VESTI

Enciclopedia Italiana (1937)

VESTI (franc. vêtements, habits; sp. trajes; ted. Kleider; ingl. clothes)

George MONTANDON
Raffaele CORSO
Luigi GIAMBENE
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Alle voci abbigliamento e moda è trattata, nel suo insieme, l'evoluzione degli oggetti di vestiario, mentre le vesti singole sono considerate in una serie di voci speciali, particolarmente per ciò che concerne le vesti occidentali classiche, medievali e moderne. S'indicheranno di conseguenza, qui appresso, gli esponenti principali sotto cui sono da cercarsi le rispettive trattazioni.

Per l'antichità classica, cfr. specialmente: chitone; clamide; dalmatica; imatio; lacerna; laticlavio; palla; paludamentum; penula; peplo; sago; stola; toga; tunica.

Per il Medioevo e l'età moderna, cfr. specialmente: calzoni; cappa; cappotto; casacca; crinolina; falbalà; faldiglia; farsetto; foggia; gabbano; gamurra; giacca; giornea; giubba; giustacuore; gonna; grembiule; guardinfante; guarnacca; guarnello; impermeabile; livrea; lucco; manica; mantello; mantiglia; panciotto; pellanda; pelliccia; redingote; ropiglia; scialle; soprabito; sottana; strascico; tasca; toga; tunica; velo.

Etnologia.

L'origine delle vesti è stata attribuita a cause diverse, e cioè: a) a ragioni di protezione (contro le intemperie, contro le asperità della natura, contro i piccoli animali); b) all'ambizione; c) al sentimento innato del pudore; d) a ragioni animologiche; e) a ragioni di pulizia (per le donne); f) al fatto che le donne maritate si coprivano determinate parti del corpo per distinguersi dalle altre. Le varie ragioni che hanno portato alla istituzione di una copertura sono state probabilmente complementari l'una all'altra, prevalendo questa o quella a seconda delle regioni. È evidente la necessità di coprirsi, non solo nelle regioni polari, ma anche in quelle temperate, dal clima così variabile. Cosa avviene invece nelle regioni tropicali? In esse sono numerose le popolazioni in cui gli uomini vanno nudi, mentre sono poche, ma tuttavia esistono, quelle in cui anche le donne non si coprono affatto. Il pudore è d'altra parte, un sentimento così diffuso e così indipendente da cause esterne, che le eccezioni presentate da alcune tribù attuali possono essere considerate come deviazioni, alla stessa stregua di altre usanze; è possibile, per es., che il senso del pudore non fosse del tutto inesistente presso popolazioni nude, ma che esse non ne abbiano tenuto conto per ragioni dapprima pratiche, in seguito tradizionali. L'istinto non manca del resto anche agli animali, non certo in relazione alla nudità, ma riguardo all'accoppiamento. La questione è dunque molto complessa; tanto più che non sono sempre le parti sessuali quelle maggiormente in relazione col pudore.

Relativamente alla "quantità" degli indumenti portati nelle diverse zone si può dare lo schema seguente: sotto i tropici il vestito, quando esiste, è costituito da una cintura, nelle regioni subtropicali esso ricopre il torso, in quelle temperate e subartiche riveste tutto il corpo. Esaminiamo ora l'abbigliamento nelle sue diverse parti, e cioè: il copripudende (portato da solo), il vestito, la calzatura (e il guanto), il copricapo, gli accessorî, gli ornamenti.

Il copripudende. - Senza discutere ulteriormente le cause che hanno portato a coprire gli organi sessuali, si riscontrano i tre casi seguenti: 1. gli organi sessuali sono del tutto scoperti; 2. un copripudende viene usato allo scopo, spesso solo intenzionale, destinatogli dal nome stesso; 3. la veste, ampia, ricopre anche gli organi sessuali.

Le tribù nelle quali gli uomini vanno del tutto nudi sono troppo numerose perché esse possano essere elencate; la nudità completa delle donne è stata riscontrata, fra l'altro, nel Togo, sul fiume Sanga del Camerun, sullo Sciari (presso la tribù Njellim), sull'altipiano orientale africano e fino sull'alto Zambesi (presso i Kondo, i Wawuemba, gli Alungu, i Batumkuba, i Mashukulumbe, e, in passato, forse anche presso i Barotse), a ovest del Lago Rodolfo (presso i Kaberù), nella foresta brasiliana (presso i Cayapò e i Botocudo). L'uso di coprire il sesso può essere stato di data molto antica anche per le tribù vicine a quelle che andavano del tutto nude; così nell'Isola di Marajó (basso Amazzoni) è stata trovata una placca triangolare di ceramica dipinta di epoca preistorica, fornita di due fori di sospensione, che si ritiene fosse usata come copripudende.

Il copripudende, o grembiule pubico, femminile, presenta tutte le gradazioni dalla forma puramente simbolica alla veste completa. La regione dello Sciari, studiata sotto questo aspetto dal Muraz, presenta una notevole serie di forme, e cioè: a) un ramo fronzuto (s'incontra anche in diverse parti dell'Africa); b) pochi crini (copripudende puramente simbolico: Sara-Dai del medio Sciari); c) un grosso mazzetto di crini, simile a una coda di cavallo, appeso davanti e uno di dietro (Mangia dell'Ubanghi-Sciari); d) dei fili appesi a una cordicella, che fanno più o meno da grembiule; e) delle perline di vetro o di ferro, infilate, che formano grembiule; f) degli anelli in fila orizzontale; gremblule questo, quasi simbolico (Sara-M'bai-Ruai, a est del medio Sciari); g) delle campanelle di ferro (Nantcheré, a cavallo dei bacini del Logone e del Benué); h) delle placchette (Kirdi dell'altipiano del Camerun); i) un pettine di legno (Sara-M'bai-Kan); l) un pezzo di stoffa; m) il "gol" fatto di fibre vegetali disposte a cintura, e che, passate dal di dietro in avanti, terminano anteriormente con delle fibre annodate a forma di pseudofallo (Sara-M'bai-Yamodo del medio Logone).

Il copripudende maschile, come quello femminile, può essere più o meno incompleto e consistere anche in una sola cintura dalla quale pendono un ramo fronzuto, un pezzo di stoffa, delle frange, ecc. Talvolta esso è così ridotto da limitarsi alla semplice cintura.

Ma il copripudende maschile più caratteristico, diffuso sporadicamente in varie parti della terra, è l'astuccio penico, che può esser fatto non solo con i materiali più disparati, sulla scelta dei quali agiscono anche fattori mesologici, ma può ricoprire gli organi sessuali in maniera diversa e con scopi animologici diversi. Prima di tutto va segnalato un copripudende dei Beciuana dell'Africa meridionale, il cui scopo principale è quello di fare da sospensorio. Presso i Cafri in generale l'astuccio penico costituisce per chi lo porta un oggetto di ornamento. Esso, inoltre, è portato da diverse tribù del Camerun e del Sudan come pure nella Guinea. È stato inoltre in uso anche nell'Egitto prefaraonico. Un secondo grande dominio dell'astuccio penico è costituito da una parte dell'Oceania. Nella Nuova Guinea esso può esser fatto con una zucca, un pezzo di bambù, una conchiglia, una borsa a intrecciatura, a seconda del luogo, ciò che dimostra che la scelta del materiale è in parte dovuta all'ambiente. L'astuccio penico fatto con una conchiglia è stato riscontrato nell'arcipelago dell'Ammiragliato, nelle Isole S. Matteo. Fatto di materiali flessibili, l'astuccio è usato anche nelle Nuove Ebridi. Il terzo dominio dell'astuccio penico è l'America Meridionale. È stato riscontrato fra le popolazioni delle Ande e particolarmente presso i Cueva della Colombia, dove è fatto con una conchiglia, una zucca, oppure di metallo. È in uso anche nel penepiano sudamericano, presso le popolazioni Tupi da una parte (Mundurucú, Apiacá, Yuruna, Tapirapé) e le popolazioni primitive orientali dall'altra. Fra le popolazioni della foresta sudamericana l'astuccio penico è fatto con una foglia di palma.

In relazione ai cicli culturali, l'astuccio penico è uno degli elementi caratteristici del ciclo del totem.

Le vesti. - Le materie prime: 1. Sostanze vegetali. - Si tratta dapprima di foglie, erbe, pezzi di scorza usati allo stato naturale, riuniti a perizoma. In seguito si tratta di grandi pezzi di scorza battuta con la quale si fabbrica la "tapa".

2. Pelli. - Il procurarsi la pelle, rappresenta già uno stadio culturale più elevato rispetto all'impiego dei vegetali. Oltre a quelle che vengono usate allo stato naturale vi sono pelli che vengono lavorate per la preparazione di pellicce ed altre ancora che vengono trattate per usarne il cuoio.

3. Materiali tessili animali. - È al ciclo pastorale che va attribuita la scoperta dello sfruttamento delle fibre tessili animali. Di queste la più utile è data dal pelo della pecora o lana (v.) vera e propria. È usato anche il pelo di capra, specie dagl'Indiani dell'America del NO., il pelo di cammello, usato dagli Arabi, il pelo del lama, dell'alpaca e della vigogna, lavorato dei Peruviani antichi e moderni, quello dello yak, usato nel Tibet, quello del coniglio, che serve alla fabbricazione di feltri per cappelli, il crine di cavallo e la lanuggine di alcuni uccelli (struzzo, cigno, gallina, ecc.).

4. La seta. - La sericoltura o allevamento del baco da seta, è attualmente praticata nei paesi dove prospera il gelso (corrispondenti all'incirca alla zona della vite), ma tale elemento culturale proviene dalla cultura sinica. Per la storia della diffusione della sericoltura e della lavorazione del prodotto serico, v. seta.

5. Materiali tessili vegetali. - Evidentemente lo sfruttamento di questi è posteriore a quello del vello degli animali, poiché esso è stato iniziato appositamente per la tessitura mentre le stoffe animali prima di essere tessute furono follate (v. appresso). D'altra parte, lo sfruttamento delle piante le cui fibre potevano essere tessute ha preeeduto l'agricoltura. Mentre non vi è che una fibra tessile animale di primaria importanza, la lana, ve ne sono tre di natura vegetale: il lino (v.), la canapa (v.), il cotone (v.). Il lino è un prodotto della cultura occidentale e in possesso di questa già dal suo stadio neolitico. La canapa data l'attuale prevalenza del suo impiego in Cina fra le classi sociali inferiori, appartiene più alla cultura sinica che a qualunque altra e può esserle attribuita. La pianta del cotone cresce nell'Africa, nell'India e nell'America: allorché gli Spagnoli sbarcarono in America trovarono appunto che gl'Indiani erano vestiti di cotone. Tuttavia quelle dell'Africa e dell'America sono piante arborescenti che producono poco cotone, mentre quelle erbacee dell'India sono molto produttive. Fin dove si può risalire la storia di questo paese, si riscontra che i suoi abitanti erano vestiti con tale materiale e appena questo si diffuse fuori dell'India conquistò il mondo. L'attribuzione dell'uso estensivo del cotone al ciclo indiano è inoltre legittimata dalla presenza dello strumento di legno per pettinare il cotone (laminandolo fra due piccoli cilindri di legno) in uso dal Turkestan all'estremità orientale dell'Indonesia e che sembra essere un prodotto della tecnica indù.

Fra i materiali tessili vegetali di secondaria importanza, tutti fibrosi, vanno ricordati: la ginestra, in uso già da molto tempo nella Spagna e nell'India meridionale; la scorza del tiglio, sfruttata dall'uomo neolitico lacustre della Svizzera e, ancor oggi, dai Russi; l'ortica, usata dagli Ostiachi e, in genere nell'Asia settentrionale, Cina compresa; la scorza dell'olmo, con la quale gli Ainu tessono i loro mantelli; diverse palme e baname le cui fibre servono, nell'Africa, nell'Asia meridionale e nell'Oceania, a confezionare tessuti varî; le foglie dell'agave che fornirono la fibra tessile agli antichi Messicani e più tardi ai loro successori Spagnoli. Sebbene queste materie vegetali, alcune delle quali sono assai grossolane, siano attualmente di uso molto secondario, hanno però importanza in relazione allo studio della veste, perché il loro impiego nella tessitura ha preceduto quello del cotone, del lino, e anche della canapa.

Di tutti i materiali esaminati i due più importanti sono senza dubbio, la lana e il cotone; contrariamente a quanto ci si attenderebbe, si riscontra che questi due prodotti non sono fibrosi allo stato originario e non potevano quindi produrre stoffe senza un particolare trattamento.

La trasformazione delle materie prime in materie elaborate. - Si è già detto che dei pezzi di scorza, battuta, possono essere trasformati in morbide stoffe, che dal nome assunto a Tahiti vengono chiamate tapa. Le pelli, invece di essere semplicemente staccate dall'animale e seccate possono essere lavorate per farne pellicce o cuoio.

Le fibre tessili animali, quelle vegetali, quelle artificiali e, fra le materie diverse, l'amianto, il vetro e i metalli, devono subire un doppio trattamento per essere utilizzate nella fabbricazione delle vesti. Le materie prime devono essere cioè trasformate in fili per mezzo della filatura, poi i fili devono essere riuniti e disposti a tessuto col procedimento della tessitura. Ma a questo ordine dei due procedimenti classici vi sono eccezioni. In primo luogo esistono stoffe i cui elementi non vengono ridotti in fili: sono questi i feltri, che si fanno con la lana non filata, inumidita e pressata in modo da formare una stoffa, la quale, sebbene meno resistente delle stoffe tessute, può tuttavia servire a numerosi usi. La feltratura è ancora il procedimento preferito per la fabbricazione di coperte e di varie parti dell'abbigliamento, nella Mongolia e nel Turkestan, cioè all'incirca nel dominio della cultura pastorale in Asia.

Gli elementi di tutte le altre stoffe sono dunque innanzi tutto trasformati in fili per mezzo della filatura; ma di esse non tutte sono tessute. Le stoffe non tessute sono meno serrate e possono essere chiamate stoffe a maglia. Se ne distinguono tre specie principali: 1. la calza, che ha la particolarità di esser fatta con un filo solo il quale forma su sé stesso maglie successive; 2. l'uncinetto è una maglia fatta non con i ferri della calza, ma con un uncino e in essa le maglie presentano un disegno diverso dalla calza. La calza è antichissima, essendo già nota all'uomo neolitico lacustre, agli antichi Ebrei, all'India, alla Cina; i Greci e i Romani, i quali portavano vesti molto ampie, non la usavano quasi per nulla. Era nota anche alla cultura messico-andina, e si è anche introdotta più all'est, ma, in generale, le culture inferiori non la praticano (va qui notata che alcuni oggetti d'intrecciatura a spirale senza armatura presentano lo stesso disegno di certi tessuti a maglia). 3. La rete, che è in origine del tipo di quella dei pescatori: è fatta con un sol filo ma le maglie di esso non sono semplicemente abbracciate bensì presentano un nodo ad ogni incrocio. Gl'Indiani dell'Ovest e del Sud degli Stati Uniti hanno la specialità di mantelli fatti con una specie di rete sulla quale vengono applicate delle penne.

Le stoffe si possono quindi distinguere nella maniera seguente:

Le stoffe, una volta tessute, ricevono un appretto e dei colori in maniere diverse; gli appretti e le tinture sono antichissimi ma si sono sviluppati specialmente con la cultura moderna. Speciale menzione è dovuta ai diversi procedimenti usati per ricoprire le porzioni di tessuto che non devono ricevere il colore. L'Indonesia pratica quattro sistemi: il planghi, il batik, l'ikat semplice e l'ikat doppio: il planghi consiste nel ricoprire meccanicamente (con fibra, legno, ecc.) le parti che non devono essere colorate. Col batik queste parti vanno coperte con un ingrediente speciale (in genere cera); con questo sistema si ottengono risultati più fini del planghi. L'ikat semplice consiste nel ricoprire, invece del tessuto ultimato, soltanto i fili dell'ordito ancora sul telaio. L'ikat doppio è più complicato poiché con esso si opera separatamente sulla trama e sull'orditura. Per poter tingere la trama questa è provvisoriamente disposta su un telaio speciale sul quale viene fatta la copertura e la colorazione; la trama è in seguito sfatta e tessuta con l'orditura cercando di ottenere la stessa disposizione che essa aveva nel telaio provvisorio. Questi procedimenti hanno raggiunto un grande sviluppo nella regione Indonesiana (Indocina e Insulindia) della cultura malese-polinesiana, ma non si può dire se essi le appartengano veramente oppure se il principio sia un prestito della vecchia cultura dell'India che pure li conosceva. Giava pratica specialmente il batik, poco l'ikat. Recentemente è stato riscontrato l'uso dei due procedimenti più semplici, il planghi e l'ikat semplice nell'antico Perù (R. d'Arcourt), ciò che costituisce una prova di più dei rapporti maleo-polinesiani con l'America Meridionale, anteriormente allo sviluppo completo dei procedimenti di copertura e di tintura.

Dalle osservazioni che seguono si capisce subito quale spinta abbia dato all'industria dell'abbigliamento la cultura moderna nel suo stadio più recente; mentre la maglia, come era praticata nel passato, permetteva a una lavorante abile di eseguire da 150 a 200 maglie al minuto (e si è lavorato in questo modo fino al sec. XIX), le macchine attuali fanno varie centinaia di migliaia di maglie nello stesso tempo. Anche le tecniche affini hanno nella stessa epoca ugualmente progredito e si può quindi dire che l'attuale fioritura dell'industria dell'abbigliamento sia dovuta all'invenzione successiva, in meno di 100 anni, delle seguenti quattro macchine: macchina per filare: seconda metà del sec. XVIII; per tessere: fine del sec. XVIII; per maglieria: principio del sec. XIX; per cucire: prima metà del sec. XIX.

Distribuzione geografica dei materiali d'abbigliamento. - La carta qui unita dei materiali dell'abbigliamento, materie prime o elaborate, richiede qualche commento. Le aree indicano solamente le materie che vi predominano e questi dominî sono stati delimitati senza sovrapposizione allo scopo di non creare confusione. L'indicazione di nudità per l'Australia non significa che tutte le tribù di questo paese vadano nude, ma la nudità è così frequente in essa che caratterizza la regione. Anche nelle piccole aree segnate con la N solo alcune tribù vanno completamente nude. La denominazione di perizoma non indica soltanto il perizoma vero di fibre pendenti, ma tutte quelle forme, a partire dal semplice corpipudende vegetale, che hanno l'ufficio del perizoma; nell'Africa si trovano perizomi e copripudende vegetali sparsi nei dominî della pelle, della tapa, della fibra intrecciata e anche del cotone; sono però di secondaria importanza ed è lecito ometterli.

La ripartizione delle materie usate per l'abbigliamento nell'Africa mostra che se l'ambiente esercita su di esse il maggiore influsso, il fattore culturale non è tuttavia trascurabile. Così l'Africa meridionale presenta, nell'insieme, le vesti di pelle, ciò che è dovuto al clima relativamente temperato, ma a volte rude della regione. D'altra parte le vesti di origine vegetale, sia di scorza battuta, sia di fibre intrecciate corrispondono grosso modo alla foresta equatoriale e a Madagascar e sono frammiste alle vesti di pelle nella zona orientale.

Gli oceani non sono traversati da limiti; infatti l'Oceano Pacifico è stato probabilmente la via per la quale la tecnica della tapa è passata dalla Polinesia all'America; se ne trova sporadicamente nel nord-ovest dell'America Settentrionale, ma è nella regione occidentale della foresta tropicale sud-americana, indicata sulla carta, che queste stoffe di scorza sono più frequenti. La Polinesia è stata separata dall'Indonesia, sebbene tutte e due possiedano la tapa, e ciò perché quantunque essa sia diffusa quasi in tutte le isole dell'Indonesia e serva talvolta, come a Celebes, per la confezione di costumi completi che rassomigliano ai vestiti europei, ha quasi dovunque la concorrenza del perizoma (nel senso largo); predomina invece in maniera assoluta nella Polinesia, dove costituisce uno degli elementi più distintivi. Nell'Oceano Indiano, il Madagascar forma una zona di convergenza e di passaggio delle diverse modalità; possedendo la tapa, essa riunisce così i dominî indonesiano e africano di essa; i suoi tessuti di fibra devono essere messi in rapporto con quelli simili del continente africano; infine, delle tre regioni a tessuti di cotone dell'Africa, sebbene quello di NE. si riunisca direttamente all'India, quello dello Zambesi vi si ricollega per mezzo precisamente del Madagascar. Per quel che riguarda il dominio dei tessuti di cotone del Sudan occidentale, anch'esso deve essere posto in rapporto con l'India, ma indirettamente, sia attraverso il Sahara (da N. a S.) sia col periplo mediterraneo-atlantico. Mentre possediamo studî d'insieme assai completi sulle vesti dell'Africa (Scurtz, Ankermann e specialmente Frobenius) mancano invece studî analoghi per l'America Meridionale, per la quale quindi la carta è più schematica che per l'Africa. Nell'America, i tessuti di cotone appartengono alla cultura messico-andina, ma superano i limiti normali di questa, perché se ne fabbricano presso i Pueblos, nel sud degli Stati Uniti, nelle Antille e perfino molto lontano, ad E., nella regione pará-andina.

Il cotone delle culture occidentale e sinica è, nella carta, omesso, poiché né nell'una né nell'altra esso è elemento caratteristico. In Occidente il lino costituisce il tessuto più fine per eccellenza. Nell'Estremo Oriente la seta è il tessuto usato dalle classi alte ed era in passato proibito alle classi inferiori, le quali utilizzavano invece la canapa in un grado poi mai più raggiunto. Col termine di "lana" va intesa la lana tessuta (i tessuti di lana delle Ande che si fabbricano fin presso gli Araucani del Chile sono di lana di lama, di alpaca e di vigogna); la lana pressata è il feltro, in nessun altro luogo impiegato come nell'Asia centrale. La pelliccia è naturalmente un abbigliamento del Nord, che diventa cuoio nelle regioni subartiche specialmente dell'America Settentrionale. Va notato come una regione tanto calda come il Chaco paraguayo-boliviano, presenti come forma tradizione di abbigliamento la pelliccia (accanto a vesti di altro materiale), ciò che, secondo E. Nordenskiöld, indica un antico rapporto culturale fra la Terra del Fuoco e il Chaco.

Il taglio e la forma dei capi di vestiario. - Fra le vesti il cui scopo principale è quello d; nascondere il sesso, ve ne è una che deve essere citata per l'uso, sintomo di rapporti culturali, che le si vuole assegnare: è la cintura a T. Di essa vi sono due tipi; il primo, più semplice, deve essere considerato come cronologicamente anteriore e può essere chiamato "pseudo-cintura a T". Si compone di due pezzi: una cintura qualunque girata intorno ai fianchi e un pezzo stretto di stoffa, pure qualunque, che passa fra le gambe e si ferma alla cintura davanti e di dietro, oppure gira intorno a questa e ricade con un'estremità in avanti e l'altra di dietro. La vera cintura a T è di un sol pezzo stretto e lungo: viene fissata nel mezzo sull'addome, le due estremità sono incrociate sul dietro, passano insieme fra le gambe e si avvolgono anteriormente alla cintura per ricadere sul davanti (l'operazione può essere anche inversa). La cintura a T si trova in tutta l'Asia meridionale ed estremo-orientale, dall'India al Giappone. Se in questo grande dominio il procedimento può essere stato creato più di una volta, si può però anche supporre che esso si sia diffuso in tutta l'area in questione per i rapporti effettivi esistenti fra le varie popolazioni di essa. Ma si trova talvolta la cintura a T anche nell'America e specialmente nell'Africa.

Un altro costume ridotto che va ricordato è quello che potremo chiamare la gonna semplice. È questo un pezzo di stoffa rettangolare girato intorno ai fianchi, non annodato, ma semplicemente sostenuto infilandone l'estremità libera fra il corpo e il bordo della stoffa alla vita. Nell'Indonesia essa è chiamata sarong, ma la si trova nel mondo intero, di dimensioni assai varie, che vanno dalla cintura larga alla veste che sale fino alle ascelle e giunge fino a terra; tuttavia, perché tale costume meriti il nome di gonna semplice o di sarong, il suo sistema di applicazione deve essere quello sopra citato.

Oltre al grembiule pubico, al perizoma, alla cintura a T e alla gonna, l'Indonesia presenta spesso dei camici, con le maniche per le donne, senza maniche per gli uomini. Ma quello che distingue specialmente l'Indonesia e la cultura malese-polinesiana in genere, è un carattere negativo: la mancanza di calzoni; quelli che s'incontrano nei suoi limiti sono di origine secondaria. La presenza dei calzoni è in rapporto col clima freddo o temperato. Ma ciò non è detto in maniera assoluta poiché i Fuegini e i Patagoni seminudi (che pure abitano una terra dal clima freddo e ventoso) si coprono occasionalmente con una pelle o con una pelliccia, mai però nella forma di calzoni. I calzoni sono invece portati da tutte le popolazioni iperboree.

La cultura occidentale antica non ha conosciuto i calzoni (v. questa voce per la storia di questo indumento nei paesi occidentali), la cultura islamica li conosce, però non li usa in generale e dà la massima importanza al drappeggio del costume; anche il burnus (v.), ampio mantello a cappuccio, può rientrare per gli effetti che con esso si possono ottenere, nel drappeggio. Gli Abissini, che non sono musulmani, hanno come costume, calzoni semilunghi e un largo panno rettangolare sulle spalle drappeggiato. Il drappeggio si riscontra fino nell'India, generalmente accompagnato, dal Marocco all'India, esclusa l'Abissinia, dal turbante. Così, esso, che ha costituito la caratteristica della cultura greco-romana, è stato abbandonato dalla cultura occidentale la quale ha assunto il costume moderno, ampio all'inizio, ristretto poi durante il Rinascimento per divenire alla fine del sec. XVIII quello che è in uso ancor oggi: panciotto, giacca e calzoni lunghi. Il drappeggio invece diventa di uso più comune nel vicino e nel medio Oriente. I calzoni sono conosciuti dall'Asia centrale dove essi sono, in genere, ricoperti da un abito ampio; il tutto accompagnato da stivali e da un copricapo a punta. Sono pure noti nella Cina dove furono introdotti dai Turco-Tatari, in un'epoca relativamente recente.

Gli Eschimesi che sono la popolazione iperborea insediata nel clima più estremo, hanno un costume che comprende: una giacca a maniche, calzoni e stivali; il tutto, di pelliccia, è raddoppiato di numero in inverno. Il costume degli Amerindî della regione subartica e temperata non è molto diverso nel principio, ma è di cuoio invece che di pelliccia: giacca con maniche più spesso, invece dei calzoni, alti stivali aderenti che possono formare un tutto col mocassino; questi stivali sono attaccati a una cintura che fa nello stesso tempo da copripudende; una pelle di bufalo viene eventualmente fissata sulle spalle.

I costumi del ciclo culturale messico-andino interessano per il confronto con quelli delle civiltà del mondo antico. Sull'altipiano messicano l'uomo portava, come veste caratteristica, una grande coperta annodata sulla spalla destra; sebbene questa coperta-mantello appaia rigida nei rozzi disegni degli antichi Messicani, pur tuttavia essa doveva essere morbida: cioè drappeggiata. La donna portava una blusa senza maniche, talvolta anche un poncho (v.). Al contrario, nel Perù l'uomo portava una blusa senza maniche o il poncho, mentre la donna si avvolgeva con una grande coperta sostenuta da due cinture e da due grandi spille a disco.

L'America Meridionale usa anche una specie di sacco aperto in alto e in basso, che modella il torso, ma il poncho, relativamente poco frequente al tempo della conquista spagnola, è divenuto il costume tipico di questo continente; esso è usato non solo dagli Amerindî ma è stato adottato anche dai Bianchi.

Dallo schema che segue risulta, summa summarum, la caratteristica delle grandi regioni del globo. Bisognerà soltanto ricordare che l'Oriente prossimo comprende anche l'Africa settentrionale e che nell'America le zone tropicale e temperata si stendono, in parte, in longitudine, non in latitudine, l'una rispetto all'altra (l'America anglo-sassone è annessa all'Europa). La veste ampia dell'Estremo Oriente va dal costume mongolo al kimono, oggi portato dai Giapponesi, dei quali è espressione tipica.

I costumi caratteristici delle grandi regioni sono:

Riferendo i dati della tabella ai cicli culturali, si osserva che la vestecintura è propria dei cicli inferiori (fino al ciclo maleo-polinesiano compreso), che l'abbigliamento completo di pelliccia è il costume del ramo artico del ciclo pastorale, che il costume delle zone temperate corrisponde ai cicli culturali superiori: il poncho al ciclo messico-andino (nonostante che la sua origine possa essere polinesiana e il suo grande sviluppo sia avvenuto dopo il declino del ciclo messico-andino), la veste ampia al ciclo sinoico, il drappeggio ai cicli indiano e islamico (come pure in passato, al ramo greco-romano del ciclo occidentale), il costume completo aderente, infine, al ramo moderno del ciclo occidentale.

La calzatura e il guanto. - Si possono distinguere quattro specie di calzature: il sandalo, il mocassino, la scarpa, lo stivale (v. calzatura; mocassino; sandalo; scarpa da neve; zoccolo). Vi sono naturalmente forme di transizione fra quelle sopra indicate.

Facendo astrazione della parte settentrionale, musulmana, e di altre eccezioni (stivale dei Mossi del Sudan centrale), l'Africa, o presenta il piede nudo, oppure porta il sandalo. Quest'ultimo è usato generalmente allorché lo stato del suolo lo esige; così nell'Etiopia, l'Abissino, che rappresenta tuttavia l'elemento dominante, cammina a piedi nudi, mentre il Somalo è fornito di sandalo; ciò è dovuto al fatto che le pietre del deserto somalo sono, nel mezzo del giorno, così calde che perfino il piede dell'indigeno non può sopportarle. Le popolazioni oceaniche vanno a piedi nudi. Nell'America Meridionale si possono distinguere tre regioni. I Patagoni e i Fuegini, quando non vanno scalzi, portano una calzatura del genere del mocassino. Nell'immenso dominio della foresta tropicale, l'indigeno cammina generalmente scalzo; si segnalano tuttavia alcune eccezioni: i Paressi (Arawak), del Matto Grosso, portano sandali fatti di gambi intrecciati, gli Ochukayana (Ge), all'estremità orientale dell'altipiano brasiliano, che vanno nudi o quasi, usano sandali fatti con un pezzo di scorza. La terza regione dell'America Meridionale è costituita dalle Ande, sulle quali viene portato il sandalo.

L'America Settentrionale presenta quattro zone (v. mocassino). Sull'altipiano del SO. si ha un sandalo a ghetta, vale a dire un sandalo sul quale sono fissati dei pezzi che risalgono e avvolgono più o meno la gamba, eventuale sviluppo del sandalo messicano con tallone a ciotola. Nelle pianure centrali si ha lo pseudo-mocassino, calzatura a suola indipendente, come la scarpa e la pantofola, ma la cui morbidezza e ornamentazione imita il mocassino. Nella metà orientale degli Stati Uniti e nel sud del Canada si ha il mocassino vero nel quale la suola e il dorso sono di un sol pezzo. Infine nell'estremo nord, gli Eschimesi hanno lo stivale di pelliccia.

Nell'Eurasia esistono due zone di mocassino vero: da una parte la regione abitata dagli Ainu e dai Tungusi del basso Amur, dall'altra la Lapponia. Fra le due è la regione settentrionale e centrale dello stivale di pelliccia, di cuoio, di feltro. Nella Russia europea lo stivale, oltre al sandalo di scorza intrecciata usato in estate dai contadini, è la calzatura abituale e, anche in Germania, esso è molto più frequente che nell'Europa occidentale.

Lo stivale è dunque in Asia nel suo proprio dominio, più che altrove, e dai Tatari esso è stato introdotto in Cina. In questo paese e in quelli di cultura affine, si ha il sandalo di paglia e anche la scarpa che si può talvolta qualificare come "coturno" per la suola massiccia; è qui che si trovano anche gli zoccoli allungati che fanno da pattini da neve. Ma la calzatura più caratteristica è la tavoletta (montata su piccoli cavalletti, in caso di cattivo tempo) che conferisce un'andatura analoga a quella che si ha camminando sui trampoli. Va notato il senso di pulizia che il Giapponese ha in grado maggiore del Cinese e dell'Europeo: egli infatti toglie sempre la sua calzatura prima di entrare in una casa; perfino nei grandi negozî moderni, dove circola gran folla, esiste all'ingresso un servizio d'ordine per far infilare delle pantofole a coloro (gli Occidentali) che non si levano le scarpe. Nell'Asia sud-orientale il piede è generalmente nudo, come nell'Oceania.

Nel mondo islamico, a cavallo su tre continenti, sebbene si trovino scarpe e stivali sempre di morbido cuoio e di colore giallo o rosso, la calzatura tipica, per gli uomini e per le donne è la pantofola. Per quanto si può risalire nella storia, si riscontra che l'impiego del sandalo è stato corrente nel mondo occidentale. Il mocassino, oggi ridotto alla sola Lapponia, è stato probabilmente diffuso in passato su un'area più grande, come risulta da alcune vecchie descrizioni. Lo zoccolo, ancor oggi largamente usato nelle campagne, era già conosciuto dai Greci e dai Romani. Lo stivale, in Occidente calzatura soprattutto militare, aveva già lo stesso uso presso gli antichi Greci, i Galli, i Germani e i Romani dell'epoca imperiale. La scarpa, invece, si manifesta relativamente tardi; non la s'incontra in Egitto che sotto i Tolomei; i Greci e i Romani non la usavano che sussidiariamente. Ai nostri giorni, come ognuno può constatare, la scarpa ha acquistato il predominio assoluto nel mondo occidentale.

Per ciascuno dei cinque continenti si può riconoscere assai schematicamente una maniera predominante o tipica per calzare il piede: in Africa, tendenza a portare il sandalo; in Oceania, tendenza a camminare scalzi; in America, tendenza a portare il mocassino; in Asia, tendenza a portare lo stivale; in Europa, tendenza a portare la scarpa.

Il guanto è portato naturalmente dalle popolazioni dell'ambiente artico. Il vecchio mondo occidentale, pur non avendolo ignorato, non se ne serviva che eccezionalmente. L'uso corrente di esso proviene dalla cultura moderna, ed è divenuto generale nel sec. XVI.

Il copricapo. - Non è possibile citare le forme innumerevoli di copricapo usate nel mondo, tanto più che, per una stessa regione, esse possono essere molto diverse a seconda della stagione, della classe sociale, e lo scopo del loro uso (cerimoniale). Tenteremo tuttavia di tracciare le linee generali di questa estrema diversità.

Le popolazioni negre, le più esposte al sole, sono tuttavia quelle che si servono meno del copricapo. L'uso del copricapo è occasionale; esso è in generale portato dai capi, dai guerrieri o durante cerimonie diverse. Nell'Africa meridionale e sulla costa orientale predominano i copricapo di pelle; nella zona congolese-guineana della foresta equatoriale, si trovano cappelli e cuffie intrecciate, ma queste si stendono anche molto più a nord della foresta equatoriale; così si incontrano nel Sudan e nell'Etiopia (nel Caffa vi sono berretti intrecciati di fibre di banane con fiori che formano un rivestimento esterno); tuttavia l'Abissino propriamente detto si limita quasi sempre a una fascia frontale.

L'Australia non possiede copricapo. La Papuasia ne ha invece numerosi, assai diversi a seconda delle località, ma sono soprattutto copricapo cerimoniali. Nella maggior parte della Papuasia troviamo un copricapo di tipo uniforme usato in caso di pioggia: è un grande cappuccio che scende fino a metà del dorso, fatto di foglie di pandano cucite insieme; è questo un elemento del ciclo culturale dell'arco piatto. La Micronesia possiede cappelli dello stesso materiale e della forma dei cappelli di carta a due punte dei nostri ragazzi; copricapo questo che non manca di rapporti coi precedenti.

L'America può essere divisa in tre zone: penepiano orientale, zona montagnosa occidentale, zona artica. Per gli abitanti della zona orientale una o più penne fissate sulla testa tengono il posto di copricapo. Queste penne vengono portate nelle due maniere principali seguenti: nella maggior parte dell'America Settentrionale, Centrale e Meridionale, una fascia frontale sostiene delle penne fissate verticalmente a un diadema, mentre nelle pianure del Missouri gl'Indiani portano una calotta sulla quale si fissa sia un paio di corna sia una corona di penne che scende posteriormente fino al suolo. Nella zona occidentale si hanno veri copricapo, a partire già dagli Eschimesi dell'Alasca meridionale fin presso i Diaguiti dell'Argentina. Nell'America Settentrionale dal sud dell'Alasca fino alla California, regione i cui abitanti sono conosciuti per i loro lavori d'intrecciatura, è frequente un copricapo a cuffia intrecciata. Poi in tutta la zona della cultura messico-andina i copricapo divengono numerosi e diversi quanto più si procede verso sud; la varietà è massima nelle Ande dove si trova, a seconda dei distretti e delle classi (statuette e pitture ne fanno testimonianza), sia una specie di turbante, sia una cuffia ad alette, sia piccole calotte, come pure berretti da granatiere, cappelli alla Napoleone e una forma simile all'elmo a chiodo. La maggior parte degli Eschimesi della zona artica possiede come copricapo un cappuccio attaccato alla pelliccia.

Nell'Asia, nella zona artica, i Samoiedi e gli Ostiachi hanno pure il cappuccio unito con la pelliccia, presso le altre popolazioni il cappuccio di pelliccia è staccato. Due popolazioni paleoasiatiche, i Ghiliachi e i Goldi portano, in estate, un copricapo a cono schiacciato, di scorza di betulla ricoperto di pitture. Escluso il materiale, è questo un elemento che a loro proviene dalla cultura sinica. Quest'ultima infatti è più caratterizzata da tale forma di cappello estivo di materiale intrecciato che non dai diversi berretti da casa e da inverno. Il cappello a cono appiattito è, d'altra parte, passato dalla Cina all'Indonesia dove, specialmente nell'Insulindia, è arricchito di ricami; esso ha raggiunto uno sviluppo considerevole anche presso diverse popolazioni relativamente primitive. Nell'Indonesia, anche i turbanti sono un elemento venuto dal di fuori, in genere insieme con l'Islām. Il fazzoletto da testa, portato specialmente dalle donne, è un antico elemento sia indonesiano sia indù. Tra le forme più eccentriche segnaliamo i cappelli da cerimonia dell'isola di Botel Tobago (Kōtō Shō), presso Formosa, costituiti per gli uomini da una specie di secchio rovesciato sulle spalle con dei fori per gli occhi, per le donne un cappello di legno a due piani molto simile a due piani sovrapposti di pagoda. Le popolazioni pastorali mongole portano una piccolissima calotta appuntita o a sommità piatta, eventualmente a bordi rialzati, di pelle, di feltro, o di altra stoffa. Il turbante non esiste, ma non perché esso non appartenga all'Islām; infatti il Turkestan, islamico, lo aveva in passato; oggi ha un berretto di pelle di montone con o senza alette, oppure il cappuccio dello stesso materiale, sempre con la pelliccia all'interno: il berretto del Turkestan ha, nella Persia, detronizzato il turbante. D'altra parte questo, che accompagna generalmente un berretto (fez, tarbush) ed è portato sempre con la testa rasata, non è solo caratteristico della cultura islamica centro-occidentale. Sotto un'altra forma, è vero, esso è usato dalla cultura indoide; nella cultura islamica il turbante è generalmente avvolto a spirale; nella cultura indoide esso forma sul davanti due diagonali che s'incrociano ad angolo retto.

Per i copricapo della cultura occidentaloide, v. cappello (VIII, p. 890 e le altre voci citate nella stessa pagina).

Gli accessorî. - Gli accessorî dell'abbigliamento, comprendono: il fazzoletto, il ventaglio, il parasole e il parapioggia, la visiera e gli occhiali.

Il fazzoletto. - L'antico Occidente non ha conosciuto il fazzoletto, questo è apparso solo nel sec. XVI con l'uso delle tasche, a Venezia, ma aveva più che altro la funzione di uno scacciamosche. Ma la cultura sinoide era meno indietro e possiede già da lungo tempo il fazzoletto di carta fine: ogni Giapponese porta infatti nella manica del suo kimono un fazzoletto di carta, che, una volta adoperato, viene immediatamente buttato via.

Il ventaglio. - Il ventaglio usato dall'uomo per sventolarsi può avere due scopi: rinfrescare la pelle e scacciare le mosche. Esso presenta così due forme principali corrispondenti ai due usi: la forma costituita da un pezzo rigido, dalla quale deriva nelle culture superiori il tipo pieghettato, e la forma a pennello, detta scacciamosche. Ma il ventaglio rigido può assumere anche tutt'altro impiego: attizzare il fuoco. Infine, il ventaglio, soprattutto sotto la forma di scacciamosche, può diventare una insegna, distintivo di un rango speciale. In presenza di un ventaglio, non è spesso possibile, se non si conoscono le abitudini della popolazione che lo possiede, dire se esso serve per sventolarsi o per attizzare il fuoco, per scacciare le mosche o come insegna gerarchica. Così non si può, nello studio del ventaglio, fare una distinzione di esso a seconda dello scopo, tanto più che vi sono ventagli che possono avere più di una delle funzioni citate. Infine lo studio dello scacciamosche, che non si può disgiungere da quello del ventaglio, ci porta a considerare anche i veli protettivi contro le mosche, poiché esistono popolazioni vicine, che vivono nello stesso ambiente, alcune delle quali si servono dello scacciamosche ed altre dei veli, differenza, questa, culturale e non mesologica.

Non si riscontrano ventagli rigidi nell'Africa, ma tutt'al più degli scacciamosche. Il ventaglio invece ha una funzione importante negli altri continenti. I ventagli della Polinesia sono così simili a quelli dell'America Meridionale - rigidi, intrecciati, di forma circolare, a losanga o triangolari (v. fig. a culturali, cicli) - che è difficile non attribuire loro la stessa origine. Nella Polinesia, ventagli e scacciamosche servono specialmente per farsi vento e come insegna gerarchica, mentre nell'America Meridionale il loro uso è soprattutto quello di attizzare il fuoco. In quest'ultimo continente si distinguono due specie di ventagli, ambedue per il fuoco: il ventaglio a intrecciatura, come nella Polinesia, e il ventaglio di piume che caratterizza la parte occidentale della foresta brasiliana; le due forme s'incontrano insieme nel Chaco. Anche nell'America Centrale si trovano ambedue queste forme.

I paesi caldi non hanno l'esclusività del ventaglio. Mosche e zanzare sono insopportabili in estate anche nelle regioni iperboree, ed è necessario proteggersi contro di esse. A tale scopo, i Tungusi della Siberia si coprono il viso con un velo, mentre i loro vicini i Jakuti, hanno degli scacciamosche di crine di cavallo. In quanto al ventaglio vero e proprio, in Asia si può dire che esso è un elemento della cultura sinica e particolarmente del ramo giapponese di essa; infatti esso sembra essere stato creato nel Giappone donde sarebbe passato in Cina nel sec. X della nostra era. Ancor oggi il ventaglio ha una funzione importante nel Giappone; avviene spesso di vedere indigeni portarlo alla cintura; durante il giorno esso serve, oltre che allo scopo principale, a porgere piccoli oggetti; ha inoltre molta importanza nelle danze. La sua forma corrente è, oggi, nella cultura occidentale, pieghettata, a semicerchio, ma anch'essa proviene dall'Estremo Oriente. I Portoghesi l'hanno portata di là, e quindi, attraverso la Penisola Iberica, si è diffusa in Europa.

Il parasole e il parapioggia. - Di questi due ripari portatili il primo è molto più antico del secondo, almeno in Occidente e nella sua forma caratteristica. Il parasole, per quanto si può risalire la storia delle civiltà superiori, è stato l'insegna delle alte cariche. Sui bassorilievi dell'antico Egitto e della Siria esso rappresenta un attributo della regalità, e il baldacchino sotto il quale si siedono ancora sovrani e dignitarî religiosi deriva da esso. La stessa funzione ha il parasole in alcuni paesi musulmani, come pure nell'Abissinia; quivi soltanto i membri della famiglia imperiale e i più alti dignitarî della chiesa possono ripararsi alla sua ombra. Vi sono infine parasoli simili anche nell'area della cultura sinica; alcuni bassorilievi di Angkor-Vat nel Cambogia, mostrano che il parasole è il simbolo di un rango sociale elevato; è anche un segno di distinzione nella Cina moderna. Presso gli antichi Greci esso era comunemente usato dalle donne per ripararsi dal sole e poteva aprirsi e chiudersi come gli ombrelli attuali. Sotto l'impero, Roma adottò correntemente il parasole, il quale poi si conservò in Italia; solo nel sec. XVII esso si diffuse in Francia ma nella sua forma rigida; vi divenne pieghevole nel sec. XVIII.

L'ombrello da pioggia è di uso molto antico nell'India e nella Cina; in quest'ultima è fatto di una materia oleosa ed è usato anche oggi perfino dai soldati. Per l'Europa, v. ombrello.

La visiera e gli occhiali. - Il riverbero del sole sull'acqua e sulla neve rende spesso necessaria una protezione degli occhi. Le visiere e gli occhiali s'incontrano quindi nelle regioni marittime come l'Oceania o nelle regioni nevose, quali l'Asia centrale e le regioni artiche.

Si vedono comunemente figure di Papuasi delle Isole Salomone, con la faccia protetta da una visiera triangolare posta lateralmente. I Polinesiani delle Isole Samoa portano visiere che permettono loro di scorgere da lontano gli uccelli che rivelano la presenza di banchi di pesci. Le donne Kafir (Hindu-kush) si proteggono dai raggi del sole con una reticella pendente dalla cuffia, ma questo sistema protettivo ha anche un valore animologico (va notato che i Kafir non sono musulmani). Nelle regioni fredde tuttavia si trovano comunemente sia visiere sia occhiali di legno o di cuoio, cioè placche con aperture molto strette per gli occhi. Nel Tibet gli occhiali sono di crine di cavallo intrecciato. Nell'Asia settentrionale, dai Samoiedi a ovest ai Paleoasiatici a est si trovano occhiali di crine di cavallo, di crine di renna, di scorza di muschio, di legno e anche di latta, oppure fasce frontali con lunghi peli che fanno da visiera. I Camciadali, come, dall'altra parte del Pacifico settentrionale, gli Aleuti e gli Eschimesi dell'Alasca, hanno vere visiere di legno ricoperte da pitture. Gli altri Eschimesi possiedono occhiali di legno, ad eccezione di quelli della costa orientale della Groenlandia, i quali usano visiere a forma di fasce frontali.

Sarebbe un errore attribuire a un'influenza culturale speciale l'insieme dei mezzi di protezione contro il riverbero. La reazione protettiva è una questione mesologica. Invece, esaminandoli nei particolari, si possono osservare rapporti culturali, come, per esempio, tra le visiere dei Camciadali e quelle degli Aleuti.

L'acconciatura. - È difficile classificare morfologicamente gli oggetti dell'acconciatura, poiché fra essi si possono osservare infinite forme di transizione. Proponiamo l'osservazione dei tre gruppi seguenti 1. ornamenti naturali: fiori, piume, pellicce, conchiglie, denti, ecc.; 2. ornamenti perforanti (v. deformazioni e mutilazioni del corpo: Nuova Guinea, Nuove Ebridi, Senoi di Malacca, alcune tribù Caraibiche, ecc.), che attraversano il setto nasale oppure il lobo dell'orecchio; 3. ornamenti liberi, cioè non inseriti nella carne, che sono nella maggior parte di metallo; a questi, nelle culture superiori, vengono spesso aggiunte pietre preziose; tali ornamenti assumono l'una o l'altra delle forme seguenti: anello, braccialetto, collana, cintura, catena, pendaglio, bottone, fermaglio, spillo, diadema.

Questi tre gruppi si sovrappongono cronologicamente: tuttavia il gruppo degli ornamenti naturali comprende gli elementi più semplici e i più antichi: quali, per es., i fiori tra i capelli. Le perforazioni sono, in genere, posteriori e quelle che pemiettono di portare orecchini sono ancor oggi in uso. Infine gli ornamenti liberi, sebbene anch'essi molto antichi, rappresentano la massa dell'acconciatura moderna.

Ma esiste un'altra classificazione, per così dire psico-fisiologica, immaginata dal Selenka, che deve essere esposta. Essa considera gli oggetti per l'acconciatura, secondo il criterio seguente:

1. l'ornamento a forma circolare ha come scopo (cosciente o incosciente) di far risaltare la rotondità e l'indipendenza della parte del corpo munita dell'ornamento (anello, braccialetto, collana); 2. l'ornamento a pendente ha per scopo di far risaltare il contorno del corpo con linee verticali (nastrini, catene, vesti piegate, strascichi, capelli sciolti); 3. l'ornamento di direzione rappresenta la tendenza ad andare avanti, ad imporsi (ornamenti di penne degli Amerindî, pennacchi degli elmi dell'Occidente); 4. l'ornamento placcato ha lo scopo d'imporsi (placche frontali negli alti cappelli dei soldati antichi, il cilindro, le spalline, la crinolina), 5. l'ornamento colorato attira l'attenzione per la sua colorazione e brillantezza (fiori nei capelli, pietre preziose, spille); 6. l'ornamento a costume completo comprende tutte le vesti o capi di vestiario che hanno per scopo principale l'ornamentazione.

È evidente che l'attribuire un ornamento all'uno o all'altro dei sei gruppi psico-fisiologici suesposti è talvolta difficile e che esso potrà appartenere a più gruppi.

Relativamente alla pratica dell'acconciatura nelle diverse epoche e nelle diverse culture, si dice comunemente che essa sia sempre esistita; e ciò è vero per quanto si può risalire nella storia, ma l'etnografia moderna ci mostra che le popolazioni appartenenti alla cultura primordiale (specialmente Pigmei) ignorano quasi del tutto ogni forma di ornamento personale.

La pittura del corpo, il tatuaggio, le mutilazioni sono pratiche che hanno origine più da credenze complesse che non da un semplice spirito di ornamentazione e non possono quindi essere considerate con l'acconciatura.

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Vesti popolari.

Le tipiche vesti popolari, che servirono a differenziare le genti secondo i paesi e le classi, sono ora rintracciabili soltanto in località remote, nei villaggi, dove i vecchi modelli e le fogge peculiari sopravvivono ora in forme più vicine ai tipi da cui derivano, ora con ritocchi rispondenti ai tempi rinnovati. Le indagini che si vanno allargando e approfondendo permettono di chiarirne sempre meglio i caratteri e la continuità storica. Così alcuni studiosi ravvisano nelle ragas sarde, nei kilts scozzesi, nelle fustanelle balcaniche il perpetuarsi della foggia della balza che i legionarî romani portavano sotto la lorica; altri scorge nella linea di alcuni abiti femminili della Sardegna, molto rilevanti per la vita stretta e per altri particolari, la continuazione di antichissimi costumi mediterranei, testimoniati dagli avanzi archeologici protoegei, da Cnosso a Malta, e da quelli fenici della Spagna; mentre la testimonianza di Dante (nurg., XXIII, 94 segg.) può valere a confermare la continuazione nel Medioevo delle vesti femminili della Barbagia. Così, il cappotto marinaro con cappuccio accompagnato dal berretto floscio e ricadente, è tipico e si trova su tutte le coste del Mediterraneo. Documenti importanti sono anche quelle pitture medievali e moderne in cui personaggi di epoca remota sono raffigurati con le vesti in uso al tempo del pittore.

Indipendentemente dall'origine e dalla provenienza, le vesti adoperate dal popolo vanno considerate nella materia (pelle, lana, tela, seta) e nella forma: cioè vesti ampie e distese e vesti aderenti al corpo. Sull'uno e sull'altro fatto influiscono circostanze differenti: l'ambiente fisico e il clima, e i rapporti umani, migrazioni, guerre, mescolanze, industrie, commerci, consuetudini e leggi; in particolare le leggi suntuarie, che spesso affiancarono l'azione della Chiesa. Così, è fama che per il giubileo di Gregorio XIII (1575) le donne di Nettuno comparissero in Roma nell'abito paesano, cioè in gonna rossa e col turbante in testa, e che essendo la gonnella molto corta, la Camera apostolica provvedesse a farla allungare; e che nella Tuscia gli abiti di monachino (panno di color marrone) e in genere scuri e serî apparissero in seguito alla predicazione di S. Bernardino; mentre l'uso delle donne, pur comune a varî luoghi (fra cui alcuni della Sardegna), di riportare sul capo il telo posteriore della gonnella, coprendone la fronte e il mento sicché il viso si mostri incorniciato, è spiegato ad Ardore (Reggio Calabria) come dovuto all'atteggiamento di vergogna assunto dalle donne in seguito all'instaurazione del diritto signorile.

Gl'indumenti di pelle conciata usati ancora dal popolo sono panciotti, casacchine, abiti, mantelli, adoperati non solo dall'uomo, ma anche dalla donna. Dall'uomo a preferenza, specialmente fra i pastori, i boscaiuoli, e in genere i montanari; gente per cui il mantello è un capo di vestiario indispensabile, in molti luoghi adoperato anche dalle donne che lo portano con maggiori ornamenti. Vesti di cuoio in forma di panciotto, di casacchina, ecc., sono tuttora adoperate e fabbricate nell'Europa centrale e orientale (Ungheria, Iugoslavia, Romania, Bulgaria, ecc.). Bellissimi i mantelli dei paesi carpatici e danubiani, specie nella Piccola Comania, i costumi maschili della zona del Tisza, i panciotti della Transilvania, e le graziose casacchine usate dalle donne dei paesi transdanubiani. In varie località l'abito di pelle è ora ridotto alla sola sopravveste o pelliccione (in Sardegna bestipedde o mastruca), di pastori e mandriani e al solo grembiale per le donne, che spesso è di pelle scamosciata con qualche disegno impresso.

Ora in concorrenza col cuoio, ora in sua sostituzione si usa, nella confezione dei vestimenti per l'uno e per l'altro sesso, il panno, che è indicato con nomi diversi a seconda della maniera e della materia ond'è fabbricato. I tessuti di cotone, di canapa, di lino, ecc., sono usati per la biancheria, specialmente per la camicia. Questa, benché non sia di origine, in genere, molto antica (v. biancheria), offre nei ceti popolari varietà di forme e di ornamenti, e talora costituisce uno dei più caratteristici capi del vestiario maschile e femminile, specialmente là dove la parte superiore è in mostra e abbellita di ricami, trine, ecc.; talvolta la camicia, segnatamente femminile, s'identifica con la tunica. Le maniche sono in alcune regioni aperte e larghe, in altre lunghe e strette all'estremità. Nei giorni solenni alla camicia ordinaria si sostituisce quella festiva con le spalline, i polsi, il colletto ricamati o coperti di applicazioni colorate o di nastri.

Quanto alla forma delle vesti, la prima distinzione riguarda l'ampiezza e l'aderenza. In varî paesi persiste l'uso delle vesti lunghe e distese, tanto per gli uomini, quanto per le donne, salvo particolari adattamenti.

I popolani della Grecia usavano un tempo vesti di tale tipo, che caratterizza i popoli dell'Europa orientale, ma a differenza dei Moscoviti, che le portavano disciolte, essi le cingevano. Ordinariamente il lungo camice femminile si presenta di due fogge, le quali si notano distintamente nella Bulgaria; l'una chiusa sul davanti, l'altra aperta completamente. Ma tanto questa quanto quella sono accompagnate dal grembiule. Nella forma meno semplice, quest'abito consiste in un sol pezzo molto pieghettato che ricopre tutto il corpo, lasciando intera la libertà dei movimenti. Il pezzo di stoffa che serve da grembiale e da sottana nello stesso tempo, è adorno, in basso, di ricamo.

Singolare per la struttura, è il vestito femminile a due grembiali, i quali sostituiscono la sottana (Oltenia) e di cui quello posteriore è più corto e molto pieghettato (Bulgaria). Talvolta i grembiali si vedono ridotti a una larga fascia dai 20 ai 40 cm. (Banato).

Senza accennare alla questione se l'uso del doppio grembiale abbia portato a quello della gonnella, questa è ampia di taglio e lunga fino a radere la terra, spesso increspata a scannellature alla vita, e si porta talora rimboccata ai fianchi per mostrare la sottana che è stretta e corta, e per assicurare l'agilità dei movimenti. Il corpetto generalmente attillato, può stare dentro o fuori la sottana; può essere aperto o chiuso alla gola, abbottonato o allacciato.

Quasi scomparsi sono i calzoni corti accompagnati dal corto farsetto, frequenti fra gli uomini ancora fin verso la metà del sec. XIX; e quasi dappertutto, dei vecchi abiti maschili non rimangono che pochi particolari, i quali servono a caratterizzare gl'individui secondo il ceto e il mestiere. Il giubbone lungo di panno grossolano foderato nell'interno di qualche pelliccia e i pantaloni corti sussistono ancora nell'Europa orientale.

Accanto alle forme degli abiti vanno considerate le tinte, anch'esse elementi socialmente importanti, in quanto servirono, e servono tuttavia, a distinguere i ceti, le classi, le gerarchie. Inoltre, ad alcune si attribuisce ancora un significato simbolico e un potere antimalefico, onde si notano preferenze localizzabili anche geograficamente.

La tradizione romana che voleva il rosso, lo scarlatto, la porpora riservati agli uomini delle classi elevate, continuò nel Medioevo e il rosso vivo è ancora per il popolo il colore della gioia, nonché il distintivo delle spose: in molti luoghi la donna, celebrando il fidanzamento o le nozze, o divenuta legittima madre, indossa la sottana di colore scarlatto offerta spesso dallo sposo, o le maniche di seta rossá, o il nastro rosso ai capelli. Le nubili indossano sottane di colore turchino o celeste o verde, le vedove le usano di tinta marrone. Secondo un'altra tradizione antichissima, che si fa risalire all'alba tunica dei Romani, la veste da sposa è bianca (nel Friuli, nel sec. XVI la sposa portava gonnella bianca di broccato, busto alto e adorno di bottoni d'oro, maniche di raso o di teletta di colore argento). La veste dei neonati portati al battesimo è, per una bambina, di colore rosa; per un bambino, celeste. Al rosso si attribuisce invece efficacia contro speciali infermità, specialmente il vaiuolo e la scarlattina.

Nell'Oriente, specie nei paesi mongolici, il colore privilegiato è il giallo, che distingue nel lamaismo i monaci della setta Dge lugs pa (vedi lamaismo, XX, p. 399) e nella Cina rappresentava il colore imperiale (altri colori, il cremisi, il verde, ecc., contrassegnano le gerarchie, mentre il bianco è segno di lutto). Il giallo, al contrario, era segno d'infamia in Europa, dove fu adoperato anche a distinguere i Giudei.

Varie le superstizioni che si riferiscono ai vestiarî. A Lesbo e in altre località, a chi indossa un abito nuovo, si fanno augurî di salute e ricchezza, perché possa averne altri anche migliori. Nelle provincie settentrionali dell'Inghilterra, l'augurio consiste nel riporre nella tasca destra del nuovo vestito qualche moneta d'argento o d'oro, e se il donatore è un amico, egli e il festeggiato si abbracciano e baciano. Nella Scozia, si fanno spesso regali ai fanciulli che indossando abiti nuovi vanno a visitare i vicini.

Gl'indumenti per il loro contatto col corpo sono suscettibili di malefici. Riporli in maniera anormale o alla rovescia o con le tasche rivolte è una cattiva abitudine, che può attirare sull'uomo danni e malanni (Francia, Islanda, Inghilterra). Solo in alcuni casi si consiglia, per allontanare le streghe o neutralizzarne le male arti, di disporre gli abiti alla rovescia o con le maniche in croce o annodate (Belgio, Borgogna, ecc.).

Come in genere dell'arte popolare, anche del costume del popolo è stato detto che esso riproduce, talvolta in maniera imperfetta, i modelli usati in altri tempi dalle classi elevate. Passando dalle corti nei castelli, dalla nobiltà cittadina a quella delle provincie, essi si sarebbero infine, per così dire, depositati lentamente nelle classi umili. Indizî di tale processo non mancano, ma in questo campo le ricerche non sono ancora così conclusive da permettere affermazioni esplicite.

Infatti i costumi popolari, per la loro varietà e per i loro caratteri pittoreschi, richiamarono l'attenzione dei curiosi e degli artisti fin dal sec. XVII; ma solo nel XIX, all'interesse per il "pittoresco" acuito dal romanticismo (si pensi all'opera di artisti quali, in Italia, il Pinelli, il Lasinio, il Gonin, il Cerquotti, i macchiaiuoli toscani, i ciociaristi, gl'illustratori dei costumi del Mezzogiorno, ecc.) si aggiunse un interesse più propriamente scientifico e uno studio metodico, che è lungi dall'essere compiuto. Molte lacune si devono deplorare anche nella raccolta dei costumi popolari. Tuttavia molti costumi sono ormai conservati in musei; i più rari furono ricostruiti fedelmente e talora, insieme con gli abiti, vennero formati campionarî dei tessuti fabbricati nei varî luoghi. In Italia sono importanti la collezione dei tessuti umbri del pittore Rocchi e quella siciliana di G. Pitrè.

Bibl.: Ch. Viski, L'art populaire hongrois, trad. Angel, Budapest 1928; E. Calderini, Il costume popolare in Italia, Milano 1934; R. Corso, I costumi d'Italia (Costumi, musiche, danze, feste popolari italiane), Roma 1931, a cura dell'O. N. D.; N. Iorga, L'art populaire en Roumanie, Parigi 1923; C. Cederblom, Svenska Folklivsb., Stoccolma 1923; Ch. Vakarelski, Note sur l'etnographie des Bulgares, Sofia 1936; V. Isopescu, I costumi nazionali romeni, in Giorn. di politica e letteratura, 1929, pp. 1330-34; G. Jungbauer, Die Kleidung im Aberglauben, in Hochschulwissen, 1929, pp. 358-370, 437-446.

Vesti ecclesiastiche.

La veste come distintivo permanente, e non soltanto liturgico, della professione sacerdotale si trova nelle religioni primitive e in quelle di mistero non già in quelle nazionali o civiche dell'antichità. Si trova nelle religioni primitive perché in queste il sacerdote non è solo l'esperto del rituale ma l'individuo dotato in permanenza di poteri sacro-magici significati da distintivi varî (sacchetti-medicina, bastoni di comando, amuleti).

Nelle religioni di vasti gruppi (città, nazione, impero) è il capo del gruppo (magistrato, re) che prega e sacrifica in nome del popolo mentre il sacerdote (salvo che non si tratti di un individuo o di una corporazione addetta a un culto particolare) è soltanto l'esperto del rituale che guida il magistrato nella celebrazione del rito per fargli evitare gli errori rituali. Perciò tanto in Grecia quanto in Roma i sacerdoti, dopo il rito, depongono gl'indumenti rituali (tunica bianca e corona di foglie in Grecia, toga pretesta in Roma) e ridiventano comuni cittadini.

Invece nelle religioni misteriosofiche il sacerdote, come votato alla divinità patrona del mistero e come intermediario tra questa e i fedeli, veste sempre in una maniera speciale che lo fa in ogni istante riconoscibile (veste bianca di lino per gli orfici, veste bianca e testa rasa per gl'iriaci, veste color foglia secca ed encolpî per i metroaci, e così via).

Il cristianesimo non ha avuto da principio una veste civile speciale per i suoi ministri tanto è vero che le due vesti liturgiche fondamentali, camice e pianeta, non sono che la trasformazione stilizzata della tunica e della paenula che portavano tutti i cittadini sul cadere dell'impero: tutto al più per la paenula era preferito il colore violaceo. Fu il monachismo benedettino che diffuse a poco a poco in tutto l'Occidente la veste lunga e il colore nero. Gli ordini mendicanti (domenicani, francescani, agostiniani), sorti nel Medioevo, salvo il colore e i particolari della forma, adottarono lo stesso tipo di veste lunga.

Le congregazioni religiose sorte dall'epoca del concilio di Trento in poi (gesuiti, barnabiti, scolopî, somaschi, teatini, ecc.), adottarono, salvo leggiere differenze nell'accollatura e nell'abbottonatura, la veste nera talare, mentre il clero secolare fuori della chiesa vestiva un costume che non si allontanava troppo, salvo il colore nero e la maggiore semplicità, dal costume borghese del tempo: calzoni corti, farsetto lungo, cappa nera e cappello a larga tesa. Questa foggia durò fino al principio del secolo XIX, quando il mutamento del costume portato dalla rivoluzione francese persuase la Santa Sede a imporre anche al clero secolare la veste lunga talare la quale non fu adottata per ragioni contingenti dal clero cattolico vivente in paesi protestanti.

La chiesa orientale nei suoi varî riti usa da tempo antichissimo la veste talare cui si sovrappone un ampio mantello a larghe maniche detto dai bizantini rasso (ράσον). In testa un copricapo cilindrico detto calimafki (χαλυμαύχιον) la cui forma e il cui nome variano secondo i varî riti.

Nelle chiese riformate, in conformità alla dottrina del sacerdozio universale dei credenti, non si fa distinzione, nemmeno nella foggia del vestire, tra clero e laicato: tuttavia in alcune è rimasto il vestire di nero e in alcuni casi l'uso del collare, che viene portato regolarmente dagli anglicani: talché questi in alcuni paesi (p. es., Inghilterra e Stati Uniti) non si distinguono dai cattolici, se non per talune particolarità, per es., la foggia del cappello.

Vesti liturgiche. - Sotto questo nome si comprendono gl'indumenti che il clero dei varî riti indossa nelle funzioni liturgiche e soprattutto nella celebrazione della messa, e che sono definiti e determinati nei libri rituali. Sul loro uso, la loro forma e la loro storia si tratta alle singole voci, perciò queste vesti vengono qui considerate solo nel loro complesso. Dall'esame delle fonti risulta che esse traggono origine dall'abbigliamento profano del mondo greco-romano dell'epoca imperiale, senza dubbio con qualche influsso mosaico, dovuto alla lettura rituale delle sacre scritture. Le fonti a cui accenniamo non sono solo indirette, come gli antichi musaici, le sculture, le miniature dei codici, ma anche dirette, quali sarebbero i rituali, i sacramenti, i pontificali, i consuetudinarî, ecc., nonché gli scritti degli antichi liturgisti, come Rabano (morto nell'856), Amalarico (morto circa nell'850), lo pseudo-Alcuino (fine del sec. IX), Ivone (morto nel 1117), Sicardo da Cremona (morto nel 1215), Durando (morto nel 1296), ecc. La storia della loro evoluzione, da piccoli principî raggiunse la pienezza moderna attraverso quattro grandi epoche, ossia: l'età anteriore a Costantino; dal sec. IV al IX; da questo al XIII e dal XIII al tempo presente. Nella prima epoca si trovano vesti simili a quelle della vita usuale, pur con qualche distinzione quando era possibile. Con la libertà accordata al culto pubblico incomincia un periodo importante, perché in esso compariscono a poco a poco le varie parti che, in forza di leggi ecclesiastiche o di consuetudini locali, vennero a costituire l'abbigliamento attuale, che si può dire già formato nella sostanza alla fine del sec. IX. Nel terzo periodo si accentua sempre più la distinzione tra il vestiario liturgico e quello usato anche dal clero ma fuori delle cerimonie sacre, e in particolare si arricchiscono per numero e per abbondanza di ornamenti le vesti pontificali, conseguenza naturale dell'accrescimento del prestigio dei vescovi in quei tempi. Dopo il sec. XIII non si hanno più cambiamenti di grande importanza, ma quest'ultimo periodo è caratterizzato dall'uniformità, dovuta alla scomparsa graduale delle costumanze locali, e dall'armonia, risultante dal perfezionamento del gusto e dall'amore per il grandioso. Così ne risultò che, salvo in qualche particolare di minima importanza, si raggiunse quella stabilità che tolse l'adito a ogni abuso o arbitrio. Se si considera il lato ornamentale o artistico delle vesti liturgiche, è naturale che queste abbiano seguito l'evoluzione dell'arte, sia quanto ai tempi, sia quanto ai luoghi, restando però, più o meno secondo le epoche, in certi limiti che costituiscono ciò che si dice arte sacra in opposizione con l'arte profana, quantunque tale distinzione non possa sempre essere ben netta.

Il vestiario liturgico non è identico per tutti i chierici, perché come questi sono di diverso grado e compiono nelle sacre cerimonie uffici diversi, così debbono usare indumenti proprî di ciascun grado e ufficio. Nel rito latino le varie parti di questo vestiario sono 18, così suddivise e denominate: vesti interiori: amitto, fanone, camice (che però talvolta si porta senza sopravvesti), cingolo, succintorio, cotta; vesti esteriori: pianeta, dalmatica, tunicella, piviale; insegne liturgiche: manipolo, stola, pallio, razionale; ornamenti liturgici: guanti, calzari, scarpe, mitra. Il loro uso è il seguente. Il prete, a qualunque grado appartenga, usa l'amitto, il camice, il cingolo, il manipolo, la stola, la pianeta, il piviale, e la cotta. I vescovi hanno inoltre come vesti proprie la tunicella, la dalmatica, i guanti con i calzari e le scarpe, e la mitra; alcuni di essi anche il razionale. Gli arcivescovi hanno in più il pallio e il Sommo Pontefice agli abiti pontificali aggiunge il fanone e il succintorio. I chierici inferiori indossano la cotta; i suddiaconi portano l'amitto, il camice, il cingolo, il manipolo e la tunicella; i diaconi indossano la dalmatica invece della tunicella e hanno in più la stola.

Per le varie vesti si rimanda alle singole voci.

Il fanone è una specie di collare che i papi, dal sec. VIII, portano solo durante la messa, e consiste in un velo sottilissimo di seta bianca con strisce verticali rosse e d'oro, di forma ovale molto prossima al circolo, aperta nel centro per lasciar passare il capo; nella parte pendente sul petto ha ricamata in oro una croce. Il succintorio è una specie di cintura, che però non si porta alle reni ma s'infila al cingolo e pende da esso; fino al sec. XII appartenne al vestiario sacerdotale, poi andò in disuso e nel sec. XVI tornò in vigore ma per il solo papa. La stola, anticamente detta orario (dal lat. os = "bocca"), è per la forma e per la stoffa simile al manipolo ma molto più lunga; è portata sul camice, dal sacerdote attorno al collo con le estremità pendenti o incrociate sul petto, dal diacono sulla spalla sinistra con le estremità incrociate sul fianco destro; talvolta si usa sopra la cotta; negli scrittori ecclesiastici antichi la stola è ricordata raramente e non prima del sec. III. Il piviale (lat. pluviale), che conserva la forma della pianeta antica, ossia la metà di un circolo, si pone sulle spalle allacciandolo sul petto con fibbie metalliche; nella parte posteriore vi è sovrapposto uno scudetto della stessa stoffa, anticamente a forma di piramide e ora trasformato in mezzo ovale; trae origine dalla cappa usata dai chierici e dai monaci nei secoli VIII e IX. La tunicella, simile nella forma alla dalmatica, dovrebbe essere più stretta di questa e con maniche più lunghe, ma ora è quasi sempre identica. Del razionale, che fa riscontro al pallio, si ha memoria dal sec. X; è di stoffa tagliata a modo di collare e ora è portato per privilegio speciale dai soli vescovi di Toul, Cracovia, Paderborn e Eichstätt. Di calzature speciali da usarsi nelle cerimonie sacre si hanno tracce già alla fine del sec. VI; oggi sono riservate ai vescovi e consistono nei calzari (lat. caligae), che abbracciano la gamba fin sotto il ginocchio, e nei sandali fatti a forma di pantofola: gli uni e gli altri sono di seta ricamata o di stoffa tessuta d'oro o d'argento.

Presso le chiese orientali le vesti liturgiche sono meno numerose (solo 9) delle vesti della Chiesa latina, ma la loro somiglianza con queste e la loro uniformità, nella sostanza, nei cinque riti orientali (greco, siro, armeno, nestoriano o caldaico, copto) rivelano l'unità di origine. Tutti i chierici orientali di grado inferiore al suddiacono indossano una tunica talare con maniche, bianca o di colore, senza cintura. I suddiaconi nei riti greco e copto portano sulla tunica una cintura che risalendo sul dorso pende dalle spalle e s'incrocia sul petto; nei riti siro e caldaico portano la stola, ma diversa da quella del diacono. Per i diaconi di tutti i riti la stola, sulla tunica, è fissata sulla spalla sinistra e pende avanti e dietro. Indumenti dei preti oltre alla tunica, sono: la stola, la cintura, le soprammaniche e la sopravveste; nel rito armeno hanno inoltre una specie di amitto e la mitra; nel copto, un drappo che copre il capo. La sopravveste a campana, simile perciò al piviale latino, presso i greci è tutta chiusa, salvo l'apertura per il capo; negli altri riti è aperta avanti o dietro. L'indumentario dei vescovi è completato nel rito greco dal saccos, specie di dalmatica che sostituisce la tunica, dall'epigonation, quadrato rigido di stoffa pendente al fianco destro fino al ginocchio, dall'omophorion, simile al pallio latino di cui conserva la forma primitiva, e dalla mitra che ha la forma della tiara con quattro rigonfiamenti in croce. Degli altri riti, usano l'epigonation e l'omophorion gli armeni, i siri e i copti uniti. Una mitra pontificale di forma varia ma vicina alla latina, hanno gli armeni (gli scismatici solo dal sec. XIII), i copti uniti, i siri e i caldei. Il copricapo dei vescovi copti non uniti è il turbante e quello dei nestoriani un drappo speciale. In quanto alla qualità della stoffa degl'indumenti orientali non vi sono prescrizioni rituali; lo stesso si dica per il colore, a eccezione dei greci che ne adoperano due soli, il bianco e il rosso.

Bibl.: J. Braun, Die liturgische Gewandung im Occident und Orient, Friburgo in B. 1907 (traduz. italiana, Torino 1914); J. Braun, Handbuch der Paramentik, Friburgo in B. 1912; E. Roulin, Linges, insignes et vêtements liturgiques, Parigi 1930.

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