Vescovi/2: dalla svolta antimodernista a Pio XII

Cristiani d'Italia (2011)

Vescovi/2: dalla svolta antimodernista a Pio XII

Roberto P. Violi

Antimodernismo e nazionalizzazione dell’episcopato

L’episcopato italiano, su cui ancora si rifletteva, all’atto dell’elezione di Pio X, la varietà delle tradizioni ecclesiastiche preunitarie, visse, nel corso del pontificato, il tempo del decollo industriale e il compimento della costruzione nazionale, culminata nelle celebrazioni cinquantenarie del 1911.

La prossimità al papa sarebbe stata ancora a lungo il principale tratto unificante dei vescovi in Italia1. Le conferenze episcopali, costituite al livello regionale da Leone XIII nel 1889, nel disconoscimento formale dello Stato unitario, subirono, nella lotta al modernismo, un riassestamento ai fini di una più cogente uniformazione pastorale, ma sempre nel rispetto della diversità delle aree del paese2.

Il centralismo curiale e le nomine episcopali extraregionali assecondarono, però, una prima pratica disposizione istituzionale sulla scala della nazione, mentre il controllo dottrinale e disciplinare rilevava nel governo delle diocesi articolazioni dovute non più solo allo storico pluralismo, quanto alle dinamiche molecolari della modernizzazione3.

Spiccarono, in questo quadro, alcune figure di vescovi che avrebbero segnato, nelle reti della successione episcopale, i caratteri della Chiesa in Italia nei decenni a venire4.

Il cardinale arcivescovo di Milano Andrea Carlo Ferrari, di queste figure, fu la più importante5. Di modesta famiglia della provincia parmense, di cultura intransigente, da professore e rettore di seminario a Parma si era schierato contro le dottrine rosminiane e per la ripresa del tomismo. Vescovo di Guastalla e poi di Como, dal 1894 era a capo di una diocesi vasta e complessa come quella ambrosiana, dotata di istituzioni importanti, di un clero eccellente e di un forte movimento cattolico, ancorché segnata da divisioni fra correnti intransigenti e gruppi conciliatoristi e moderati.

Ferrari privilegiò l’amore del vescovo per il suo popolo, ispirandosi a s. Carlo Borromeo. Nel contatto diretto della visita pastorale incontrava il clero, predicava e spiegava la dottrina cristiana ai fedeli, suscitando una grande corrispondenza popolare. Poté così osservare le ricadute sulla fede che derivavano dalla crisi dei ceti rurali, dalla formazione della classe operaia, dal diffondersi dell’ideologia socialista e dal rapporto che s’intensificava tra città e campagna.

Ferrari valorizzò il sistema normativo borromeano, conseguendo una strumentazione organica e unitaria per il governo della diocesi e l’integrazione pastorale del territorio regionale, interessato dagli effetti della trasformazione industriale, accrescendo il peso della provincia ecclesiastica lombarda, anche come modello per l’episcopato del Nord e di altre parti del paese.

La difesa della fede, della purezza dei costumi e dell’unità dottrinale, incentrata sulla coesione derivante dalla tradizione ambrosiana e dal suo riferimento alla sede romana, costituì una risposta in proprio di Ferrari e dei vescovi della regione al modernismo6. La cultura ecclesiastica lombarda del primo Novecento, mentre riaffermava l’integrità dogmatica dell’insegnamento della Chiesa, si affidava alla modernità del metodo per corrispondere al progresso delle scienze e ai mutati bisogni sociali7.

La rifondazione cristiana di una società in cui apparivano sulla scena pubblica le classi popolari comportò per Ferrari anche la necessità di valutare in termini nuovi l’atteggiamento politico dei cattolici.

La forza della Chiesa in Lombardia corrispose al ruolo di Milano come centro direttivo della vita economica e civile nazionale8. L’originalità culturale dell’antimodernismo lombardo, le implicazioni del clero nelle prospettive di un laicato incline alla democrazia politica, la proiezione della Chiesa sul piano dell’opinione pubblica e del dibattito culturale, attraverso gli organi della stampa cattolica milanese, costituirono le ragioni di un attrito con Roma e con il progetto perseguito da Pio X, centrato sulla conformità dei vescovi al magistero del papa, garante dell’integrità della dottrina e del conseguente ritorno ai fondamenti cristiani della società. Il ruolo della stampa cattolica milanese provocò forti tensioni tra il papa e Ferrari e una serie di attacchi dell’organo della vecchia intransigenza veneta, «La Riscossa», lanciarono pesanti sospetti sulle caratterizzazioni del cattolicesimo lombardo9. La visita apostolica ai seminari della diocesi nel 1911, oltre che dai timori per il «modernismo pratico», mosse da una preoccupazione di ordine teologico che Pio X nutriva sull’efficacia della sorveglianza antimodernista di Ferrari e segnò, circa idee e metodi, un passaggio critico nel sistema della formazione del clero milanese10.

Dalla collegialità dei vescovi lombardi, essendone stata ormai contenuta l’influenza, si discostava Geremia Bonomelli, il cui lungo episcopato a Cremona, caratterizzato in senso transigente, si andava concludendo nel clima per lui sfavorevole dell’antimodernismo11.

Nella linea della tradizione ambrosiana, accanto a Ferrari, si poneva il vescovo di Bergamo, il piacentino Giacomo Radini Tedeschi, di estrazione urbana e aristocratica, figura notevole dell’intransigentismo, che era passato dalla Segreteria di Stato vaticana e dalla vita religiosa di Roma, da efficace predicatore e dirigente dell’Opera dei congressi, alla diretta cura delle anime12. La sua formazione giuridica e filosofica e la sua spiritualità di matrice ignaziana lo inducevano a una ferma difesa della fede. Radini ebbe affinità e amicizia con Achille Ratti e con altre personalità uscite come lui dal Seminario lombardo di Roma13. Fu a stretto contatto con un altro dei futuri pontefici lombardi, il giovane Angelo Roncalli, che fu suo segretario nella diocesi bergamasca e suo primo biografo e lo ebbe sempre come modello di vescovo14.

La visita pastorale condusse presto Radini a rivedere la sua prima immagine di Bergamo, come di una comunità cristiana ben integrata nell’equilibrio sociale garantito dall’autorità del vescovo, e a scoprire le tendenze secolari che l’industria diffusa introduceva nel territorio della diocesi, malgrado non vi si riscontrasse la stessa intensità dei mutamenti socioreligiosi dell’area milanese15.

Nel 1909 sottoscrisse la lista dei sostenitori dello sciopero degli operai tessili di Ranica, mosso dall’ansia di far valere l’insegnamento cristiano rispetto alla contrattazione del lavoro e a ogni estensione dell’esperienza umana e sociale16. Lontano da ogni idea evolutiva del dogma, senza superare la visione intransigente, vivificava interiormente il senso del proprio ministero nella novità dei tempi, ispirando anche il percorso spirituale e culturale del giovane Roncalli, che proprio allora avviava le sue prime indagini storiche17.

Nella contigua regione veneta, emergevano due nuovi vescovi, il primo dei quali, Luigi Pellizzo, di origine friulana e contadina, dal 1906 fu alla guida di una vasta e differenziata diocesi, prevalentemente rurale, come quella padovana18. Egli promosse le rivendicazioni sociali, la proiezione politica dei cattolici e la presenza pubblica della Chiesa, destando preoccupazioni nelle autorità civili per l’autonomia della sua condotta, che non si piegava a un docile adattamento clericomoderato. Per Pellizzo rientrava nei compiti di cura delle anime l’interesse per lo stato materiale dei contadini e degli operai, dati i rischi per la fede che egli vedeva nel socialismo19. Pellizzo riordinò l’insegnamento della dottrina cristiana e integrò la stampa e l’azione cattolica fra i mezzi del governo della diocesi. Ricorse nella visita pastorale a una nuova cultura del vescovo, capace di comprendere i mutamenti della società, e si richiamò alla tradizione padovana della riforma tridentina e della formazione del clero, iniziata nel secolo XVII da Gregorio Barbarigo.

Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza dal 1911, esponente di una cultura ecclesiastica che avversava sul campo il positivismo, era stato docente di discipline scientifiche nel seminario di Pavia, in contatto con Pietro Maffi, Giovanni Cazzani e tutto un gruppo di vescovi formatisi nella diocesi lombarda20. A Vicenza gli toccò fronteggiare i vecchi intransigenti, guidati dai fratelli Scotton, ostili a ogni forma di superamento della pura protesta temporalista. Nella visita pastorale, osservò con metodo statistico la condizione economica dei ceti rurali, formulando un questionario ampio e articolato, che fu un modello anche in altre diocesi. Al centro dell’azione pastorale di Rodolfi, vi fu la parrocchia come baluardo della famiglia contadina e artigiana e dell’unità religiosa della società rurale, non ancora investita dall’effetto dirompente dell’industria, eppure segnata dalla diffusione del lavoro a domicilio a prevalenza femminile e dall’emigrazione, vista come minaccia alla fede e ai sani costumi21. Nelle comunità locali della diocesi vicentina risultava una tenuta solidale della società cristiana, per il numero di vocazioni e di opere sociali e religiose, a difesa della fede tradizionale dall’influenza urbana e dalle nuove ideologie politiche. Rodolfi riformò l’insegnamento della dottrina cristiana e l’omiletica letteraria dei parroci, promuovendo un’esposizione semplice, ma di solido ancoraggio teologico. Curò particolarmente la liturgia e si dedicò molto agli emigranti, assumendo, nel 1915, dopo la morte del Bonomelli, la presidenza dell’Opera che da questi, che l’aveva fondata, prendeva il nome.

Pellizzo e Rodolfi furono comunque toccati da accuse e delazioni presso la Curia romana22. In Veneto, fu il vescovo di Treviso, il cappuccino Andrea Giacinto Longhin, stando agli atti della visita apostolica del 1907, a configurarsi come un pastore esemplare nell’ottica del pontificato, per la pratica religiosa del popolo, per lo stato del seminario e per la pietà, la disciplina e la preparazione del clero, non incline alle novità teologiche, ma attivo nell’organizzazione cattolica23.

Il fine di ricondurre il mondo moderno a Cristo, per Pio X, esigeva la riforma della vita sacramentale, della liturgia e dell’istruzione religiosa24. Non era richiesto al vescovo un puro adempimento di controllo della diocesi. Se ne apprezzavano, anzi, la solidità della dottrina, lo zelo apostolico, l’impegno per la riforma del clero e per l’azione cattolica e molti dei tratti acquisiti grazie alla svolta impressa da Leone XIII. Il vescovo doveva dimostrare capacità di governo, ma il suo ruolo doveva fondarsi su una rigorosa ubbidienza al papa, in quanto adesione nella fede al primo depositario della verità cristiana e cardine della Chiesa25. L’antimodernismo, con la stretta imposta dalla Pascendi, restrinse il campo dell’iniziativa nelle diocesi e il controllo disciplinare contribuì all’instabilità del ministero episcopale, creando diffidenze a Roma e verso Roma26. Vi fu qualche vescovo toccato direttamente dall’imputazione modernista, come quello di Perugia, Dario Mattei Gentili, che fu costretto a dimettersi, o come Cazzani, a Cesena, accusato di simpatie murriane27.

Nella preminente visione religiosa del pontificato, sul piano politico, i vescovi, mediante fidati esponenti del laicato, avrebbero solo stipulato patti con i rappresentanti liberali a tutela di singoli interessi cattolici. La larga accezione del modernismo, invalsa nella curia, comprendeva non solo la tendenza dei laici all’autonomia d’ispirazione democratico-cristiana e all’emancipazione all’interno della Chiesa, ma anche la condotta di quei vescovi che, come Radini, al veto e alla pressione autoritaria preferivano l’esortazione e la relazione pastorale con quanti erano coinvolti nella crisi religiosa o nell’azione sociale28.

A Genova, la visita apostolica del 1905 impose all’arcivescovo Edoardo Pulciano di non tollerare più l’influenza di padre Giovanni Semeria sul clero29. Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino dal 1897, aristocratico, affrontò i problemi derivanti dalla trasformazione industriale alla vita religiosa, adottando una linea di conservazione e di stabilità sociale, ma assumendo atteggiamenti paterni e moderati nel contrasto al modernismo30. Sembrava, in Piemonte e in Lombardia, che sullo zelo pastorale del vescovo, in un ambiente trasformato dall’avvento della grande industria, non riuscisse a prevalere tutta l’impellenza, avvertita da Roma, della lotta contro le minacce all’integrità della dottrina.

Fu il cardinale Pietro Maffi a rappresentare in una lettera del 10 febbraio 1911 al cardinale Gaetano De Lai, segretario della Congregazione concistoriale, negli stessi giorni della polemica della stampa intransigente contro Ferrari, un punto di vista, polarizzatosi nella solidarietà espressa da una parte ragguardevole dei vescovi italiani al cardinale arcivescovo di Milano, che era di dissenso rispetto al fiscalismo antiepiscopale della curia31. Da arcivescovo di Pisa, la ricerca di un contatto personale con i sospetti di modernismo gli procurò l’opposizione di altri vescovi toscani32. Maffi ebbe fama negli studi di astronomia, collaborò con Toniolo nel campo delle scienze sociali e seguì l’idea neotomista della conoscenza come sostegno della fede33. Egli ebbe una visione limitativa della lotta al modernismo e rivendicò un pluralismo di valutazioni di quanto conseguiva nell’azione pastorale all’imperativo della restaurazione cristiana, da lui intesa in senso strettamente spirituale34. Un punto di attrito con la Congregazione concistoriale e con il papa fu la sua concezione della stampa come mezzo di penetrazione nella pubblica opinione35. Propenso a un incontro con la monarchia e all’alleanza dei cattolici con i liberali, durante la guerra di Libia risolse le sue aperture nell’adesione alla linea nazionalista del trust della stampa cattolica.

Nella composizione dell’episcopato italiano degli anni di Pio X si riscontrò un intervento incisivo, attestato dalla rallentata copertura delle sedi36. La strategia delle nomine iniziata nel 1908 ebbe una continuità per la permanenza di De Lai alla Congregazione concistoriale fino al 192837.

Nel 1914, la destinazione extraregionale dei vescovi era salita dal 37,50% del 1903 al 60,44%38. Una novità importante era data dall’invio di vescovi dal Nord nelle diocesi del Centro e del Sud e dalla fine dell’ autosufficienza della Sicilia e della Sardegna. Emergevano, come aree vitali di reclutamento, proprio per il ruolo che i vescovi in carica vi svolgevano, la Lombardia e il Veneto e declinava la Campania, fino ad allora prevalsa nelle provenienze dell’episcopato nel Mezzogiorno.

I requisiti richiesti per la lotta al modernismo accentuavano, nel profilo del vescovo, la professione di «sane dottrine», l’accortezza nell’amministrazione, l’indole mite e paziente, la determinazione, la fermezza nella difesa delle prerogative del ministero, le doti fisiche e morali, le capacità oratorie e la precisione nell’esecuzione dei riti39. Si definiva nel lungo periodo un’omologazione delle carriere, rilevabile in una minore variabilità dell’età di elezione, mentre perdevano importanza il censo e l’estrazione aristocratica e ascendevano all’episcopato esponenti degli strati medi e popolari del mondo rurale, nella complessiva mobilità sociale del primo Novecento40.

Questi tratti sembravano congeniali a una più stretta dipendenza dalla Santa Sede. Tuttavia, compiutosi l’ampliamento delle identità civili alla nazione e rafforzatosi l’ordinamento amministrativo dello Stato, si rendevano in questo modo più larghi anche i canali istituzionali della Chiesa e del rinnovamento cristiano.

Unificazione religiosa e nazionalizzazione si coniugavano pure nella cosiddetta ‘colonizzazione’ ecclesiastica del Sud41. Fu lo stato delle strutture della Chiesa, più che la diretta preoccupazione dottrinale, pur nell’ottica antimodernista, a indurre la Santa Sede a interventi dall’alto come le visite apostoliche, l’istituzione dei seminari regionali e l’invio di vescovi dal Nord.

Non erano assenti, in questa strategia, pregiudizi sulla religiosità meridionale, ma essa diffuse altri modelli spirituali e pastorali. Nel Mezzogiorno, dove la tradizione transigente era rappresentata dal Capecelatro, pastori eletti da Leone XIII e impegnati a rilanciare la dottrina tomista e la preparazione del clero, come Giuseppe Prisco a Napoli o Giuseppe Francica Nava a Catania, non risultarono del tutto omogenei alle linee del pontificato42. Altrettanto si può dire di un vescovo dall’alto profilo culturale, come Mario Sturzo a piazza Armerina43. Le istituzioni ecclesiastiche nel Sud restavano generalmente poco autonome, esposte all’ingerenza dei poteri civili e dei ceti dominanti locali e perfino segnate al loro interno dall’assunzione di modelli notabilari e clientelari.

Appare rilevante, così, l’elezione a Monopoli nel 1913 di Nicola Monterisi, organizzatore e pubblicista cattolico e parroco a Barletta dal 1908. Sottrattosi al tipico percorso dell’educazione ecclesiastica napoletana, alunno del Capranica, laureato alla Gregoriana e in Lettere, Monterisi s’era formato a Roma, acquisendo solida conoscenza della Bibbia, della letteratura spirituale classica e della cultura del suo tempo e assumendo nel clima del pontificato leoniano un orientamento intransigente, astensionista e antiliberale, presto risoltosi in senso religioso44. Lettore di Nitti, era andato sviluppando le sue riflessioni storiche sul carente insediamento della parrocchia nel Sud, in rapporto al territorio e alla popolazione, a fronte dell’elevato numero di piccole diocesi e su un clero meridionale familista e poco ‘romano’, per l’eredità del regalismo borbonico. Preoccupato per l’assenza dello spirito cristiano dalle forme clamorose di un culto cedevole alla volubilità popolare, egli considerava la riforma del clero e delle strutture ecclesiastiche una condizione per il rinnovamento della fede. Auspicava nel Sud l’azione cattolica e la vita comune dei presbiteri, che svolgevano un ministero individuale lontano dai centri della vita caritativa, spirituale e culturale.

Dinanzi ai primi effetti della modernizzazione, la sua visione critica della tradizione religiosa meridionale mirò a una fede fondata sulla conoscenza di Dio attraverso Cristo e capace di cambiare i comportamenti del popolo. Visse il suo episcopato, proseguito a Chieti dal 1920 e a Salerno dal 1929, in ambienti spesso refrattari alle prescrizioni episcopali.

Nomine significative si ebbero anche in Sicilia, come quelle del rettore del Pontificio seminario lombardo, il milanese Alessandro Pietro Lualdi, a Palermo nel 1904, e, a Caltanissetta nel 1907, del carmelitano romano Antonio Augusto Intreccialagli, visitatore apostolico in numerose diocesi, che mutò in senso spirituale la fisionomia del clero sociale45.

Pastori nella patria in guerra

La Grande guerra e gli orientamenti impressi alla Chiesa da Benedetto XV conferirono ai vescovi spazi più ampi, pur nella continuità di una rigida dipendenza gerarchica e dell’antimodernismo.

Il papa, condannando la guerra e i nazionalismi nell’enciclica Ad Beatissimi del novembre 1914, accentuava il suo ruolo di paternità universale, in un legame diretto con la vigilanza episcopale sullo stato di civili e combattenti, aprendo con il suo magistero di pace un comune spazio di sollecitudini pastorali46.

Allo stesso tempo, con la tolleranza del pontefice, i vescovi furono influenzati dalla lealtà nazionale e dai conseguenti adattamenti del ministero a necessità ed evenienze belliche.

Durante la neutralità italiana essi esortarono i fedeli alla penitenza, interpretando la guerra come castigo divino, ma si rimisero alle valutazioni dell’autorità legittima, salvo alcuni neutralisti, specie in Piemonte e nelle diocesi del Lazio, e taluni austriacanti e temporalisti47.

Dopo l’intervento si registrarono casi di un persistente pacifismo, ma si consolidarono le professioni nazionaliste del cardinal Maffi e dei vescovi meridionali che spesso fiancheggiavano il potere costituito, rappresentato ora dal governo Salandra48.

L’atteggiamento prevalente fu quello patriottico, espresso dal cardinal Ferrari, che indicava nella fede una forza di coesione civile e di sostegno morale dei combattenti49. Egli, incitando i cittadini alla concordia e ai doveri verso la nazione, auspicava un esito vittorioso per l’Italia come condizione di una pace duratura, mosso anche dal timore per il socialismo e per la sovversione dell’ordine sociale che la guerra poteva provocare.

Ferrari modulava bene il patriottismo, che non sopravanzava la sua dedizione pastorale, ma restava in sintonia con l’ambiente urbano milanese, dov’era forte l’interventismo cattolico. In Veneto, per una latente resistenza della società rurale alla guerra, Pellizzo e Rodolfi, adottando un linguaggio moderato, richiamandosi allo spirito del Vangelo e al bene comune, difendevano il clero dai sospetti di negligenza nazionale e si schieravano comunque dalla parte della patria50.

I vescovi erano ora attratti nella sfera pubblica, richiesti di una legittimazione retorica e rituale dei fini della guerra, sebbene la Santa Sede avesse stabilito nel maggio 1915 limiti alla loro partecipazione a cerimonie religiose per i caduti e per eventi militari51. Fallì un tentativo di mobilitazione ufficiale dell’episcopato con un opuscolo che ne raccoglieva le pronunzie a favore della guerra, ma che non ebbe reale rappresentatività e diffusione52.

Nel 1916 e nel 1917, nel protrarsi delle ostilità e delle sofferenze, i vescovi si trovarono a dover tutelare il basso clero, preso tra la spontanea contrarietà della popolazione rurale alla guerra, pure esposta all’influenza socialista, e l’azione repressiva del potere politico, oscillante tra pregiudizi anticlericali e aspettative di una più decisa mobilitazione ecclesiastica per la patria. Il nuovo vescovo di Cremona, Cazzani, impegnato nella solidarietà patriottica e per la tenuta del morale dei soldati e dei cittadini, nel difendere il suo clero, subì l’accusa degli interventisti di tollerare Guido Miglioli e i preti che ne condividevano la radicale adesione ai bisogni e ai sentimenti pacifisti dei contadini. Cazzani non s’identificava con quella tendenza, ma coglieva puntualmente il distacco delle masse popolari dalle classi dirigenti e paventava per il dopoguerra un arretramento dei cattolici, insidiati dai socialisti e identificati con i liberali53.

Un problema grave del governo pastorale fu quello del clero in armi, sottratto alla cura d’anime e introdotto in uno stato di vita non congeniale allo spirito cristiano, coinvolto nella propaganda bellica, che ne avrebbe spesso distorto la fisionomia sacerdotale, ma, in molti casi, anche in una fraterna condivisione dei disagi della truppa54.

Negli anni centrali della guerra si rese evidente lo scivolamento nazionalista della religione e nelle allocuzioni pastorali traspariva lo sforzo di una distinzione tra fedeltà alla patria e ragioni dell’interventismo. Ferrari, esposto a una speciale visibilità per l’importanza della sua diocesi, fu costretto a spiegare alla Segreteria di Stato quanto riportato dalla stampa, smentendo di aver definito «sante e giuste» le cause della guerra e precisando di aver invocato non la «grandezza», ma il «bene» della patria, e, da neutralista, di non aver lodato la saggezza dei governanti55.

Non sempre il discorso pubblico dei vescovi trovò un giusto dosaggio lessicale, per uno slittamento ideologico, ma spesso per la difficoltà di mantenere un equilibrio tra lealtà patriottica e ministero episcopale. Ebbe, però, la più larga diffusione nel 1917 la lettera pastorale di Monterisi, approvata dal papa, tradotta in francese e pubblicata in più edizioni, che, respingendo la lettura politica degli eventi in corso per conto dell’autorità terrena, invitava il clero a un linguaggio da ministri di Cristo56. Attribuendo un significato salvifico al solo sacrificio della vita dei giusti, il vescovo di Monopoli delimitava il senso cristiano della morte dei combattenti, che la nuova sacralità nazionalistica della guerra tendeva, invece, a confondere con un indiscriminato ricorso al modello del martirio57.

Dopo la nota pontificia dell’agosto 1917 l’invocazione della pace corrispose a una premura pastorale per lo scoraggiamento della popolazione civile e della truppa, ma dopo la rotta di Caporetto i vescovi furono chiamati direttamente a sostenere lo speciale sforzo della nazione dagli appelli espliciti del comando supremo e dell’autorità governativa. Alla circolare del ministro guardasigilli Sacchi dell’8 aprile 1918 una minoranza dei vescovi replicò con afflato nazionalista, la maggioranza non rispose, ma molti dimostrarono la loro solidale adesione alla difesa della patria58.

Furono i vescovi veneti, avvalendosi dell’insediamento delle parrocchie nel territorio attraversato dalla linea del fronte, a percepire più di tutti, attraverso le lenti della loro cultura intransigente, oltre l’orizzonte dei nazionalismi, la pervasività della guerra moderna in tutte le sue forme: dai bombardamenti aerei di Venezia all’interruzione delle relazioni solidali e dei flussi migratori oltre frontiera nelle zone montane di confine. Essi rappresentarono al papa la devastazione delle comunità rurali tradizionali e dell’ambiente, i saccheggi delle truppe sbandate dopo Caporetto, lo sgombero delle popolazioni, la depressione dei civili e dei soldati, la generalizzazione dell’odio e della violenza che provocava la caduta dei vincoli etico-sociali. Sostituendosi alle autorità, assolsero compiti di assistenza, come l’accoglienza e il collocamento dei profughi, fra i quali fu tenuta una trama di rapporti per contenerne la dispersione59. Anche ai reduci e ai prigionieri di guerra, oltre i confini diocesani e le barriere nazionali dei fronti, fu rivolto l’impegno umanitario dei vescovi, rappresentanti dell’universale carità del papa e della corrispondente gratitudine di quanti ne beneficiavano60.

Tra società di massa e regime fascista

Alla fine della guerra, dissoltasi la concordia nazionale, i vescovi videro che molto era sfuggito alla territorialità diocesana e parrocchiale e a quella vigilanza dell’equilibrio sociale a cui essi avevano legato la tutela della fede. Sorgevano i problemi dei profughi, dei reduci e delle famiglie. L’emersione delle classi popolari seguiva il mito della rivoluzione bolscevica e l’avvento della società di massa rendeva uniformi e convenzionali i comportamenti degli individui, fin nelle diocesi periferiche del Sud. La prima illusione di una rinascita religiosa prodotta dalle dure prove della guerra si ribaltava nel giudizio di un generalizzato declino morale61.

Nel 1918 in Veneto i vescovi, sotto la guida diPietro La Fontaine, patriarca di Venezia dal 1915, valutando collegialmente le conseguenze della guerra che erano sotto i loro occhi, colsero, pur con diverse sensibilità, la novità del protagonismo popolare, fino a prendere atto di quanto fosse naturale uno sbocco parlamentare del movimento cattolico62. Preoccupati per i conflitti in corso nelle campagne e per l’avanzata socialista, essi attenuarono la loro visione protettiva del ruolo padronale e sostennero il clero e le leghe bianche, che si attivavano in merito alla revisione dei patti colonici e agli espropri63. Rodolfi, per l’iniquità dei rapporti contrattuali, auspicava la tutela sindacale e una valorizzazione degli interessi dei contadini, come soggetti primi dell’integrità religiosa e morale della comunità, confermando la parrocchia come sede di una ricomposizione sociale cristianamente ispirata64.

Molti vescovi intesero il Partito popolare solo come un’opportunità di una rappresentanza politica di interessi e convincimenti cattolici, benché esso corrispondesse a un modello dell’azione del laicato cristiano che li sollecitava a valutare una più moderna forma indiretta del rapporto gerarchico65.

A Milano, Venezia e Torino, in occasione delle elezioni comunali del 1920, i vescovi, temendo laici e socialisti, caldeggiarono l’adesione dei cattolici ai blocchi d’ordine66. Nelle aree rurali del Piemonte meridionale furono invece propensi a un ruolo autonomo del Partito popolare67. Il breve episcopato di Tommaso Pio Boggiani contrastò l’indipendenza dei popolari dall’autorità ecclesiastica a Genova, dove una lunga vacanza e instabilità della sede vescovile favoriva un pluralismo degli orientamenti e l’inserimento dei cattolici nella complessità dell’ambiente industriale68. In Umbria i vescovi si contrapposero allo spirito anticlericale dei liberali, alla massoneria e al socialismo, ma espressero la loro diffidenza per l’autonomia del Partito popolare e dubitarono della sua capacità di difesa degli interessi della Chiesa69. Nel Sud non mancarono fra i nuovi pastori coloro che s’impegnarono per promuovere rapporti sociali più giusti nelle campagne, ma persistevano le accentuazioni paternalistiche della dottrina della Chiesa negli esponenti dell’episcopato poco inclini a contenere il potere agrario e il dominio politico dei vecchi notabili70.

Superate le asprezze della lotta di classe e la minaccia socialista, l’avvento al potere di Mussolini, la sua benevola politica ecclesiastica e la restaurazione dell’ordine sociale indussero i vescovi a guardare con fiducia all’autorità rappresentata dal nuovo governo71. Essi scontarono però la progressiva espulsione dal terreno sociale del clero e del movimento laicale, colpiti dalle aggressioni squadriste. I vescovi si schierarono a difesa dei militanti cattolici che subivano le violenze fasciste, ma dimostrarono, esprimendo sconcerto, un’incomprensione dei reali aspetti di modernità totalitaria del nuovo regime che instaurava buoni rapporti ufficiali con la gerarchia ecclesiastica. Molti, come La Fontaine, mossi da un sentimento dell’autonomia della Chiesa, comprendevano entro una mentalità tutta religiosa la loro illusoria valutazione del fascismo72.

Eppure, la cultura intransigente non impedì ad alcuni presuli, oltre che di reagire con fermezza, di capire. Rodolfi formulò ripetutamente, tra il 1924 e il 1931, la sua condanna della natura violenta del fascismo, che scaturiva dalla premura per il suo popolo, alle prese con la quotidiana realtà di sospetti e sopraffazioni73. In una sua lettera del 1928, che circolò fra antifascisti, egli giudicava duramente l’equivoca benevolenza degli uomini di Chiesa verso il fascismo, la cui forza invasiva sulla vita civile sentiva come una prepotenza, cogliendo la natura pagana e il carattere retorico del regime, che riduceva la fede a un mito imperialista. Negli anni della guerra d’Etiopia, tuttavia, il generale consenso produsse una distorsione populista dell’originario ruralismo di matrice sociale cristiana, in un vescovo come lui, che giunse a travalicare, con il dono dell’anello pastorale, i limiti di un ordinario lealismo nazionale74.

Cazzani patì l’intolleranza delle libertà, data la sua sensibilità per i diritti e i bisogni dei contadini, derivante dalla sua cultura e maturata nella cura pastorale75. Agli attacchi di Farinacci e alle angherie dei fascisti oppose con fermezza la dignità del ministero episcopale. Proibì la benedizione dei gagliardetti, come La Fontaine e Monterisi, e protestò per lo scioglimento dei circoli giovanili cattolici nel maggio del 1931. In linea con la tradizione conciliatorista cremonese, approvò il Concordato, come patto con l’Italia e riconoscimento della libertà della Chiesa e, pur con parole misurate, espresse consenso alla guerra d’Etiopia nel 1936.

S’era diffusa una mentalità religiosa contagiata dai linguaggi e dai riti della patria e la cura pastorale allargava il suo orizzonte dalla comunità rurale allo spazio della nazionalizzazione delle masse.

S’era andato sviluppando, ancora in una grande città industriale come Milano, preminente sede diocesana, negli ultimi anni di vita del Ferrari e sotto i brevi episcopati di Achille Ratti e di Eugenio Tosi, un insieme di ambiziose iniziative culturali e religiose, pensate, al tempo stesso, per le classi dirigenti e per i nuovi strati sociali emergenti nella vita del paese76. La consacrazione dei soldati al Sacro Cuore nel 1916, per l’impulso di padre Agostino Gemelli, aveva avviato un piano per la generale conversione interiore degli individui e la riconquista cristiana della nazione. Erano seguite l’impresa editoriale di Vita e pensiero, l’Università Cattolica e la fondazione della Gioventù femminile cattolica, sotto la guida di Armida Barelli, che aveva inteso valorizzare il ruolo di nuove generazioni di donne per rifondare le famiglie e l’intera società nella fede cristiana, ricorrendo a un’efficace forma di movimento dell’apostolato. Si sviluppava, proprio nel contesto milanese, il culto della regalità di Cristo, che era proposto all’universo sociale dallo stesso Pio XI nella Quas primas del 1925 ed era promosso dall’apposita Opera fondata nel 192977.

L’elezione alla diocesi ambrosiana dell’abate di S. Paolo fuori le mura, Ildefonso Schuster, rappresentava la matrice romana o pontificia del corpo episcopale italiano, come nel caso del viterbese La Fontaine, già visitatore apostolico e segretario della Congregazione dei riti dal 1910. La nomina di Schuster, fatta dal papa lombardo nel 1929, risolveva, ora, il dualismo tra Roma e Milano in una speciale affinità del nuovo pastore alla sua diocesi. Monaco benedettino, preso dalla santificazione personale, ma esperto dei concreti affari di governo, sul modello dell’abate medievale, egli era uno studioso della tradizione ambrosiana e della storia della liturgia78. Quella sua vocazione s’incontrava con un movimento del clero milanese già impegnato nella riscoperta e nello studio del rito cattolico, come sorgente di una pietà sostenuta da un più consapevole intervento dei fedeli alle funzioni liturgiche79.

La diffusione di sussidi a stampa, come l’edizione ambrosiana del messale festivo per il popolo, da lui introdotta nel 1931, la promozione di periodici eventi liturgici e la preventiva preparazione nelle parrocchie intesero avviare una partecipazione, interiore e visibile a un tempo, alle celebrazioni della Chiesa e scongiurare così, nella società moderna, le forme individualiste attribuite alla fede protestante80.

Schuster investì nella conquista cristiana della società, sulla spinta della Conciliazione, che esaltava il ruolo pubblico del cattolicesimo. Nonostante la sconfitta degli avversari espliciti della fede, grazie al fascismo, egli, come buona parte dell’episcopato, ritenne che avanzasse, oltre le apparenze, una civiltà materialista nella profanazione della festa, nella disgregazione della famiglia, nella ricerca del piacere, nel cinema, nella moda e nell’educazione non cristiana della gioventù. Il regime, per lui, creava condizioni diverse da altri paesi, come il Messico, la Spagna e la Russia o le nazioni rette dalla democrazia laica, e costituiva un’opportunità o poteva essere riportato esso stesso nell’alveo della cristianità. Più volte dimostrò pubblicamente la sua apertura di credito al fascismo, verso il quale seguì in autonomia una sua articolata linea di condotta81. Egli approvò la conquista dell’Etiopia e la fondazione dell’impero, mostrando di credere in una sua congruenza con l’impero universale di Cristo82.

Schuster avvertì negli ultimi anni Trenta l’urgenza di prevenire l’ateismo, che vedeva nelle diverse forme di paganesimo dei suoi tempi83. Ebbe risonanza e non fu gradita dal regime, malgrado le reticenze che conteneva, la sua vigorosa denuncia del razzismo, come si teorizzava e si praticava nella Germania nazista84. Altrettanto forte fu la condanna del bolscevismo, nel timore di una sua penetrazione fra le masse operaie insediate nella periferia milanese, mentre maturava una nuova sensibilità pastorale per la dimensione urbana85.

Il governo della diocesi di Milano negli anni Trenta si avvalse di un forte inquadramento del clero e della congregazione degli Oblati, votati alla formazione sacerdotale, e di un’Azione cattolica fondata sulla santificazione personale dei laici, visti come militanti sociali della causa cristiana.

Pio XI, sulla base dell’esperienza milanese, attribuì all’Azione cattolica un ruolo centrale, in quanto organizzazione di massa per la salvezza cristiana di tutte le componenti della società e forma privilegiata di rappresentanza e di difesa della Chiesa anche nel confronto con il regime86. Essa costituì, pertanto, il vero referente nazionale unitario dell’episcopato, che la promosse come segno di adesione all’autorità del papa e come una risorsa disponibile nelle diocesi, per la sua struttura centralizzata, il capillare insediamento parrocchiale, la disciplina dei suoi aderenti e le sue campagne per la moralità87.

L’abbandono del popolarismo come forma di presenza sociale dei cattolici fu evidente nella condotta di Dalmazio Minoretti, arcivescovo di Genova dal 1925, già collaboratore di Ferrari e sospetto di modernismo, successore di Toniolo alla cattedra di economia sociale del Seminario maggiore di Milano e vescovo a Crema dal 191588. Egli, che si era già pronunciato in favore del pluralismo politico, a Genova consentì presto un cambio di rotta al foglio filopopolare «Il Cittadino», fino alla rifondazione su una linea cattolica ufficiale ed unitaria, e, ribaltando le sue posizioni, giunse poi a pubblici riconoscimenti del partito unico.

Minoretti unificò le diverse tendenze presenti fra i cattolici genovesi e rafforzò la provincia ecclesiastica ligure nella sua organica fisionomia religiosa89. Adottò, soprattutto, una strategia pastorale attenta alla configurazione urbana della diocesi, riordinando la rete delle parrocchie, favorendo istituzioni educative per i giovani, come oratori e ricreatori, o iniziative come quella dei Salesiani nel campo dell’avviamento al lavoro, sollecitando le congregazioni religiose alla pastorale attiva e incrementando i bollettini parrocchiali per un regolare collegamento delle comunità periferiche con il vescovo. Egli sviluppò anche a Genova un movimento per rinnovare la liturgia, promosse nuove devozioni e, per una riscoperta essenziale del cristianesimo, incentivò la diffusione e la lettura del Vangelo. Valorizzò la parrocchia, ridimensionò i particolarismi di categoria delle tradizionali associazioni di pietà e diede impulso all’Azione cattolica.

Tra le due guerre agì da primario fattore di omogeneità del ministero pastorale, in continuità con il progetto di riforma finalizzato alla ricristianizzazione della società, il nuovo codice di diritto canonico, promulgato da Benedetto XV nel 1917, ma voluto da Pio X e a lungo elaborato nel corso del suo pontificato, che conferì al governo delle diocesi una centripeta impronta giuridica e religiosa, destinata a durare fino a tutto il pontificato di Pio XII90.

A partire dal 1919, in conformità al codice, s’intensificò la celebrazione di sinodi e di concili plenari e provinciali su un modello canonico universale che tendeva a ridurre le particolarità locali, ma rischiando di far prevalere nella figura del vescovo una supremazia burocratica, a scapito della collegialità e del rapporto con presbiteri e laici91. Il profilo della paternità prevalse nella sensibilità dei singoli pastori e nella loro volontà di far crescere il senso della comunità dei fedeli e la loro vita spirituale. Così, La Fontaine seppe accompagnare il richiamo al rispetto della legge con il consiglio, l’appello alla coscienza e una «personalissima forte sottolineatura della caritas», sentendo la prescrizione e l’autorità del vescovo come adempimento della volontà di Dio92.

Rodolfi nella visita che condusse tra il 1933 e il 1936 tralasciò il questionario per dedicarsi al contatto personale con i sacerdoti, per incoraggiarli e conoscere direttamente la vita delle parrocchie e le esigenze del popolo93. Di là dall’ufficialità collegiale, si riscontrarono nella regione triveneta, adattamenti dei singoli vescovi nel gestire i rapporti con il regime, la conversione del clero a un ministero solo spirituale e la riduzione dell’impegno sociale del laicato. A Treviso Longhin si trovò a dover tutelare e moderare ex popolari e sindacalisti cristiani, molto attivi nell’apostolato94.

Difficoltà ebbero i titolari delle diocesi di confine, fra i quali il vescovo di Trieste Luigi Fogar, costretto alle dimissioni nel 1936 per aver favorito la predicazione del clero e i canti liturgici in lingua slava95.

Il ruolo istituzionale, prefigurato durante la guerra, prevalse con il Concordato, che introduceva peraltro il gradimento politico governativo della nomina dei vescovi e il loro giuramento di fedeltà allo Stato96. La Conciliazione, come svelò anche la lotta antiprotestante dell’episcopato, fece emergere la pretesa di affermare e di celebrare nella sfera pubblica la supremazia cattolica sullo Stato, nel vagheggiamento della natura assolutistica di un secolare e novecentesco regime di massa, che, in realtà, tendeva a una sua sacralità e ritualità totalitaria e a un uso strumentale della religione97. Questa anacronistica illusione avrebbe determinato una latente contesa per il controllo morale della società italiana98. Gli attriti, che si alternarono alle convergenze, tra i vescovi e le autorità fasciste, per l’irriducibilità dei reciproci intenti, riguardarono soprattutto l’educazione giovanile e l’Azione cattolica. Con le loro prescrizioni morali contro i balli, la moda e le forme della socializzazione femminile, i vescovi intendevano contenere gli effetti destabilizzanti dell’urbanizzazione, ma contavano ambiguamente sull’aiuto del regime, finendo a volte per condannare gli stessi aspetti modernizzanti della mobilitazione politica, come le attività ginniche e ricreative delle organizzazioni fasciste99.

Nel quadro concordatario si collocava l’episcopato fiorentino di Elia Dalla Costa, che aveva retto la diocesi di Padova dal 1923 al 1932, come successore di Pellizzo100. La storiografia, in quanto figura esemplare di vescovo di Pio XI, ne ha messo in luce l’inclinazione spirituale e ascetica e l’ impegno in un rafforzamento normativo della diocesi per la crescita della fede e la coesione della comunità dei credenti, nel riferimento alle grandi tradizioni pastorali lombardo-venete di s. Carlo Borromeo e di Gregorio Barbarigo101. Le sue cure furono particolarmente rivolte alla formazione, alla spiritualità, alla disciplina, alla condotta morale e all’impegno pastorale del clero, che volle obbediente al vescovo e distaccato dalla vita mondana. Incrementò l’istruzione religiosa, il culto eucaristico e l’Azione cattolica e rinnovò la liturgia. Il suo governo trasse forza dalla celebrazione del concilio plenario etrusco nel 1933 e del sinodo diocesano nel 1935 e le sue visite pastorali si concentrarono sui temi della fede e sulla vita morale.

Riservato sotto l’aspetto politico, Dalla Costa rifuggì dalle manifestazioni religiose trionfalistiche del tempo, evitò gesti simbolici in favore del regime e non ne ricavò per questo il credito delle autorità102. Nell’aprile del 1936 espresse la sua preoccupazione per le sorti del cattolicesimo in Spagna e, celebrando la fine della guerra d’Etiopia, in maggio, parlò del ritorno alla pace e non esaltò la vittoria fascista, ma condannò le sanzioni, in quanto emanate da massoni e protestanti. Si richiamò poi alle encicliche contro il nazismo e contro il comunismo, del quale vide soprattutto il pericolo per la vita cristiana, senza evitare, però, una concordanza politica con il regime.

Nella lettera pastorale per la quaresima del 1938, condannò le ideologie idolatriche della razza e dello Stato e durante la visita di Hitler a Firenze, il 9 maggio, omise accuratamente ogni segno di partecipazione. Quanto alla legislazione antiebraica italiana, la sua prospettiva restava di natura confessionale e concordataria, in linea con le posizioni della «Civiltà cattolica» e con l’omelia tenuta nell’Epifania del 1939 da Cazzani, il quale, rispondendo ad attacchi fascisti all’antirazzismo del papa, criticava l’antisemitismo nazista, lo distingueva da quello italiano e precisava che la Chiesa indicava le responsabilità storiche degli ebrei, ma condannava gli eccessi della discriminazione103. Sulla stessa linea si espresse Adeodato Giovanni Piazza, dal 1935 patriarca di Venezia, più vicino del suo predecessore al regime104.

Queste astratte distinzioni apologetiche omettevano di valutare la storica convergenza che si era andata producendo, sebbene non impedissero poi ai vescovi l’esercizio della carità verso gli ebrei.

Il governo delle grandi diocesi metropolitane rafforzò la presenza della Chiesa fra i ceti urbani105. A Torino l’arcivescovo novarese Maurilio Fossati, svolse dal 1931, nel solco della tradizione borromeana della sua diocesi di origine, un’azione pastorale d’impianto tridentino e conforme all’ideologia concordataria, valorizzando la santità sociale urbana dell’Ottocento106.

Nelle principali città italiane, negli anni Trenta, laici e sacerdoti furono accomunati nell’approfondimento spirituale e culturale nell’Azione cattolica, che esercitò la sua influenza nelle diocesi. Fu lo stesso ministero di Dalla Costa, per il suo personale rapporto con Giorgio La Pira, a consentire un itinerario di riflessione, che, senza negare l’ecclesiologia prevalente, avrebbe condotto gli intellettuali cattolici a professare valori opposti al fascismo, a prospettare una rifondazione dell’ordine sociale e a una responsabilità storica basata sul senso escatologico degli eventi del mondo107. I vescovi ebbero anche timore che dal peso assunto dall’Azione cattolica derivassero tensioni politiche e problemi alla coesione della Chiesa, ma molti ne apprezzarono la funzione e furono contrari a una sua eccessiva assimilazione ecclesiastica108.

Tipica espressione del rapporto instauratosi tra i vescovi e i laici fu la figura di Adriano Bernareggi, colto esponente del clero milanese, assistente centrale del Movimento laureati dal 1934 e vescovo di Bergamo dal 1936109. Egli affrontò la forte pressione esercitata sulle organizzazioni e le strutture cattoliche dai fascisti, che avevano difficoltà ad affermarsi nella città lombarda, fino alle violenze e alle intimidazioni esercitate nell’estate del 1938110.

Nel Sud l’applicazione del codice, l’omologazione formativa del clero nei seminari regionali, il costante impulso unitario dell’Azione cattolica e l’attivazione delle regioni ecclesiastiche per la celebrazione dei concili miravano a un orientamento uniforme delle piccole diocesi e a superare la permeabilità delle istituzioni della Chiesa alla mentalità localista.

Convergeva in questo progetto di vasta portata l’incremento delle nomine dei vescovi provenienti dal Nord, che s’ispiravano in molti casi al modello pastorale ambrosiano. Fra questi vi fu Marcello Mimmi, arcivescovo di Bari dal 1933, che era stato rettore del seminario di Bologna e vescovo di Crema111. Mimmi fu intento a discernere metodi e destinatari della cura d’anime, affermò la centralità della parrocchia e tentò di sottrarre le confraternite a un costume religioso manifestamente distaccato dalla vita della Chiesa. Nello stesso tempo, nel contesto dello sviluppo urbano, si occupò dei diversi gruppi sociali, curò le giovani generazioni del ceto medio che accedevano agli studi universitari, promosse la conoscenza del Vangelo, si dedicò particolarmente ai sacerdoti e, avvalendosi del bollettino diocesano, per un colloquio con il clero e con il popolo, seguì una quotidiana pedagogia pastorale, attenta alla mentalità religiosa, ai comportamenti nelle chiese e alle forme del culto dei santi, per insegnare i contenuti essenziali della vita cristiana112.

Nei paesi isolati del Sud, i vescovi furono impegnati a riformare una fede vissuta entro dure condizioni materiali, spesso estranea ai precetti, alla dottrina e ai sacramenti e incline alle pratiche magiche, come nella diocesi lucana di Tricarico, retta da Raffaello Delle Nocche, che dal 1922 al 1960 si votò nella carità all’azione pastorale, consapevole che l’annuncio cristiano implicava anche la fine di un’immobilità secolare e una crescita civile113.

I vescovi nel Mezzogiorno mirarono a contenere l’esteriorità del culto, ma la presenza fascista nello spazio pubblico determinò più volte interferenze nelle manifestazioni religiose popolari114. Non mancarono vecchi e nuovi conformismi, ma vi fu chi, come Monterisi, ai tentativi del regime di congiungere nella manipolazione politica la tradizione religiosa e la cultura di massa, oppose la forza della Chiesa come istituzione divina. Avvertendo lo scarto di un’organizzazione ecclesiastica obsoleta e i rischi del centralismo organizzativo dell’Azione cattolica, egli lamentò la scarsa fiducia conferita al ruolo del vescovo nel Sud, per «lo spirito accentratore del codice» e per la burocratizzazione delle Congregazioni romane115.

La crisi della nazione e l’avvento di Pio XII

Nella lettura degli eventi iniziali del Secondo conflitto mondiale, i vescovi ricorsero a una dottrina immutata, che, malgrado l’esperienza e i tentativi compiuti, legittimava ancora l’uso delle armi nei contrasti internazionali, conciliando l’imparzialità del papa e della Chiesa con il dovere di ubbidire all’autorità legittima116. Furono così sollecitate preghiere per la pace ma non ne mancarono nemmeno per la vittoria dell’Italia. I vescovi, che avevano condiviso la retorica imperialistica dell’impresa d’Africa e il merito anticomunista della guerra di Spagna, in vista del nuovo conflitto, interpretando il pacifismo popolare, avevano però sperato che il paganesimo moderno che lo provocava non coinvolgesse l’Italia cattolica e fascista117. Nel 1940 ritornò nelle lettere pastorali il tema veterotestamentario del castigo di Dio, assonante ai linguaggi tradizionali del mondo rurale, ma versatile nelle sue possibili declinazioni. Il patriarca di Venezia ripropose la denunzia dell’apostasia del mondo dalla Chiesa, ma altri, come il vescovo di Padova, Carlo Agostini, esortarono piuttosto alla preghiera, alla penitenza e alla carità e spesso evitarono, come Schuster, appelli mobilitanti e auspici di vittoria118. La punizione di Dio, dunque, avrebbe indotto gli individui a rivolgersi alla fede, ma non era ancora escluso, attraverso lo scontro armato, il provvidenziale esito storico di un ritorno a una società cristiana sotto la guida della Chiesa. Nella teologia sacrificale sottesa a quelle allocuzioni pastorali che evocavano sangue e dolore, la vittoria morale poteva coincidere con il trionfo storico della patria119. Vi furono casi di vescovi che giunsero a condividere il senso politico nazionalista e antisovietico del conflitto, fino a incitare i combattenti all’eroismo120. Il solo lealismo patriottico e la sensibilità per le sofferenze della popolazione discordavano diffusamente, tuttavia, con la guerra fascista come dedizione eroica alla potenza nazionale121.

Gli eventi che svelavano l’entità e la qualità del conflitto sovrastavano, poi, la possibilità di capire e produssero ondeggiamenti nel ricorso ai consueti schemi dottrinali122. Nella fase centrale della guerra vescovi come Bernareggi, Cazzani e Schuster furono attenti al problema della fede e alla domanda di senso che si levava dai credenti sulle ragioni di tanto male123. Negli stessi anni i vescovi veneti assunsero posizioni ‘neutre’ che preludevano a un riadattamento alle prospettive del dopoguerra124.

Oltre i consueti moduli del linguaggio pastorale del tempo di guerra, nel 1942 il radiomessaggio natalizio di Pio XII indicò una nuova rotta per la Chiesa, delineando un ordine cristiano fondato sul rispetto della persona umana, sulla famiglia e sul lavoro, nel ripudio delle dottrine che mitizzavano la nazione, la razza, la classe e lo Stato etico125. Nel momento cruciale dello smarrimento di un paese che si distaccava dal regime, era riaffermata, senza discontinuità dottrinali, la preminenza storica del magistero pontificio e della Chiesa come guida della società italiana.

Il ruolo dei vescovi, sul modello del papa defensor urbis, risultò potenziato dalle drammatiche vicende della divisione nazionale seguite all’armistizio126.

In Sicilia, il governo militare alleato cercò la collaborazione della gerarchia ecclesiastica, mentre si manifestavano gravi segni d’instabilità civile. I vescovi, orientati dal personale politico di ascendenza sturziana, finirono per distinguersi dal vecchio blocco agrario e per adottare una linea autonomista e antiseparatista127.

All’avanzare del fronte, i vescovi rimasero spesso al posto delle autorità in fuga, a rappresentanza delle città, e indicarono i fondamenti cristiani della tenuta morale delle comunità civili, che subivano i diversi effetti devastanti della guerra e dell’occupazione militare.

Nella crisi dello Stato, fu l’episcopato pugliese il 25 novembre 1943 a rivolgere un’autorevole istanza al governo Badoglio in favore dei bisogni della popolazione e a esortare i cittadini a conciliare autorità e libertà e a ricercare nella concordia il bene comune128.

Nell’Italia centrale i vescovi rappresentarono ai comandi militari l’esigenza di evitare distruzioni, a tutela degli uomini, delle città e dei monumenti che ne rappresentavano la storia, l’arte e la cultura129.

Dalla primavera del 1944 gli episcopati delle regioni centrosettentrionali emanarono nella loro autonomia una serie di documenti collegiali che affrontarono il problema morale della lotta armata e dell’autorità legittima130. In Emilia i dissensi impedirono la redazione di un documento comune e in Lombardia il confronto fra i vescovi richiese una mediazione. Per primi i vescovi del Litorale adriatico, che già avevano condannato nel 1943 la repressione fascista della resistenza croata e slovena, denunziarono come «uno stadio di barbarie» deportazioni, internamento e violenze contro le popolazioni inermi, rivolgendosi ai nazifascisti e agli antifascisti slavi, mossi da un odio politico ed etnico contro gli italiani131. Risaltò, in particolare, la capacità del vescovo di Trieste, Antonio Santin, di mantenere rapporti con le diverse componenti nazionali del suo clero132.

Nei documenti collegiali l’episcopato del Nord, preoccupato per le morti date per decisione di parte o rappresaglia, invocava una forma processuale delle condanne e una proporzione nelle pene, nel tentativo di adombrare un’autorità, che degradava, nello stato di guerra, a una condizione militare di fatto, mentre nelle lettere pastorali veniva meno il naturale riferimento alla patria133.

Emerse, in quella precarietà, la sensibilità di pastori come Dalla Costa,Schuster, Bernareggi, Fossati e Boetto verso condannati a morte, prigionieri, sfollati, fuggiaschi, partigiani alla macchia ed ebrei ricercati134. Furono delegittimati i sacerdoti che aderivano alla repubblica fascista e fu forte il timore di una rivoluzione sociale. Prevalse un atteggiamento d’imparzialità, che favoriva l’autorevolezza civile delle funzioni episcopali.

Nell’aprile del 1945 tutto l’episcopato lombardo si adoperò perché la resa avvenisse senza ulteriori spargimenti di sangue e distruzioni, contrastando il peso dei comunisti e il carattere rivoluzionario della Resistenza e invocando giustizia e carità nella successiva pacificazione civile135. I ben noti contatti che ebbe Schuster con i tedeschi, con i fascisti e con lo stesso Mussolini scontarono il carattere determinante dell’intervento alleato e dell’iniziativa partigiana negli eventi che condussero alla Liberazione136.

L’instabilità del dopoguerra fu affrontata nella continuità teologica, istituzionale e pastorale della Chiesa, uscita più forte dal conflitto mondiale137. Preoccupazioni di ordine morale per i reduci e per i minori mossero i vescovi, nel vasto programma di ricomposizione sociale che fu seguito ricorrendo alle risorse dell’assistenza americana e vaticana138. Diffusi timori riguardarono nel Sud la libera competizione democratica, il comunismo, le sorti della protezione concordataria e della monarchia, a cui molti vescovi associavano il principio d’autorità139. Fu un vescovo calabrese come Antonio Lanza, laureato alla Gregoriana, docente di teologia morale, vice assistente generale dei Laureati cattolici, eletto nel 1943, a prospettare un mutamento non traumatico del vecchio ordine sociale fondato sulla grande proprietà agraria140. Estensore della lettera collettiva dell’episcopato meridionale del 1948, egli si richiamò alla giustizia e sollecitò una cosciente adesione di fede alle verità rivelate che superasse il vuoto tradizionalismo religioso. Lanza, per il suo umanesimo cristiano e per la cura che prestò al ceto intellettuale, che anche nel Sud cercava ora nella Chiesa un orientamento etico-sociale, rivelava, dalla sua sede di Reggio Calabria, un’affinità con il lombardo Bernareggi.

I contenuti del magistero, nella continuità dell’ecclesiologia, si estesero ai problemi della ricostruzione, ma soprattutto al coinvolgimento dei cristiani nelle battaglie elettorali141.

In Schuster, le tensioni politiche e il pericolo comunista accentuarono, piuttosto, il tratto spirituale e teocratico di un antagonismo fondato sulla visione agostiniana della città di Dio142.

La leadership del cattolicesimo italiano esercitata da Pio XII, l’ampio spettro del suo magistero e la disciplina unitaria richiesta nello scontro politico e di civiltà degli ultimi anni Quaranta ridussero lo spazio dell’episcopato, mentre interferivano sensibilmente sulle sue prerogative le iniziative superdiocesane della mobilitazione, l’Azione cattolica, la Pontificia commissione assistenza e l’attivismo di padre Riccardo Lombardi143.

Rimase ben visibile nel dopoguerra l’impronta religiosa di grandi figure del pontificato di Pio XI, comeSchuster e Dalla Costa, accanto ai primi emergenti interpreti di un forte ruolo gerarchico del vescovo che assumeva nelle diocesi il modello stesso di Pio XII144.

Insieme, alle diverse latitudini della comunità nazionale, essi rappresentarono, nel comune riferimento al papa, la complessità storica dell’episcopato italiano.

Note

1 A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane, in Le Chiese di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1986, pp. 25 segg.

2 A. Marani, Una nuova istituzione ecclesiastica contro la secolarizzazione. Le conferenze episcopali regionali (1889-1914), Roma 2009; G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), II, Roma 1998, pp. 339 seg.; G. Feliciani, Le conferenze episcopali, Bologna 1974.

3 Cfr. G. Battelli, Santa Sede e vescovi nello Stato unitario. Dal secondo Ottocento ai primi anni della repubblica, in St.It.Annali, IX, Torino 1986, pp. 828-837.

4 G. Battelli, I vescovi italiani tra Leone XIII e Pio X, «Cristianesimo nella storia», 6, 1985, 1, pp. 93-143. Per un profilo complessivo A. Monticone, L’episcopato italiano dall’Unità al Concilio Vaticano II, in M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, Roma-Bari 1992, pp. 257-330. Edizioni di fonti sugli episcopati per regioni: Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia Romagna, a cura di D. Menozzi, Genova 1986; Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, a cura di B. Bocchini Camaiani, D. Menozzi, Genova 1990; Lettere pastorali dei vescovi della Lombardia, a cura di X. Toscani, M. Sangalli, Roma 1998; Lettere pastorali dei vescovi dell’Umbria, a cura di B. Bocchini Camaiani, M. Lupi, Roma 1999; Lettere pastorali dei vescovi del Veneto, a cura di M. Malpensa, Roma 2002. Per i profili dei vescovi qui citati si vedano le relative voci in DSMC, II, I protagonisti, Casale Monferrato 1982; ibidem, III,1,2, Le figure rappresentative, Casale Monferrato 1984.

5 M. Torresin, Il cardinale Andrea C. Ferrari arcivescovo di Milano e s. Pio X, in Memorie storiche della diocesi di Milano, 10, Milano 1963, pp. 37-304; Aspetti religiosi e culturali della società lombarda negli anni della crisi modernista 1898-1914, Atti del Convegno (Varenna 1975), Como 1979; Associazione cardinal Ferrari, La società, la cultura milanese e il card. Ferrari 1911-1921, Milano 1979; G. Ponzini, Il cardinale A. C. Ferrari a Milano 1894-1921. Fondamenti e linee del suo ministero episcopale, Milano 1981; C. Snider, L’episcopato del cardinale Andrea C. Ferrari, 2 voll., Vicenza 1981-1982; G. Battelli, I vescovi, cit., pp. 117-132; A. Majo, Storia della Chiesa ambrosiana. Dalle origini ai nostri giorni, Milano 1995, pp. 561-649; G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 644-681.

6 F. Traniello, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa in Lombardia all’epoca del modernismo, in Aspetti religiosi, cit., pp. 55-57, 69.

7 Ibidem.

8 G. Battelli, Santa Sede, cit., p. 836.

9 M. Torresin, Il cardinal Andrea C. Ferrari, cit., pp. 117-234.

10 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., p. 667.

11 Ibidem, pp. 521-563.

12 G. Battelli, Un pastore tra fede e ideologia. Giacomo M. Radini Tedeschi 1857-1914, Genova 1988.

13 Ibidem, p. 73.

14 A.G. Roncalli, In memoria di Mons. Giacomo Maria Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, Bergamo 1916, Roma 19633.

15 G. Battelli, Un pastore, cit., pp. 289-298.

16 Ibidem, pp. 361-367.

17 A. Melloni, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Torino 2009, pp. 85-99.

18 A. Lazzarini, La visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1912- 1921), 2 voll., Roma 1973-1975; Id., Vita sociale e religiosa nel Padovano agli inizi del Novecento, Roma 1978; La seconda visita pastorale di Luigi Pellizzo nella diocesi di Padova (1921-1923), a cura di L. Billanovich Vitale, 2 voll., Roma 1981-1983.

19 A. Lazzarini, Vita sociale, cit., p. 66.

20 A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo clero parrocchia. Ferdinando Rodolfi e la diocesi di Vicenza 1911-1943, Vicenza 1993, pp. 19-28.

21 G. De Rosa, La società e la parrocchia vicentina all’epoca del vescovo Ferdinando Rodolfi, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 2, 1973, 3, pp. 15-19.

22 A. Lazzarini, Vita sociale, cit., pp. 64-67; A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo, cit., pp. 25-26; R. Perin, Reazioni curiali antimoderniste. Il caso vicentino, in La condanna del modernismo, a cura di C. Arnold, G. Vian, Roma 2010, pp. 207-249.

23 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 469-470; P. Magnani, La corrispondenza tra Pio X e monsignor Andrea Giacinto Longhin, in Pio X e il suo tempo, a cura di G. La Bella, Bologna 2003, pp. 103-117; M. Malpensa, Riprese e interpretazioni delle linee di governo di Leone XIII e Pio X nelle pastorali dei vescovi veneti, in Episcopato e società tra Leone XIII e Pio X. Direttive romane ed esperienze locali in Emilia Romagna e Veneto, a cura di D. Menozzi, Bologna 2000, pp. 91-109; S. Tramontin, Azione cattolica, azione sociale e azione politica nel pensiero dei vescovi veneti dal 1904 all’avvento del fascismo, «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 8, 1973, 1, pp. 31-66.

24 R. Aubert, Pio X tra restaurazione e riforma, in A. Flichte, V. Martin, Storia della Chiesa, 26 voll., Torino 1937- Cinisello Balsamo 2006: XXII, 1, La Chiesa e la società industriale (1878-1922), a cura di E. Guerriero, A. Zambarbieri, Cinisello Balsamo 1992, pp. 138 seg.

25 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 315-319, 609.

26 G. Battelli, Santa Sede, cit., pp. 832 seg.; G. Vian, «Un solco ben luminoso nella storia del suo pontificato». La prima ricezione della Pascendi nei vescovi d’Italia, «Rivista di storia del cristianesimo», 5, 2008, 2, pp. 393-414. Sul modernismo rinvio al classico P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961 e al quadro storiografico di A. Zambarbieri, La prima Dc e il modernismo, in DSMC, I,1, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1981, pp. 35-47. Sulla lotta al modernismo, G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino 2010.

27 L. Bedeschi, Il modernismo e Romolo Murri in Emilia Romagna, Parma 1967; Id, s.v. Cazzani Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, XXIII, Roma 1979, pp. 170 seg.; M. Casella, La crisi modernista a Perugia. Clero e seminario al tempo di Pio X, Napoli 1998.

28 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp.474-483.

29 Ibidem, pp. 511-513.

30 D. Menozzi, Orientamenti pastorali nella prima industrializzazione torinese (1900-1914), «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 5, 1971, pp.191-235; G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 438 seg.

31 Ibidem, pp. 621 seg.

32 Ibidem, pp. 603-613.

33 F. Sani, s.v. Maffi Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXVII, Roma 2006, pp. 271-274.

34 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 295, 609.

35 Ibidem, pp.613-615, 621-626.

36 Da 268 ordinari su 273 sedi del 1903 si scese nel 1914 a 252 su 272. Ibidem, pp. 694, 698, ma, per un’analisi compiuta, pp. 693-717.

37 G. Battelli, Santa Sede, cit., pp. 839 seg.

38 Ibidem, pp. 829-832.

39 L. Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista, Parma 1968, p. 197.

40 A. Parisi, Dall’episcopato preunitario all’episcopato post-conciliare, in Studi in onore di Pietro Agostino d’Avack, III, Milano 1976, pp. 466-468, 487-491.

41 P. Borzomati, La questione meridionale ecclesiale nel pontificato di Pio X, in Pio X e il suo tempo, cit., pp. 789-799.

42 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit., pp. 446, 703.

43 Mario Sturzo. Un vescovo a confronto con la modernità, Atti del Convegno di studio (Piazza Armerina 1993), a cura di C. Naro, Caltanissetta-Roma 1994.

44 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato. Moniti e istruzioni, a cura di A. Balducci, Isola del Liri 1950; Nicola Monterisi (1867-1944): «Pensieri e appunti». Magia e popolo nelle esperienze di un vescovo meridionale, a cura di G. De Rosa, «Archivio italiano per la storia della pietà», VI, 1970, pp. 403-491; A. Fino, S. Palese, V. Robles, Nicola Monterisi in Puglia, Galatina 1989.

45 G. Zito, L’episcopato urbano della Sicilia dall’Unità alla crisi modernista, in Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Atti del Convegno di studi (Catania 1989), Acireale 1990, pp. 107-116.

46 A. Monticone, Il pontificato di Benedetto XV, in La Chiesa e la società industriale, cit., pp. 157-163.

47 Id., I vescovi italiani e la guerra 1915-1918, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, Atti del Convegno di studio (Spoleto 1962), a cura di G. Rossini, Roma 1963, pp. 628-635.

48 Ibidem, pp. 635-655.

49 R. Ceddia, Il Cardinal Ferrari, Milano cattolica e la Grande Guerra, Milano 1996, pp. 41-46.

50 L. Bruti Liberati, Il clero italiano nella grande guerra, Roma 1982, pp. 23 seg.; C. Massari, L’episcopato di mons. Rodolfi a Vicenza durante la prima guerra mondiale, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 28, 1992, 1, pp. 75-104.

51 A. Monticone I vescovi italiani e la guerra, cit., p. 169.

52 L. Bruti Liberati, Il clero, cit., pp. 41-44.

53 Ibidem, pp. 145-147, 156-157.

54 R. Morozzo della rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919), Roma 1980.

55 R. Ceddia, Il Cardinal Ferrari, cit., pp. 118-121.

56 N. Monterisi, Benediciamo il Signore, Napoli 1917.

57 M. Malpensa, Il sacrificio in guerra nelle lettere pastorali dell’episcopato, in La Chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale, a cura di D. Menozzi, «Humanitas», 68, 2008, 6, pp. 920 seg.

58 L. Bruti Liberati, Il clero, cit., pp. 113-120.

59 I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Scottà, 3 voll., Roma 1991.

60 R. Ceddia, Il Cardinal Ferrari, cit., pp. 129-151.

61 R.P. Violi, Episcopato e società meridionale durante il fascismo (1922-1939), Roma 1990, pp. 111-129.

62 A. Lazzaretto, Il governo della Chiesa veneta tra le due guerre. Atti e documenti delle conferenze episcopali venete e trivenete (1918-1943), Padova 2005, pp. 27-29; G. Vian, s.v. La Fontaine Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, LXIII, Roma 2004, pp. 58-60.

63 A. Lazzaretto, Il governo, cit., pp. 39-51.

64 G. De Rosa, La società, cit., pp. 30-33.

65 A. Lazzaretto, Il governo, cit., p. 37. Il caso di La Fontaine in S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, pp. 1-62; G. Vian, Tra democrazia e fascismo. L’atteggiamento del card. La Fontaine, Patriarca di Venezia, nel primo dopoguerra, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 26, 1990, 1, p. 85.

66 G. Vecchio, I cattolici milanesi e la politica, Milano 1982, pp. 172 seg.; S. Tramontin, Cattolici, cit., pp.19-25; B. Gariglio, Cattolici democratici e clericofascisti, Bologna 1999, pp. 42 seg.

67 F. Traniello, L’episcopato piemontese in epoca fascista, in Chiesa, Azione cattolica e fascismo nell’Italia settentrionale durante il pontificato di Pio XI (1922-1939), Atti del V Convegno di storia della Chiesa (Torreglia 1977), a cura di P. Pecorari, Milano 1979, p. 120.

68 D. Veneruso, Il dibattito politco-sociale nella Chiesa genovese durante l’episcopato del card. Carlo Dalmazio Minoretti (1925-1938), in Chiesa, Azione cattolica e fascismo, cit., pp. 8-10.

69 R. Meloni, L’episcopato umbro dallo Stato liberale al fascismo, in Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di A. Monticone, Bologna 1978, pp. 144-152.

70 R.P. Violi, Episcopato, cit., pp.134-139.

71 G. Vian, Considerazioni intorno al pensiero di alcuni vescovi italiani su «autorità» e «potere» nei primi tre decenni del Novecento, in Cattolicesimo e totalitarismo, a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004, pp. 68 seg.; su Chiesa e fascismo cfr. P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo, Roma-Bari 1973; G. Miccoli, La Chiesa e il fascismo in G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985.

72 G. Vian, L’azione pastorale del patriarca La Fontaine, in La Chiesa di Venezia nel primo Novecento, a cura di S. Tramontin, Venezia 1995, pp. 106-111.

73 A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo, cit., pp. 40-49.

74 Ibidem, p. 46; G. De Rosa, La società, cit., p. 39.

75 G. Gallina, Il vescovo di Cremona Giovanni Cazzani e il suo atteggiamento di fronte al fascismo durante il pontificato di Pio XI, in Chiesa, Azione cattolica, cit., pp. 505-520.

76 A. Majo, Storia della Chiesa ambrosiana, cit., pp. 617-641.

77 D. Menozzi, La dottrina del regno sociale di Cristo tra autoritarismo e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo, cit., pp. 42-53.

78 G. Rumi, Chiesa ambrosiana e fascismo, in G. Rumi, A. Majo, Il cardinal Schuster e il suo tempo, Milano 1979, 1996², p. 38. Per una documentazione, cfr. P. Beltrame Quattrocchi, Al di sopra dei gagliardetti. L’arcivescovo Schuster: un asceta benedettino nella Milano dell’«era fascista», Milano 1985.

79 G. Rumi, Chiesa ambrosiana, cit., pp. 41-44.

80 Ibidem, pp. 45 seg.

81 G. Vecchio, Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Brescia 2005, pp. 33-38.

82 G. Rumi, Chiesa ambrosiana, cit., pp. 50 seg.

83 Ibidem, pp. 51-53.

84 G. Vecchio, Lombardia, cit., pp.106-109.

85 G. Rumi, Chiesa ambrosiana, cit., pp. 55-70.

86 Su Azione cattolica e fascismo cfr. M. Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea (1919-1969), Roma 1992, pp. 67-246.

87 A. Riccardi, Pio XI e i vescovi italiani, in Achille Ratti Pape Pio XI, Actes du Colloque organisé par l’École française de Rome (Roma 15-18 marzo 1989), Rome 1996, pp. 529-548.

88 D. Veneruso, Il dibattito politico-sociale, cit., pp. 13-44.

89 Id., Azione pastorale e vita religiosa del laicato genovese durante l’episcopato del cardinale Carlo Dalmazio Minoretti (1925-1938), Genova 1990.

90 G. Dalla Torre, Il codice di diritto canonico, in Pio X e il suo tempo, cit., pp. 311-332; S. Ferrari, Sinodi e concili dalla Grande guerra al Vaticano II, in A. Flichte, V. Martin, Storia della Chiesa, cit.: XXIII, I cattolici nel mondo contemporaneo(1922-1958), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Cinisello Balsamo 1991, pp. 203-229.

91 Ibidem.

92 G. Vian, L’azione pastorale, cit., pp. 93, 105.

93 A. Lazzaretto Zanolo, Vescovo, cit., pp. 64 seg.

94 A. Lazzaretto, Il governo, cit., p. 64.

95 Ibidem, pp. 122 seg.

96 M. Casella, Per una storia dei rapporti tra il fascismo e i vescovi italiani (1929-1943), «Ricerche di storia sociale e religiosa», 36, 2007: prima parte, 71, pp. 7-68; seconda parte, 72, pp. 133-193. Sul Concordato i più recenti studi sono di G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Milano 2007; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla grande guerra al nuovo concordato (1916-1984), Bologna 2009, pp. 99-240.

97 F. Traniello, L’episcopato piemontese, cit., pp. 117 seg.

98 Id., L’Italia cattolica nell’era fascista, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1995, pp. 268 seg.

99 A. Lazzaretto, Il governo, cit., pp. 100-108.

100 La Chiesa del Concordato, I, Anatomia di una diocesi. Firenze 1919-1943, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1977; II, B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione concordataria e processi di secolarizzazione. L’azione pastorale di Elia Dalla Costa, Bologna 1983.

101 Ibidem, pp. 27-90. A. Riccardi, Vescovi d’Italia, Cinisello Balsamo 2000, pp. 85-105.

102 B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione, cit., pp. 91-121.

103 G. Gallina, Il vescovo di Cremona, cit., pp. 520-526; G. Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle leggi antiebraiche in Italia e in Europa, in Camera dei deputati, La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali (Roma 1988), Roma 1989, pp. 224 -227; cfr. R. Moro, La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, Bologna 2002; G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, Milano 2009.

104 Cfr. A. Lazzaretto, Il governo, cit., pp. 96-98.

105 A. Riccardi, Roma «città sacra»? Dalla Conciliazione all’operazione Sturzo, Milano 1979, pp. 120-176.

106 B. Gariglio, Mondo cattolico e fascismo in una grande città industriale: il caso di Torino, in Chiesa, Azione cattolica, cit., pp. 198-220.

107 B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione, cit., pp. 130-143.

108 Ibidem, pp. 111-114; A. Monticone, L’episcopato italiano, cit., p. 309, M. Casella, L’Azione cattolica all’inizio del pontificato di Pio XII, Roma 1985.

109 G. Pignatelli, s.v. Bernareggi Adriano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, IX, Roma 1967, pp. 321-323.

110 A. Pesenti, I contrasti tra il fascismo e la Chiesa nella diocesi di Bergamo negli anni 1937-1938, in Chiesa, Azione cattolica, cit., pp. 535-563.

111 V. Robles, Una Chiesa senza popolo in un mondo religioso senza Chiesa, in Le Chiese di Pio XII, cit., pp. 393-427; Marcello Mimmi a Napoli e nella Chiesa del suo tempo, Atti delle giornate di studio (Napoli 1989), «Campania sacra», 24, 1993, 1-2, nr. monografico; Marcello Mimmi e la svolta pastorale moderna della Chiesa di Bari (1933-1952), a cura di S. Palese, F. Sportelli, Bari 1995.

112 F. Sportelli, Governo episcopale e cura animarum di Marcello Mimmi a Bari, ibidem, pp. 27-74.

113 G. De Rosa, Un vescovo del sud, Raffaello Delle Nocche (1877-1960), «Studium», 74, 1978, 4, pp. 460-484.

114 R. P. Violi, Le feste patronali nel Mezzogiorno tra prescrizioni ecclesiastiche e direttive fasciste, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 36, 2007, 71, pp. 69-104.

115 N. Monterisi, Trent’anni di episcopato nel Mezzogiorno (1913-1944). Memorie, scritti editi ed inediti, a cura di G. De Rosa, Roma 1981, pp. 229 seg.

116 D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna 2008, pp. 131-168.

117 F. Malgeri, La Chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma 1980.

118 M. Malpensa, Una punizione per la moderna «apostasia delle nazioni da Dio»? La seconda guerra mondiale e la sua interpretazione nelle pastorali dell’episcopato veneto (1940-1945), «Storia e problemi contemporanei», 13, 2000, 26, pp. 175-178; G. Vecchio, Lombardia, cit., pp. 129 seg.

119 F.M. Stabile, La Chiesa siciliana di fronte alla guerra, alla ricostruzione, all’autonomia, in La Chiesa nel Sud tra guerra e rinascita democratica, a cura di R.P. Violi, Bologna 1977, pp. 25-36.

120 M. Malpensa, Una punizione, cit., pp. 177-182. Per il vescovo di Modena, Cesare Boccoleri, cfr. P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani tra guerra e Resistenza (1940-1945), in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, a cura di B. Gariglio, Bologna 1997, pp. 200-204.

121 F. Malgeri, La Chiesa italiana, cit.

122 F. Traniello, Guerra e religione, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 40 seg.

123 G. Vecchio, Lombardia, cit., pp. 144-149.

124 M. Malpensa, Una punizione, cit., pp. 183 seg.

125 F. Malgeri, La Chiesa di Pio XII fra guerra e dopoguerra, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 106-108.

126 F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961, 197215, pp. 124 seg.; B. Bocchini Camaiani, I vescovi, in Cattolici, Chiesa, Resistenza, cit., pp. 201-225.

127 F.M. Stabile, La Chiesa siciliana, cit., p. 66.

128 Vescovi e regione in cento anni di storia (1892-1992). Raccolta di testi della Conferenza episcopale pugliese, a cura di S. Palese, F. Sportelli, Galatina 1994, pp. 283-290.

129 Cattolici, Chiesa, Resistenza nell’Italia centrale, a cura di B. Bocchini Camaiani, M.C. Giuntella, Bologna 1997; Cattolici, Chiesa e Resistenza in Abruzzo, a cura di F. Mazzonis, Bologna 1997.

130 S. Tramontin, I documenti collettivi dei vescovi nella primavera-estate del 1944, in Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di M. Legnani, F. Vendramini, Milano 1990, pp. 411-431.

131 L. Ferrari, Il clero del Friuli-Venezia Giulia di fronte all’occupazione, in I cattolici e la Resistenza nelle Venezie, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 274-275.

132 Ibidem, p. 285.

133 F. Malgeri, La Chiesa italiana, cit., pp.167-174.

134 B. Bocchini Camaiani, I vescovi, cit., p. 215; G. Vecchio, Lombardia, cit., pp. 249 seg., 431; B. Gariglio, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, cit., pp. 19-22; G.B. Varnier, Un vescovo per la guerra: l’azione pastorale del cardinale Boetto, arcivescovo di Genova (1936-1946), ibidem, pp. 33-57.

135 G. Vecchio, Lombardia, cit., pp. 561-571.

136 I. Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, Milano 1946.

137 J.D. Durand, L’Église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), Rome 1991.

138 A. Acerbi, Il problema dei giovani nella pastorale dei vescovi durante il secondo dopoguerra. Orientamenti e contributi dell’episcopato nell’Italia settentrionale, in Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra 1945-1958, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1988, pp. 37-74; F. Malgeri, Il problema dei giovani nella pastorale dei vescovi durante il secondo dopoguerra. Orientamenti e contributi dell’episcopato centromeridionale, ibidem, pp. 75-94.

139 A. Giovagnoli, La Chiesa a Napoli tra monarchia e «americanismo», in Le Chiese di Pio XII, cit., pp. 305-340.

140 M. Mariotti, Mons. Antonio Lanza, in P. Borzomati, F. Milito, A. Sorrentino et al., Oasi calabresi, Roma 1991, pp. 115-157.

141 A. Prandi, Chiesa e politica, Bologna 1968.

142 A. Majo, 1939-1949: un decennio difficile, in G. Rumi, A. Majo, Il cardinal Schuster, cit., p. 87.

143 A. Riccardi, Chiesa di Pio XII o Chiese italiane, cit.

144 Ibidem. Nel 1955 sarebbero risultati ben 153 eletti da Pio XII su 251. Nel 1946, oltre Giuseppe Siri a Genova, era eletto alla sede di Palermo Ernesto Ruffini, sul quale cfr. F.M. Stabile, Palermo, la Chiesa baluardo del card. E. Ruffini (1946-1948), ibidem, pp. 367-392; A. Romano, Ernesto Ruffini, cardinale arcivescovo di Palermo 1946-1967, Caltanissetta-Roma 2002.

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