Vicino Oriente antico. Botanica e zoologia

Storia della Scienza (2001)

Vicino Oriente antico. Botanica e zoologia

Maria Giovanna Biga
Marten Stol
Marco Bonechi

Botanica e zoologia

Botanica

di Maria Giovanna Biga

La vasta area del Vicino Oriente antico comprende zone con climi molto differenti, che hanno pertanto ospitato vegetazioni diverse. Le regioni fitogeografiche in cui si può distinguere il Vicino Oriente antico sono: l'area mediterranea, che comprende le coste della Turchia, la Siria-Palestina e il Nord di Israele (tutto il Levante); l'area iranico-turca, comprendente la Turchia, l'Iraq settentrionale e l'Iran; l'area saharo-sindica, che comprende l'Africa occidentale, l'Egitto e l'Arabia, incluso il Sud dell'Iraq fino all'India di Nord-Ovest. La vegetazione di queste tre zone è differente.

Nella regione mediterranea sono documentati alberelli e arbusti della macchia mediterranea; tra essi i più frequentemente menzionati sono il ginepro, l'alloro, la malva, il mirto, l'issopo, la tamerice, l'assenzio. In questa regione si ritrovano grandi alberi molto utilizzati nelle costruzioni di templi e palazzi: il cedro del Libano (Cedrus Libani), la quercia (Quercus), il frassino (Fraxinus), il pino (Pinus), il platano (Platanus orientalis), l'abete (Abies cilicica), il cipresso (Cupressus sempervirens).

Nella zona della Turchia centrale e nel Nord dell'Iraq proliferava una flora estremamente varia e un grande numero di specie di alberi; la regione era caratterizzata da precipitazioni poco abbondanti e forti variazioni di temperatura che impedivano la produzione di un buon legname. Sui monti degli Zagros e su quelli del Tauro, insieme con alcune specie mediterranee, crescevano il ginepro, l'olmo, il pistacchio. All'interno di questa regione fitogeografica si distinguono altre due zone, la regione del Ponto Eusino e la regione del Caspio.

Tra la vegetazione delle aree del Nord e del Sud dell'Iraq si riscontra una grande differenza; la zona del Sud, che fa parte della regione fitogeografica saharo-sindica, è infatti caratterizzata da alte temperature ed estrema aridità e l'evaporazione supera di gran lunga le precipitazioni. Gli alberi più comuni in questa regione, e cioè l'acacia, la palma da datteri (Phoenix dactylifera) e il tamarisco (Tamarix), possono raggiungere una considerevole altezza in condizioni favorevoli, arrivando fino a 5-10 m; in questa zona, tuttavia, poco rimane della vegetazione originale.

Lo sfruttamento di alberi e arbusti ha costituito una risorsa naturale importante per gli uomini del Vicino Oriente antico fin dal periodo Paleolitico; l'azione dell'uomo, che ha però disboscato e sfruttato i terreni a scopi agricoli e pastorali, ha però causato notevoli cambiamenti nella flora. Il caso più clamoroso di sfruttamento, che ha portato a un impoverimento enorme della specie, è quello dei celebri cedri del Libano, utilizzati per millenni nelle grandi costruzioni di templi e palazzi da tutti i popoli del Vicino Oriente antico, compresi gli Egizi.

La vegetazione del Vicino Oriente antico non si potrebbe quindi conoscere a fondo se non fossero sopravvissute zone di stratificazione pollinica non disturbata nei letti di alcuni laghi, quali il lago Van in Turchia. Le analisi dei pollini effettuate hanno fornito la sequenza dei cambiamenti della vegetazione occorsi a partire dall'ultima glaciazione. Inoltre, anche se la vegetazione del Vicino Oriente ha attualmente una scarsa somiglianza con quella antica, si possono trovare ancora luoghi particolarmente inaccessibili e isolati, dove lo sfruttamento si era rivelato troppo difficile, che possono aiutare a comprendere com'era l'originaria vegetazione della zona.

La paleoetnobotanica

La paleoetnobotanica è una branca interdisciplinare della botanica che studia i reperti vegetali accumulatisi in un sito archeologico. Negli scavi archeologici vicino-orientali non è frequente trovare legno o oggetti di legno; al contrario dell'Egitto, che ha conservato molte delle suppellettili e degli elementi di mobilio e i sarcofagi, negli scavi del Vicino Oriente antico i rinvenimenti di legno sono assai rari e sono in genere legni carbonizzati negli incendi delle città. Più frequenti sono i resti di semi e di noccioli che consentono di risalire al vegetale coltivato e usato.

A partire dagli anni Sessanta dell'Ottocento nell'archeologia del Vicino Oriente si è diffuso un maggiore interesse per la ricerca ecologico-ambientale e anche gli archeobotanici hanno preso parte agli scavi. Lo studio dello sfruttamento delle specie lignee da parte dell'uomo è possibile attraverso l'analisi dei resti di legni carbonizzati che si rinvengono negli scavi archeologici; essi gettano luce sulla progressiva distruzione di foreste o di vegetazione e sugli effetti secondari sull'ambiente circostante.

Negli ultimi anni sono migliorate sia le tecniche di analisi dei materiali raccolti sia i modi di campionatura; si esaminano anche, soprattutto per lo studio dei cereali, le impronte di resti di piante su frammenti ceramici e su mattoni crudi. I resti vegetali carbonizzati sono isolati dai campioni di terra tramite flottazione con l'uso di diversi setacci; l'analisi è poi eseguita in laboratorio.

Spesso si trovano nei siti archeologici carbonelle appartenenti a specie che da lungo tempo sono ormai scomparse da quelle zone. Questo accade soprattutto per quelle aree dove si è verificata un'intensa occupazione per un lungo periodo. I legni carbonizzati forniscono evidenza diretta dell'uso di alberi e arbusti nell'immediata area del sito e informano anche su trasporti a lunga distanza. Dal momento che anche gli uomini del Vicino Oriente antico sono stati selettivi nell'uso delle piante, il paleobotanico corre il rischio di non tenere conto di alcune piante esistenti ma poco usate. I tronchi, carbonizzati e non, di piante ad alto fusto quali querce, pini, abeti, cedri, che abbiano 50 o più anelli, possono anche essere sottoposti all'analisi dendrocronologica, usata per la datazione e la ricostruzione di cronologie per ora limitate all'area egea, balcanica, del Mediterraneo orientale e del Levante; tale analisi ha consentito finora di ricostruire cronologie risalenti fino a 6500 anni fa.

Con lo studio dei pollini dai laghi, della vegetazione tuttora esistente, dei semi e delle carbonelle dai siti archeologici, delle raffigurazioni su rilievi, sigilli, affreschi e con l'aiuto dei vari tipi di testi giunti fino a noi, si può dunque ricostruire la tipologia della vegetazione antica e, di conseguenza, il paesaggio del Vicino Oriente antico.

Piante e alberi

I testi cuneiformi menzionano molte varietà di piante (il cui nome è preceduto dal determinativo giš (in sumerico 'legno') sia da costruzione sia da frutto, molte varietà di vegetali usati in vari settori della vita (il cui nome è preceduto dal determinativo sar), ma soprattutto in cucina e in medicina, e svariate erbe (il cui nome è preceduto dal determinativo ú) con le quali si nutrivano gli animali da allevamento o che erano anch'esse utilizzate in medicina e in cucina specialmente per aromatizzare i cibi. I testi letterari forniscono inoltre descrizioni delle bellezze della Natura del Vicino Oriente antico e dei giardini pieni di alberi con ogni genere di frutti, e sono quindi una fonte importante per lo studio delle varie specie vegetali della zona. Si parla spesso di boschi e in particolare di boschi sacri in cui si svolgevano alcuni culti, soprattutto in ambito semitico-occidentale.

La Bibbia menziona circa un centinaio di specie differenti, anche se bisogna tener presente che le piante ricordate con maggiore frequenza non sono le più numerose della regione e che non tutte le piante menzionate hanno identificazione certa. Nel testo biblico troviamo i nomi di cereali, leguminose, liliacee, ortaggi, alberi da frutto, alberi di bosco, piante ornamentali e molte erbe, diffusi anche nelle altre zone del Vicino Oriente antico.

I testi economici, inoltre, offrono uno spaccato della situazione reale e ci consentono di vedere quali erano le piante più comunemente utilizzate per le costruzioni, i mobili e i lavori di carpenteria, quali erano coltivate e consumate come cibo e quali erano gli alberi da frutto più diffusi. Ma sono soprattutto i testi lessicali, con le loro lunghe liste di piante, che forniscono tutto lo scibile botanico dei popoli del Vicino Oriente antico. Già tra i più antichi testi lessicali, le liste del periodo tardo Uruk (3000-2900), si possono riconoscere liste di piante e di oggetti di legno, preceduti tutti dal determinativo giš, 'legno'. Queste liste diventarono presto canoniche ed ebbero vasta diffusione tra le scuole dell'epoca e anche in periodi successivi, quando furono copiate da scribi ad Abu Salabikh e Fara e trasmesse, sempre tramite contatti scribali, a Ebla in Siria. Anche se in Siria la vegetazione era diversa, con alberi e arbusti della macchia mediterranea non presenti in Mesopotamia, tuttavia gli scribi conoscevano e utilizzavano i repertori di parole mesopotamici. Queste liste, diventate canoniche e standardizzate, furono utilizzate nelle scuole di gran parte dell'impero assiro e poi di quello babilonese.

La più famosa e completa lista enciclopedica bilingue sumerico-accadico è la lista "ḪAR-ra=ḫubullu", ritrovata in molteplici esemplari e composta quasi sicuramente dalle scuole scribali di epoca paleobabilonese, unificando e codificando precedenti testi lessicali. La tavoletta III di questa lista comprende tutti i nomi di alberi e piante da legname che uno scriba assiro o babilonese del I millennio doveva conoscere ed eventualmente saper scrivere, quindi praticamente tutto lo scibile di uno scriba del cuneiforme in fatto di botanica. Anche questa lista lessicale ha probabilmente un'origine sumerica e quindi questo testo è una fonte primaria per la conoscenza dell'agricoltura, orticoltura e arboricoltura del Vicino Oriente antico già del III millennio.

La lista elenca in duplice colonna (a sinistra il sumerico e a destra l'accadico) molte specie di piante ma anche nomi diversi della stessa pianta, varianti ortografiche, nomi di parti di piante non sempre facilmente distinguibili. Soltanto una parte delle piante menzionate in questa lunga lista è traducibile e identificabile con certezza, grazie a confronti con altre lingue semitiche e alla flora attuale delle regioni del Vicino Oriente. Inoltre è stata notata la significativa omissione di un albero attestato invece nei testi economici a partire dai testi sumerici del III millennio, il platano (Platanus orientalis). Questa omissione suggerisce due possibili spiegazioni: da una parte la lista "ḪAR-ra=ḫubullu" potrebbe essere incompleta, dall'altra lo potrebbe essere la ricostruzione che finora è stata fatta dagli assiriologi, che si sono serviti di molti frammenti di questa lista di diversa provenienza. Tutti i testi presentano difficoltà per l'identificazione esatta delle piante e delle erbe menzionate: se il nome della pianta non identifica la stessa pianta in qualche lingua semitica attuale, come, per esempio, l'arabo o l'ebraico, spesso resta difficile riconoscerla.

L'elemento vegetale più comune nel Sud della Mesopotamia era la canna, che cresceva spontanea nelle paludi del Paese del Mare, lungo le rive dei due grandi fiumi, Tigri ed Eufrate, e lungo i canali. Ha costituito un materiale fondamentale nell'economia del Sud della Mesopotamia ed era usata per molti scopi: per la costruzione di capanne, suppellettili e contenitori di vario tipo, come combustibile, per costruire imbarcazioni e intrecciare stuoie. Per facilitarne il trasporto era legata in fascine e in covoni di più fascine. Molti testi della III dinastia di Ur (2100-2000) registrano operai che lavorano per la raccolta e il trasporto di canne o per intrecciare canestri e stuoie; sono inoltre riportati i termini relativi a molti manufatti di canne (i cui nomi sono preceduti dal determinativo gi, in sumerico 'canna'), e a vari tipi di recipienti e canestri, setacci per farina, ecc. Infine, nei rilievi assiri e soprattutto in alcuni rilievi del palazzo di Assurbanipal a Ninive sono raffigurati prigionieri babilonesi che fuggono rifugiandosi nei canneti del Sud della Babilonia.

Tra gli alberi menzionati nella tavoletta III della lista "ḪAR-ra=ḫubullu" troviamo alcuni tipi di alberi ad alto fusto, tipici della parte settentrionale dell'attuale Iraq. Anche nella regione meridionale erano presenti foreste, ma costituite da tipi diversi di alberi di alto fusto, tra cui sono stati identificati alcune specie di pioppi, di platani, di salici e di querce. Dai testi amministrativi risulta che essi erano usati sia in architettura sia in carpenteria per costruire barche, mobili quali sgabelli, sedie, tavoli, letti, e utensili per l'agricoltura. Il legname ricavato da queste piante era trasportato in fascine caricate su chiatte e barche che navigavano i canali, così caratteristici del paesaggio sumerico. Il legname serviva per fabbricare casse e contenitori di vario tipo e, naturalmente, come combustibile per il riscaldamento; in particolare, ne erano impiegate grandi quantità nella metallurgia, per la fusione dei metalli.

Sono noti vari tipi di pioppi (Populus alba o nigra); attestato fin dai testi di Ebla è l'albero giš-ildag4 (Populus euphratica). Il più conosciuto tipo di salice frequentemente menzionato nei testi economici della III dinastia di Ur è il ma-nu=e'ru/ēru (identificato recentemente con il Salix acmophylla); il suo legno, particolarmente elastico, era usato in lavori di piccola carpenteria e i suoi rami servivano per legare; è documentato in Mesopotamia già in testi del periodo presargonico (2600-2350). Il legno del pino (di Aleppo) giš-ù-suḫ5 è citato nei testi neosumerici soprattutto come materiale per imbarcazioni. Le barche e le zattere che navigavano sui canali e sui fiumi della Mesopotamia erano fatte di vari tipi di legname; i testi, soprattutto quelli neosumerici, menzionano manufatti di vario tipo e di legni diversi che costituiscono parti di imbarcazioni di diversa stazza.

Tra le piante che sono presenti nella lista lessicale e che hanno anche frequenti attestazioni nei testi economici e letterari va menzionato il bosso (in sumerico tiškarin, in accadico taskarinnu), un arbusto della macchia mediterranea usato in Siria e Mesopotamia per costruire elementi di piccolo mobilio e oggetti pregiati, e già documentato dai testi economici di Ebla (2400-2350 ca.). I testi letterari ed economici confermano l'uso di querce e di piante esotiche quali l'ebano o il legno di sandalo proveniente dall'India, menzionati nella lista lessicale. Una sezione inizia con il tamarisco (in sumerico šinig, in accadico bīnu) e comprende parecchie conifere, tra cui pini, cipressi e piante che producono una resina odorosa, da bruciare.

Alberi da frutto

L'albero più diffuso e più importante nell'economia del Sud della Mesopotamia è la palma da datteri (Phoenix dactylifera), coltivata nei terreni a Sud della linea Hit-Samarra in tutti i periodi della storia antica del Vicino Oriente. Questa pianta, che richiede grande quantità di acqua, cresce in Mesopotamia non più a nord del 35° parallelo. I datteri erano i frutti più consumati in Mesopotamia già dal III millennio; su una placca di pietra e su un vaso provenienti dalla città di Lagash, databili al periodo Protodinastico III a, è raffigurata una palma da datteri; parecchi noccioli di datteri furono ritrovati anche nella tomba della regina Pu-abi nel cimitero reale di Ur (2600 ca.).

Fin dai più antichi testi mesopotamici è evidente che i popoli del Vicino Oriente antico avevano imparato a coltivare tale pianta e a utilizzarla per gli scopi più vari; per esempio, i testi provenienti dalla città di Lagash presargonica (2450-2350 ca.) menzionano i datteri. Inoltre, parecchi testi economici trattano di terreni coltivati a palma da datteri e dell'importazione di tipi speciali di datteri provenienti da Dilmun. Infine, in una delle versioni della nascita del re Sargon di Akkad si racconta che egli era figlio di un giardiniere, addetto a un palmeto, il quale aveva abbandonato il cesto con il bambino sulle rive del canale che costeggiava il giardino delle palme.

Il legno della palma non è molto resistente, ma era comunque utilizzato per oggetti che non richiedevano questa qualità, per esempio per coperture di piccola estensione; inoltre, le fibre della palma potevano essere intrecciate in corde molto resistenti e i rami con foglie di palma si usavano per coprire le capanne. Il dattero, sia fresco sia conservato essiccato, era il frutto più consumato dalle popolazioni della Mesopotamia e, preparato in modi diversi, costituiva un alimento importante; poiché si conoscevano parecchie specie di palme, era disponibile una grande varietà di datteri; in caso di raccolti abbondanti tali frutti erano anche esportati. Inoltre, i datteri figuravano tra le offerte regolari presentate quotidianamente nel tempio alle statue degli dèi. Infine, i noccioli dei datteri erano utilizzati nell'alimentazione dei cammelli e, seccati, servivano da combustibile.

I Mesopotamici conoscevano già la tecnica della fecondazione della palma femmina con il polline della palma maschio e la praticavano per aumentare il rendimento delle coltivazioni. Il polline dei fiori maschi era raccolto e legato sui fiori femmine; per fare ciò bisognava salire fino alla cima della pianta. Questa operazione è raffigurata in un affresco del palazzo di Zimri-Lim di Mari (prima metà del II millennio), dove sono rappresentate palme e rami con infiorescenze accanto a esse. Anche in bassorilievi assiri è rappresentata l'impollinazione artificiale della palma da datteri; alcuni bassorilievi mostrano invece la distruzione di palmeti, in territorio nemico, da parte di soldati assiri.

Le palme da datteri non erano coltivate in Assiria, mentre dalla Bibbia apprendiamo che erano coltivate sulla costa mediterranea e nella valle del Giordano (Gerico è definita nella Bibbia "città delle palme", II Cronache, 28, 15). Un testo letterario appartenente al genere delle 'tenzoni' (esercizi dialettici in cui due elementi antitetici di vario tipo, provenienti dal mondo umano, naturale o animale, si sfidano in un dialogo nel quale ognuno enumera i propri pregi), è la Tenzone tra la palma e il tamerisco. In esso i due alberi, che, come dice il prologo, erano stati entrambi piantati nel giardino del palazzo del re, si fronteggiano elencando le innumerevoli utilizzazioni di ogni loro parte; apprendiamo in questo modo quanto i Mesopotamici sapessero sfruttare queste due piante.

Nell'Iraq attuale la palma da datteri è ancora oggi la pianta più frequente lungo le rive del Tigri e dell'Eufrate, in tutta la regione che va da Bassora nel Sud a Samarra nel Nord; questa pianta, infatti, si adatta assai bene al clima caldo, secco e assolato e può anche sopportare la salinizzazione del suolo, grazie alla sua grande capacità di tolleranza al sale.

Dopo la palma, gli alberi da frutto più diffusi in tutto il Vicino Oriente antico, menzionati in tutti i tipi di testi e nelle liste lessicali, erano il fico, il melograno (Punica granatum) e il melo. Una certa diffusione avevano il nespolo, il pruno, probabilmente l'albicocco, il pesco originario dalla Persia, il pero e il cotogno; altri frutti citati nei testi non sono stati identificati.

Dal melograno, più diffuso in area siro-palestinese, si ricavava una bevanda e i suoi frutti, sacri alla dea Ishtar, comparivano anche sulle tavole dei re, come testimonia un bassorilievo da Khorsabad, dove sono raffigurati i preparativi di un pranzo nel palazzo reale di Sargon II. Il fico era coltivato in due varietà, una che maturava intorno a giugno e l'altra che maturava in autunno. Già nel calendario in uso a Ebla, in Siria (si tratta del più antico calendario semitico finora noto), due nomi di mese fanno riferimento proprio a queste due qualità di fichi. Anche il fico è raffigurato sui bassorilievi della capitale assira Khorsabad. Tutti questi frutti erano ben acclimatati in Mesopotamia centromeridionale e in Assiria. Infine, una varietà di fico, il sicomoro, era coltivato per i suoi frutti sulla costa siro-palestinese e nella valle del Giordano, ed è menzionato nella Bibbia.

Nelle liste lessicali, a questi alberi da frutto seguono noci, querce, mandorle, pistacchi. La vite (Vitis vinifera) e l'ulivo (Olea europaea) sono tipiche culture dell'area mediterranea e della Siria. La vite è uno degli alberi da frutto coltivati nella regione siro-palestinese già durante il IV millennio: la sua coltivazione è documentata paleobotanicamente in siti del Bronzo Antico in Siria-Palestina, nell'Egeo e in Anatolia. Vinaccioli non carbonizzati sono stati ritrovati a Nimrud e a Hasanlu in Iran in siti del I millennio. Le fonti epigrafiche documentano la presenza della vite e del vino già nel III millennio in Siria, mentre nella Mesopotamia del Nord l'albero della vite si acclimatò nel I millennio.

L'ulivo fu acclimatato in Assiria e nelle regioni limitrofe nel I millennio; alcuni bassorilievi raffigurano i soldati assiri nell'atto di abbattere gli ulivi dei nemici e i rilievi del palazzo di Assurbanipal a Ninive mostrano viti intrecciate ad alberi nel giardino dove il re sta a banchetto.

In Babilonia e in quelle parti della Mesopotamia dove non cresceva l'ulivo, si coltivava invece il sesamo i cui semi sono ricchi di olio; la parola 'sesamo' infatti deriva dal termine semitico šamaššammu. Il sesamo era coltivato estensivamente in parecchie zone, dove nei testi sono menzionate di frequente presse da olio. Il primo sovrano ad aver introdotto l'ulivo in Assiria è stato probabilmente Sennacherib.

Anche il lino (Linum usitatissimum) era coltivato per farne tessuti, sebbene in quantità molto minori rispetto ai tessuti di lana, e per estrarne olio dai semi. Le tavolette della III dinastia di Ur menzionano, tra le razioni attribuite ai messaggeri, l'olio di un vegetale che è stato identificato con una pianta del genere degli equiseti le cui ceneri contengono soda o potassa; queste ceneri si mescolavano con olio e argilla pura, ottenendo un prodotto analogo al nostro sapone. Nell'area siro-palestinese avevano ampia diffusione alberi di terebinto, pistacchio (Pistacia atlantica) e carrubo.

Cereali, legumi, liliacee, cucurbitacee

Nei campi fuori dalle città e vicino ai villaggi si coltivavano soprattutto molte varietà di cereali (orzo, emmer, frumento e miglio).

In prossimità di ogni città vicino-orientale, ma anche davanti alle porte e nelle città stesse, dentro le mura, c'erano orti, giardini e frutteti di proprietà dei residenti urbani, che vi coltivavano prodotti freschi da aggiungere alla loro dieta di orzo, pesce, carne. Negli orti fuori dalle città e nei villaggi erano coltivate parecchie varietà di legumi che risultavano avere una grande diffusione, in primo luogo la lenticchia (Lens culinaris), diffusa, come i cereali, in tutto il Vicino Oriente antico. Ugualmente diffusi erano i piselli (Pisum sativum), occasionalmente coltivati anche nei campi, e i ceci (Cicer arietinum). La lenticchia era consumata particolarmente in ambito siro-palestinese; nella stessa zona è documentata anche la fava (Vicia faba); sono altresì attestate le bietole e le rape.

Soprattutto in siti dell'Anatolia sono stati ritrovati semi carbonizzati di veccia (Vicia ervilia), di cui resta incerto però l'uso alimentare.

In Babilonia piante da frutto e alcuni ortaggi crescevano tra gli alberi di palma o in parti speciali dei campi. Fin dai testi del periodo presargonico è evidente che una parte del campo coltivata a orzo era destinata alla coltivazione di ortaggi, tra cui soprattutto cipolle, piselli e coriandolo, piantati in solchi. Nella famiglia delle liliacee erano comprese molte specie diverse, che hanno differenti nomi a seconda del periodo e della zona; alcune non sono identificabili, mentre altre invece sono state identificate con certezza, come la cipolla (Allium cepa: in sumerico sum-sikil-sar, in accadico šusikillu). Di cipolle se ne conoscevano parecchie varietà, che prendevano il nome anche dal luogo di origine, come, per esempio, cipolla di Tuba, di Dilmun, ecc. Varietà di liliacee molto comuni erano lo scalogno (Allium ascalonicum), il porro (Allium ampeloprasum) e l'aglio (Allium sativum), coltivati e usati in cucina come condimenti. A Mari si utilizzava per l'aglio il termine ḫazannu.

Inoltre, negli orti e frutteti vicino alle città erano coltivati vari tipi di cucurbitacee, tra cui meloni, cocomeri, cetrioli e zucche; poiché queste colture richiedevano molta acqua, frutteti e giardini erano posti sulle rive di canali.

Giardini, giardini reali, orti

Molti re si vantarono di aver importato alberi esotici dalle terre dove avevano condotto le loro campagne militari e la presenza di giardini vicino alle città capitali è ricordata nelle loro iscrizioni di fondazione. Oltre ai giardini con alberi da frutto, i re di Assiria allestirono giardini botanici dove raccoglievano specie di piante che non crescevano facilmente in Mesopotamia, soprattutto i grandi cedri del Libano e altre piante dell'Amano. Un kudurru proveniente da Susa e conservato al Louvre raffigura una teoria di stranieri che portano come tributi prodotti caratteristici dei loro paesi; tra essi vi è una cassa contenente un piccolo albero carico di fiori. Il racconto più lungo dell'impresa di costruire un giardino botanico è fornito dal re Assurnasirpal II (883-859), il quale raccolse alberelli di 41 tipi nelle sue campagne e li piantò vicino alla sua capitale, Kalhu. La lista di questi 41 alberi e arbusti resta in buona parte da identificare. Anche il re assiro Sennacherib (704-681) fece piantare un grande giardino ad Assur.

Poco resta dei famosi giardini pensili di Babilonia del tempo del re Nabucodonosor (604-562). Nel luogo dove verosimilmente erano collocati, non lontano dalla porta di Ishtar, sul lato nordorientale del grande Palazzo di Nabucodonosor, questi giardini disposti a terrazze poggiavano su una struttura a volta ritrovata negli scavi e utilizzavano pozzi per l'innaffiamento. Anche se Nabucodonosor non lo ricorda espressamente, i giardini pensili sono probabilmente opera sua.

Nella capitale achemenide Persepoli i resti archeologici fanno ipotizzare la presenza di un giardino pensile su un terrazzo; sono infatti evidenti alcune cavità scavate nella roccia della spianata, destinate probabilmente ad accogliere la terra per gli alberi. Anche a Pasargade è documentato un giardino reale. Nei giardini erano presenti pianticelle di ogni genere ed erbe accuratamente innaffiate. Purtroppo è possibile identificare soltanto una piccola parte dei nomi di erbe e piante da giardino che ci sono pervenuti nei testi, grazie alla ricorrenza del nome in altre lingue semitiche.

Tra le piante aromatiche, utilizzate anche in cucina (v. cap. XVII, par. 4), quelle più attestate sono il cumino, il coriandolo, la menta, l'alloro, il finocchio, il mirto, lo zafferano, l'aneto, un tipo di anice utilizzato in Palestina, la nigella, la senape. Nei testi della III dinastia di Ur insieme al coriandolo è menzionata una pianta, gazi, identificata recentemente con la liquirizia selvatica. Alcune piante, quali il galbano, l'incenso e la mirra, la cui resina odorosa era bruciata in varie occasioni e durante i rituali religiosi, sono ricordate anche nella Bibbia. Altri nomi di erbe, sia selvatiche sia coltivate, si conoscono dai testi lessicali e amministrativi. Molte erbe, tra cui, per esempio, l'hènna, noto anche dalla Bibbia, erano usate per preparare cosmetici; di altre, tra cui la cassia, il cinnamomo, il coriandolo e la mandragola, si faceva un ampio uso nella medicina e nella cosmetica (v. cap. XVII, parr. 2 e 3). Il più antico testo farmaceutico che contenga prescrizioni di varie erbe per combattere una serie di malattie infiammatorie, eruzioni della pelle e stitichezza, proviene dagli archivi reali di Ebla (2400-2350); quasi tutte le erbe in esso menzionate sono ancora oggi usate nel bacino del Mediterraneo; tra queste, si ricorda l'aloe, tuttora usata per le sue proprietà lassative e purgative. Da alcune erbe si ricavavano colori naturali per tingere i tessuti, come si deduce dall'aggettivo sumerico ú-ḫáb, che significa proprio 'colorato con colori ottenuti da erbe' (ú). Infine, nei testi, soprattutto quelli della III dinastia di Ur, sono ricordate molte erbe che servivano all'alimentazione del bestiame, come l'alfa.

Tra i nomi dei fiori si possono riconoscere alcuni tipi di gigli, i giaggioli e le ginestre, menzionati anche nella Bibbia. La figura del giardiniere (accadico nukaribbu), infine, compare molto frequentemente nei testi mesopotamici, a ulteriore prova dell'importanza dell'orticoltura nell'antico Oriente.

Botanica farmacologica

di Marten Stol

I 'dizionari botanici'

I cosiddetti 'dizionari botanici' babilonesi sono costituiti da una serie di tavolette, ciascuna delle quali composta da tre colonne: la prima riporta il nome della pianta, la seconda la malattia contro cui è efficace e la terza le modalità di somministrazione, per via orale, rettale o come unguento. Nella letteratura moderna un testo di questo tipo, e con esso le sue abbreviazioni e modifiche, verrebbe chiamato 'vademecum terapeutico'.

Il più importante di questi dizionari è chiamato "Uru-anna = maštakal", dalla prima voce che vi compare. Presso i Babilonesi vigeva la tradizione di comporre dizionari in accadico e in sumerico-accadico, con lo scopo principale di usarli nelle scuole. Tali dizionari erano suddivisi per argomenti: tutti gli oggetti di legno, tutte le pietre, le piante, ecc. "Uru-anna = maštakal" è un dizionario che tratta le piante officinali; scritto principalmente in accadico e su due colonne, conta circa 1500 voci distribuite su tre tavolette. Il nome riportato sulla seconda colonna, alternativo rispetto a quello della prima, può esserne un sinonimo o può indicare, più probabilmente, un equivalente: un'altra pianta con proprietà simili che poteva essere utilizzata qualora la prima non fosse stata disponibile (succedaneum). "Uru-anna = maštakal" si apre con le saponarie e con altre piante considerate magiche e finisce con la elencazione di alcune sostanze farmacologiche diverse dalle piante: per esempio sali, pietre, vari tipi di formaggio. Molti dei nomi coloriti per designare le piante ‒ la coloquintide, per esempio, è chiamata "sego di leone" ‒ e che erano sicuramente usati nelle prescrizioni danno l'impressione di essere segreti, 'ermetici'. Nel colophon di "Uru-anna = maštakal" il re Assurbanipal sostiene di aver composto il manuale con la massima cura, impiegando in modo critico le precedenti raccolte sulle piante.

Più completo è un altro manuale botanico, L'aspetto di una pianta (in accadico šammu šikinšu), che prima raffigura ciascuna pianta in modo esauriente, spesso confrontandola con altre, poi la identifica per nome e aggiunge la malattia per la quale essa "fa bene", indicando inoltre come somministrarla. Questo manuale non era molto esteso e possiamo desumere che le piante descritte fossero quelle più largamente utilizzate; purtroppo è possibile risalire solamente ad alcune di queste piante poiché, per procedere a un tentativo di identificazione, è necessario trovare in un altro linguaggio semitico il nome di una pianta affine a quello in lingua accadica. Simile a questo manuale è L'aspetto di una pietra (in accadico abnu šikinšu), nel quale sono elencate le pietre usate come amuleti per proteggersi da diversi problemi, tra i quali le malattie.

La nostra conoscenza dei manuali botanici è integrata dai testi amministrativi sulla distribuzione delle droghe: inventari di piante, tra cui molte aromatiche, e di minerali, in particolare l'allume. Un lungo elenco in sei colonne sembrerebbe l'inventario di un farmacista; secondo questo documento le droghe erano riposte su scaffali e il materiale era diviso in 12 gruppi; alcuni di questi comprendevano minerali, altri droghe conservate in ciotole o recipienti, mentre l'undicesimo gruppo raccoglieva gli strumenti per mischiare le droghe. In questa lista alcune importanti droghe sono assenti e mancano completamente i prodotti animali. Alla fine del testo si riassume il modo in cui questo materiale poteva essere impiegato: "pozioni, suffumigi, impiastri, unguenti, supposte, clismi, polveri, [...] bende per la schiena, bende per la fronte, bende per le unghie". Nel British Museum di Londra sono conservati quattro recipienti di argilla con iscrizioni che indicano come essi contenessero i "suffumigi" contro quattro diverse malattie: febbre, epilessia, malinconia e il cosiddetto "caprone"

Zoologia

di Marco Bonechi

La varietà di condizioni climatiche e geomorfologiche del Vicino Oriente antico ha sempre dato luogo a una grande diversità di habitat, e quindi (come è confermato dai resti faunistici) di specie animali. Di conseguenza, la nomenclatura zoologica in quel che resta delle fonti scritte preclassiche locali (cuneiformi e non) è molto vasta. Mentre sono menzionati anche animali esotici (non tanto per completezza scientifica, ma in quanto ricercati perché rari), la maggior parte dei termini si riferisce ad animali che realmente popolavano l'area, fossero nocivi (come fiere e parassiti) o utili (e perciò cacciati o addomesticati).

Semplificando e lasciando da parte differenze regionali, sembra che, per quanto riguarda le domesticazioni, dopo quella del cane (attestata nel X millennio) e contestualmente al declino dell'importanza della caccia (attività che può aver originato la pratica dei sacrifici cruenti), la domesticazione di capre e poi pecore (fra le maggiori cause, nel corso dei millenni, del degrado costante dei suoli) avvenne a partire dagli inizi dell'VIII millennio (poco dopo l'apparizione dei cereali domestici), mentre quella di bovini e suini fu realizzata attorno al 6500. In seguito, già attorno al 4000, erano praticati in modo importante sia lo sfruttamento dei prodotti secondari (come il latte o la lana) sia l'uso di animali domestici per la trazione. La domesticazione degli asini, prerequisito per il seminomadismo, non pare attestata prima del IV millennio. Fenomeno più recente è, oltre alla domesticazione del gatto, quella del dromedario, prerequisito per il nomadismo, che avvenne nella penisola arabica orientale e in Iran durante il III millennio (il cammello più tardi fu ben noto in Persia); anche gli animali da cortile divennero importanti in età tarda. Circa la fauna selvatica, quella terrestre di grande taglia fu aggredita in modo costante dall'uomo, fino a ridurre in zone marginali animali come lo struzzo, i grandi felini (leoni che terrorizzavano le popolazioni sono comunque noti nei testi paleobabilonesi di Mari), le gazzelle, l'ippopotamo e l'elefante. Roditori, insetti e piccoli uccelli, che causavano problemi sanitari ed economici, furono sempre tenuti in considerazione, mentre è verosimile che gli abitanti le zone rivierasche del Golfo Persico e del Mediterraneo orientale avessero una buona conoscenza di squali, grandi pesci (tonni), molluschi (da cui si ricavavano coloranti) e mammiferi marini (tartarughe, delfini e foche).

Con queste premesse non è sorprendente che, fin dalla loro più antica attestazione attorno al 3000 nel principale sito della Mesopotamia meridionale di cultura sumerica (Uruk), i testi cuneiformi mostrino una tassonomia faunistica pienamente sviluppata e articolata, indizio di un'abitudine a un'assidua osservazione di origine certo preistorica. D'altra parte, il plurilinguismo che in età storica caratterizza il Vicino Oriente antico deve essere in continuità con il passato ed è verosimile che una ricca nomenclatura zoologica si sia sviluppata anche in altre lingue, alcune delle quali meno documentate, ma parlate in aree di popolamento faunistico rilevante, come quelle montuose o desertiche attorno alla mezzaluna fertile. In particolare, pare che il lessico faunistico semitico comune, tanto per le specie selvatiche quanto per quelle domestiche (queste ultime ovunque divennero sinonimo di ricchezza), si sia stabilito almeno in Età calcolitica, e che esso abbia compreso molti termini sia generici sia specifici. Al loro emergere la cultura sumerofona e quelle semitofone avevano dunque sviluppato pienamente delle vere e proprie sistematiche, sebbene esse siano non del tutto congruenti fra loro. Si può anche ricordare che, qualunque giudizio si dia sulla scienza del Vicino Oriente prima dei Greci, gli intellettuali-letterati che chiamiamo scribi risultano essere stati addestrati, già agli albori della scrittura, in modo variato e abbastanza completo per mezzo di testi lessicali naturalistici, antropologici (come le liste di professioni o di oggetti) e matematici.

Si hanno informazioni sulla terminologia faunistica dalle liste lessicali tematiche o acrografiche (che danno la nomenclatura di base e i criteri tassonomici correnti) e dai testi amministrativi, epistolari e letterari. Le liste lessicali della fase arcaica (tradizione di Uruk) erano copiate ancora in età paleobabilonese, quando furono sostituite da nuove compilazioni, che continuarono con pochissime variazioni fino all'esaurirsi della scrittura cuneiforme. Precursori di queste nuove liste sono però noti già attorno al 2500.

Liste lessicali tematiche arcaiche

Alla fine del IV millennio si forma a Uruk la tradizione delle liste lessicali tematiche (in cui i termini sono organizzati secondo i loro significati), che, attestata attorno al 2800 a Ur e attorno alla metà del III millennio a Fara, Abu Salabikh, Ebla e Lagash, continua in età paleoaccadica e neosumerica. Si tratta di testi monolingui sumerici in cui operano i classificatori semantici per nomi di animali acquatici e di volatili; i nomi di animali terrestri non hanno invece classificatori generici. Questi inventari naturalistici, in cui spesso gli animali sono elencati indipendentemente dal loro interesse pratico, hanno dato luogo a varie liste:

a) la Lista di uccelli (che elenca più di 150 volatili);

b) la Lista di pesci (che, ancora copiata a Sippar paleobabilonese, ha circa 100 nomi di animali acquatici, di grande importanza alimentare nel Sud mesopotamico);

c) la Lista di suini (nota solamente a Uruk, ha circa 60 voci; l'uso del maiale andò declinando nel I millennio);

d) la Lista di mammiferi domestici (che concerne molte qualità diverse di sei tipi di bovini e di un tipo di pecora);

e) la Lista del 'tributo' (che elenca, accanto ad altri beni, 25 nomi di animali vari, ed è di taglio più pratico);

f) la Lista con cibi (che concerne cibi vari, parti anatomiche e carni di animali essiccate o salate).

Attorno alla metà del III millennio, mentre le liste arcaiche sono ancora copiate, da esse in ambienti a contatto con semitòfoni si sviluppa una tradizione complementare, che mostra più decisi interessi pratici. Da un lato si ha la Lista di animali, un testo enciclopedico, noto ad Abu Salabikh ed Ebla, che include nomi sumerici per circa 120 voci. Esso elenca bovini e caprovini domestici, prosegue con equidi, e poi animali selvatici, anche nocivi o pericolosi (bestie con corna o zanne, carnivori, roditori, pipistrelli, animali acquatici ma non pesci, e parassiti). Circa gli equidi, di cui questa lista fornisce la più antica terminologia, è probabile che l'introduzione del cavallo, legato alle aree anatoliche orientali e alla Mesopotamia settentrionale, sia un fenomeno abbastanza antico, anche se solamente nel II millennio si hanno fonti più chiare concernenti il suo allevamento e la sua cura. Dall'altro lato, nello stesso periodo, ma in ambiente decisamente semitòfono, si sviluppano liste tematiche bilingui di animali. Attualmente nota soltanto a Ebla, La lista bilingue di animali, con circa 100 voci, ha quattro sezioni: grandi mammiferi (specialmente equidi e felini), piccoli mammiferi (spesso roditori), uccelli e rettili, piccoli animali con aculei e pungiglioni (spesso insetti, rettili e animali acquatici). Essa costituisce la più antica fonte organica per una nomenclatura faunistica semitica. A Ebla (dove è nota una lista frammentaria che include nomi di animali nocivi) è nota anche una versione alternativa e più breve dell'arcaica Lista di uccelli, dove sono selezionati i nomi sumerici dei volatili che possono comparire anche nei testi amministrativi. Nomi di animali si trovano poi in liste tematiche di altro tipo: per esempio, la Lista con sezioni tematiche, nota ad Abu Salabikh ed Ebla, elenca alcuni oggetti e contenitori teriomorfi (rytha, ben noti in Vicino Oriente anche da ritrovamenti archeologici).

Liste lessicali acrografiche arcaiche

Organizzate su criteri interni e non in riferimento ai significati dei termini, si sviluppano verosimilmente in ambiente semitòfono alla metà del III millennio. Ben attestata è la grande lista di termini sumerici detta EBK; nota a Ebla in versioni diverse e anche in versione bilingue, include sezioni dedicate a serpenti, uccelli, bestiame domestico e mammiferi selvatici, e ha circa 90 nomi sumerici di animali, la metà dei quali tradotti in semitico nella versione bilingue.

Alla fine del III millennio queste tradizioni lessicali, avendo anche fissato i termini per distinzioni generiche, permettevano di classificare più di 400 nomi sumerici specifici di animali (probabilmente quasi tutto lo scibile faunistico dell'epoca); circa un terzo di questi nomi sono noti anche nelle forme equivalenti in lingue semitiche arcaiche di Mesopotamia e di Siria.

Liste lessicali 'classiche'

Attorno al 2000, contestualmente a grandi cambiamenti etnici, sociali e probabilmente anche climatici, inizia quel processo di creazione di nuove liste lessicali che porterà allo stabilirsi di versioni canoniche che per lo più sono note attraverso esemplari del I millennio. Vi sono però elementi di continuità con le tradizioni arcaiche di ambiente più o meno semitòfono. Nessuna area vicino-orientale sembra esente dalla diffusione di questi nuovi materiali, anche se nella loro elaborazione è ancora sostenuto il primato mesopotamico; tuttavia, attestazioni di documenti essenziali in zone a lungo considerate marginali inducono, anche per questo ambito, ad abbandonare il paradigma troppo semplice del centro e della periferia.

Nomenclatura faunistica, oltre che sparsa nelle liste lessicali acrografiche, si trova soprattutto nella vastissima compilazione tematica nota come "ḪAR-ra = ḫubullu". Questa, già documentata in età paleobabilonese, ha precursori in alcune liste tematiche arcaiche, e include, fra le 24 tavolette e le circa 7900 linee della versione canonica, 3 tavolette (dotate di commentari di tipo "ḪAR-gud") dedicate a nomi di animali, in cui sistematicamente i nomi sumerici sono tradotti in accadico. La tavoletta XIII concerne animali domestici, la XIV animali selvatici, la XVIII pesci e uccelli.

La tavoletta XIII (con precursori più brevi da Nippur e Sippar paleobabilonesi, Tell Billa medioassira, Ugarit e Ninive) contiene, nella sua versione canonica di 382 voci, 3 sezioni, dedicate a caprini (279 voci), bovini (74) equidi (29). Di fatto però, mentre moltissime sono le loro qualificazioni, i nomi specifici del bestiame grosso sono relativamente pochi: pecora, montone e agnello; capra, capretto e capretta; bue, toro, vacca, vitello. La nomenclatura degli equidi comprende asino, cavallo, mulo, onagro, ibrido, puledro e giumenta, e vi è incluso il dromedario.

La tavoletta XIV canonica, di 409 voci, ha sezioni dedicate a serpenti e rettili (47 voci), bovini selvatici (13), carnivori (83, fra cui cane, leone, lupo, tigre, iena, volpe, gatto, lince, scimmie, orso, leopardo, sciacallo, cinghiale), erbivori selvatici (12, fra cui uro, bisonte, cervo, daino, gazzella, lepre), suini (25, fra cui vari tipi di maiali e il porcospino), roditori (20, fra cui topo, mangusta, criceto, lontra, genetta, martora, donnola), camaleonti, lucertole e altri rettili (19, fra cui la tartaruga), insetti e altri invertebrati terrestri, volanti e acquatici (144, fra cui locuste, gamberi, libellula, grillo, mantide religiosa, bruchi, zecca, pidocchi, pulce, tarme, vermi, farfalle, mosche, zanzare, vespe, ragni, formiche, scorpioni), anfibi e rettili acquatici (9, fra cui gechi, rane, rospi). Si hanno inoltre termini collettivi per indicare branchi e sciami di animali selvatici, e anche termini per 'creatura' e 'bestia'.

La tavoletta XVIII canonica (con precursori del II millennio da Ugarit e Khattusha), di 385 voci, riguarda gli animali più difficili da identificare: pesci (137 voci) e uccelli (247; fra essi manca il termine per pollo domestico, importato tardi dall'India; uccelli utili menzionati fin dall'inizio della documentazione sono l'oca, l'anatra, la colomba e vari polli selvatici, come il francolino; apprendiamo qui che le uova, specie quelle di struzzo, erano ricercate).

In totale "ḪAR-ra = ḫubullu" dà quasi 1200 denominazioni faunistiche sumeriche e accadiche. Non tutte si riferiscono però ad animali specifici; la classificazione potrebbe averne compresi almeno 700-800. Nomi di animali sono poi noti in altre liste (per es., nella Lista pratica di Assur e in "Malku = Šarru"), molti nomi di insetti sono attestati nella lista farmaceutica "Uru-anna = maštakal", e parti anatomiche animali sono citate in ulteriori liste, che trattano anche parti del corpo umano. Sulla base della sistematica offerta dalle liste cuneiformi, è possibile che il criterio di distinzione fra énaima (animali a sangue rosso) e ánaima (animali esangui), usato da Aristotele (cui tradizionalmente si fa risalire la fondazione della zoologia) basandosi su studi precedenti, fosse conosciuto nell'area vicino-orientale. Il lessico sumerico si prestava a distinzioni generiche protoscientifiche: oltre ai classificatori semantici per pesci e uccelli (in sumerico ku6 e mušen), molti rettili e invertebrati sono riconoscibili poiché i loro nomi iniziano con termini peculiari, come muš, buru5, uḫ; altro caso è quello dei composti con ur-, che designano canidi e felini. Il lessico semitico non ha questo tratto, preferendo la proliferazione dei nomi specifici, anche se a volte (come nel caso dei nomi dei serpenti), sembra ricalcare l'uso sumerico.

Testi amministrativi, lettere e testi di divinazione

Nomi di animali sono ubiqui nell'enorme mole dei testi della pratica vicino-orientali antichi, di solito confermando i dati delle liste lessicali. Queste fonti, che ben documentano l'uso di nomi di animali nell'antroponomastica, permettono di apprezzare, fra l'altro, consistenze di armenti, predilezione verso certe specie come forza-lavoro, pratiche alimentari, sfruttamento di prodotti derivati (lana, pelli, latte, ecc.), tecniche di contrasto ai parassiti (testi amministrativi paleoassiri e lettere di Mari). La circolazione di animali pregiati e l'esistenza di domesticatori professionisti di fiere e di parchi faunistici sono certe in età paleobabilonese (Mari) e neoassira, ma si tratta verosimilmente di fenomeni più antichi. Da studiare restano l'antichità delle attività sportive condotte con animali e l'uso delle bestie in spettacoli anche cruenti (si pensi al passo biblico di Daniele nella fossa dei leoni sotto Dario). Testi storici e lettere gettano un ponte verso i testi letterari, potendo usare i nomi di animali con i loro valori simbolici e metaforici, di frequente universalmente intellegibili e certo proverbiali da tempo immemorabile (la forza terribile del leone, la cui caccia da parte del re divenne un motivo centrale nell'arte celebrativa neoassira; la rovinosità degli sciami di locuste, ecc.). Fin dalle età più arcaiche nella mezzaluna fertile e in Anatolia sono note denominazioni di danzatori tratte dalla terminologia faunistica, certo perché imitavano movenze e grida di animali, e usavano maschere in forma di animali (maschere teriomorfe) e pelli di animali.

Importantissime erano le pratiche divinatorie. L'extispicina è anche una fonte sulle conoscenze dell'anatomia degli ovini; praticata da personale specializzato, è documentata in area semitòfona già a Ebla, ed è poi largamente attesta-ta in età paleobabilonese e neoassira. Sembra che, nella maggioranza dei casi, fin dall'epoca più antica i nomi accadici degli organi interni degli animali coincidessero con quelli degli organi umani. Particolare attenzione era rivolta all'osservazione di nascite animali anomale. L'ornitomanzia è già nota in Siria nelle età di Ebla e Mari, e da lì passò in Anatolia.

Testi letterari

Tav. III

Da Uruk fino all'Antico Testamento, dal Golfo Persico al Mediterraneo animali reali e creature fantastiche popolano le letterature del Vicino Oriente. La pluralità culturale sempre caratteristica dell'area impedisce interpretazioni univoche del significato simbolico di certi animali (basti il caso del serpente), e una certa tendenza alla naturalizzazione di animali mitologici pare attestata in età tarda, valga un caso meglio noto dal mondo biblico, quello del leviatano, drago o coccodrillo. Animali svolgono un ruolo importante nelle fiabe (dove possono parlare) e negli incantesimi. Un importante settore di studi riguarda i rapporti fra certi animali (fra cui leone, aquila, toro, serpente, colomba) e alcune divinità, di cui sono simbolo (v. Tav. III).

Notevole è la proliferazione di animali fantastici, che dà luogo a una ricca iconografia.

Antico Testamento

Una classificazione zoologica si trova nel primo racconto della creazione (Genesi, 1, 20-26): la fauna selvatica è suddivisa in quadrupedi, volatili e striscianti, con gli acquatici che tendono a formare una classe a sé (Levitico, 11, 46). In altri passi gli animali sono distinti, su base moralistica prima ancora che igienica, in puri e impuri. Puri sono i ruminanti con l'unghia fessa (bue, pecora, capra, cervo, gazzella, daino, stambecco, antilope, bufalo e camoscio), gli acquatici che hanno pinne e squame, e vari uccelli. Impuri sono i ruminanti privi di unghia fessa (cammello, coniglio e lepre) e il maiale, la cui proibizione potrebbe risalire ad ambienti seminomadi, come anche gli acquatici senza pinne e squame, i rapaci e ancora struzzi, cigni, pellicani, cicogne, aironi, pipistrelli e insetti (cfr. Deuteronomio, 14, 3-20 e il più analitico Levitico, 11). Tracce di proibizioni dietetiche (attestate in Egitto) sembrano sussistere in Mesopotamia, ma esse non sono connesse con quelle bibliche.

Non sempre identificabili con certezza, nell'Antico Testamento sono attestati più di 110 nomi di animali: 8 di equidi, 5 di bovini, 13 di ovini, 9 di erbivori selvatici, 13 di carnivori terrestri, 1 di scimmie, 7 di roditori, 30 di uccelli, 17 di insetti, 7 di rettili, 1 di anfibi, 1 di pesci e 1 di molluschi. Sono anche noti termini generici collettivi per animali domestici, bovini, ovini, uccelli e pesci.

Veterinaria

di Marco Bonechi

Si è sostenuto che nel Vicino Oriente antico la veterinaria fosse una branca relativamente tarda della medicina umana; tuttavia la documentazione è abbastanza ampia già a partire dall'epoca arcaica. Mentre manca un vero e proprio termine sumerico per 'veterinario', alla metà del III millennio (nella lista di professioni da Fara nota come ED Lú B) è documentato l'a-zu5-anše, letteralmente 'medico degli equidi'. In età paleobabilonese la lista Proto-Lú ha lo stesso termine preceduto da quello simile di 'medico dei bovini', a-zu-gud. Mentre di quest'ultimo non è noto l'equivalente accadico, quello del primo, muna''išu, è dato dalla tarda lista canonica di professioni "Lú = ša" e da altre liste. In età paleobabilonese, i paragrafi 224-225 del Codice di Hammurabi, in contesto relativo anche a medici e barbieri, concernono i veterinari: "La ricompensa per un veterinario che ha salvato un bovino o un equino con un intervento chirurgico è di 1/6 [di siclo?] d'argento. Se il bovino o l'equino muore durante l'intervento, il veterinario deve risarcire la perdita al proprietario con la quinta parte del valore dell'animale".

Tav. IV

Nello stesso periodo, mentre un testo paleobabilonese da Sippar reca il nome di un 'medico dei bovini', Apil-ilishu, a Mari una lettera di un servitore del re Yasmakh-Addu raccomanda un certo Ipiq-Enlil, di cui era nota l'abilità non soltanto come medico, ma anche nel prendersi cura, come veterinario, di equidi e pecore. Un testo neoassiro riferisce di un medico di cavalli deportato dall'Egitto. I testi di Mari parlano di epidemie che colpivano le mandrie e di cani colpiti da rabbia. La cura dei cavalli e di altri equidi da tiro è ben documentata: una lettera di Mari fa riferimento a incroci per migliorare la razza, e testi sull'allevamento sono noti in età mitannica (v. Tav. IV).

Brevi testi ippiatrici (relativi a cure contro le coliche), inseriti in documenti che trattano malattie umane, sono noti in area mesopotamica, ma a Ugarit (fine del XIII sec.) era conservato un trattato con rimedi contro 10 patologie che colpivano i cavalli. Le medicine, di origine vegetale, erano somministrate per bocca o attraverso le narici.

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