capitani cesarei, salvo diverso mandato imperiale, fu interdetto di transitare per il territorio della contea e di stanziarvi guarnigioni). La garanzia imperiale non impedì tuttavia che Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, già nel 1531, si portasse nella contea con le sue truppe spagnole, provocando danni considerevoli. Il transito della corte cesarea concluse anche la breve parentesi mondana bolognese, dato che Uberto segui l'imperatore in Gennania in qualità di legato pontificio e la G. rientrò definitivamente a Correggio. Nell'epistolario resta traccia solo di alcuni brevi soggiorni a Bologna; dell'autunno 1532 è il viaggio a Verolanuova nel Bresciano, che la G. celebrò con accenti accorati nel sonetto «Poiché per mia ventura a veder torno» (m. 37 dell'ed. Bullock) e nelle quattro ottave in lode di Brescia (m. 43). Nel gennaio 1533 era a Correggio per accogliere di nuovo Carlo V giunto in Italia per un nuovo abboccamento con Clemente VII e nel giugno dello stesso anno a Venezia. A questo periodo risalgono anche le trattative per il matrimonio di Ippolito, distintosi nelle guerre contro la Repubblica di Firenze.

Ippolito sposò Chiara di Correggio, figlia ed erede universale del cugino Gianfrancesco. L'unione, evidente frutto di un'accorta politica matrimoniale tesa a concentrare nelle mani di Ippolito le sorti patrimoniali e dinastiche del piccolo Stato, fu conclusa nel 1534, ma le nozze, per la tenera età della sposa (Chiara era nata nel 1527), furono celebrate nel 1541, una volta ottenuta la necessaria dispensa. Dal matrimonio nacquero quattro figli, dei quali sopravvisse solo Fulvia, andata sposa a Ludovico (II) Pico e madre di Alessandro duca della Mirandola.

Nel 1538, quando Galeotto Pico invase la contea di Correggio, la G. difese lo Stato con la forza e respinse l'aggressore, poi affrontò con coraggio la pestilenza che si diffuse tra i sudditi. Le sorti della contea si erano intanto legate saldamente al partito imperiale (Ippolito continuò a guerreggiare sotto le insegne del marchese del Vasto), mentre buoni rapporti intercorrevano con Paolo III e con i suoi potenti nipoti, che determinarono un atteggiamento di acquiescenza nei confronti della creazione del Ducato di Panna e Piacenza, alla quale Uberto Gambara (già cardinale nel '39) diede il suo fattivo contributo diplomatico. Ippolito soggiornò alla corte di Parma, ospite di Pierluigi e di Ottavio, del quale ultimo fu fiduciario, se nel 1549 fu spedito alla corte imperiale nel tentativo di scongiurare l'impegno di Carlo V nella guerra contro Parma. Il che non impedì naturalmente che nel conflitto poi scoppiato Ippolito militasse nell'esercito cesareo contro Ottavio.

In tutti questi anni non erano cessati gli studi poetici e il carteggio con letterati, con i quali la G. intrattenne una corrispondenza intensa e ricca di spessore, senza che, a differenza di altre donne colte contemporanee, si curasse di raccoglierla in vista della costituzione di un libro di lettere. Ciò comporta che le epistole subirono una inevitabile dispersione e l'interesse fiorito in clima erudito sette-ottocentesco intorno alla sua scrittura privata ha consentito una ricostruzione solo parziale, attraverso ritrovamenti fortunosi (in mancanza di autografi) di copialettere idiografi e di apografi cinquecenteschi, di manipoli di lettere o di lettere sparse in archivi locali o familiari. Le perdite maggiori riguardano il carteggio con Pietro Bembo e le lettere che la G. dovette scambiare con Vittoria Colonna, con i membri della casa Gonzaga, con Isabella d'Este, con i Farnese, con i familiari e i figli della cognata Virginia Pallavicini; del carteggio con Gian Giorgio Trissino conserviamo due sole lettere, l'una del 1505, l'altra del 1506; una lettera senza data è indirizzata a Bernardo Tasso (che menziona la G. in Amadigi XXXV, 4 e XLIV, 70). Nella corrispondenza con il Bembo, dopo la lettera del 1504, subentra un vuoto fino al 1523 per quanto riguarda il poeta e fino al 1529 per la Gambara. Le dieci lettere sopravvissute testimoniano un rapporto di reciproca stima e devozione, in cui il prestigioso letterato non esitava ad aprire il suo animo alla corrispondente e questa sottoponeva i suoi componimenti al vaglio di lui con il rispetto dovuto a un maestro, ricevendone apprezzamenti e giudizi lusinghieri. Undici lettere hanno come destinatario Pietro Aretino, con il quale la G. intrattenne, ricambiata, un rapporto rispettoso, che dimostra da parte della donna l'accortezza di curare relazioni con il dinamico ambiente culturale veneziano anche nel versante opposto a quello del classicismo petrarchistico da lei praticato (ci è giunta anche una lettera a Lodovico Dolce del 28 apr. 1537). Nel complesso, la dimensione privata e intimista cui la G. ispirò la sua scrittura epistolare, rifuggendo dalla tentazione di costruirsi un autoritratto convenzionale ad memoriam, lascia una testimonianza autentica, sostenuta da un eccellente livello stilistico (diverse epistole furono edite in miscellanee cinquecentesche), della consuetudine di civile conversazione tipica del mondo cortigiano cinquecentesco, facendo intravvedere un ordito piuttosto fitto di relazioni intellettuali che, nel naufragio della maggior parte dell'epistolario, possiamo intuire ruotasse intorno alla signora di Corteggio. A testimoniare il prestigio conquistato dalla poetessa stanno le menzioni del suo nome, oltre che nell'Amadigi, nel De poetis di Lilio Gregorio Giraldi e nell'Orlando furioso (XLVI, 3). Uno degli esemplari in pergamena dell'edizione del 1532 del poema ariostesco reca il nome della G., cui fu destinata in omaggio. L'Ariosto era stato a Corteggio l'anno prima per chiedere protezione alle truppe spagnole del marchese del Vasto ivi acquartierate, su incarico di Ercole d'Este, preoccupato dalla minaccia che l'esercito pontificio adunato a Bologna rappresentava per il feudo di Carpi. A Corteggio il poeta ottenne dall'Avalos una pensione di 100 ducati, dietro la quale è forse da vedere l'influenza della G. (l'atto di donazione fu firmato nel palazzo dei signori di Corteggio il 18 ott. 1531).

Non diversamente dalle lettere, anche per le rime, cui il rilievo della G. nella letteratura cinquecentesca è principalmente legato, la poetessa non si curò di dare un assetto organico ai suoi versi, che giacciono dispersi nei manoscritti e in non meno di ottanta raccolte di poesie tra il 1505 e il 1754. In assenza del progetto riconoscibile di un canzoniere, nonché di elementi affidabili per una datazione, a partire dalla raccolta Rizzardi (Rime e lettere, Brescia 1759), che ha costituito il testo di riferimento fino all'edizione critica di A. Bullock, i componimenti sono stati ordinati secondo nuclei tematici. Le rime della G., ammontanti nell'edizione Bullock al numero di 67, rivelano una declinazione calibrata e sapiente dei registri tematici e stilistici della lirica petrarchistica contemporanea, che la poetessa acquisì essenzialmente attraverso il magistero del Bembo. Ne sono esempio cospicuo e sentito l'insistenza sul tema degli occhi (per esempio nei sonetti dedicati agli occhi del marito Giberto: nn. 20-23), che mostra una ricezione del livello più spirituale e intimista della tematica amorosa. Accanto all'altro tema ricorrente della contemplazione della natura e dei riflessi che essa suscita nella vita interiore, non mancano componimenti legati a circostanze più esterne o destinati a personaggi con cui la G. fu in relazione. Senza per questo immiserire l'esercizio poetico nella rimeria d'occasione o nell'omaggio convenzionale, le rime della G. riflettono, in forma più interiorizzata che le epistole, l'esigenza di comunione intellettuale raffinata ed elegante, ora disponibile a intrecciarsi a un levigatissimo esercizio formale. Tra i soggetti cantati dalla poetessa sono il matrimonio del fratello Brunoro con Virginia Pallavicini (n. 35), il ricordo indirizzato ad Alfonso d'Avalos della sposa lontana (nn. 32-33), la celebrazione postuma della Morosina dedicata al Bembo (nr. 51) e di Angela Tornibeni da Padova (nr. 50), la donna amata dall'Aretino, per la quale egli sollecitò diversi letterati a comporre versi. Non mancano echi di avvenimenti politici con i sonetti composti in occasione dell'impresa di Tunisi del 1535 e inneggianti a Carlo V (nn. 4448) e quelli celebrativi di Paolo III (nn. 59, 61); ma più che il registro encomiastico sono rappresentativi dell'ispirazione della G. i sonetti in morte del Bembo (nn. 63-65), nei quali immagina il paradiso che si rallegra nell'accogliere illetterato, e il manipolo di rime sacre (nn. 55-58), che testimoniano la coniugazione in felice equilibrio dell'impronta spirituale insita nella corrente petrarchistica e di sentimenti religiosi autentici, immuni dagli irrigidimenti devozionali della Controriforma imminente. Degli anni della vedovanza pare certo, infatti, l'approdo a letture sacre, che testimonia la ricettività verso le istanze riformatrici e moralizzatrici acutizzatesi durante il papato di Paolo III e destinate a concretizzarsi nel concilio Tridentino, che la G. recepì in maniera precoce e con sensibilità sincera. Lettere del decennio Quaranta-Cinquanta sono attinenti a questioni religiose: la G. prende posizione contro Bernardino Ochino e si informa sulle vicende del concilio, il che fa pensare a uno scambio epistolare andato perduto su questi temi tra Correggio, la corte di Parma, Roma e i corrispondenti bolognesi della Gambara.

Esauriti i compiti di educare i figli e di gestire durante la minore età di Ippolito le sorti della piccola contea, una volta salito il figlio al vertice dello Stato e avviata la carriera di Girolamo nella gerarchia ecclesiastica, la vita della G. prese un tenore più intimo e privato. Alla permanenza nel palazzo cittadino preferì il soggiorno nel casino suburbano (quello stesso dove aveva soggiornato Carlo V durante le sue visite) fatto edificare da Nicolò (Il) da Correggio e secondo la tradizione adornato in alcune stanze da alcune opere di Antonio Allegri (una lettera della G. del 1528 descrive una Maddalena nel deserto appena eseguita dall' Allegri: cfr. Q. Bigi, Della vita e delle opere... di Antonio Allegri detto il Correggio, Modena 1880, p. 69). Nel 1549 compì un viaggio a Mantova insieme con la nuora su invito di Margherita Gonzaga, in occasione delle nozze di Francesco III con Caterina d'Asburgo.

Tornata in patria, la G. si spense il 13 giugno 1550. Il giorno seguente fu inumata accanto al marito nella chiesa di S. Domenico, mausoleo dei Correggio.

Secondo il letterato correggese Rinaldo Corso, che le fu familiare e redasse dopo la sua morte un profilo biografico (Vira di Giberco III di Correggio detto il Difensore colla vita di V. G., Ancona, A. de Grandi, 1566, pp. 39-45), sarebbe stata portata al sepolcro con un ramo di ulivo e in bocca uno di lauro, a simboleggiare l'indole pacifica e il culto delle Muse. La Vita del Corso ci lascia altresì una descrizione fisica e morale della G., presentata come una donna austera, incline agli studi e alla meditazione, indifferente agli svaghi, all'esercizio fisico e alla stessa vita all'aperto «fuggiva l'aere», ma affabile e misurata, gradevole nella conversazione, clemente e immune dall'ira; unici difetti l'avere patteggiato troppo scopertamente per i suoi anche qualora fossero nell'errore ed essere stata vulnerabile all'adulazione. Alla complessione armoniosa delle membra corrisposero lineamenti non brutti ma non particolarmente delicati; fonti manoscritte la definiscono però più esplicitamente corpulenta. Nulla di queste caratteristiche poco felici si evidenzia nel ritratto di anonimo del sec. XVI conservato nel castello di Zoppola presso Brescia (riprodotto in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, tav. fuori testo a pp. 512 s.), che presenta un volto fine e aggraziato, nel quale andrà visto il risultato di un'idealizzazione postuma.

La situazione editoriale delle lettere è ricostruita da E. Selmi, Per l'epistolario di V. G., in V. G. e la poesia del suo tempo nell'Italia settentrionale. Atti del Convegno, Brescia-Correggio... 1985, a cura di C. Bozzetti - P. Gibellini - E. Sandal, Firenze 1989, pp. 143-181; quella delle Rime nell'edizione critica a cura di A. Bullock (Firenze-Perth 1995).

Fonti e Bibl.: Le fonti e la bibliografia sulla G. si ricavano esaustivamente fino al 1989 dal volume V. G. e la poesia del suo tempo nell'Italia settentrionale, cit.; inoltre: Italian women writers. A bio-bibliographical sourcebook, a cura di R. Russell, Westport 1994. Due lettere del Bembo alla G. si leggono ora nell'ed. critica dell'epistolario bembiano a cura di E. Travi, I, Bologna 1987, pp. 179 s.; II, ibid. 1990, pp. 182 s.

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