Vicino Oriente antico. Causalità e intervento magico

Storia della Scienza (2001)

Vicino Oriente antico. Causalita e intervento magico

Francesca Rochberg
Ivan Starr
Alfonso Archi
Cristiano Grottanelli
Claudio Saporetti

Causalità e intervento magico

La divinazione mesopotamica

di Francesca Rochberg

Lo studio della divinazione ci permette di approfondire la concezione assiro-babilonese delle relazioni fra il genere umano e la Natura e fra gli uomini e gli dèi. Queste relazioni sono oggi considerate come l'oggetto specifico della scienza (rapporto uomo-Natura) e della religione (rapporto uomo-dèi), di conseguenza i testi divinatori diventano una fonte per lo studio di come la scienza e la religione si siano manifestate all'interno della cultura assiro-babilonese. Se può essere giustificato applicare il termine 'scienza' all'osservazione, alla spiegazione e alla previsione dei fenomeni del mondo naturale, anche quando queste avvengono sotto forma di una divinazione, occorre tuttavia tenere presente che queste attività 'scientifiche' erano parte di un pensiero religioso, dal momento che questi sistemi divinatori derivavano dalla fede nella partecipazione degli dèi alle vicende del mondo umano e naturale.

Le varie forme di divinazione mesopotamica si basavano sull'ipotesi che esistesse un ordine di origine divina e funzionavano come un sistema di comunicazione fra gli dèi e gli esseri umani, utilizzando gli schemi percepibilmente ricorrenti dei fenomeni naturali. Che l'Universo possedesse un proprio ordine è un'idea chiaramente espressa negli epiteti degli dèi, definiti come "coloro che tracciano i progetti cosmici". Così come è questa stessa mitologia a fondare la divinazione nel momento in cui insegna che gli dèi (per es. Marduk, nel poema epico della creazione Enūma eliš) hanno creato un Universo ordinato nel quale i fenomeni si verificano con una regolarità osservabile (v. cap. II, par. 1).

Poiché le 'cause' sottostanti alle regolarità della Natura non sono mai espresse in termini di leggi naturali, non si può presumere che, secondo gli antichi abitanti della Mesopotamia, i fenomeni naturali avvenissero conformemente a leggi.

Piuttosto, le testimonianze evidenziano come la concezione della Natura e dei suoi fenomeni, e quindi dell'intero ordine del mondo, fosse strettamente collegata agli atti creativi delle divinità. Il dio o gli dèi creatori, così come avevano stabilito un ordine nella Natura, allo stesso modo potevano distruggerlo. Infatti, nel Poema di Erra, il dio Marduk afferma: "Mi alzai dal mio seggio e il 'governo' del cielo e della Terra si sciolse. Ecco che il cielo sussultò: la posizione delle stelle del cielo mutò e io non [le] riportai al loro posto" (Cagni 1969, p. 73).

Sembra che alcuni fenomeni venissero considerati manifestazioni di specifiche divinità, come per esempio gli eventi lunari che erano messi in relazione con il dio Sin. Un tale presunto legame fra i fenomeni naturali e l'influenza delle divinità giustificava l'appello a queste ultime per annientare o deviare i presagi funesti. In questo modo la divinazione sviluppava e manteneva una relazione assai stretta con una sorta di magia teurgica.

In un brano del Manuale dell'indovino babilonese è esplicitamente affermata la credenza che l'intero ordine del mondo sia pervaso da segni che indicano gli eventi futuri, dove per 'segno' occorre intendere ogni fenomeno percepibile o immaginabile che si verifichi nel mondo: "i segni sulla Terra come quelli del cielo hanno in serbo degli avvertimenti per noi; il cielo e la Terra ci portano i presagi; essi non sono separati l'uno dall'altra: cielo e Terra sono connessi tra loro".

Queste affermazioni implicano un assunto di base sull'Universo, ossia che sia possibile instaurare una correlazione fra le due parti che lo compongono: il cielo e la Terra. Si pensava cioè che vi fossero segni in entrambe le metà del Cosmo e che questi si potessero mettere in relazione tra loro. La relazione tra un segno e l'evento che esso predice è ciò che definiamo presagio (omen, in latino). La forma tipica di un presagio consisteva nell'esprimere una correlazione del tipo "se accade x allora accadrà y", dove la proposizione che inizia con 'se' è la protasi e la proposizione che inizia con 'allora' l'apodosi. La divinazione erudita in Mesopotamia consisteva nella compilazione per iscritto di compendi di questi presagi, raccolti e ordinati per argomento, e presentati in elenchi di enunciati della forma 'se … allora'.

L'assunto cosmologico di base implicito nel brano surricordato presupponeva una complementarità ‒ non un dualismo ‒ tra regione celeste e regione terrestre, come pure un'analoga relazione tra il mondo 'naturale' e quello della società umana. Poiché la Natura non era ancora vista come interamente separata dalle forze divine, le correlazioni che si trovano nei presagi tra fenomeni naturali e preoccupazioni umane stabiliscono legami concreti e diretti tra la sfera dell'esistenza umana e quella cosmica o divina. La protasi e l'apodosi di un presagio rappresentano l'analogo della reciproca relazione fra la natura divina e la società umana.

La credenza mesopotamica che la divinazione fosse un prodotto di quella benevolenza e di quella cura che gli dèi riservavano alla loro creazione è solo un aspetto della complessa relazione che intercorre tra umano e divino. Alcuni studi sulla religione mesopotamica hanno messo in luce la reciprocità della relazione tra divino e umano, basata sul bisogno che gli dèi hanno degli uomini come propri servitori, a sua volta complementare alla necessità, così sovente ribadita dagli uomini, di ottenere protezione e amore da parte degli dèi. La convinzione babilonese che gli dèi prestino attenzione agli esseri umani si riflette anche nella convinzione che essi 'leggano' i loro inni e le loro preghiere. L'appello alle divinità tramite i riti e gli incantesimi rafforza ulteriormente l'idea che gli dèi siano in ascolto e desiderino rispondere alle suppliche degli uomini. Certamente il fatto che gli dèi siano visti come coloro che determinano la 'natura delle cose' e i 'destini della vita', poiché hanno stabilito il 'progetto cosmico' e 'il disegno della vita', rivela la centralità del loro intervento nel funzionamento dell'esistenza, sia della Natura sia della società umana. Possiamo ricostruire la concezione babilonese delle divinità, grazie ai numerosi epiteti che si trovano negli incantesimi, negli inni alle divinità e nei rituali. Per esempio, Shamash, il dio del Sole, in questo genere di letteratura è riconosciuto come il "re del cielo e della Terra, giudice [delle regioni] di sopra e di sotto, signore dei morti, guida dei vivi, grande capo dell'umanità, colui che allontana i sortilegi, i segni e i cattivi presagi".

In una preghiera ci si rivolge a questo dio come al "giudice altissimo", "creatore di ciò che è in alto e di ciò che è in basso", al dio "che non si stanca mai della divinazione", e che "pronuncia quotidianamente verdetti per il cielo e la Terra".

L'immagine degli dèi legislatori, che decidono su 'casi/decisioni legali' (purussû) è importante per la nostra comprensione della divinazione mesopotamica e dei principî su cui essa si basa. Attribuire infatti a un intervento divino sia il regolamento dei fenomeni naturali sia le loro infauste conseguenze per gli esseri umani solleva il problema dell'applicazione della nozione di legge divina al regno della Natura e a quello degli uomini. In alcuni contesti si afferma che le apodosi dei presagi sono "decisioni" (purussû) degli dèi. Come abbiamo già visto, nelle preghiere a diverse divinità sono attestati riferimenti alle leggi divine. In una di queste preghiere, rivolta a Sin, dio Luna, questi è definito come il "vero dio che pronuncia verdetti e rivela decisioni", espressione che certamente si riferisce al ruolo del dio Sin nella divinazione. La metafora legale pervade anche la letteratura magica, dove gli dèi, come Ea, Shamash e Marduk/Asallukhi, sono detti

coloro che valutano la legge del paese, determinano i destini [mušimmu šīmāti], tracciano i disegni cosmici, assegnano le sorti del cielo e della Terra ‒ e sono invocati perché ‒ è nelle vostre mani decidere i destini [šīmāti s̆âmu] e tracciare i disegni cosmici; voi determinate le sorti della vita, ne tracciate il disegno e regolate le decisioni.

Se questa capacità decisionale divina è legittimamente connessa alla mitologica decretazione dei destini da parte degli dèi, allora nel pensiero mesopotamico esiste una correlazione tra la divinazione e il fato (šīmtu), nel senso di "ciò che è determinato per decreto [divino]". In questo senso, le predizioni dei presagi erano probabilmente intese come se fossero state predestinate dagli dèi a realizzarsi. Oltre a questo, gli dèi avevano decretato una 'natura' (espressa sempre con il termine šīmtu) per ciascuna persona e per ogni animale, pianta o pietra. Nelle sezioni delle raccolte di presagi che si riferiscono agli esseri umani, è presa in esame l'idea della natura di una persona e il modo in cui questa si relaziona con un destino e una fortuna individuali. Si tratta di presagi basati tanto sulle caratteristiche fisiognomiche del corpo, quanto sulle abitudini linguistiche, sui comportamenti e sui sogni.

Poiché tutti gli eventi del mondo fisico erano interpretati come se fossero stati stabiliti e ordinati dalla divinità, e giacché i fenomeni che accadevano nel mondo empirico, sia naturale sia umano, erano considerati come segni potenziali (gli equivalenti del greco semeia e del latino omina), si riteneva che questi fenomeni dovessero indicare all'umanità gli eventi determinati dagli dèi.

Ogni fenomeno in cielo o in Terra, ogni esperienza, ogni sintomo di malattia, ogni nascita e ogni attributo fisico di un uomo poteva essere il potenziale latore di un messaggio divino e, di conseguenza, si potevano ottenere predizioni e correlazioni a partire da tutti questi fenomeni. Tale vasto ambito di presagi può essere innanzitutto classificato in base a due vaste categorie. La prima comprende i presagi intesi come messaggi inviati dagli dèi in risposta a questioni poste da un indovino con vari metodi di manipolazione, i cosiddetti presagi 'provocati' (auguria impetrativa). La seconda include i presagi spontanei, ossia quelli che un indovino semplicemente osserva, senza richiedere specificatamente un segno alla divinità (auguria oblativa).

I presagi impetrati (v. oltre: par. 3) si ottenevano con tecniche quali la divinazione per mezzo dell'olio, dove l'indovino versava olio nell'acqua, o per mezzo del fumo, in cui il fumo che si levava da un incensiere era interpretato come una risposta da parte del dio, o quali l'extispicio, dove l'indovino talvolta chiedeva agli dèi di scrivere la risposta sul fegato di un animale. I presagi spontanei erano desunti dalle molte osservazioni del comportamento degli animali, quali uccelli e insetti, o degli esseri umani e dei corpi celesti.

Criteri tassonomici

In generale, il modo in cui i segni erano raccolti e ordinati nei vari manuali di presagi suggerisce che gli indovini li consideravano come un insieme strutturalmente complesso ma sistematico. Le protasi illustrano una varietà di modelli schematici in base ai quali ordinare i fenomeni. Si tratta di modelli che di solito presentano simmetrie spaziali (destra-sinistra, alto-basso, nord-sud, est-ovest), relazioni temporali (inizio, metà e fine), o altre particolarità descrittive con i loro opposti (brillante e opaco, luminoso e buio, spesso e sottile). Uno degli schemi presenti nei presagi si basa sul colore dell'oggetto in esame: il colore della formica che varca la soglia di una casa, o quello di un'eclissi di Luna, il colore della gola di una persona malata o quello di un cane che urina addosso a qualcuno. Questi schemi, tratti rispettivamente dalle serie Šumma ālu, Enūma Anu Enlil, SA.GIG e Šumma izbu, sono tutti organizzati nello stesso modo, e cioè in base ai termini bianco, nero, rosso, giallo-verde e variegato.

Modelli di questo tipo si trovano anche nei presagi impetrati o provocati, come la lecanomanzia (divinazione per mezzo dell'olio, del tipo "se [l'olio] diventa scuro a destra/sinistra" o "se si scioglie verso destra/sinistra") o la libanomanzia (divinazione per mezzo del fumo, del tipo "se il fumo, quando lo disperdi, sale verso destra ma non verso sinistra" oppure "se il fumo, quando lo disperdi, sale verso sinistra ma non verso destra"). I presagi relativi alla vita quotidiana della Šumma ālu sono del tipo "se le porte di una casa sono alte, se le porte di una casa sono basse o se le porte di una casa si aprono verso est, ovest, sud, nord, ‒ e persino ‒ se la porta di qualcuno è aperta, egli diventerà ricco, [ma] se la porta di qualcuno è chiusa, il suo cuore si ammalerà".

I semplici schemi simmetrici che abbiamo riportato non esauriscono tutti i criteri di classificazione dei fenomeni. L'organizzazione schematica dei fenomeni, infatti, è così frequente e diffusa in tutta la letteratura divinatoria (presente sia nei presagi spontanei sia in quelli provocati, che riguardino olio, fumo, viscere, astri, nascite o malattie), che può essere considerata un tratto caratteristico della divinazione mesopotamica e una chiave per comprendere quali fossero le categorie utilizzate dagli indovini per esaminare i fenomeni naturali.

Sembra che in tutte le serie dei presagi si utilizzassero gli stessi metodi per interpretare un segno (la protasi) in una predizione (l'apodosi). Alcuni di questi metodi testimoniano che il presagio, ossia il legame tra il segno e la predizione, non necessariamente rappresentava una registrazione di quanto si era osservato nel momento in cui questi due elementi si erano verificati simultaneamente o in successione. Anzi, sembra che l'associazione tra il segno e l'evento predetto potesse essere fatta sulla base di una molteplicità di considerazioni 'teoriche', indipendentemente da qualunque osservazione. Uno di questi metodi è la paronomasia, ossia una figura retorica che accosta il suono di una parola della protasi a quello di una dell'apodosi e che forse risale al momento in cui gli scribi hanno raccolto, manipolato e messo per iscritto i presagi. Nella serie dei presagi dei sogni, Zīqīqu, un sogno nel quale un uomo mangia un corvo (arbû) preannuncia un guadagno (irbu) per quell'uomo. Analogamente, un sogno in cui compaia un abete (miḫru) significa che non ci saranno rivali (māḫiru) per il sognatore. Nella Šumma ālu, un presagio della tavoletta 15 (linea 16), relativo ad acqua versata, mette in relazione l'apparenza della pozza ‒ se assomiglia a un uomo che "tiene il proprio cuore" ‒ con una predizione secondo la quale la persona "si ammalerà di cuore".

Un altro metodo molto diffuso era quello dell'analogia. Per esempio: "se il primogenito di qualcuno è piccolo di statura, la sua casa avrà vita breve".

Semplici analogie tra forma e aspetto si trovano nei presagi fisiognomici, dove, per esempio, un volto piccolo significa vita breve e, all'opposto, un volto allungato significa vita lunga. Un chiaro esempio di analogia, tratto dall'Enūma Anu Enlil, è dato dal presagio che collega l'"entrata" (l'usurpazione) del principe ereditario sul trono del re all'"entrata" del pianeta Venere nella Luna, espressione usata per descrivere l'occultazione del pianeta da parte del disco lunare.

L'analogia può occasionalmente giocare un ruolo anche nella manipolazione apotropaica di una predizione per allontanare la sventura annunciata da un segno. C'è un rituale namburbi contro il "male di un arcobaleno" (ḪUL GIŠ.PAN) (Reiner 1995, p. 88), che richiede offerte agli altari degli dèi Ea e Ishtar. Quest'ultima, infatti, figlia di Anu, era identificata con l'arcobaleno celeste, poiché nella VI tavoletta del poema Enūma eliš, ossia nel racconto della creazione, Anu dichiara che l'arcobaleno era "sua figlia". La dea Ishtar rappresenta perciò la stella dell'arcobaleno (chiamata in accadico Qashtu, una stella della costellazione del Cane maggiore). Data l'equazione mitologica stella dell'arcobaleno-Ishtar, che si riflette nella sostituzione erudita del nome di Venere (il pianeta associato alla dea Ishtar) con quello di Qashtu, la logica del rituale è evidente: la stella dell'arcobaleno riceve suppliche tramite sacrifici a Ishtar, che sta per la stella Qashtu, e quando ciò accade il male annunciato dall'arcobaleno viene scacciato.

L'associazione simbolica per analogia era anche usata per determinare se un segno fosse favorevole o meno; il leone, per esempio, era considerato un buon segno, mentre non lo era il cane e, di conseguenza, presagi che paragonano le fattezze di una persona a quelle di un leone sono considerati positivi, mentre nel caso del paragone con un cane il presagio è immancabilmente negativo. O ancora, per fare un altro esempio, le predizioni dei primi due presagi della serie Šumma ālu affermano che "se una città è situata su un'altura, per gli abitanti di quella città non vi sarà prosperità" mentre "se una città è situata in piano, per gli abitanti vi sarà prosperità", dai quali si può desumere che dal punto di vista mesopotamico vi era qualcosa di negativo negli altopiani e qualcosa di positivo nelle pianure. Si potrebbe trattare di una predizione per contrariam, simile a quella che si trova in Zīqīqu, in cui s'interpretano i presagi contenuti nei sogni: "se [un uomo] ascende al cielo i suoi giorni saranno brevi", mentre "se egli discende agli inferi i suoi giorni saranno lunghi" (Oppenheim 1956, p. 267, IX i 3-4).

Si possono tuttavia individuare anche altre forme di associazione simbolica con la semplice coppia buono-cattivo. Nel caso della comune polarità destra-sinistra, la tradizione lessicale attesta l'associazione fra la mano destra e aggettivi del tipo buono, puro, pulito, fausto e fra la mano sinistra e i loro contrari come cattivo, impuro, sporco, infausto. Per esempio, il testo lessicale intitolato "An-ta-gál = šaqû" raggruppa da un lato i termini "mano pura" ([šu] silig = ŠU KU-tum) e "mano destra" ([šu] silig.ga = im-nu), e dall'altro quelli "mano sporca" ([šu] nig.gig = ŠU maru-uš-tum) e "mano sinistra" ([šu] nig.gig.ga = šu-me-lu) (An-ta-gál, C 240-243). Anche nei presagi la polarità destra/sinistra è frequentemente usata in base al presupposto che la destra sia buona e la sinistra cattiva (dove cattivo può voler dire che l'esito è positivo per il nemico). Alcuni esempi, tratti dalla Šumma izbu e che riguardano i presagi sulle nascite anomale, possono essere chiarificatori: un neonato che nasce senza orecchio sinistro, ma con il destro, è buon segno, mentre il contrario è un cattivo segno (Leichty 1970, pp. 55-56, III 20-21). Una malformazione dell'orecchio destro è cattiva, una dell'orecchio sinistro è buona. Due orecchie destre sono buone mentre due orecchie sinistre sono cattive. Lo stesso per le narici (avere solo la narice sinistra è cattivo, solo la destra è buono), per le mani e per le dita delle mani, per i piedi e per le dita dei piedi. Se un izbu, cioè un animale appena nato e con una deformità, ha le corna (tavolette V e IX), tutto ciò che riguarda il corno destro è buono, il sinistro cattivo, come per le altre parti del corpo. Analogamente, nei presagi sulla Luna crescente che appartengono alla serie dei presagi dei fenomeni celesti, e nei quali si fa riferimento alla Luna come se avesse dei "corni", se quello di destra "attraversa il cielo" l'esito è buono (Hunger 1992, p. 35, n. 57, 5) e lo stesso esito si ha quando il corno destro è lungo e il sinistro corto (ibidem, p. 212, n. 373, 5 e p. 284, n. 511, 5). Le diagnosi mediche seguono lo stesso principio, poiché i sintomi osservati sul lato destro o su quello sinistro sono rispettivamente meno gravi o più gravi: "se l'orecchio destro di un uomo è macchiato, la malattia è grave ma guarirà", mentre se a essere macchiato è l'orecchio sinistro "egli è in pericolo" (Labat 1951, p. 68, VIII 1-2).

Causalità, 'associazione circostanziale', ricorrenza

Alcuni dei metodi utilizzati per collegare la protasi con l'apodosi possono essere identificati direttamente in base al modo in cui sono usati nei testi dei presagi. Abbiamo già esaminato i metodi della paronomasia, dell'analogia e del contrasto. Ma come si sia giunti a collegare un 'segno' con un 'evento' è una questione più problematica. Come abbiamo visto, tutti i presagi babilonesi erano formulati come enunciati condizionali: se si verifica (o si è verificato) x, (allora) si verificherà y.

L'analisi grammaticale di un tale enunciato mostra che il verbo della protasi è al passato, mentre quello dell'apodosi è al futuro. La relazione tra x, il fenomeno, e y, l'evento predetto, ha dato origine a molte discussioni e si è giunti a concordare sul fatto che si tratti di una relazione che non rientra nell'ordine della causalità, ma in quello della semplice associazione o correlazione. L'enunciato del presagio va pertanto interpretato non come "x è causa di y", ma piuttosto come "se x, (attendersi anche) y". In realtà la natura del legame tra protasi e apodosi è difficile da definire, visto che ignoriamo il modo in cui un fenomeno si è trovato a essere associato a un evento dalle pesanti ripercussioni sulle vite umane (pestilenza, guerra, aumento o diminuzione dei prezzi, ecc.). C'è stato chi ha affermato che alla base di tutti i presagi mesopotamici si trovi un principio di 'associazione circostanziale'. Secondo questa teoria, per creare una connessione occorreva non soltanto che l'evento y in origine fosse stato osservato nelle circostanze rappresentate dall'evento x, ma anche che nell'interpretazione mesopotamica del verificarsi dei due eventi non fosse ritenuta possibile una coincidenza. Di conseguenza, ogni nuova osservazione di x andava interpretata come un preavviso di y.

La teoria dell'associazione circostanziale è abbastanza plausibile ed evita del tutto il problema della causalità. In verità, nulla nei presagi stessi potrebbe suggerire che la causa dell'evento annunciato sia il fenomeno contenuto nella protasi. Inoltre, dato che in tutta la letteratura di inni e preghiere e fra i testi non divinatori che si riferiscono agli dèi è presente la concezione che siano questi ultimi a governare la Natura con tutti i suoi fenomeni, sembra corretto supporre che i fenomeni fossero considerati semplici indizi e non cause degli eventi a venire, essendo il ruolo di causa nell'Universo svolto solo dagli dèi. Ancora, poiché l'Universo dell'antica Mesopotamia non era meccanicistico, ma subiva l'influenza della divinità, si può affermare che nella divinazione mesopotamica la relazione considerata non era quella tra segno ed evento predetto, ma piuttosto quella tra la divinità, che manda dei segni, e l'umanità, per il bene della quale quei segni sono stati mandati. Come visto sopra, le predizioni eseguite a partire da segni erano dette anche purussû ('decisioni divine').

La forma condizionale dei presagi associa esplicitamente un segno nella protasi a un evento nell'apodosi. Anche se si ritiene che gli eventi predetti siano stabiliti dalla divinità, nondimeno le protasi sono legate alle apodosi in modo formale. In altre parole, anche se le relazioni non sono di tipo causale, è tuttavia possibile descrivere in termini di causa la relazione logica e fisica che intercorre tra il segno e l'evento da lui predetto, utilizzando però un senso specifico della parola causa. La nostra analisi si basa sull'ipotesi che gli eventi della protasi e quelli dell'apodosi siano stati considerati come ricorrenti, ipotesi giustificata dal fatto che se questi eventi fossero stati ritenuti irregolari o casuali, non ci sarebbe stato motivo di tenere memoria delle associazioni tra protasi e apodosi per consultazioni future. Se questo è vero, allora è possibile descrivere i segni e gli eventi da loro predetti utilizzando il termine causa nel senso di una ricorrente e costante associazione fra una cosa e un'altra, come è espresso dalla formula "se (o ogniqualvolta) x, allora y". Che i presagi riflettano la concezione di una sequenza costante del tipo "se prima si verifica x, allora dopo si verificherà y", oppure quella di una costante coincidenza come "ogniqualvolta si verifica x, contemporaneamente si verifica anche y", è difficile stabilirlo in base ai presagi stessi. Ma indipendentemente dal fatto che x e y siano in rapporto sequenziale o di coincidenza, il punto importante è che ricorrano insieme. Infatti se ricorrono insieme, e dunque la loro associazione è considerata sempre valida, allora si può parlare di un tipo specifico di enunciato 'analogo' a una legge, vale a dire nel quale si presume che valga un'associazione costante tra la protasi e l'apodosi. Naturalmente, poiché queste associazioni valgono solo per casi singoli, noi non vogliamo assolutamente accordare lo status di legge ai presagi; se si ritiene però che gli eventi possano essere predetti, allora implicitamente si allude a un legame tra protasi e apodosi in qualche modo simile a una legge, visto che è l'associazione costante fra x e y a permettere di predire y ogniqualvolta si verifichi x.

Anche se queste relazioni logiche e formali tra le due parti dei presagi sembrano essere in accordo con la struttura delle previsioni, tuttavia non bisogna dimenticare che, accanto agli elenchi dei presagi, vi erano anche le formule apotropaiche (namburbi, v. oltre: par. 4) il cui scopo era quello di sovvertire, mediante un appello diretto agli dèi, la costanza dell'associazione tra protasi e apodosi. La fiducia nella magia teurgica, che di fatto chiedeva agli dèi di rompere il legame tra il segno premonitore e l'evento predetto, sembra minare l'intera struttura logica dei presagi. Quantomeno il ricorso alla preghiera e alla magia trasforma gli enunciati dei presagi in formule del tipo "se x, allora y (a meno che z)", dove z è il rituale namburbi per prevenire l'evento indesiderato.

In ogni enunciato, almeno nei presagi trattabili con mezzi apotropaici, è implicita l'evenienza che un qualche procedimento possa evitare il verificarsi dell'evento predetto grazie a un atto di persuasione degli dèi. Forse una migliore formulazione generale degli enunciati potrebbe essere la seguente: "se x allora y, se e solo se non z". Come detto sopra, questa formulazione varrebbe solo per gli enunciati che contengono una predizione, non per quelli diagnostici, e in particolare non per quelli che semplicemente esprimono dei truismi, ossia delle ovvietà, del tipo "se uno accumula paglia nel suo silo, il grano mancherà nella sua casa" o "se uno coltiva la cava d'argilla della sua città, s'impoverirà" (Moren 1977, pp. 66-67).

Sfera pubblica e sfera privata

Indipendentemente dalla questione se lo scopo degli enunciati fosse di predire il futuro o di individuare il carattere di qualcuno, le apodosi avevano due applicazioni fondamentali: una pubblica e una privata. Le apodosi pubbliche si riferivano principalmente al re, che in effetti rappresentava lo Stato e il popolo nella sua totalità. Erano spesso affrontati problemi relativi alla salute e alla prosperità del sovrano, al suo palazzo e alle sue campagne militari, come pure argomenti di economia di rilevanza generale, per esempio il raccolto, l'arrivo di inondazioni o di cavallette e simili. Fra le serie di presagi spontanei solo l'Enūma Anu Enlil si occupa esclusivamente di questioni di carattere pubblico. I presagi privati riguardano invece la fisiognomica, le nascite anomale, la vita quotidiana, i sogni e le diagnosi mediche e contengono predizioni per le persone coinvolte nell'evento o nella condizione descritti nella protasi. Nelle serie Šumma izbu le apodosi si riferiscono al padrone dell'animale o al capo famiglia della casa in cui la nascita anomala ha avuto luogo, che è identificato come "il padrone di casa" (bēl bīti), oppure "quest'uomo" (amēlu šû) o "l'uomo" (amēlu) e ancora "la padrona [di casa]" (bēltu). Per fare qualche esempio: "se una donna partorisce un cane ‒ il padrone di casa morirà, e la sua dinastia sarà dispersa; la terra impazzirà; pestilenza" (Leichty 1970, p. 32, I 7). Un certo numero di presagi che riguardano le nascite predicono qualcosa al bambino: "se una donna partorisce, e il mento [del bambino] è corto ‒ [al bambino] verrà concessa prosperità" (ibidem, p. 57, III 36). Ma protasi simili possono avere referenti diversi: "se una donna partorisce e [il bambino] è senza mento ‒ la dinastia dell'uomo sarà dispersa" (ibidem, p. 57, III 35), oppure una protasi simile si può connettere con un'apodosi pubblica: "se una donna partorisce e la bocca [del bambino] è chiusa [?] ‒ una città si rivolterà e ucciderà il suo signore; le contrade abitate saranno conquistate; il nemico godrà del raccolto della terra; idem [cioè stessa protasi] ‒ ci sarà carestia" (ibidem, p. 57, III 38).

In verità, la maggior parte dei presagi sulle nascite anomale ha apodosi di carattere pubblico, in modo analogo a quelli sui fenomeni celesti della serie Enūma Anu Enlil. Per portare un esempio: "se una pecora partorisce un leone, e questo ha il muso di un bovino selvatico ‒ il regno del re non sarà prospero" (ibidem, p. 78, V 57); mentre il presagio, molto simile, "se una pecora partorisce un leone, e questo ha il muso di un maiale" ha un'apodosi di carattere privato: "la padrona [di casa] morirà" (ibidem, p. 78, V 55).

Sarà solo nel periodo persiano che i presagi sulla vita dei singoli individui saranno desunti da fenomeni celesti. Questi presagi però non saranno incorporati nell'Enūma Anu Enlil, ma andranno a formare una categoria a parte, quella degli oroscopi, in cui si troveranno predizioni del tipo: "[se] un bambino nasce sotto il segno del toro, il toro del cielo [è] Grande Anu del cielo: quell'uomo sarà insigne, figli e figlie torneranno ed egli accrescerà le sue ricchezze" (BM 32224 ii 13'-15', tavoletta non pubblicata del British Museum).

Apodosi di questo tipo sono analoghe a quelle che si trovano nei presagi fisiognomici: "Se c'è un neo sul suo dito destro, subirà una perdita finanziaria" (Götze 1947, tav. CXIV, n. 54, 8).

Durante il periodo degli Achemenidi (539-331) e dei Seleucidi (330-65) la divinazione celeste subisce cambiamenti considerevoli, che si riflettono sia sui presagi tardobabilonesi basati sui fenomeni celesti, sia sui testi chiamati in traduzione moderna 'oroscopi' (v. cap. XII). Uno dei cambiamenti più significativi di questi secoli è il nuovo interesse che è portato ai casi individuali al di là delle principali preoccupazioni per lo Stato e il re. Parallelamente, da un punto di vista strettamente cronologico, nell'astronomia matematica babilonese iniziano a svilupparsi la teoria planetaria e quella lunare.

Quale sia la connessione ‒ sempre che esista ‒ fra questi due cambiamenti è un problema che nella storia dell'astronomia babilonese ha stimolato un ampio dibattito. Per comprendere meglio gli sviluppi della tarda astronomia babilonese è utile esaminare il modo in cui le varie pratiche astronomiche per l'osservazione e il calcolo si riflettevano nei testi oroscopici. In questa sede è sufficiente accennare al fatto che i dati astronomici, ossia le posizioni dei pianeti, così come gli altri fenomeni regolarmente registrati negli oroscopi, ossia le date dei solstizi e degli equinozi, le longitudini lunari e le eclissi, erano principalmente desunti da quei testi astronomici nei quali i dati di questo tipo erano raccolti (come i testi astronomici che appartengono agli antichi diari classificatori, gli almanacchi e i pronostici per l'anno nuovo). In alcuni casi isolati, laddove gli oroscopi citano le posizioni del Sole o della Luna nei gradi o nelle frazioni di grado di un segno zodiacale, bisogna considerare l'ipotesi che per ottenere questi dati si usassero procedure simili a quelle delle effemeridi matematiche tardobabilonesi.

La pratica della divinazione mesopotamica rappresenta una tradizione che si è sviluppata nel corso di molti secoli. Vi sono sufficienti testimonianze a sostegno della tesi, generalmente accettata, secondo cui la divinazione mesopotamica (sia erudita sia letteraria), avrebbe origini paleobabilonesi. Secondo questa tesi, dunque, gli inizi della tradizione scritta dei presagi risalirebbero alla prima parte del II millennio. Quella della divinazione erudita è una tradizione nata interamente in ambito accadico, visto che i testi di presagi non hanno precursori o analoghi sumerici, anche se alcune sparse evidenze di letteratura sumerica (nel cilindro A di Gudea e in un'iscrizione di Eannatum di Lagash) suggeriscono una qualche familiarità con i presagi tratti dai sogni, con l'extispicio e anche con i segni celesti. Vi sono testimonianze a sostegno della tesi di un'origine paleobabilonese per la maggior parte delle raccolte di presagi trovati nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive (VII sec.) e nei centri scribali del I millennio. Questi testi comprendono sia presagi provocati che spontanei: extispicio (Bārûtu), nascite anomale (Šumma izbu), fisiognomica (Alamdimmû), presagi celesti (Enūma Anu Enlil), terrestri (Šumma ālu) e sogni (Zīqīqu). Anche in assenza di tavolette del periodo paleobabilonese, il fatto che in testi di presagi più recenti sia usata una scrittura non contratta, caratteristica di quel periodo, e il ritrovamento di alcuni residui di un modo di scrivere certe sillabe proprio del paleobabilonese, sono considerati generalmente indicatori ortografici di un'origine paleobabilonese.

Mentre i più antichi testi di presagi giunti fino a noi situano le origini della divinazione scritta, o erudita, all'inizio del II millennio e quindi nel periodo paleobabilonese, sembra ragionevole supporre che le radici di questa tradizione dotta affondino in un periodo ancora più antico, in cui queste particolari concezioni delle divinità e delle relazioni tra uomini e dèi si erano costituite e articolate in forma mitologica. Potrebbe essere degno di nota il fatto che in un certo numero di apodosi di presagi si trovino eventi storici che risalgono a periodi precedenti il paleobabilonese e specificatamente al periodo accadico e a quello della III dinastia di Ur. Ciononostante, i più antichi testi di presagi conosciuti in forma di raccolte sistematiche risalgono al tardo periodo paleobabilonese. Nella categoria dei presagi spontanei questi si limitano alle serie Enūma Anu Enlil, Šumma izbu, Šumma ālu e Alamdimmû. La maggior parte degli esemplari superstiti delle serie erudite proviene dal palazzo di Assurbanipal (VII sec.), il re che aveva acquisito queste serie nella propria biblioteca di consultazione.

Copie di esse hanno continuato a essere trasmesse attraverso il periodo persiano e quello ellenistico, testimoniando la conservazione dei testi tradizionali da parte degli scribi, il cui lavoro ormai era patrocinato non più dal palazzo ma dal tempio.

I presagi spontanei

di Francesca Rochberg

Gli scribi hanno dedicato una diversa serie di divinazioni a ciascuna categoria di fenomeni spontanei: quelli celesti sono stati raccolti nella serie Enūma Anu Enlil ('Quando Anu ed Enlil'); quelli terrestri nella Šumma ālu ('Se una città'); i sogni nella serie Zīqīqu ('Dio sogno'); i tratti fisiognomici umani nella Alamdimmû ('La forma'); le nascite anomale di animali nella Šumma izbu ('Se il neonato anomalo'); infine, i sintomi medici nella serie SA.GIG ('Sintomi'), la cui prima tavoletta era intitolata Enūma ana bīt marṣi āšipu illiku ('Quando l'esorcista si reca a casa di un ammalato').

Una compilazione di presagi in relazione agli emerologi, dal titolo Iqqur īpuš ('Egli demolisce, egli ricostruisce'), riguarda i fenomeni o le attività che si verificano o devono essere intraprese in determinati periodi dell'anno, per cui le predizioni sono organizzate sulla base dei 12 mesi. Nella Iqqur īpuš si trovano anche alcuni stralci di presagi estratti dalle altre serie maggiori e alcune sue parti possono essere considerate una specie di supplemento calendaristico alle serie Šumma ālu ed Enūma Anu Enlil. Le prime 66 sezioni trattano delle attività quotidiane dell'uomo, come si trovano nella Šumma ālu. Per esempio, la settima sezione, che ricalca il nome dell'intera serie, ha il presagio "se egli demolisce la propria casa" per ogni mese dell'anno. Ogni sezione spiega le conseguenze delle varie azioni qualora siano eseguite in un certo mese, semplicemente elencando i 12 mesi (o 13, quando è necessario il mese intercalare) e dando le predizioni che riguardano l'uomo (che demolisce la propria casa), sua moglie, o la casa medesima ("quella casa verrà dispersa", "quella casa sarà magnifica", "le fondamenta della casa saranno instabili"). Un'altra versione dell'Iqqur īpuš presenta lo stesso materiale organizzato in base ai mesi invece che alle attività. La terza e ultima parte della serie elenca gli eventi naturali secondo i mesi dell'anno, presagi che in larga misura coincidono con quelli della Enūma Anu Enlil e riguardano le congiunzioni del Sole e della Luna, la Luna nuova, le eclissi lunari e solari, gli aloni, il sorgere e la visibilità di Venere, i fenomeni luminosi, il tuono, la pioggia, le nuvole, i terremoti e le inondazioni.

Ma oltre alle categorie che abbiamo preso in esame, è possibile applicare ai testi divinatori una classificazione che distingue tra raccolte il cui oggetto sembra essere la previsione di eventi futuri e quelle nelle quali l'apodosi non predice il futuro, ma funziona piuttosto come una diagnosi. I presagi 'diagnostici' si trovano sia nella serie SA.GIG, che riguarda le diagnosi mediche, sia nella Alamdimmû, sui presagi fisiognomici, i quali rivelano il carattere di una persona basandosi sulle sue caratteristiche fisiche e comportamentali, del tipo "se è gentile, la gente sarà gentile con lui" o "se è pusillanime, sarà [facilmente] spaventato" (dal cosiddetto Sittenkanon, una guida al comportamento morale in forma di presagi, v. oltre: par. 8). Queste due categorie sono poi classificabili ulteriormente a seconda che la conseguenza predetta o diagnosticata nella protasi del presagio sia ritenuta evitabile o modificabile con un appello alle divinità per mezzo di preghiere e di atti rituali.

Le preghiere e i rituali necessari per scacciare cattivi presagi erano raccolti in testi detti namburbi, termine che letteralmente significa "il suo [= del presagio] scioglimento". I rituali namburbi avevano lo scopo di vanificare o allontanare le 'malvagie' decisioni degli dèi pronosticate nelle apodosi e che potevano riguardare sia il pubblico sia il privato. Si va da un rituale "per prevenire la sciagura pronosticata da un serpente che si avvicina a un uomo" o quello contro "l'avversità annunciata da un'apertura creatasi nella casa di un uomo" al rituale "per il caso in cui il Sole e la Luna siano motivo d'afflizione per il principe o per il suo paese" fino a quello "apotropaico contro ogni male" (v. oltre: par. 4).

I presagi diagnostici, a differenza di quelli premonitori, non sembrano aver avuto un complemento apotropaico. Su questa base si può supporre che i Mesopotamici non credessero possibile sciogliere la connessione esistente tra una personalità o un comportamento affettivo e gli effetti che questi producevano nel mondo. Anche nel caso delle serie di presagi fisiognomici, non sembra che le predizioni di eventi funesti (del tipo "se i capelli sulla testa sono radi: i suoi giorni [ossia la sua vita] saranno brevi. Egli si ammalerà gravemente") fossero sottoponibili a manipolazioni magiche o modificabili con appelli agli dèi. Infatti non si conoscono riti apotropaici che valgano contro questo genere di presagi, sebbene in un inno, dedicato forse al dio Nabu, gli venga attribuita la capacità di "trasformare un presagio fisiognomico funesto (alamdimmû) in qualcosa di favorevole" (Gurney 1957-64, tav. LXXXVI, n. 71, linea 20).

Forse, in questi casi, vengono alla luce alcuni aspetti della concezione babilonese del fato personale, visto come una funzione di una 'natura' individuale. Nel suo significato babilonese, la parola 'fato', espressa con il termine šimtu ('ciò che è stato decretato'), designa un'autorità superiore che dispensa a un soggetto inferiore una certa qualità, un certo diritto o un certo potere. La natura di una persona sembra essere stata concepita come il risultato della distribuzione da parte di un dio delle caratteristiche e delle qualità possedute, così come della lunghezza della vita stessa. Il risultato era il destino individuale. I presagi fisiognomici servivano a indicare le diverse caratteristiche e le esperienze che erano a disposizione di ciascun individuo, ma non potevano essere modificati né con i riti magici né con le preghiere.

I presagi delle altre categorie potevano invece essere annullati con incantesimi e rituali indirizzati a particolari dèi. Per ricorrere contro i pronostici sfortunati, frutto della legge divina, nella mentalità babilonese occorreva fare appello agli dèi, visti come sovrani dotati del potere di 'decidere' e di 'determinare i destini'. Avvalersi di namburbi rappresentava una forma teurgica di magia e un atto profondamente religioso, in quanto dipendeva dalla relazione tra uomo e dio, relazione che presupponeva da parte delle divinità la volontà di prestare ascolto e di rispondere positivamente agli appelli degli uomini.

A seconda che la predizione riguardasse un singolo individuo oppure il re, erano recitate preghiere appropriate, con i loro atti rituali di accompagnamento. In un incantesimo rivolto a Shamash in risposta a un presagio relativo ai serpenti (come quelli della serie Šumma ālu) si trova la seguente supplica: "a causa del presagio di sventura di un serpente che ho visto entrare proprio dentro casa mia in cerca di prede, io ho paura, sono angosciato e spaventato. Liberami da questa sventura!" (Foster 1993, v. II, p. 649).

Sembra che la scelta del momento opportuno per eseguire un rituale potesse essere di fondamentale importanza, cosa che suggerisce il valore attribuito agli emerologi, ossia alla serie Iqqur īpuš e agli altri testi che specificavano quali giorni fossero propizi e quali no per intraprendere certe attività. La lettera che segue, di uno scriba della corte reale neoassira, sottolinea quanto fosse importante scegliere il momento giusto per eseguire i rituali apotropaici: "riguardo al rituale apotropaico contro i mali di ogni genere, a proposito del quale il re mi ha scritto "Eseguilo domani", il giorno non è propizio. Lo prepareremo il 25 per eseguirlo il 26".

Dal passo successivo della stessa lettera risulta invece chiaro come l'uso della magia teurgica presupponesse la volontà degli dèi di cambiare effettivamente il destino: "il re mio signore non deve preoccuparsi di questo pronostico. Bel e Nabu sanno fare in modo che un presagio venga ignorato, e faranno questo per il re mio signore. Il re mio signore non deve avere paura" (Parpola 1993, p. 217, n. 278).

Come abbiamo accennato in precedenza, i fenomeni e le loro correlazioni erano espressi sotto forma di enunciati condizionali, in cui la proposizione che iniziava con "se" (protasi) era seguita da quella che cominciava con "allora" (apodosi). Per molto tempo e con una grande varietà di metodi sono stati compilati elenchi di enunciati di questo tipo. Questi presagi sono poi stati raccolti in opere, le più importanti delle quali sono state redatte in modo sistematico ed erudito.

La formulazione dei presagi è il risultato di uno sviluppo impresso dagli scribi all'arte di raccogliere dati e di organizzarli, e che si osserva fin dall'inizio della storia della scrittura cuneiforme, in particolare nell'organizzazione delle liste lessicali sumeriche. Infine gli elenchi dei presagi hanno raggiunto una forma standard, che consisteva nell'ordinare i presagi di ogni singola tavoletta nello stesso modo, nel suddividere le tavolette in base all'argomento e nell'indicare con un numero quelle che appartenevano a una stessa serie. Cataloghi compilati da scribi specificavano l'ordine e il numero standard di tavolette per una data serie. Questo ordine era indicato con elenchi di incipit e con l'annotazione del numero di tavolette contenuto nella serie. Ogni tavoletta terminava generalmente con un colophon in cui erano riportati il numero di presagi contenuti e la prima riga della tavoletta che seguiva nella successione canonica. Occorre però sottolineare che questa versione canonica non era rigidamente preordinata, poiché, a quanto pare, erano possibili alcune variazioni e in ogni serie di presagi spontanei ve ne erano alcuni indicati come 'non canonici' (in accadico aḫû). Di conseguenza la fedele copiatura dei testi tradizionali si estendeva alle molte tradizioni di varianti. Mancano del tutto testimonianze di rigetto di presagi in quanto 'non canonici' e quindi illegittimi.

Nel seguito tratteremo più approfonditamente ciascuna delle sei serie di presagi spontanei. Tuttavia molte sezioni di ciascuna di queste serie sembra siano state inserite nella struttura di un'altra: per esempio, presagi della Šumma ālu si possono trovare nelle serie SA.GIG, Alamdimmû, Šumma izbu, Zīqīqu e Iqqur īpuš. Allo stato attuale delle nostre conoscenze del contenuto di questi testi è impossibile individuare quale serie abbia preso in prestito e da dove.

I presagi celesti (Enūma Anu Enlil)

Anu ed Enlil erano, rispettivamente, la divinità del cielo e quella dell'aria. Trattandosi dei membri più importanti del pantheon babilonese, figurano nella maggior parte della mitologia eziologica sull'ordine del mondo rintracciabile in versioni sumeriche. Nel poema sumerico Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi si afferma che Anu ed Enlil hanno preso possesso delle loro rispettive regioni cosmiche non appena queste si erano differenziate dall'unità primordiale: "Quando il cielo fu separato dalla Terra,/ quando la Terra fu separata dal cielo,/ quando l'umanità fu creata/ quando An prese per sé il cielo/ quando Enlil prese per sé la Terra/ e ad Ereshkigal, in dono, furono dati gli Inferi" (Pettinato 1992, p. 329).

Le prime righe della serie delle divinazioni celesti mostrano la funzione eziologica di Anu, Enlil ed Ea:

Quando Anu, Enlil ed Ea, i grandi dèi, hanno stabilito per loro legittima decisione i disegni per il cielo e la Terra, la crescita del giorno, il rinnovarsi del mese [= la nuova Luna] e la comparsa [dei corpi celesti], [allora] l'umanità ha visto il Sole uscire dalla sua porta e [i corpi celesti] mostrarsi con regolarità tra la Terra e il cielo. (King 1902, v. I, p. 124; v. II, tav. 49, 9-14)

Enūma Anu Enlil, nella sua forma completa e pienamente elaborata, comprendeva 70 tavolette dedicate ai 'segni celesti'. Dal punto di vista babilonese l'espressione 'segno celeste' stava a significare qualsiasi fenomeno fisico visibile (o anche semplicemente previsto) che si verificasse nel cielo durante il giorno o nel corso della notte. Di conseguenza anche i fenomeni meteorologici, come le formazioni di nuvole, e tutti gli altri aspetti del cielo diurno rientravano tra i 'fenomeni celesti'. Emergono come categorie fondamentali i fenomeni lunari, solari, stellari, planetari e meteorologici.

Tav. I

Questa integrazione tra i fenomeni celesti (lunari, solari e planetari) e quelli di carattere meteorologico e ottico propri dell'atmosfera ci può dare qualche indicazione sulla categoria dei 'fenomeni astronomici'. È evidente che in termini cosmografici non si faceva distinzione tra 'astronomico' e 'atmosferico', probabilmente perché non si considerava che vi fosse una grande differenza in termini di distanza dall'osservatore, per cui le nuvole o le meteore non si distinguevano dalle stelle nel senso in cui siamo abituati noi, ossia quello di una maggiore o minore lontananza dalla Terra (Tav. I).

I fenomeni compresi nei presagi di Enūma Anu Enlil non sono soltanto quelli effettivamente osservati. I testi fanno riferimento a una teoria astronomica sufficientemente avanzata da permettere di effettuare presagi anche sulla base di eventi semplicemente previsti, come per esempio le eclissi. Esistono anzi casi in cui si prendono in considerazione fenomeni sicuramente ritenuti estranei al dominio dell'osservazione possibile. Uno di questi casi riguarda le eclissi di Luna, i cui presagi sono stati schematicamente ordinati in base ai quattro punti cardinali (ossia a seconda che l'eclissi abbia avuto inizio a est, a ovest, a sud o a nord del disco lunare), anche se dal punto di vista di un osservatore sulla Terra la Luna si muove verso est e non sarà mai possibile vedere un'eclissi cominciare dal lato ovest. I 'lati' della Luna erano correlati a quadranti chiamati parte destra, sinistra, superiore e inferiore che, a loro volta, corrispondevano alle regioni geopolitiche del mondo sulle quali si sarebbe ripercossa l'influenza negativa dell'eclissi. È chiaro che nelle protasi non sono riportate osservazioni in un senso del termine equivalente al nostro (discorso che si può estendere a tutte le serie di presagi, non solo a quelli celesti). In altri termini, solo alcune protasi hanno una base osservativa, mentre è impossibile provare che i fenomeni astronomici citati nelle protasi di Enūma Anu Enlil rappresentino osservazioni effettive e databili, a prescindere dall'eccezione di parte della tavoletta 63.

I presagi celesti, che risalgono all'epoca paleobabilonese, riguardano principalmente le eclissi di Luna, sebbene compaiano anche i fenomeni solari e meteorologici. È chiaro che già a quell'epoca, gli aspetti delle eclissi lunari, come la data, il momento, la durata e la direzione del moto dell'ombra, erano osservati e annotati per permettere consultazioni e controlli futuri.

Le evidenze situano il momento in cui si è formata la serie canonica dei presagi celesti, fra il XIII e il XII secolo. In seguito è diventata l'opera di riferimento per tutti gli eruditi impegnati nello studio e nell'interpretazione del cielo. Il materiale che risaliva al periodo paleobabilonese era stato inglobato nei testi successivi (in particolare, appunto, le tavolette 17-18). Tuttavia, anche se l'opera, nella forma assunta nel periodo neoassiro, sembra aver avuto il carattere di un testo di riferimento canonico, pare che non vi sia stata una tradizione testuale rigidamente fissata, poiché probabilmente nel corso del tempo ne sono state date diverse versioni. Il titolo Enūma Anu Enlil è molto antico e deriva dall'incipit che apre l'introduzione bilingue (sumerico e accadico).

Gli eruditi che tramandavano la serie di presagi celesti e che osservavano il cielo per controllare le conclusioni previste nell'Enūma Anu Enlil erano chiamati "gli scribi di Enūma Anu Enlil". La loro competenza si estendeva, oltre che a quest'ultima serie, anche alla corrispondente letteratura che riguardava la scienza del cielo, racchiusa in particolare nel compendio MUL.APIN. Si trattava dunque di una conoscenza deduttiva più che intuitiva. In altre parole, l'interpretazione dei fenomeni celesti non si basava su una comunicazione diretta tra il dio e l'indovino, ma era il risultato di una comprensione di questi fenomeni e di un'interpretazione ermeneutica dell'Enūma Anu Enlil.

L'espressione "ṭupšar Enūma Anu Enlil", usata per designare uno scriba specializzato nella scienza celeste, sottolinea la stretta relazione tra astrologia e astronomia. Ma l'educazione e le conoscenze dello scriba cui questa espressione si riferisce sono necessariamente cambiate nel corso dei 500 anni intercorsi tra il periodo neoassiro e quello arsacide. Sebbene l'espressione ricorra per tutto questo lungo periodo, vi è una grande differenza tra la scienza del cielo babilonese degli ultimi tre secoli del I millennio e quella del VII sec., anche se il tradizionale corpus di conoscenze contenuto nell'Enūma Anu Enlil era stato conservato e presumibilmente era considerato ancora valido.

Secondo le designazioni degli scribi contenute nei colophon, il testo canonico dell'Enūma Anu Enlil non si riferisce ai copisti come a degli "scribi di Enūma Anu Enlil". Anche se la serie dei presagi celesti costituiva la parte fondamentale delle conoscenze di uno "scriba di Enūma Anu Enlil", tanto che padroneggiarla pienamente era uno dei tratti distintivi di questa categoria, non per questo devono essere stati gli scribi a redigere i testi che contenevano i presagi celesti. Testimonianze del fatto che anche scribi privi di quel titolo potevano citare presagi celesti sono numerose, come si riscontra nelle lettere e nelle relazioni astrologiche dell'esorcista Adad-shumu-usur, o del sacerdote Akkullanu, che era un ēreb bīti "colui che entra nel tempio di Assur". Akkullanu eseguiva osservazioni del cielo e compiva ricerche sulla serie Enūma Anu Enlil, poi, su questa base, consigliava il re e soprintendeva personalmente ai riti apotropaici richiesti dai presagi. Ma gli scribi che eseguivano dei resoconti sui presagi per il re non facevano riferimento solo alla serie Enūma Anu Enlil. Questa, infatti, nella sua forma canonica e in quella non canonica, faceva parte di un elenco di opere erudite che appartenevano alla biblioteca di Assurbanipal fra cui comparivano elenchi lessicali (nabnītu), lamentazioni (eršaḫunga), presagi terrestri (šumma ālu) oltre a commentari relativi ad alcune serie di presagi e al testo letterario Enūma eliš. Se ne deduce che i presagi celesti erano parte di una dottrina che tra i suoi vari aspetti contava la divinazione (celeste e terrestre), la letteratura di lamentazioni, la letteratura lessicale e i commentari.

Forse più di ogni altra categoria di fenomeni inclusi nei presagi, quelli celesti si prestano, grazie alla loro natura ciclica, a essere riconducibili a una ricorrenza periodica. Questa inerente prevedibilità caratterizza i fenomeni celesti e li distingue dagli altri fenomeni presenti nei presagi.

Tuttavia, ben prima che l'astronomia babilonese avesse sviluppato metodi di previsione per eventi astronomici come le eclissi lunari o i fenomeni sinodici planetari, gli elenchi dei presagi già riflettono un fondamento empirico e attestano una consuetudine sistematica con l'osservazione e con la scoperta di grossolane periodicità. Di conseguenza, i presagi paleobabilonesi sulle eclissi lunari forniscono predizioni per i giorni vicini all'opposizione, ossia al momento in cui certamente l'eclissi ha luogo. Altri fenomeni attinenti alle eclissi sono il colore rossastro della Luna o i vari momenti della notte in cui questa si verifica, nonché la sua durata. In epoca neoassira i presagi delle eclissi di Luna diventano più descrittivi e dettagliati, come mostrano gli esempi che seguono e che sono tratti dalla tavoletta 20 di Enūma Anu Enlil:

Se un'eclissi si verifica nel quattordicesimo giorno di Tebetu e il dio [= la Luna] nell'eclissi si oscura nella parte superiore del disco verso est e ritorna chiaro nella parte inferiore verso ovest; il vento dell'ovest [si alza e l'eclissi] comincia nell'ultima veglia e non finisce [con la veglia]; le sue cuspidi sono uguali [in grandezza], né l'una né l'altra è più larga o più stretta. Osserva la sua eclissi, cioè della Luna nella cui eclissi le cuspidi siano le stesse, né una è più larga o più stretta, e tieni a mente il vento dell'ovest. La predizione [letteralmente: 'il verdetto'] si applica a Subartu. Subartu e Gutium […] il fratello colpirà il fratello; il popolo patirà una sconfitta [?]; vi saranno molte vedove; il re di Subartu farà la pace con i paesi […]. Essa [l'eclissi] cominciò alla veglia mediana e non [la] terminò. Questo è il suo presagio e la sua predizione [letteralmente 'il verdetto']. (Rochberg 1988, p. 209)

Forse il testo che rappresenta più chiaramente questo desiderio di rendere i fenomeni celesti prevedibili è la tavoletta 14 di Enūma Anu Enlil, la quale non contiene presagi ma fornisce uno schema aritmetico per la durata della visibilità della Luna per ogni notte. Questo testo è significativo per la storia dell'astronomia in quanto è una delle più antiche testimonianze dell'applicazione della metodologia aritmetica o lineare, tipica dell'astronomia matematica babilonese e di tutte le forme di astronomia ellenistica derivate da essa.

La più semplice delle prime applicazioni di metodi aritmetici o lineari si trova nel modo di trattare la variazione nella durata della luce diurna durante l'anno. L'osservazione empirica era necessaria per stabilire le basi dello schema numerico per la durata del giorno. Testimonianze di queste osservazioni si conservano non solo nei presagi di Enūma Anu Enlil ma anche nell'antica raccolta astronomica cuneiforme nota come MUL.APIN, nella quale, tra i tanti fenomeni, sono tabulate le lunghezze dell'ombra di uno gnomone.

Anche se i fenomeni che riguardano i pianeti sono meno rilevanti di quelli lunari ai fini della determinazione del calendario, tuttavia sono stati raccolti e organizzati nei presagi che comprendono approssimativamente le ultime 20 tavolette dell'Enūma Anu Enlil. Le tavolette 59-63 riguardano Venere, mentre le 64-65 trattano di Giove. La 64 comincia con il presagio "Se Giove resta nel cielo la mattina: re nemici si riconcilieranno". Forse una o due tavolette erano dedicate a Marte, sebbene sia sconosciuta la loro numerazione nella serie. Mercurio e Saturno sono invece rappresentati meno bene, anche se vi sono alcune predizioni che li riguardano. I presagi per le stelle fisse e le costellazioni (tavolette 50-51) a volte includono i fenomeni che riguardano i cinque pianeti, come, per esempio:

Se la stella rossa entra in Venere quando questa sorge: il figlio del re s'impossesserà del trono. Se la stella rossa entra in Venere quando questa sorge e non ne esce: il figlio del re entrerà nella casa di suo padre e si impossesserà del trono. Se l'arcobaleno si avvicina a UD.AL.TAR [Giove]: Elam mangerà cibo prelibato. (Reiner 1981, p. 49, n. 6, 5 e 5a; p. 67, n. 13, 8)

Una tavoletta planetaria che ha attirato l'attenzione di molti studiosi è la cosiddetta 'tavoletta di Venere di Ammisaduqa', cioè Enūma Anu Enlil 63. Questo testo è divenuto importante per gli studiosi moderni perché si pensava che fornisse dati astronomici risalenti alla I dinastia babilonese, e in particolare alla prima metà e oltre del regno di Ammisaduqa. Questi dati erano considerati decisivi per stabilire la relativa cronologia del Vicino Oriente antico, basata sulla determinazione di una data per la I dinastia di Babilonia. La tavoletta 63 di Enūma Anu Enlil può essere suddivisa in quattro sezioni, delle quali la prima e la terza riguardano la prima e l'ultima visibilità di Venere, mentre i presagi della seconda (presagi 22-33) cominciano con i fenomeni che riguardano Venere e seguono uno schema del tipo: "nel mese M1, giorno n, Venere comparve a est/ovest: apodosi; rimane presente a est/ovest fino al mese M2, giorno n, scompare nel mese M2, giorno n+1, e rimane invisibile per tre mesi/sette giorni; nel mese M3, giorno n [= mese M2, giorno n+1 più tre mesi o sette giorni], sorge a ovest/est: apodosi". Un esempio specifico è il presagio 22:

Se nel 2° giorno di Nisannu [1° mese del calendario] Venere compare a est: vi sarà lutto nel paese; resta presente a est fino al 6° giorno di Kislimu [9° mese del calendario]; scompare il 7° giorno di Kislimu e resta invisibile per tre mesi; nell'8° giorno di Addaru [12° mese del calendario] Venere sorge a ovest: un re manderà messaggi di ostilità al re. (Reiner 1975, p. 39)

Un estratto di questa tavoletta si trova anche nella serie Iqqur īpuš (Labat 1965, p. 200, 104A).

Le apodosi di Enūma Anu Enlil riguardano il benessere e la vita dello Stato piuttosto che quelle degli individui. Le predizioni più comuni prendono in considerazione l'agricoltura (il raccolto, la siccità, le inondazioni devastanti) e i problemi politici (le campagne militari del re, le relazioni diplomatiche, la caduta dei regni).

Mentre è possibile enumerare gruppi di fonti 'astrologiche' che vanno dalla fine del II millennio fino al I sec. a.C., il divario sia cronologico sia culturale tra questi gruppi, come pure la totale disomogeneità del materiale disponibile (ossia, le due lettere nell'archivio di Mari che riguardano la pratica della divinazione celeste contro le centinaia scambiate tra il re e gli eruditi conservate nell'archivio sargonide, oppure le cinque tavolette di presagi celesti paleobabilonesi contro le 15 del corpus di Ninive) pongono gravi limitazioni alla nostra capacità di ricostruire una 'storia' della divinazione celeste babilonese. Fa eccezione il VII sec., per il quale vi sono sufficienti evidenze (oltre le copie dell'Enūma Anu Enlil) per riuscire ad approfondire l'applicazione pratica della divinazione celeste. Queste testimonianze si presentano sotto forma di uno scambio di lettere tra i due re della dinastia sargonide, ossia Esarhaddon (680-669) e suo figlio Assurbanipal (668-627), e i vari indovini, maghi, sacerdoti delle lamentazioni e altri eruditi. Questa corrispondenza attesta la competenza degli indovini nella letteratura dei presagi, ma anche negli incantesimi, nei rituali e nei sacrifici resi necessari dai segni premonitori. Questi scribi non solo sapevano quando e cosa cercare in cielo, per poi trovare nell'Enūma Anu Enlil la predizione corrispondente, ma sapevano anche cosa fare in termini di culti e di magie riguardanti ciò che avevano trovato nel testo e di conseguenza potevano avvisare il re.

Poiché gli affari di Stato, e in particolare il destino del re, erano questioni di centrale importanza nelle apodosi dei presagi, in molte città mesopotamiche dell'impero assiro era effettuata un'osservazione regolare del cielo (cui seguiva l'interpretazione di ciò che si era osservato mediante il rinvio alle predizioni dell'Enūma Anu Enlil). L'osservazione notturna del cielo sembra essere stata una pratica comune fin dal regno del re babilonese Nabonassar (747-734).

Anche se non ci sono rimaste testimonianze che risalgano all'VIII sec., in base alle successive raccolte sulle eclissi lunari sappiamo che a Babilonia, dalla metà di questo secolo, fu istituito un archivio di testi che erano frutto di osservazioni. I cosiddetti Diari astronomici (v. cap. XII) raccoglievano, notte dopo notte, eventi lunari, planetari, meteorologici, economici e a volte anche politici per sei (o sette) mesi dell'anno babilonese. Gli astronomi babilonesi classificavano questi testi intitolandoli "osservazione [celeste] regolare che [va] dal mese x dell'anno y al mese z dell'anno y". Il termine 'diario' è appropriato perché i testi registrano le posizioni quotidiane della Luna e dei pianeti visibili sopra l'orizzonte locale.

Nel VII sec., tuttavia, nella capitale assira a nord di Babilonia non si trovano testi come i Diari astronomici. Eppure l'osservazione del cielo era un'istituzione patrocinata dalla corte del re a scopo divinatorio. I re sargonidi impiegavano gli indovini per proteggere sé stessi e, per estensione, lo Stato nel suo complesso. Quando erano osservati segni infausti, questi consiglieri del re provvedevano a far eseguire i rituali apotropaici adatti a proteggere la sua persona. In alcuni casi erano gli indovini stessi a eseguire gli incantesimi. Un corpus di testi noti come Relazioni attesta che questa attività erudita, carica di un valore politico e religioso, era svolta durante il periodo neoassiro. Indovini come Bel-ushezib, incaricati di osservare i segni celesti e di informare il re sul loro significato, usavano l'Enūma Anu Enlil come opera di riferimento. Qui di seguito riportiamo una relazione nella quale si afferma che si era verificata un'eclissi che però non era stata visibile a Ninive:

Al re delle regioni, mio signore: il tuo servitore Bel-ushezib. Possano Bel, Nabu e Shamash benedire il re, mio signore! [Se] si verifica un'eclissi ma non è visibile nella capitale, quell'eclissi è passata oltre. La capitale è la città dove risiede il re. Ora vi sono nuvole dovunque; non sappiamo se l'eclissi c'è stata o no. Il signore dei re scriva ad Assur e a tutte le città, a Babilonia, Nippur, Uruk e Borsippa; può darsi che in quelle città l'abbiano vista. Il re deve stare sempre attento. Vi sono stati molti segni di questa eclissi nei mesi di Adar e Nisan, e li ho comunicati tutti al re mio signore; e se si compie il rituale apotropaico dell'eclissi […] procurerà danni? È proficuo compierlo, il re non dovrebbe tralasciarlo. I grandi dèi che abitano nella città del re, mio signore, hanno coperto il cielo e non hanno fatto vedere l'eclissi, per far sapere al re che questa eclissi non riguarda il re, mio signore, né il suo regno. Il re può essere contento. (Parpola 1993, p. 95)

La situazione estrema configurata da un presagio era quella dell'eclissi lunare che annunciava la morte del re. Poiché nel VII sec. l'eclissi di Luna era prevedibile, il re poteva essere avvertito del pericolo annunciato prima che esso si verificasse, come si deduce dalla lettera citata. Si doveva allora mettere in moto un rituale che consisteva nel sostituire il re, in modo tale che il suo sostituto prendesse su di sé il presagio infausto. Quando poi il pericolo era passato, il sostituto era messo a morte, affinché portasse con sé la sventura nei lontani Inferi, la terra del non ritorno. In una lettera che riguarda il sostituto del re, si afferma:

ho annotato qualunque segno vi fosse, celeste, terrestre o di nascita deforme, e li ho recitati di fronte a Shamash, uno dopo l'altro. A loro [i sostituti del re e della regina] fu offerto del vino, furono lavati con acqua e unti con olio; feci cuocere quegli uccelli e glieli diedi da mangiare. Il sostituto del re del paese di Akkad ha preso i segni su di sé. (ibidem, p. 4)

Dopo la fine degli imperi neoassiro e neobabilonese e, in particolare, dopo la caduta di Babilonia nelle mani della dinastia achemenide, il cambiamento dei fattori politici ha inevitabilmente influenzato l'élite intellettuale. Sembra evidente un graduale spostamento del centro delle attività astronomiche dal palazzo al tempio. Le nuove élites di governo hanno sicuramente introdotto nuovi elementi culturali e nuovi interessi. Probabilmente la nuova centralità accordata all'individuo rispetto alle stelle, agli dèi e al Cosmo trova la sua spiegazione proprio in questi cambiamenti, i quali però sono appena accessibili allo storico a causa della scarsità delle fonti a disposizione. Nel momento in cui fanno la loro comparsa i presagi celesti dedicati ai singoli individui, basati su fenomeni che si verificano nel giorno di nascita (v. cap. XII), sembrano scomparire le evidenze di quel tipo di divinazione celeste praticata sotto i re sargonidi. In altre parole, non si hanno testimonianze di re persiani o seleucidi che consultino l'Enūma Anu Enlil e non sembra che l'uso di stendere oroscopi possa essere considerato precedente al V secolo.

I presagi terrestri (Šumma ālu)

La serie Šumma ālu, nella sua forma canonica del VII sec., rappresenta la più grande raccolta di presagi spontanei. Il titolo deriva dall'incipit dell'opera: "Se una città è situata su un'altura". Di questa raccolta a noi è pervenuto soltanto un terzo dell'edizione della biblioteca di Ninive, il cui numero di tavoletta più alto, conservato in un colophon, è di 104. Tuttavia, secondo i cataloghi e le righe di richiamo la Šumma ālu constava di almeno 107 tavolette, di lunghezza variabile, con un numero di presagi stimato a circa 10.000.

Il termine 'terrestri', usato per caratterizzare i presagi della Šumma ālu, non ne descrive adeguatamente il contenuto. La serie comincia con presagi che riguardano le città e le case (tavolette 1-18), ma poi passa a trattare di demoni ed entità soprannaturali (tavolette 19-21). In questa serie rientrano anche le descrizioni dell'aspetto e del comportamento di animali, quali gli insetti, le lucertole e gli uccelli, oltre a un ampio spettro di comportamenti umani (la tavoletta 53 contiene presagi che riguardano il re), come, per esempio, la descrizione di ciò che accade a una persona che si accinge a pregare, a dormire e subito dopo il risveglio, oppure prende in esame il comportamento sessuale e le relazioni familiari. Altri presagi che riguardano i campi, i giardini, i fiumi e le paludi corrispondono maggiormente alla denominazione 'terrestri'. Vi sono anche molte tavolette dedicate alla comparsa del fuoco (tavolette 52-54) e di luci strane (tavolette 92-94).

L'organizzazione delle tavolette di questa serie rappresenta un enorme sforzo di riunificazione e classificazione degli argomenti più disparati con l'intento di ottenere un'opera coerente. Fra tutte le serie che riguardano l'essere umano, la Šumma ālu è la più completa. Alamdimmû, infatti, si concentra sulle caratteristiche fisiognomiche delle persone, mentre SA.GIG studia i sintomi dei malati, e la serie Zīqīqu comprende solo presagi la cui protasi si limita a eventi tratti dai sogni di una persona. Šumma ālu, d'altro canto, tratta della 'vita reale', delle cose che si osservano nelle città e nelle case, della flora, della fauna, dell'acqua, del fuoco, delle luci, oppure descrive i pensieri di una persona, le sue preghiere, gli atti della vita quotidiana (come il sesso, il sonno e le liti familiari) e la percezione di demoni e spiriti.

Quest'ultimo argomento, trattato nelle tavolette 19 e 21, pone il problema della natura empirica dei presagi. Cosa significa affermare che un demone è stato visto in una casa? O fare presagi a partire dalle impronte degli dèi o dalle grida degli spiriti? Queste 'osservazioni' che riguardano le entità soprannaturali, nella maggior parte dei casi, sono accompagnate da eventi nefasti, come la distruzione della casa, la comparsa di numerose malattie (espresse come 'la mano' di un particolare dio), e perfino la morte. In questa serie, più che in ogni altra, si riflette la convinzione mesopotamica che il mondo, in tutti i suoi aspetti reali e immaginari, sia pieno di significati. Questi presagi, in cui ci troviamo di fronte a fenomeni che solitamente non consideriamo 'osservabili' e che, nel migliore dei casi, ‒ quando non li riteniamo del tutto privi di senso ‒ attribuiamo a un altro ordine ontologico, erano invece ritenuti dagli scribi che li interpretavano come epistemologicamente equivalenti ai fenomeni osservabili. Il loro significato era comunque decifrato sulla base di una competenza ermeneutica e di un lungo tirocinio. In altri termini, i fenomeni che rientravano nella categoria degli eventi soprannaturali erano incorporati nelle raccolte 'scientifiche' di quei presagi la cui analisi sembra essere stata puramente 'razionale', ossia portata avanti sulla base dei dati contenuti nei testi stessi e non condotta da un indovino per rivelazione personale.

Le predizioni della Šumma ālu riguardano sia gli individui sia la collettività, ossia il paese, la città, il re e l'esercito. Nella tavoletta 2 si possono trovare predizioni sulla distruzione di molte città della Mesopotamia, mentre altri presagi di questa serie si focalizzano sugli eventi atmosferici (come la pioggia) e quelli astronomici (come le eclissi). Le apodosi che si rivolgono agli individui di solito riguardano la buona e la cattiva sorte, la felicità e la miseria, la salute, la ricchezza, i matrimoni e le morti in famiglia. Nelle tavolette 5-7, sulla costruzione delle case, le predizioni si riferiscono al proprietario della casa, a coloro che la abitano, così come alla casa stessa. A volte esse forniscono un limite di tempo (per esempio, "un demone kisikilla si impossesserà di quella persona per due anni" (Moren 1978, p. 148).

Se i presagi celesti presuppongono un programma sistematico di osservazioni del cielo, il corpus della Šumma ālu indica un'analoga base empirica per l'organizzazione dei fenomeni 'terrestri', nonostante la presenza dei demoni e degli spiriti. A causa della vastissima gamma dei fenomeni trattati e della natura estremamente varia degli argomenti, il peso cumulativo della conoscenza non si 'sommava' come accadeva nell'area dell'astronomia. A volte è evidente un'analoga tendenza alla schematizzazione, tuttavia la natura degli argomenti sotto osservazione nella Šumma ālu rende piuttosto difficile una stima della sua natura sistematica.

I presagi che riguardano i sogni (Zīqīqu)

Il termine zīqīqu (zāqīqu) designa il dio dei sogni. L'equivalente sumerico è líl, che letteralmente significa 'vento', ma che ha anche la connotazione di 'spirito' o 'fantasma'. La raccolta ufficiale dei presagi dei sogni che ci è nota dalla biblioteca di Ninive del periodo neoassiro, si apre con l'invocazione dZīqīqu dZīqīqu dMA.MÚ ilu ša šunāte ("o dio dei sogni! O dio dei sogni! MA.MU, dio dei sogni!"). Quest'opera constava probabilmente di 11 tavolette, la prima e l'ultima delle quali contenevano rituali apotropaici (namburbi) per allontanare le predizioni indesiderate presenti nei presagi dei sogni. Si valuta che le tavolette 2-8 contenessero circa 500 presagi ciascuna, di cui solo una piccola parte è giunta sino a noi.

I presagi raccolti nella serie conosciuta come Zīqīqu presentano i fenomeni che occorrono nei sogni come se venissero realmente 'osservati', tanto che i sogni sono letteralmente definiti come "visioni della notte" (tabrīt mūši) e la loro descrizione come esperienze oggettive sembra farli rientrare nella stessa categoria degli altri segni spontanei, come l'osservazione di un fenomeno celeste o di un animale nato deforme.

Nella serie Zīqīqu i presagi ovviamente elencano solo quegli elementi che sono oggetto di predizione e non i sogni nel loro complesso. Di conseguenza è probabile che l'analisi di un particolare sogno fosse effettuata elaborando ermeneuticamente il significato dei singoli elementi spiegati nel testo. Si può perfino congetturare che un giudizio complessivo sul sogno, espresso nei termini di positivo o negativo, fosse il risultato di una tale analisi esattamente come nell'extispicio, in cui l'indovino prendeva nota del significato dei vari segni che vedeva nel fegato per arrivare a un verdetto complessivamente favorevole o sfavorevole. L'aspetto saliente è però il carattere generale che i presagi dei sogni presentano: come negli altri presagi, dove i fenomeni non vanno considerati come osservazioni specifiche di qualcosa che si è verificato in un determinato momento, ma soltanto come un riferimento generale a ogni fenomeno di quel tipo che può verificarsi in ogni momento, così in questi gli eventi sono di natura generale, non riferibili a un sogno particolare, ma funzionano come una guida all'interpretazione dei sogni.

I presagi fisiognomici (Alamdimmû) e quelli sulle nascite deformi (Šumma izbu)

Il titolo della serie sui presagi fisiognomici è tratto da un colophon: Šumma alamdimmû ('Se la forma'). In un antico catalogo si afferma che "Alamdimmû [riguarda] la forma esteriore e l'apparenza [e come queste determinano] il destino dell'uomo". La parola alamdimmû 'forma' o 'figura' è un prestito dal sumerico ALAM.DÍM, un lessema a sua volta raramente attestato.

La serie completa dei presagi fisiognomici comprende 12 tavolette, organizzate come un tutto unico a capite ad calcem, partendo cioè dai presagi che riguardano la testa per finire con quelli relativi ai piedi; lo stesso principio organizzativo (dall'alto in basso) è ripreso anche nelle singole tavolette ed è stato usato per la Šumma izbu e la SA.GIG.

Le 24 tavolette della serie Šumma izbu contengono circa 2000 presagi sulle nascite inusuali. La parola izbu significa 'neonato deforme, umano o animale'; nelle liste lessicali questa parola ricorre accanto ai termini che indicano i soggetti informi e i feti prematuri o i bambini nati morti: questa sinonimia suggerisce che l'izbu fosse considerato deforme in quanto prematuro. Non aveva raggiunto la forma giusta e completa perché non aveva, come dice l'espressione sumerica equivalente, "completato i mesi". Uno dei sinonimi, kūbu, ha anche il significato di 'forma mostruosa' ed era il nome di un demone.

La serie Šumma izbu è nota in una versione paleobabilonese, parte della quale contiene materiale parallelo a quello delle tavolette 5-17 e 4 della versione canonica (cioè l'edizione della biblioteca neoassira). Abbiamo anche resti, molto frammentari, dei presagi accadici delle nascite anomale provenienti da Khattusha (Leichty 1970, pp. 207-210). La sequenza stabilita delle tavolette nota dalla copia conservata nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive, sembra essere stata opera di scribi del tardo periodo mediobabilonese.

Generalmente, le apodosi della serie Šumma izbu, come quelle di Enūma Anu Enlil, riguardano il re e il paese nel suo complesso. Non è sorprendente pertanto che nelle corrispondenze fra i re neoassiri e gli scribi si trovino testimonianze del loro interesse per i presagi izbu. In una lettera, il re sembra innervosito dal fatto che un presagio izbu non pervenisse a conclusioni: "Riguardo al presagio izbu a proposito del quale il re mi ha scritto: "È oscuro" ‒ ho inviato al re esattamente ciò che era scritto nella tavoletta" (Parpola 1993, p. 216, n. 276).

Un'altra lettera è dello stesso tenore: "Quando il re, mio signore, ha chiesto due o tre volte in precedenza al suo servitore di nascite deformi o altro, ho mai nascosto [qualcosa], buona o cattiva che fosse, al re mio signore?" (Parpola 1993, p. 208, n. 265).

I presagi medico-diagnostici (SA.GIG/Sakikkû)

La serie di 40 tavolette dal titolo SA.GIG (accadico Sakikkû) è dedicata ai presagi medico-diagnostici e ha come incipit: enūma ana bīt marṣi āšipu illiku ("quando l'esorcista si reca a casa di un ammalato"). In un catalogo delle serie SA.GIG e Alamdimmû, con tutte le loro sezioni, si afferma che "SA.GIG [riguarda] tutte le malattie e tutte [le forme di] sofferenza" (Finkel 1988, pp. 148-149). In alcuni contesti la parola sakikkû sembra voler dire 'sintomo', come nella lettera dell'archiatra della corte neoassira, Urad-Nanaya, di cui riportiamo un brano: "il re, mio signore, continua a dirmi: "perché non fai una diagnosi della natura di questa mia malattia e non ne trovi una cura?" Ho parlato in precedenza con il re all'udienza e non ho saputo spiegare i sintomi che presentava (sakikkêšu)" (Parpola 1993, p. 254, n. 315).

Questa serie faceva parte del materiale che era consultato dall'āšipu, l''esorcista', la cui autorità proveniva dagli dèi, esperto nell'esecuzione di rituali e di incantesimi in cui parlava a nome di particolari divinità. L'esorcista infatti, doveva anche essere esperto di diagnosi mediche, visto che lo scopo delle sue manipolazioni rituali e della sua recitazione degli incantesimi era quello di guarire gli ammalati.

La pratica medica babilonese, fin dall'inizio, si era divisa tra l'āšipu, che faceva la diagnosi, stabiliva una prognosi di guarigione e tentava una cura mediante l'uso di incantesimi, amuleti, statuette, cerchi magici e altri atti rituali, e l'asû, il 'medico', che dispensava soprattutto una terapia farmacologica. Nelle liste lessicali sumeriche e negli altri elenchi del personale, queste due figure professionali vengono sempre abbinate.

Il Manuale dell'esorcista, la serie SA.GIG, equivaleva in forma di presagi a una raccolta di conoscenze sulle malattie, i loro sintomi e la loro eziologia. Come afferma il catalogo menzionato sopra:

SA.GIG [riguarda] tutte le malattie e tutte [le forme di] sofferenza; Alamdimmû [riguarda] la forma esteriore e l'apparenza [e come queste determinano] il destino dell'uomo che Ea e Asallukhi/Marduk hanno stabilito in cielo […]. [Che l'āšipu], il quale prende le decisioni, veglia sulla vita delle persone, conosce interamente SA.GIG e Alamdimmû, visiti [il paziente] e controlli [nella serie appropriata] [che egli valuti] e metta la sua diagnosi a disposizione del re. (Finkel 1988, pp. 149-150)

Il fatto che la malattia fosse vista come un 'segno', ossia come un oggetto di divinazione, traspare chiaramente da un passo del babilonese Poema del giusto sofferente (Ludlul Bēl Nēmeqi), un'opera che per molti aspetti rappresenta una versione mesopotamica della storia di Giobbe. Quando il sofferente, dopo un anno intero di deperimento fisico, si avvicina alla morte, si trova a dire: "L'esorcista è indietreggiato davanti ai miei sintomi, mentre i presagi che mi riguardavano hanno confuso l'indovino. L'esorcista non ha chiarito la natura della mia malattia, e l'indovino non ha posto limiti di tempo alla mia infermità" (Lambert 1960, p. 45).

Il legame dell'esorcista con la divinazione medica e la cura dei malati attraverso incantesimi e magia rituale è attestato nella corrispondenza degli scribi neoassiri. La lettera che segue assicura il re che i rituali contro la malattia erano stati doverosamente eseguiti:

Riguardo ai riti intorno ai quali il re, mio signore, ci ha scritto, abbiamo eseguito nel mese di Kislev "Per tenere lontane dalla casa di un uomo la malaria, la peste e la pestilenza"; nel mese di Tebet abbiamo eseguito "Per tenere lontane dalla casa di un uomo malattia e malaria" e molti controsortilegi; nel mese di Shebat abbiamo recitato preghiere "con le mani alzate", un rituale apotropaico per neutralizzare sortilegi maligni e un rituale contro la malaria e la peste. Il primo giorno abbiamo iniziato i riti da eseguire nel mese di Adad. (Parpola 1993, p. 238, n. 296)

Da questa lettera risulta molto chiaramente il collegamento tra la malattia e il sortilegio. I Babilonesi consideravano l'opera dell'esorcista in modo analogo a quella dell'indovino, poiché queste professioni, pur richiedendo la padronanza di un corpus letterario ed erudito, erano tuttavia associate con il divino. Un testo indirizzato al dio Sole Shamash afferma: "senza di te l'indovino (LÚ.ḪAL/bārû) non può operare, senza di te l'esorcista non può porre le mani su un ammalato, senza di te l'esorcista, l'estatico, l'incantatore di serpenti non possono andare per le strade [per fare il loro lavoro]".

Quindi è il dio che permette la pratica della divinazione, la diagnosi medica, e, come nel caso appena visto, anche l'opera dello stregone (eššebû) e dell'incantatore di serpenti (mušlaḫḫu). È chiaro che l'esorcista eseguiva il suo compito in accordo con i testi della SA.GIG, proprio come il bārû, l'indovino, interpretava il fegato secondo la serie di extispicio Bārûtu. Nei casi in cui l'eziologia di una malattia era attribuita a un dio, a uno spirito o a un demone, ci si aspettava che fosse lo stesso esorcista ad allontanare queste forze. Il trattato afferma: "se gli stinchi e le caviglie gli fanno male e il dolore non diminuisce nemmeno dopo l'opera dell'esorcista vuol dire che uno spirito si è impossessato di lui" (Labat 1951, p. 20).

Quella dell'esorcista era una delle cinque categorie di dotti per i quali erano compilati i vari compendi di presagi e le altre opere erudite. Le suddivisioni delle professioni corrispondevano quindi alle classificazioni del repertorio dei testi eruditi, anche se è chiaro che i singoli membri di ciascuna categoria professionale di fatto possedevano conoscenze pratiche che andavano al di là della letteratura della propria disciplina. La letteratura dei presagi astrologici (e di altri presagi spontanei) era di competenza dello 'scriba' (ṭupšarru), quella dell'extispicio spettava all''indovino-aruspice' (bārû), gli incantesimi erano riservati al 'prete-cantore delle lamentazioni salmodiate' (kalû), la farmacopea medica e i riti apotropaici erano le discipline del 'medico' (asû), mentre SA.GIG, il trattato che riguardava i sintomi, era il manuale dell'esorcista (āšipu). Mentre nel periodo neoassiro l'āšipu rivestiva la carica di consigliere di corte, più tardi, nella Babilonia dei Seleucidi, egli avrebbe esercitato le sue funzioni nel tempio dal quale avrebbe ricevuto le prebende. In ogni caso si sarebbe sempre trattato di una professione diversa da quella del ṭupšarru, lo 'scriba indovino'. Come indica il colophon della seconda tavoletta di Quando l'āšipu si reca a casa di un ammalato, l'āšipu, prima di avvicinarsi a un paziente per curarlo, si purificava ritualmente con un incantesimo, presumibilmente diretto a Marduk (Asallukhi) o a Ea. Un esempio di un incantesimo del genere è il seguente: "Possa Ea, padrone dell'incantesimo della vita, signore della dolce acqua sotto la terra, fare un incantesimo a te […] possa Asallukhi, esorcista degli dèi, fare a te l'incantesimo della vita" (Cuneiform Texts, XXIII, 1 32).

Come gli altri scribi indovini, da un punto di vista metodologico gli esorcisti pensavano che la malattia fosse la manifestazione di una combinazione di eventi e circostanze il cui esito era prevedibile in base alla lettura dei sintomi, interpretati come fossero segni. La diagnosi dell'esorcista faceva leva sulla determinazione dei segni, per mezzo dei quali stabiliva la causa o l'agente responsabile delle condizioni del paziente, per poi pronunciarsi sulla prognosi in accordo con quanto compariva nelle apodosi della SA.GIG. Il primo livello di prognosi consisteva sempre nello stabilire se il paziente sarebbe sopravvissuto o meno. Nel caso in cui si poteva procedere a una guarigione, l'esorcista avrebbe dovuto compiere ulteriori interventi per liberare il paziente dalle influenze maligne responsabili della malattia.

Nella maggior parte dei casi, le cause di una malattia erano ascritte ad agenti soprannaturali, che si manifestavano come l'influenza di un dio (che si trattasse o meno di una divinità specifica), di un demone o di uno spirito, oppure come il potere di un sortilegio. Tutte queste influenze erano sempre indicate con un'espressione del tipo 'la mano di', e di conseguenza il paziente era considerato come se fosse stato 'preso', 'afferrato', 'toccato' o 'colpito' dall'agente individuato. Talvolta nella SA.GIG si consiglia all'esorcista di non avvicinarsi a un uomo che si ritiene sia oggetto di influssi pericolosi.

Conclusioni

Le diverse serie che raccolgono i presagi spontanei comprendono la parte più consistente del corpus di dottrine proprio degli scribi mesopotamici e sono servite come veicolo di osservazione e sistematizzazione dei diversi aspetti del mondo naturale. Per questo motivo tali raccolte rappresentano il principale prodotto dell''indagine sulla Natura' mesopotamica. Sebbene l'esigenza di sistematizzare i dati delle protasi abbia a che vedere tanto con le correlazioni trovate tra le protasi e le apodosi, quanto con il desiderio di comprendere i fenomeni in sé, una tale sistematizzazione e comprensione degli eventi doveva essere considerata un vantaggio per gli scopi predittivi della divinazione. I dati delle protasi e i principî della loro organizzazione sono il frutto di uno studio empirico dei fenomeni unito sia all'uso di quei metodi scolastici di compilazione delle liste sviluppati, per esempio, nella tradizione lessicale, sia a quei sistemi schematici ('teorici') ideati per la compilazione e la redazione delle raccolte erudite dei presagi.

La moderna definizione di questi testi come 'scientifici' dipende dal fatto che alcuni di essi, specialmente la serie Enūma Anu Enlil con la sua attenzione ai fenomeni astronomici, vertevano sulla 'Natura', nel senso che si occupavano di fenomeni celesti, di animali, o di uccelli ed esseri umani. È però il carattere osservativo e per di più sistematico proprio degli enunciati dei presagi a giustificare l'uso del termine 'scientifico', visto che altrimenti una tale definizione si potrebbe applicare anche alle liste di parole usate per indicare le stelle, gli animali, i pianeti ecc., ritrovati nei testi lessicali sumerici e accadici. Pochi studiosi accetterebbero oggi una tale classificazione per le liste lessicali.

L'uso del termine 'osservativo' in riferimento ai presagi richiede tuttavia qualche chiarimento: qualora per 'osservazione' si voglia intendere qualcosa che sia collegato ai fatti del mondo e che costituisca una verità empirica oggettiva, allora ci si può chiedere se sia giusto interpretare i presagi come enunciati osservativi. Se vogliamo isolare quelle parti della scienza divinatoria babilonese che non presentano discontinuità con quelli che noi oggi riteniamo oggetti legittimi di osservazione scientifica, allora possiamo considerare scientifica solo quella parte del pensiero babilonese che riguarda il cielo e di cui fanno parte i presagi celesti (anche se persino all'interno dell'Enūma Anu Enlil vi sono alcuni enunciati delle protasi che non sono potenzialmente osservabili, come nel caso di quelle eclissi di Luna la cui ombra viaggia da ovest verso est). Tuttavia, per quanto riguarda le restanti raccolte di presagi, si è fortemente tentati di non ritenere nessuno dei loro campi di osservazione come scientificamente produttivo e questo vale particolarmente per la Šumma ālu, in cui le 'osservazioni' si riferiscono a entità come i demoni, gli spiriti e i sogni. È però importante sottolineare che, se queste 'osservazioni' non possono essere qualificate come una testimonianza legittima dell'esistenza di una scienza nel senso moderno, esse tuttavia rientrano pienamente in ciò che i Babilonesi ritenevano facesse parte di un'indagine e della ricerca di dati dimostrativi.

Poiché è ormai divenuto un luogo comune ammettere che teoria e deduzione non siano indipendenti dalle osservazioni (visto che di fatto non si osserva un campo di fenomeni alla cieca, ma sempre con lo scopo di ottenere prove per qualcosa), riuscire a definire quel particolare contesto concettuale che è la divinazione babilonese potrebbe servire a trovare una conciliazione fra tutti quei 'fenomeni' che nei testi dei presagi hanno uno status empirico. Tuttavia una tale definizione potrebbe essere solo inferenziale, visto che gli scribi babilonesi non hanno mai definito il contesto concettuale della loro scienza divinatoria in quanto tale. Essa quindi può essere derivata sulla base di ciò che si è determinato circa le premesse della divinazione, e cioè che i 'segni' della Natura sono prodotti dagli dèi per comunicare con gli esseri umani e che i presagi esistono all'interno di un contesto concettuale che presenta il mondo come creato e manipolato dagli dèi. Ogni fenomeno, che fosse osservato o immaginato, era quindi integrato concettualmente nell'ampio contesto delle scienze dei presagi. Le aspettative circa quale tipo di 'segno' sarebbe potuto capitare scaturivano da questa idea, secondo cui tutti i possibili fenomeni del mondo erano stati prodotti dalle divinità. Di conseguenza potevano essere considerati dei 'segni' tanto i sogni, che le eclissi di Luna, le pozzanghere, i sintomi delle malattie o i feti deformi. Nessuna categoria di fenomeni aveva un maggiore o minore status epistemologico, visto che tutti i segni producevano 'predizioni', ossia conoscenza di quanto era tenuto in serbo per l'umanità.

Che le raccolte di presagi contengano un corpus di conoscenze scientifiche mesopotamiche è una valutazione moderna. A prescindere dallo scopo divinatorio di queste conoscenze, il nostro uso del termine 'scienza' in senso moderno si giustifica sulla base del fatto che esse formano un corpus acquisito sistematicamente e che riguarda 'ciò che era conosciuto', sempre tenendo conto che la nostra parola 'scienza' deriva dal latino scientia, che significa 'conoscenza'. Sebbene in accadico non esista un equivalente lessicale della parola scientia o scienza, tuttavia una concezione mesopotamica della conoscenza e di come questa fosse collegata alla divinazione può però fare luce sulla natura della conoscenza scientifica dal punto di vista mesopotamico.

In un testo che riguarda l'istruzione di uno scriba-indovino, in cui sono trasmesse diverse tecniche divinatorie dette "segreti del cielo e della Terra" e "segreti dei grandi dèi", ci si riferisce allo studioso come a un "sapiente", come a colui "che sa" (ummânu mūdû), e "colui che custodisce i segreti dei grandi dèi" (nāṣir pirišti ilāni rabûti). L'erudito è qualificato come "colui che sa" in quei colophon in cui è descritta l'esclusività del sapere degli scribi: "[colui che] sa può mostrare [la tavoletta] solo a chi sa" e non a "colui che non sa" o, in modo altrettanto esplicito: "colui che non sa [cioè il non iniziato] non può vedere il segreto del saggio". Questo carattere esclusivo del sapere degli eruditi, che non doveva essere divulgato a chi "non sa", segna una linea di demarcazione tra il corpus di conoscenze che comprende la divinazione, gli incantesimi e la magia, e gli altri campi del sapere.

Il fatto che in un catalogo in cui sono elencati gli autori dei testi scientifici e letterari si attribuisca al dio Ea la paternità della serie di presagi celesti Enūma Anu Enlil e di Alamdimmû (come pure del corpus dell'esorcista [āšipūtum] e di quello del cantore di lamentazioni [kalûtum]), significa che alcune raccolte di testi del repertorio dello scriba erano in qualche modo considerate di origine divina. I cataloghi, in cui i testi sono attribuiti ad autori sia umani sia divini, usano sistematicamente l'espressione ša pî, che letteralmente significa 'della bocca di' ma che vuol dire 'secondo…'. Questi testi tuttavia non si riferiscono a un'effettiva trasmissione di conoscenze dal dio all'essere umano. Sebbene il loro contenuto venga spesso definito 'segreto' (niṣirtu, pirištu), non si hanno testimonianze del fatto che agli indovini e agli scribi mesopotamici fosse necessaria una rivelazione divina per accedere ai 'segreti'.

L'atto di annotare le sistematiche osservazioni del cielo, della Terra e di tutti gli eventi relativi alla vita quotidiana, all'interno delle diverse serie di presagi, era l'espressione intellettuale dell'assunzione cosmologica che gli dèi fossero inseparabili dai fenomeni naturali, i responsabili dell'associazione tra i fenomeni della Natura e gli eventi umani, nonché l'autorità nascosta dietro quei testi che contenevano le 'decisioni' divine. È probabile che i presagi spontanei fossero considerati come un tutto vario ma coerente, visto che alcuni indovini padroneggiavano tutti i diversi campi della divinazione non provocata, come si desume da una lettera scritta da Marduk-shapik-zeri ‒ esperto nella divinazione celeste ‒ indirizzata al re Assurbanipal, in cui l'autore passa in rassegna il vasto campo delle proprie conoscenze:

Conosco a fondo la professione di mio padre, la disciplina della lamentazione; ho studiato e recitato le serie. Sono competente nel […] 'lavaggio-bocca' e nella purificazione del palazzo […]. Ho esaminato carni sane e malate. Ho letto l'Enūma Anu Enlil [= la serie di presagi astrologici] […] e fatto osservazioni astronomiche. Ho letto la Šumma izbu [= la serie delle anomalie], le [opere fisiognomiche] [Kataduqqû, Alamdi]mmû e Nigdimdimmû, [… e la (serie dei presagi terrestri) Šum]ma ālu. (Parpola 1993, p. 122, n. 160)

È chiaro che l'intervento divino era fondamentale nella visione che gli scribi avevano del sistema delle predizioni. Ed è anche chiaro che in entrambi i casi, ovvero sia che si interpreti l'attribuzione a un dio delle due serie di presagi come una testimonianza dell'antichità della tradizione dei presagi (in base alla considerazione che il divino precedeva l'umano), sia che invece la si consideri un enunciato epistemologico che pone una qualche forma di rivelazione divina a fondamento dei testi dei presagi, si configura comunque un atteggiamento nei confronti della relazione tra sapere tradizionale e 'scienza' molto diverso dal nostro. L'attribuzione dei testi a un'autorità e a un'origine divine sembra sottolineare che, per gli scribi babilonesi, ciò che appariva veramente significativo nella loro scienza non fosse il fatto che era stata costruita attraverso osservazione e sintesi teorica, un processo che è tuttavia evidente nelle serie dei presagi, ma piuttosto che l'avessero ricevuta già compiuta, da un'antica tradizione oppure per trasmissione divina.

Rispetto a una concezione moderna della scienza, nei presagi babilonesi non era presente soltanto un diverso contesto epistemologico, ma anche una differente dimensione empirica. Se ciò che è considerato come fenomeno 'osservabile', o in qualche senso empiricamente significativo, riflette le convinzioni e le ipotesi di una particolare comunità di scienziati e definisce il contesto concettuale di questa scienza, allora per poter valutare il contesto concettuale della scienza mesopotamica della divinazione è necessario prendere in considerazione tutti i fenomeni inclusi nei presagi. Il fatto che gli enunciati osservativi presenti nelle protasi non si riferiscano solo ai fenomeni naturali, ma anche agli spiriti, ai demoni e ad altri fenomeni che non sembra siano osservabili, suggerisce che il criterio mesopotamico usato per stabilirne il significato non era empirico nel senso usuale del termine.

I presagi provocati

di Ivan Starr

I presagi provocati (impetrita) risultano dall'intervento dell'uomo, il quale fornisce agli dèi i mezzi su cui agire per conto di un supplice. Essi avevano grande importanza, poiché consentivano all'uomo di sottoporre agli dèi le questioni che più gli premevano, soprattutto quelle riguardanti gli affari di Stato. Le classi principali di presagi impetrati o provocati erano l'epatoscopia o extispicio (esame divinatorio del fegato), la lecanomanzia (divinazione per mezzo dell'olio) e la libanomanzia (divinazione per mezzo del fumo). Delle tre, è stato l'extispicio a diventare il principale strumento di interrogazione degli dèi e, in particolare, del dio Sole Shamash, che nel pantheon mesopotamico era anche dio della giustizia e patrono della divinazione (in questo affiancato a volte dal dio della tempesta Adad). Non si sa se le altre due classi di presagi, la lecanomanzia e la libanomanzia, abbiano avuto un'applicazione pratica; non sono, comunque, più attestate dopo il periodo paleobabilonese (i primi quattro secoli del II millennio).

L'evoluzione dell'extispicio in Mesopotamia è comunemente spiegata nel modo seguente: l'osservazione di un'anomalia negli exta (viscere) di una pecora sacrificale potrebbe essere stata associata a un avvenimento di grande portata nazionale verificatosi poco tempo dopo, quale la morte di un re o la sconfitta dell'esercito in battaglia o, analogamente, da una grande vittoria contro il nemico o dalla conquista di un'importante città. I due eventi, in principio puramente coincidenti, senza alcuna relazione reciproca, da allora in avanti sarebbero stati collegati, il primo come protasi della serie di presagi di extispicio, il secondo come apodosi del presagio, che trasformava l'avvenimento storico nella predizione risultante dall'anomalia degli exta. Il presagio acquistava perciò un'autorità paradigmatica: ogni qualvolta si fosse osservata una simile anomalia negli exta, ci si sarebbe aspettato che accadesse un evento analogo e si sarebbe creduto che ciò dovesse valere per sempre. Si riteneva quindi che il primo preannunciasse il secondo, sulla base del principio post hoc ergo propter hoc (dopo di ciò e dunque a causa di ciò).

L'argomento a favore di un fondamento empirico dell'extispicio mesopotamico si basa sui cosiddetti 'presagi storici', i quali descrivono avvenimenti relativi non al futuro, bensì al passato. Fra la massa delle apodosi ne esistono alcune che si riferiscono a quelli che sembrano essere stati episodi reali della storia mesopotamica, associati ai nomi dei sovrani della regione, in particolare a quelli della dinastia di Akkad (2340-2200 ca.).

Non sempre è possibile accertare la storicità degli avvenimenti descritti nei presagi storici, e in certi casi risulta abbastanza evidente la loro natura aneddotica e folcloristica: "è il presagio di Rimush [un re della dinastia di Akkad, 2278-2270] che i cortigiani uccisero con i loro sigilli"; oppure, "è il presagio di Amar-Sin [un sovrano della III dinastia di Ur, 2046-2038], che fu incornato da un bue, ma morì per il 'pizzico' di una scarpa". Qui, palesemente, convergevano più tradizioni popolari. È da notare inoltre che il presagio di Rimush era anche riportato a proposito di altri due membri della dinastia di Akkad. Le gesta, reali o immaginarie, dei re di questa dinastia descritte nei presagi storici, a partire dal capostipite, Sargon di Akkad (2335-2279), e da suo nipote Naram-Sin (2254-2218), sono state assunte a paradigmi dell'intero corpus di presagi storici.

Una volta che gli avvenimenti associati ai sovrani (storici o leggendari che fossero) hanno cominciato a fungere da apodosi dei presagi, gli scribi si sono interessati sempre meno ai fatti storici e sempre di più all'esigenza di fornire presagi, a seconda dei casi fausti o infausti, sentendosi dunque liberi di abbellirli con episodi aneddotici. Ecco perché sono stati adoperati come apodosi dei presagi anche motivi letterari e folcloristici che, come tutti gli altri, servivano semplicemente da apodosi propizie o nefaste. I presagi di Rimush e di Amar-Sin erano ovviamente considerati infausti, ma quello di Naram-Sin ("è il presagio di Naram-Sin, che conquistò la città di Apishal") era molto favorevole. Le persone competenti (ossia, gli aruspici) erano dunque in grado di valutare apodosi quali "è il presagio di Rimush" oppure "è il presagio di Naram-Sin" senza bisogno di entrare nei particolari. Sapevano, cioè, che nel primo caso si richiedeva un presagio infausto, nel secondo un presagio fausto.

Lo specialista incaricato di interpretare i presagi (almeno nel campo degli impetrita) era l'indovino o aruspice (bārû in accadico). A lui spettava il compito di esaminare le viscere della pecora e di studiare le configurazioni dell'olio sull'acqua o del fumo che si levava da un incensiere. Fra gli impetrita, tuttavia, è stato l'extispicio ad affermarsi come principale strumento di comunicazione con gli dèi, e tale è rimasto per buona parte della storia mesopotamica. A loro volta, gli dèi, secondo l'espressione in uso nella regione, 'scrivevano' il loro responso o verdetto nelle viscere della pecora sacrificale.

L'indovino era un professionista che imparava a conoscere l'anatomia della pecora per mezzo di modelli d'argilla di fegato, polmoni e intestini e, nel I millennio, anche attraverso i cosiddetti testi di 'orientamento' e i commentari eruditi. Particolarmente comuni erano i modelli di fegato, come dimostra il fatto che ne siano rimasti numerosi esemplari d'argilla, sia in Mesopotamia sia in altre località del Vicino Oriente soggette alle influenze culturali mesopotamiche. Le irregolarità e le anomalie delle viscere (di fegato, polmoni, intestini e altre parti delle interiora della pecora) erano una fonte di presagi di grande rilevanza. Su di esse si fondavano le profezie da cui dipendevano il benessere dello Stato e la sicurezza del re.

Una tradizione mesopotamica fa risalire le origini della divinazione basata sull'ispezione del fegato e sull'esame dell'olio a Enmeduranki, un re antidiluviano di Sippar (una città babilonese di cui Shamash era il dio protettore). Secondo la leggenda, gli dèi patroni della divinazione, Shamash e Adad, gli insegnarono a osservare la configurazione dell'olio sull'acqua e gli diedero il fegato, che egli passò a sua volta (secondo una versione della tradizione) all'esperto di divinazione, descritto come discendente di Enmeduranki. Quanto agli indovini, per poter praticare quest'arte, dovevano rispondere a requisiti molto severi, che ricordano le prescrizioni bibliche relative al sacerdozio: l'aruspice doveva essere privo di imperfezioni nel corpo per potersi presentare al cospetto di Shamash e Adad sul luogo della divinazione.

Resoconti di extispicio

L'extispicio è così divenuto un importante strumento di divinazione sia per lo Stato, rappresentato dal re, sia per i cittadini che si avvalevano comunemente dei servigi dell'indovino. L'aruspice praticava gli extispici, ossia ispezionava le viscere delle pecore sacrificali e ne notava le anomalie. I risultati dell'esame fungevano da fonte per le predizioni che, a loro volta, guidavano il sovrano nell'intraprendere qualunque azione apparisse necessaria alla luce dell'esito della divinazione. Le ispezioni delle viscere della pecora sono solitamente chiamate "resoconti di extispicio", attestati dall'inizio del II millennio. I più antichi consistono in modelli di fegato d'argilla recanti iscrizioni di tali resoconti e provengono da Mari, una città lungo il corso superiore dell'Eufrate dove sono stati rinvenuti 32 di questi modelli, molto probabilmente risalenti al primo quarto del XIX secolo e verosimilmente approntati a scopo didattico, riprendendo evidentemente dei prototipi babilonesi più antichi. Lo schema dei modelli varia, ma tutti, essenzialmente, correlano il presagio, sotto forma di segno sul modello, con l'avvenimento. Poiché la correlazione di segno ed evento è il fondamento su cui si è sviluppata l'associazione di protasi e apodosi nelle serie di presagi, i modelli di fegato di Mari forniscono una chiave d'accesso all'idea di 'associazione circostanziale'. Essi adottano i quattro schemi che seguono.

a) L'affermazione "il presagio di", seguita dal nome di un sovrano, di un luogo o di un avvenimento. Per esempio, "il presagio della distruzione di Akkad (2200 ca.)" (letteralmente: "[l'aspetto del] fegato al tempo della distruzione di Akkad").

b) "Se tale evento [cioè l'apodosi] accade, esso [cioè il fegato] avrà questo aspetto"; per esempio: "se faccio bottino e ritorno sano e salvo alla mia città, questo sarà l'aspetto del fegato".

c) "Quando l'evento è accaduto, il fegato aveva questo aspetto"; per esempio: "questo era l'aspetto del fegato quando il paese si ribellò a Ibbi-Sin" (ultimo re della terza dinastia di Ur, 2028-2004).

Nei tre schemi ora descritti, l'espressione "avrà" o "aveva questo aspetto" si riferisce ad anomalie del fegato, le quali sono indicate con segni sui modelli. I casi utilizzati come esempi sono presi da questi modelli.

d) La sola menzione dell'avvenimento (cioè l'apodosi). Per esempio, "afflizione", oppure, "lo stato d'animo del paese cambierà". Questo tipo si limita a mettere in relazione la forma del fegato con l'evento. È atemporale e può riferirsi sia al passato sia al futuro.

Una delle fonti più importanti per comprendere il ruolo dell'extispicio nella vita degli abitanti dell'antica Mesopotamia, che si trattasse del re o della gente comune, è la corrispondenza venuta alla luce nella città di Mari, che presenta numerosi riferimenti a extispici praticati per diversi fini e mostra l'importanza della divinazione non solo per la sicurezza della corte e dello Stato, ma anche per quella dei singoli individui. Ciò che rende particolarmente interessanti i resoconti di extispicio rinvenuti a Mari è proprio il fatto che sono incorporati in lettere nelle quali si spiegano le circostanze che hanno portato alla loro esecuzione. Il seguente esempio è tratto da una di queste missive, con cui un indovino si rivolge al re di Mari: "[per quanto riguarda] l'esercito del mio signore da lui inviato contro Hammurabi, Hammurabi lo catturerà, lo sconfiggerà o lo farà sconfiggere? Lo farà prigioniero con mezzi leali o con l'inganno? Coloro [i soldati] che sono usciti sani e salvi attraverso le porte della città di Mari, torneranno sani e salvi attraverso le porte della città di Mari?". L'indovino prosegue riportando i particolari degli extispici, ossia le anomalie riscontrate nelle viscere delle pecore, e afferma che i risultati erano favorevoli. E conclude: "i miei extispici sono stati propizi. Il mio signore non dovrebbe preoccuparsi [della salvezza] del suo esercito" (Nougayrol 1967, p. 232). Il rapporto dettagliato sugli extispici eseguiti contenuto nella lettera mette in luce il vivo interesse che la corte manifestava per questa pratica e fa supporre persino che i membri della corte avessero una certa competenza in materia, o almeno una comprensione delle procedure dell'extispicio.

La corrispondenza di Mari rivela però non soltanto gli interessi della corte, ma anche quelli dei comuni cittadini, come mostra il seguente esempio: "Il mio signore mi ha scritto in precedenza perché trattenessi la carovana diretta a Qatna [=una città della Siria]. Sono cinque giorni che trattengo questi uomini, ed essi hanno consumato tutti i loro agnelli per eseguire gli extispici. Che il mio signore invii le seguenti istruzioni: "Fate sì che questi uomini non siano più trattenuti. Lasciateli partire. Gli uomini sono afflitti"".

La preoccupazione per il bene dei singoli individui emerge con chiarezza anche dai resoconti di extispicio del periodo paleobabilonese tardo (XVII sec.), di poco posteriori, in cui affermazioni esplicite del tipo "[l'extispicio è stato eseguito] per il benessere" spiegano lo scopo delle pratiche divinatorie. Si conservano numerosi resoconti di questo genere risalenti al regno di Ammisaduqa (1646-1626), sovrano di Babilonia, in cui occasionalmente sono menzionati gli individui per i quali era stato eseguito l'extispicio, per esempio "una pecora sacrificale al dio Urash per il benessere di Kubburu [soprintendente dei mercanti]" (Nougayrol 1967, p. 220).

I resoconti di extispicio del periodo mediobabilonese o cassita utilizzano l'ottativo per enunciare il quesito per cui era compiuto l'extispicio, come illustra il seguente esempio: "Poiché la figlia del medico non ha portato alcun dono alla dea Ishtar [dea dell'amore e della guerra], potrebbe ella andare dovunque voglia e portare un dono a Ishtar al suo ritorno?".

Il quesito era seguito dai risultati dell'extispicio, che erano dichiarati infausti.

La pratica dell'extispicio

Spesso, in caso di incertezza, si rendeva necessaria una verifica dei risultati dell'extispicio (piqittu in accadico) per mezzo di un secondo extispicio e, a volte, di un terzo (quest'ultimo compare più comunemente nei quesiti oracolari del VII sec.). Non è chiaro, tuttavia, se a questo scopo bastava la stessa pecora sacrificale o se ne era richiesta un'ulteriore. L'esito dell'extispicio dipendeva evidentemente dal numero (o dalla proporzione) di tratti fausti e infausti, come risulta con chiarezza dai cosiddetti 'resoconti' che datano dal regno di Assurbanipal. Tali resoconti sono costituiti da quesiti oracolari riportati in forma abbreviata (evidentemente allo scopo di essere archiviati) e spesso registrano il numero di protasi infauste negli extispici, indicando in tal modo che questo fattore era essenziale per determinare il risultato di un extispicio: in altri termini, se prevalevano le protasi favorevoli, l'extispicio era giudicato favorevole e viceversa, se prevalevano quelle sfavorevoli.

In generale, nel valutare gli elementi intrinsecamente favorevoli e sfavorevoli, l'extispicio mesopotamico si basava sul principio dell'opposizione fra il più vantaggioso e il meno vantaggioso: l'assunto di partenza era, per esempio, che il chiaro fosse superiore allo scuro, la condizione normale a quella anormale, ciò che è integro a ciò che è incompleto e così via. In termini di pars familiaris (parte delle viscere che concerneva lo Stato, il paese o la casa) e pars hostilis (parte che riguardava il nemico), il vantaggio si riferisce all''io' quando il lato interessato è quello destro, e al nemico quando è quello sinistro. Analogamente, lo svantaggio si riferisce al nemico quando il lato interessato è quello destro, e all''io' quando è quello sinistro.

Dai modelli di fegato e dall'ordine in cui le parti di quest'organo compaiono nei resoconti di extispicio, appare chiaro che l'ispezione dell'indovino procedeva in senso antiorario, contrariamente alla prassi moderna, di modo che quello che per noi è il lobo destro del fegato era, per l'aruspice mesopotamico, il lobo sinistro e viceversa.

L'esame delle viscere della pecora muoveva in generale dall'alto verso il basso, da destra a sinistra e dalla parte anteriore a quella posteriore, con l'indovino in piedi all'estremità caudale dell'animale. Dopo la macellazione della pecora, la sua pelle era, con ogni probabilità, tagliata lungo la linea ventrale mediana; poi si recidevano le cartilagini che collegano le costole allo sterno; e infine si piegavano all'indietro le costole e la pelle, in modo da esporre le viscere.

L'ispezione, compiuta dall'indovino, degli organi e delle parti degli exta presupponeva una duplice divisione di queste ultime in: (a) parti costitutive, cioè quegli organi dell'anatomia della pecora che sono normalmente presenti, quali il fegato, i polmoni e le loro parti, ossia la cistifellea, il lobo caudato, la scissura ombelicale del fegato, i lobi polmonari, e quei solchi e scissure delle viscere che l'indovino considerava tali; (b) segni fortuiti, consistenti in abrasioni, scissure, fori, cisti e pustole, che potevano comparire ovunque nelle interiora della pecora.

Una parte costitutiva e l'area circostante formavano, per così dire, una 'zona'. Sia le parti costitutive, sia i segni fortuiti erano indicati con nomi coloriti attribuiti dall'indovino. A Mari, per esempio, la cistifellea era conosciuta come il 'pastore'. In termini generali, il lobo caudato del fegato era chiamato il 'dito' (cfr. caput iecoris); la scissura ombelicale era nota come la 'porta del palazzo'; il processo papillare era chiamato l''incremento'; l'impronta dell'omaso sul fegato, 'il giogo'; il lobo accessorio del polmone destro era il 'dito medio del polmone', e così via.

Quanto ai segni fortuiti, alcuni erano nominati in base al loro aspetto, altri in base ai nomi dati dai Sumeri ai caratteri cuneiformi. Esistevano, per esempio, segni-'piede', segni-'arma', segni-'richiesta', eccetera. Spesso tali nomi si accordavano al significato simbolico che esprimevano: così, i segni-'richiesta' simboleggiavano la richiesta divina; i fori erano spesso associati alla morte; i segni-'arma' alla guerra, e così via, come mostrano i seguenti esempi: "se nella parte superiore della cistifellea compaiono due segni-'richiesta', il dio richiederà un gran sacerdote e una grande sacerdotessa"; oppure, "se c'è un foro aperto sopra la 'porta del palazzo', un leone ucciderà qualcuno che esce dalla porta della città". Per esempio, la presenza di cisti nelle apodosi era comunemente associata a pioggia, alluvioni e tempeste, suggerite dalla presenza di liquido nella cisti. Si noti il seguente esempio: "se c'è una cisti gialla in cima al 'dito', l'acqua tratterrà il mio esercito".

Gli esempi riportati contribuiscono a spiegare i metodi o principî di associazione fra protasi e apodosi nelle serie di presagi. Il primo esempio citato sopra è chiaramente basato sulla paronomasia ('richiesta'-richiesta).

L'ultimo esempio riflette un'associazione di idee (liquido nella cisti nella protasi, acqua sotto varie forme, pioggia, alluvione, nell'apodosi). Le seguenti glosse attestate nella letteratura oracolare sottolineano tale tendenza: "[la presenza di] una cisti [indica] pioggia"; "[la presenza di] una cisti nera [indica] pioggia forte". Il metodo più importante di associazione fra protasi e apodosi era forse quello basato sul contrasto fra le condizioni fisiche descritte nelle protasi, per esempio fra destra e sinistra, fra alto e basso, fra sfumature di colore chiare e scure, e così via. La prima di queste coppie di opposti, quella fra la destra e la sinistra, è universalmente nota come pars familiaris e pars hostilis. Con questo metodo di associazione fra protasi e apodosi gli scribi potevano continuare a espandere e ad arricchire le serie di presagi, collegandoli a previsioni opposte attraverso l'interpolazione di condizioni opposte. Con l'evolversi del processo di sistematizzazione e serializzazione dei presagi, la tendenza a dare conto di qualunque anomalia, indipendentemente dalla possibilità che questa si presentasse nella realtà o nella pratica, ha dato luogo a un'attività di interpolazione, che consisteva nell'inserire, all'interno della serie di presagi, condizioni che, per quanto improbabili, potessero spiegare qualunque possibilità. Un esempio lampante di questa tendenza è fornito dalla serie Šumma izbu (che riguarda le nascite di esseri deformi): "se una donna partorisce un leone/lupo/cane/maiale/toro/elefante [ecc.]" (Leichty 1970, pp. 32-39).

La divinazione al servizio della diplomazia

La pratica dell'extispicio è documentata per circa un millennio e mezzo, essendo attestata nella città di Mari del XIX sec. fino al periodo seleucide, nel III sec. a.C. È quasi certo, tuttavia, che le origini dell'extispicio vadano cercate nel III millennio, dal momento che le serie di presagi in paleobabilonese che risalgono alla prima metà del II millennio possiedono una forma già pienamente sviluppata. Finora, non è stato rinvenuto alcun testo sumerico di carattere oracolare. I dati in nostro possesso fanno supporre che i Sumeri utilizzassero l'extispicio per la selezione degli alti funzionari addetti agli affari di culto, piuttosto che per predire il futuro.

Naturalmente, la nostra conoscenza della pratica della divinazione in Mesopotamia è fortemente condizionata dalla casualità delle scoperte. Nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive sono venute alla luce migliaia di tavolette, fra le quali la divinazione in generale, e l'extispicio in particolare, occupano un posto importante. Negli archivi del re Esarhaddon, il padre di Assurbanipal, è stata ritrovata la corrispondenza di studiosi che interpretano il valore profetico dei fenomeni naturali, astronomici o di altro genere, e dalla quale è possibile desumere i principali interessi di questo sovrano. A parte lo scambio di lettere fra il sovrano e gli eruditi riguardo all'importanza profetica dei fenomeni celesti e naturali, sono stati anche rinvenuti quesiti oracolari presentati al dio Shamash per conto del re mediante extispici eseguiti dai suoi indovini. Tali quesiti sono particolarmente interessanti perché gettano luce sui principali avvenimenti politici dell'epoca, in quanto vertono sull'opportunità che il sovrano intraprenda o meno una determinata azione di pace o di guerra contro i numerosi nemici e tributari ribelli dei re assiri. Gli argomenti su cui vertono i quesiti oracolari vanno dalla convenienza di dare in sposa una figlia a un capo scita a quella di entrare in guerra contro un vassallo ribelle. Vale la pena di citare una parte del quesito oracolare riguardante i vantaggi politici e diplomatici che l'Assiria avrebbe ricavato dal dare in sposa una principessa reale al re degli Sciti, perché dà anche un'idea del modo in cui erano impostati i quesiti:

Shamash, grande signore, da' una chiara risposta positiva a ciò che ti chiedo! Bartatua, re degli Sciti, ha inviato adesso i suoi messi a Esarhaddon, re d'Assiria, a proposito delle nozze con una figlia del re. Se Esarhaddon, re d'Assiria, gli dà in sposa una principessa reale, Bartatua, re degli Sciti, parlerà con Esarhaddon, re d'Assiria, in buona fede, con parole di pace sincere e oneste? Rispetterà il trattato con Esarhaddon, re d'Assiria? Farà qualunque cosa sia gradita a Esarhaddon, re d'Assiria? È ciò decretato e confermato, in caso favorevole, dall'ordine della tua grande divinità, Shamash, grande signore? Colui che può vedere, vedrà? Colui che può udire, udrà? [La richiesta si conclude così:] Sii presente in questo ariete, poni in esso una chiara risposta positiva, disegni favorevoli, presagi fausti e propizi, attraverso l'ordine oracolare della tua grande divinità, e possa io vederli. Possa questa richiesta giungere alla tua grande divinità, Shamash, grande signore, e possa un oracolo essere dato in risposta. (Starr 1990, n. 20, pp. 24-25)

Gli extispici per determinare l'esito della richiesta presentano un'impostazione analoga.

La pratica di interrogare Shamash attraverso i quesiti oracolari è continuata sotto il figlio di Esarhaddon, Assurbanipal. La maggior parte dei quesiti risalenti al suo regno appare sotto la forma dei cosiddetti resoconti, che sembrano essere una versione abbreviata dei quesiti oracolari. Questi resoconti consistono in una relazione sull'extispicio seguita dalla richiesta all'oracolo, in cui si enuncia succintamente l'argomento in oggetto. A quanto pare, essi erano approntati per fini archivistici, onde conservare una breve documentazione del quesito oracolare nella biblioteca reale. Molti dei resoconti del tempo di Assurbanipal hanno a che fare con l'aspro conflitto che lo contrappose al fratello ribelle Shamash-shum-ukin, re di Babilonia. Una guerra civile che durò quattro anni (652-648) e che senza dubbio contribuì al crollo finale dell'Assiria. Quello che segue è un esempio di tali quesiti: "Gli uomini, i cavalli e l'esercito di Assurbanipal, re d'Assiria, dovrebbero forse battersi e fare piani di guerra? Dovrebbero partire, attraversare le paludi di canne che gli si parano davanti e accamparsi a Bit-sami [una località ignota]? Dopo essersi accampati, dovrebbero muovere guerra contro gli uomini e l'esercito di Shamash-shum-ukin?" (Starr 1990, n. 287, p. 269).

Il resoconto è preceduto dai risultati dell'extispicio, che sono dichiarati favorevoli.

Il padre di Esarhaddon, Sennacherib (704-681), si servì di indovini per accertare le cause della morte di suo padre, Sargon II (721-705), il fondatore della dinastia sargonide, il cui corpo non era stato ritrovato nel campo di battaglia dove aveva perso la vita: un evento che aveva profonde implicazioni teologiche. Il fatto che non fosse stato possibile riportare a casa il corpo del re defunto per dargli un'adeguata sepoltura, avrebbe infatti potuto essere un segnale della disapprovazione degli dèi nei confronti di un qualche peccato commesso dal re prima di morire e che impediva al cadavere di essere recuperato. Tutto ciò esigeva una spiegazione. In un testo conosciuto come Il peccato di Sargon, Sennacherib narra di aver incaricato gli indovini di determinare la causa della morte di suo padre. Sennacherib spiega:

Che io possa indagare per mezzo dell'extispicio il peccato di Sargon, mio padre […] che io possa fare del peccato da lui commesso contro il dio un'offesa a me stesso, e con l'aiuto del dio possa salvarmi. [E prosegue:] Sono andato e ho convocato gli aruspici. Li ho divisi in vari gruppi di modo che non potessero avvicinarsi gli uni agli altri e comunicare. Ho investigato i peccati di Sargon, mio padre, mediante l'extispicio […] gli aruspici che avevo diviso in vari gruppi mi hanno dato unanimemente una risposta affermativa attendibile. (Livingstone 1989, p. 77)

A quanto pare, il "peccato" di Sargon era consistito nell'elevare Assur, il dio nazionale degli Assiri, al di sopra di Marduk, il dio nazionale dei Babilonesi. Il testo sembra essere un 'manuale per il principe', un'esortazione rivolta al successore di Sennacherib affinché rispettasse le divinità dei Babilonesi, che all'epoca erano sottomessi agli Assiri.

La Bārûtu

A differenza dei Greci, i popoli mesopotamici raramente derivavano dei principî generali dalle osservazioni annotate, ma era inevitabile che, con la crescente complessità della pratica della divinazione e l'espansione della letteratura oracolare, unite alle richieste di istruzioni, iniziassero a comparire commentari sulle serie di presagi e fossero formulati alcuni principî interpretativi sull'esame delle viscere eseguito dall'indovino, che lo studente era chiamato a spiegare. La principale serie di extispici del VII sec. era intitolata Bārûtu ('divinazione'). La serie, che risale al periodo paleobabilonese, è composta da circa 100 tavolette e rappresenta il culmine di un millennio di presagi. La Bārûtu è stata composta dagli scribi di Assurbanipal ed era divisa in 10 serie ('capitoli'), ciascuna dedicata a una parte del corpo della pecora, a partire dallo scheletro (per es., vertebre, gabbia toracica, cartilagini) e dagli intestini per arrivare ai polmoni e al fegato (in quest'ordine), e alle loro parti. La Bārûtu era accompagnata da commentari, che a loro volta formavano una serie. Ciascuna serie della Bārûtu meritava infatti un commento, il cui scopo era quello di spiegarne le difficoltà e i punti oscuri. Il seguente brano, tratto da uno dei commentari, servirà a illustrare questo aspetto:

Quando il tuo maestro ti mette alla prova, dicendo: "quando un 'segno-arma' di destra è rivolto verso l'alto, è infausto; quando un 'segno-arma' di sinistra è rivolto verso l'alto, è fausto". [Considera, tuttavia, le seguenti protasi] se alla sommità della superficie destra del 'dito' compare un 'segno-arma' rivolto verso l'alto, perché è diventato fausto? [E se] alla sommità della superficie sinistra del 'dito' compare un 'segno-arma' rivolto verso l'alto, perché è diventato infausto? [Risposta] quando si scopre il fegato all'interno della pecora viva, la sommità del 'dito' è rivolta verso il basso, ecco perché è fausto per quel [segno] che si trova a destra, e infausto per quello che si trova a sinistra. (Starr 1983, p. 17)

È evidente che gli indovini mesopotamici attribuivano importanza ai principî basilari delle predizioni e cercavano di offrire spiegazioni adeguate del perché alcune protasi fossero considerate favorevoli e altre sfavorevoli. La formazione dell'apprendista indovino includeva dunque sia la teoria sia la pratica dell'extispicio. L'esempio citato sopra illustra come, nel VII sec., i problemi da risolvere che l'indovino sottoponeva agli allievi fossero di una complessità crescente.

Oltre ai commentari, sono rimasti in uso per fini didattici anche i modelli e i testi di 'orientamento' (i quali descrivevano quanto era mostrato nei modelli). I seguenti esempi sono tratti da uno di questi testi di 'orientamento': "la base della superficie destra del lobo accessorio [del polmone destro] è situata a destra", oppure "la parte mediana della superficie destra del lobo caudato è situata a sinistra". Come i commentari, anche i testi di 'orientamento' erano un prodotto del I millennio, uno dei risultati della crescente complessità della pratica dell'extispicio.

Tav. II

La tavola delle 10 serie della Bārûtu (Tav. II) serve a illustrare i termini impiegati dall'indovino per descrivere l'anatomia della pecora. Non tutti i termini accadici relativi all'anatomia della pecora sono stati identificati con certezza.

Altri metodi di divinazione

a) Tamītu. I tamītu erano quesiti posti all'oracolo simili a quelli che risalgono al regno di Esarhaddon. Differivano da questi ultimi in quanto erano rivolti non solo a Shamash, ma anche ad Adad, considerati entrambi patroni della divinazione. Inoltre, i tamītu erano di origine babilonese, mentre i quesiti oracolari erano assiri ed erano stati elaborati specificamente per le esigenze degli ultimi sovrani sargonidi, Esarhaddon e Assurbanipal. D'altro canto i tamītu riguardavano non solo gli affari di Stato dei re babilonesi del periodo antico, ma anche i problemi dei singoli individui, come le malattie e la sterilità. Sia i quesiti oracolari sia i tamītu condividono un formulario strettamente collegato a quello dell'extispicio, ed è molto probabile che quest'ultimo fosse utilizzato per determinare l'esito dei quesiti avanzati nei tamītu. Sebbene questi non menzionino mai esplicitamente il modo in cui la risposta era ottenuta, il fatto che la terminologia fosse comune a quella dei quesiti oracolari fa infatti supporre che si ricorresse all'extispicio.

b) Lecanomanzia. Le tradizioni letterarie mesopotamiche facevano risalire sia la lecanomanzia sia l'extispicio a Enmeduranki, un re di Sippar di epoca antidiluviana, il quale aveva ricevuto la conoscenza di queste due pratiche divinatorie direttamente dagli dèi, per poi trasmetterla all'indovino. Le attestazioni di un suo impiego effettivo sono, però, rare. Fa eccezione l'affermazione di un re cassita (XVI sec.), il quale afferma di aver consultato Shamash per mezzo dell'"olio dell'indovino". Inoltre, alcune apodosi dei presagi lecanomantici contengono predizioni destinate al 'fornitore dell'olio' (ossia, al cliente). Per esempio: "per il fornitore dell'olio, [si prevede] dolore".

Sebbene i testi giunti sino a noi non rechino alcuna data e siano di provenienza incerta, si possono attribuire al periodo paleobabilonese sulla base di considerazioni paleografiche e filologiche. La pratica della lecanomanzia consisteva nel versare olio sull'acqua contenuta in un bacile e osservare le configurazioni che assumeva. Si poteva anche versare acqua sull'olio, molto probabilmente nell'ambito della stessa procedura, come mostrano i seguenti esempi:

[quando io (= l'indovino) verso olio sull'acqua], se il margine dell'olio è chiaro verso est, onore [al cliente]; le truppe impegnate nella campagna faranno bottino […] se il margine dell'olio è scuro verso est, la persona malata morirà; in battaglia, il capo dell'esercito cadrà. […] Quando verso acqua sull'olio e questa si spande verso est, ma [l'olio] non forma una bolla, la persona malata morirà. (Pettinato 1966, v. II, p. 67)

c) Libanomanzia. In questo metodo i presagi erano ricavati dal comportamento dell'incenso in un incensiere e dalla configurazione del fumo che da esso si levava, come mostrano le seguenti protasi: "se metti l'incenso [in un incensiere] e ci versi sopra farina", oppure "se l'apparenza del fumo è nera" (Biggs 1969, p. 73). Dopo il periodo paleobabilonese non sono attestati presagi basati sulla libanomanzia, né se ne conosce l'applicazione pratica.

L'extispicio nella zona di influenza della Mesopotamia

L'influenza culturale e politica della Mesopotamia sui suoi vicini, soprattutto sull'Anatolia e la Siria-Palestina, si manifestò in modi diversi, dall'uso dell'accadico come lingua franca, all'adozione delle pratiche divinatorie mesopotamiche e, in particolare, dell'extispicio. Sono stati ritrovati, per esempio, modelli di fegato, con o senza iscrizioni, da Megiddo e Hazor, in Israele fino a Khattusha (l'antica capitale hittita, odierna Boğazköy), in Anatolia.

a) Hazor. Le apodosi del modello di Hazor sono scritte in accadico; le sue protasi sono le condizioni osservate sul fegato e, pertanto, devono essere dedotte o intuite; per esempio: "[se la cistifellea è normale?], compassione divina per l'uomo". La protasi suggerita tra parentesi rappresenta soltanto un'ipotesi sulla condizione del fegato che ha dato origine all'apodosi. Il modello sembra risalire al periodo paleobabilonese, quando Hazor era una città-stato indipendente nella terra di Canaan preisraelitica, con importanti legami commerciali e diplomatici con Mari e la Mesopotamia.

b) Ugarit. Ugarit era una città-stato situata sulla costa nordorientale della Siria (l'attuale Ras Shamra), distrutta intorno al 1200, dove è venuta alla luce una serie di importanti testi in accadico e in ugaritico (questi ultimi riguardanti i miti relativi agli dèi del pantheon cananeo), tra cui alcuni modelli di fegato, con e senza iscrizioni. I modelli con iscrizioni, in ugaritico, sono definiti come kbd, il termine cananaico/ebraico che designa il fegato. Tuttavia, in molti casi non è stato possibile decifrare chiaramente quale sia il significato delle brevi iscrizioni.

c) Khattusha. Tra i siti che abbiamo citato, Khattusha è il più importante per il numero di modelli di fegato con iscrizioni rinvenuti, dei quali almeno 36 sono stati pubblicati. Nella maggior parte dei casi, sono presenti sia la protasi che l'apodosi, quest'ultima iscritta accanto alla condizione della parte del fegato descritta nella protasi.

A parte qualche sporadica eccezione, sia la protasi sia l'apodosi sono scritte in accadico; solamente in qualche caso le apodosi sono in lingua hittita. Un'altra importante caratteristica dei modelli di Khattusha, che deriva chiaramente dalle pratiche divinatorie mesopotamiche, è la chiara descrizione topografica del fegato, osservabile nei modelli meglio conservati. La cistifellea, il lobo caudato, il processo papillare, le impronte dell'abomaso e del reticolo sono chiaramente distinguibili.

Interventi magici: Mesopotamia

di Ivan Starr

I namburbi

Fra i presagi spontanei, o oblativa, vi erano quelli osservati nell'ambito della vita quotidiana e che erano ritenuti di cattivo auspicio. Quando questo accadeva, era necessario mettere in atto una procedura che fosse in grado di contrastarli o renderli innocui, affinché non arrecassero danno agli uomini o alle case, ai terreni o alle città. Una tale procedura consisteva in una serie di preghiere e di rituali che si sperava servissero a scongiurare la minaccia della sventura preannunciata. I namburbi (dal sumerico nam.búr.bi, letteralmente 'il suo scioglimento') consistevano in un insieme di rituali e preghiere il cui scopo era quello di contrastare e allontanare la sventura che si credeva dovesse derivare da questi segni premonitori.

Poteva trattarsi di rituali apotropaici rivolti sia contro i singoli presagi infausti, quale l'avversità annunciata da una lucertola o da un cane, sia contro un gran numero di pronostici (per es., "le creature viventi della steppa"). Sebbene i namburbi fossero rituali apotropaici volti a scongiurare o allontanare una sventura, essi erano occasionalmente utilizzati per un fine positivo anziché apotropaico: infatti, erano classificati come namburbi anche i rituali che aiutavano l'aruspice nella divinazione (per es., "namburbi per ottenere lode nella divinazione e acquisire fama [per l'aruspice]"), malgrado questi non avessero come scopo quello di contrastare un presagio infausto.

I namburbi giunti fino a noi provengono soprattutto dagli archivi assiri (quelli delle città di Assur e Ninive) e risalgono alla prima metà del I millennio. I testi dei namburbi non mostrano quel processo di sistematizzazione caratteristico di altre serie di presagi, come gli extispici, gli izbu (nascite di esseri deformi), i presagi fisiognomici, ecc.; laddove si riscontra un tale processo, esso sembra essere stato elaborato ad hoc, per organizzare singole raccolte di presagi.

Mentre l'aruspice era responsabile del campo degli impetrita, lo specialista che aveva il compito di eseguire il namburbi era l'esorcista (in sumerico maš.maš, in accadico mašmašu o āšipu), che assolveva anche la funzione di officiante della cerimonia. Egli approntava gli accessori rituali e istruiva il cliente (per conto del quale agiva) su come procedere con i legomena e i drômena dei rituali. Le preghiere e gli incantesimi che accompagnavano i rituali erano recitati sia dall'officiante sia dal cliente (a volte l'uno, a volte l'altro) ed erano rivolti agli dèi più importanti, come Shamash, Ea e Marduk (questi ultimi due erano gli dèi patroni della magia; Marduk era conosciuto anche col nome di Asallukhi), di cui s'invocava la protezione dalla sventura che minacciava il cliente.

I namburbi erano applicati per scongiurare la sventura legata a vari presagi, dei quali la lista che segue elenca i principali.

a) I piccoli animali che si vedono nelle case o nei terreni, quali formiche o lucertole.

b) Animali domestici e izbu (nascite di bambini o animali deformi).

c) Animali selvatici, quali linci, lupi, leoni, onagri ("le creature viventi della steppa").

d) Serpenti.

e) Uccelli, come colombe, pernici, falchi, cornacchie (per es., "namburbi per il male di una colomba o di uno strano uccello che è entrato nella casa di un uomo").

f) Fuoco e fenomeni luminosi (per es., "che il male del fulmine possa non colpire un uomo").

g) Case, campi e giardini (per es., "se in una casa una trave o un recipiente si crepa").

h) Cerimonie religiose ("namburbi per impedire che il male delle funzioni al tempio, dovuto a trasgressioni nei riti e nei rituali di purificazione, colpisca un uomo e la sua casa").

i) Luoghi di culto e santuari ("che il male del luogo di culto e del santuario non colpisca il re").

l) Spettri ("se uno spettro urla nella casa di un uomo").

m) Pozzi ("namburbi per un nuovo pozzo, un vecchio pozzo, la riparazione di un pozzo").

n) Stregoneria ("namburbi per sventura causata da magia, stregoneria, malia e incantesimi malvagi che colpiscono un uomo e una donna"). È da notare che in questo caso il rito mirava a contrastare un male presente, anziché futuro. Ciò dimostra che la linea di demarcazione fra i vari generi non era sempre netta.

o) Rituali per l'armata reale ("che mal di testa, peste bubbonica e pestilenza non colpiscano i cavalli e le truppe del re"). Il re stesso partecipava ai rituali: "Egli si alza e resta in piedi dinanzi all'apparato di culto. Tu [cioè, l'esorcista] fai recitare al re [un incantesimo] […] Il re si prostra e va direttamente al palazzo" (Caplice, 1965-71, IV, p. 121 e segg.).

p) Namburbi generale ("per allontanare tutti i mali").

Questa lista, tuttavia, non esaurisce affatto tutte le circostanze nelle quali il namburbi era ritenuto appropriato.

Un namburbi tipico era organizzato nella maniera seguente: (a) enunciazione (per es.: "namburbi per il male di un cane che ulula nella casa di un uomo o spruzza la sua urina sull'uomo"); (b) "Il suo rituale [di modo che il male del cane non colpirà l'uomo e la sua casa]" (ibidem, p. 4 e segg.); (c) preghiere e incantesimi.

Spesso, come in questo caso, il rituale comportava un rito di sostituzione, in cui l'esorcista fabbricava un'immagine o una figurina d'argilla di un cane, la quale avrebbe dovuto fare le veci del cliente. Poi, nel contesto della preghiera a Shamash, recitava le seguenti frasi dinanzi alla figurina: "Ti ho dato [la figurina] in sostituzione di me stesso. Te l'ho data come surrogato di me stesso. Ho spogliato il mio corpo di ogni male e l'ho messo su di te". Poi la figurina era buttata nel fiume.

Il fiume svolgeva un duplice ruolo: quello di pulire e purificare il cliente, il quale in questo tipo di rituali vi si immergeva appositamente, e quello di portare via il male, sotto forma di figurine o di qualunque altro oggetto associato al presagio. Rivolgendosi al fiume, l'esorcista diceva: "Tu, Fiume, sei il creatore di ogni cosa, io, tal dei tali, figlio di tal dei tali […] sono stato spruzzato dall'urina di questo cane, per cui sono spaventato e sgomento. Come questa figurina, possa il male non tornare al suo posto! Che il suo male possa non accostarsi! Che possa non avvicinarsi! Che possa non pesare su di me" (Caplice 1965-71, II, p. 6).

Solitamente il rito si svolgeva in un luogo lontano dalla vita di tutti i giorni e dunque adatto all'esecuzione delle procedure di culto. Ma una volta completati i rituali del namburbi, quando si riteneva che la sventura prevista fosse stata scongiurata, era necessario restituire il cliente alla vita quotidiana. A questo scopo, si faceva intraprendere al cliente un'attività abituale, quale entrare in una taverna, come nell'esempio citato sopra: "Quando hai recitato questa [formula magica] tre volte, getta la figurina [del cane] nel fiume, e quell'uomo [cioè, il cliente] non si guardi alle spalle. Egli entrerà in una taverna, e il male sarà dissolto".

Per essere più sicuri che riprendesse la vita normale, gli si poteva anche ordinare di toccare il tino in cui erano miscelati gli ingredienti della birra, oppure di iniziare una conversazione con uno degli avventori della taverna.

Nella corrispondenza dei re assiri del VII sec. sono menzionate anche le occasioni in cui si rendeva necessario il namburbi. Una di queste lettere indirizzate al re riporta il seguente episodio: "Nel cortile interno del tempio del dio Nabu fu visto un fungo, e sul muro del magazzino centrale un lichene. Esistono dei namburbi per questi" (Harper 1896-1914, n. 367). Infatti, come illustrano i seguenti brani, esisteva un namburbi apposito contro i funghi che compaiono sulle pareti delle case, con un apposito rituale apotropaico per ciascuna parete:

"Se c'è un fungo nella casa di un uomo sul muro settentrionale esterno, il signore della casa morirà, e la famiglia si disperderà. Per scongiurare il male", ecc. "se c'è un fungo nella casa di un uomo sul muro orientale esterno, la signora della casa morirà, e la famiglia si disperderà. Per scongiurare il male, bisogna grattare via il fungo". E ancora "se c'è un fungo nella casa di un uomo sul muro occidentale esterno, il figlio dell'uomo morirà […] Per scongiurare il male, bisogna grattare via il fungo". E così via. (Caplice 1965-71, V, p. 144 e segg.)

Ciascuna eventualità è seguita dall'indicazione del rituale e degli incantesimi appropriati per allontanare il male preannunciato dal fungo.

Un'altra lettera contiene la risposta di un esperto a un'interrogazione reale riguardo all'interpretazione del seguente presagio: "Il re sarà screditato agli occhi dei suoi dignitari". L'esperto scrive: "Se il presagio dice "egli sarà screditato", la sua interpretazione è: un terremoto. C'è stata [infatti] una scossa. Essi dovrebbero eseguire il rituale contro il terremoto, e gli dèi faranno passare [il male] […] Colui che ha creato il terremoto, ha creato anche il namburbi contro di esso […]. Che il re esegua il namburbi e [il male] passerà" (Parpola 1970-83, n. 35).

Emerologi e menologi

Lo scopo degli emerologi e dei menologi era quello di regolare la vita quotidiana degli uomini, almeno in teoria, indicando per ogni giorno dell'anno quali azioni bisognava evitare per non incorrere nell'ira degli dèi. Alcuni esempi potranno chiarire meglio di cosa si trattava esattamente; dal 6° giorno del 1° mese del calendario babilonese:

Il 6° giorno è il giorno di Adad [il dio della tempesta]. Egli [l'uomo] non scenderà in strada. Non prenderà parte ad alcun procedimento legale o divinatorio. Un giorno infausto. Farà offerte di cibo a Nabu [figlio di Marduk] e a Tashmetu [la moglie di Nabu], che saranno accettate dagli dèi. Reciterà un salmo penitenziale. Laverà i suoi abiti. Quell'uomo raggiungerà la vecchiaia.

Un altro esempio, dal 3°giorno del 7° mese: "Libererà un uccello dalla gabbia; la cattiva sorte lo abbandonerà"; e ancora, dall'8° mese: "Giorno 21, dolore; giorno 22, buone notizie; giorni 23-24, fausti; giorno 25, non scenderà in strada"; il 13° giorno del 12° mese: "Un giorno infausto; può sposarsi; il dolore sarà scacciato dal cuore dell'uomo". Al termine degli emerologi per l'intero anno, lo scriba elenca i giorni infausti di ciascun mese: "Giorni 1, 7, 9, 14, 19, 21, 28, 29, 30, [in totale] nove giorni infausti. Il medico non curerà il malato; l'indovino non pronuncerà oracoli".

I menologi elencavano invece i mesi favorevoli o sfavorevoli allo svolgimento di attività di vario genere: "Se vuoi scavare un pozzo, i mesi 3, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12 sono favorevoli"; oppure: "il giorno 29 non uscirà dalla porta [della città], questo giorno è infausto in ogni mese".

Demoni

a) Utukki lemnūti (letteralmente 'demoni malvagi'). L'uomo mesopotamico si sentiva indifeso di fronte all'ignoto; non era in grado di penetrare le forze che agivano sulla sua esistenza, o di individuare la fonte delle sue disgrazie. Queste ultime erano attribuite in gran parte all'influenza maligna di demoni e spettri, il cui tocco poteva risultare fatale. Utukki lemnūti è il nome di una serie di incantesimi e rituali volti a esorcizzare questi demoni, spesso designati collettivamente come 'I Sette'. Riportiamo di seguito una descrizione individuale di ciascuno di essi: "il primo dei Sette è il vento del sud […]; il secondo è un drago con le fauci spalancate, che nessuno può [contrastare?]; il terzo è una feroce pantera […]; il quarto è un terrificante serpente; il quinto è un leone inferocito, che è impossibile respingere; il sesto è l'incursione […], che contro il dio e il re [...]; il settimo è una terribile tempesta" (Thompson 1903-04, p. 88).

Ecco come questi demoni sono descritti in un altro passaggio:

Sono sette, sono sette; negli abissi dell'Apsû [= l'oceano di acqua dolce sotterraneo] sono sette; sono [gli astri] più belli del cielo; sono cresciuti negli abissi dell'Apsû, nella cella; non sono né maschi né femmine, sono solo fugaci fantasmi; non hanno moglie; non concepiscono figli; non conoscono pietà né perdono; non prestano attenzione ai rituali e alle preghiere; sono cavalli [selvaggi] cresciuti tra le montagne; sono coloro che trainano i carri degli dèi; si aggirano per i vicoli, e creano disordini nelle strade. (ibidem, p. 76)

Neppure gli stessi dèi erano al riparo dagli attacchi di questi demoni. Nella serie è descritta un'eclissi lunare che è causata dalla vittoria dei demoni sul dio Luna:

Enlil vide l'eclissi dell'eroe Sin [il dio Luna] nel cielo; il signore chiamò il suo visir Nusku: "Nusku, mio visir! Porta il mio messaggio nell'Apsû; da' a Ea nell'Apsû notizie di mio figlio Sin, che è stato eclissato nel cielo, un cattivo presagio". Nusku allora discese nell'Apsû e si presentò a Ea […] e ripeté a Ea il messaggio del suo signore. Ea nell'Apsû ascoltò il messaggio […] e chiamò suo figlio, Marduk e gli diede queste istruzioni: "Va', Marduk, figlio mio! Il figlio del principe, il Luminare [epiteti di Sin] è stato eclissato nel cielo, un cattivo presagio; la sua eclissi è chiaramente visibile nel cielo. È opera dei Sette, dèi malvagi, mortiferi, impudenti". (ibidem, p. 98)

Questo passaggio serviva da introduzione a un rituale volto, apparentemente, a proteggere il re durante un'eclissi e, attraverso di lui l'intero paese, dai Sette che, dopo aver sconfitto il dio Luna, potevano scorrazzare liberamente sulla Terra. Il cattivo presagio costituito dalle eclissi era motivo di grande preoccupazione per la salute del re e diede origine all'istituzione di un sostituto del re, che era posto sul trono per la durata prevista dell'eclissi, in modo da ricevere su di sé il male preannunciato da questo evento.

Le istruzioni relative al rituale, fornite da Ea a Marduk, proseguivano così:

Fila una fune screziata con la lana di un capretto non accoppiato e di un agnello non accoppiato [cioè rispettivamente nero e bianco]. Il re, figlio del suo dio, che come il Luminare [Sin] tiene in vita questo paese e, come il Luminare che sempre si rinnova, ha il capo circondato di splendore […], recita l'incantesimo di Eridu [città sacra a Ea]; conducilo [il re] dinanzi all'incensiere, alla torcia; purificalo con acqua pura […] i malvagi demoni utukku […] non entreranno nella casa; non si avvicineranno alle mura del palazzo; non potranno avvicinarsi al re; non si aggireranno furtivamente per la città. (ibidem, p. 96 e segg.)

b) Spettri. Benché gli spettri (eṭemmu in accadico) fossero elencati tra i Sette ('spettri malvagi'), essi meritano indubbiamente di essere discussi a parte, trattandosi sostanzialmente degli spiriti dei morti che, per qualche ragione, non avevano trovato la pace nell'aldilà e, di conseguenza, erano costretti a vagare sulla Terra, dove tormentavano i vivi. Le credenze riguardanti gli spettri ci permettono inoltre di gettare uno sguardo su alcuni aspetti del culto dei defunti in Mesopotamia. Uno dei motivi per cui un uomo poteva attirare su di sé la collera dello spirito irrequieto di un morto era l'aver trascurato di eseguire i riti per i defunti (kispu in accadico), negligenza che poteva avere terribili conseguenze. Questi riti comprendevano l'offerta di cibo e la libagione di acqua, che avevano lo scopo di assicurare al defunto un pacifico soggiorno nell'aldilà. L'omissione di queste pratiche poteva causare il ritorno dello spirito sulla Terra, come spettro malvagio. L'emerologio del 7° giorno del 10° mese, per esempio, mette in guardia dal "[pericolo di essere] assalito da uno spettro". I presagi appartenenti alla serie Šumma ālu ammoniscono: "Se uno spettro è visto aggirarsi nella casa di un uomo, la sua famiglia sarà dispersa" oppure, "Se uno spettro inizia a gridare nella casa di un uomo, la padrona della casa morirà". Una tipica maledizione scagliata contro un avversario a cui si voleva nuocere era: "possa il suo spirito essere privato delle offerte di cibo e di acqua nell'aldilà".

Altrettanto temibile era lo spettro di un cadavere rimasto insepolto; lo spirito del defunto non trovava pace e vagava sulla Terra finché non fosse stata data sepoltura al suo corpo. Anche gli spiriti di coloro che erano morti di morte violenta o innaturale potevano trasformarsi in spettri: "Chi è morto di fame in prigione; chi è morto di sete in prigione […]; chi è morto sulla riva del fiume; chi è morto nel deserto o nelle paludi; chi è stato sorpreso dalla tempesta nel deserto" (ibidem, p. xxxii).

Era possibile placare questi spettri ricorrendo a degli esorcismi: "Che tu sia lo spettro di un cadavere insepolto; o lo spettro di un defunto di cui nessuno si cura o a cui nessuno reca offerte e libagioni funebri; o lo spettro di chi è morto senza eredi" (ibidem, p. 40).

Raccolte di incantesimi

Come i demoni e gli spettri, anche la stregoneria era fonte di grande preoccupazione. Essere presi di mira da uno stregone o, più spesso, da una strega, era ritenuto un fatto molto grave. D'altro canto, si temevano anche i mali di origine ignota, come, per esempio, una malattia causata da un'infrazione del culto. Anche nel caso in cui si pensava di aver individuato la fonte della cattiva sorte, bisognava conoscere i mezzi per allontanarla. Questo diede origine a una copiosa letteratura, composta da rituali, preghiere e incantesimi, che avevano lo scopo di allontanare i mali causati dall'azione dei demoni, dalla mano di uno spettro o dalle macchinazioni di una strega, e di limitare i danni di una malattia, ritenuta la conseguenza di una trasgressione che aveva attirato sull'infermo la collera degli dèi. Col tempo, queste vaste collezioni di formule e rituali si svilupparono fino a trasformarsi, in alcuni casi, in raccolte ben definite dedicate ad argomenti specifici e, in altri, in opere di contenuto più vago e di carattere generale, come gli "incantesimi per placare la collera di un dio". Questi incantesimi erano recitati generalmente all'interno di specifici rituali.

Oltre agli utukki lemnūti, vi erano altri due tipi di incantesimi molto importanti: maqlû e šurpu. Entrambi i termini significano 'bruciare' in accadico, ma il fuoco svolgeva una funzione molto diversa in ciascuno di essi.

a) Maqlû. Le dramatis personae che prendevano parte a questo rituale erano il supplice, cioè l'individuo in cerca di aiuto, e lo specialista, il sacerdote esorcista. Nel maqlû il supplice sa di essere stato oggetto di un sortilegio e cerca di allontanare da sé questo male facendo appello agli dèi perché acconsentano a bruciare (in effigie) lo stregone o la strega responsabile della sua condizione.

Gli esempi seguenti illustrano il tipo di formule impiegate dal supplice: "Incantesimo. Girra [= il dio del fuoco] […] brucia il mio stregone e la mia strega; Girra, arrostiscili; Girra, bruciali; Girra, arrostiscili". L'intestazione di questo particolare incantesimo lo definisce "un incantesimo per allontanare la stregoneria per mezzo di una figurina di pasta"; nell'incantesimo successivo, Girra è implorato in questo modo: "come queste figurine fondono e si dissolvono, possano allo stesso modo fondersi e dissolversi lo stregone e la strega". L'intestazione lo descrive come un "incantesimo per allontanare la stregoneria per mezzo di figurine di argilla" (Meier 1937, p. 17 e segg.).

Analogamente alla maggior parte di questi testi divinatori e magici, il supplice presentava il suo caso come se si trattasse di un procedimento legale, nel quale l'assemblea degli dèi svolgeva il ruolo di corte di giustizia, come dimostra l'uso costante di una terminologia legale. Il caso è chiamato dīnu, il termine accadico per designare una causa o un procedimento legale. In questo caso, la corte divina è formata dagli 'dèi della notte' (cioè, le stelle e le costellazioni del cielo notturno) e dalle 'ore della notte'. Il supplice invoca la corte, implorandola di riunirsi per ascoltare la sua lamentela. La serie inizia in questo modo: "Incantesimo. Vi ho invocato, dèi della notte; insieme a voi, ho invocato la notte, la sposa velata; ho invocato la sera, la mezzanotte e il mattino [ore], perché una fattucchiera mi ha stregato, un calunniatore mi ha denunciato" (ibidem, p. 7).

Il supplice si lamenta poi di aver perso il favore degli dèi per colpa degli intrighi della strega e di essere divenuto a tutti gli effetti un emarginato. Rivolge quindi un appello agli dèi: "Aiutatemi, o grandi dèi, e date ascolto alle mie parole; giudicate il mio caso e stabilite una decisione [oracolare]" (Abusch 1987, p. xi).

Il supplice, agendo come un querelante in una causa legale, afferma che la strega ha rivolto false accuse contro di lui e prosegue: "Ho fatto un'immagine del mio incantatore e della mia strega, del mio stregone e della mia fattucchiera, l'ho posta ai vostri piedi e ho perorato la mia causa, perché mi ha fatto del male e ha rivolto contro di me accuse infondate: possa ella morire e io vivere!" (ibidem, p. xi).

Quindi il supplice si purifica dalle false accuse lanciate contro di lui dalla strega per mezzo di un giuramento (in pratica, un rito di purificazione che prevedeva l'uso di certe piante: "il tamarisco mi detergerà; la palma da datteri mi libererà"). Il tribunale divino è chiamato a respingere le accuse rivolte al supplice, come in effetti avviene: "I suoi lacci sono spezzati, le sue azioni vanificate; le sue accuse sono respinte, per il verdetto pronunciato dagli dèi della notte!" (ibidem, p. xii).

Il maqlû era eseguito in parte di notte (da qui l'invocazione agli dèi della notte) e se ne traeva il bilancio il mattino successivo, iniziando all'alba, preferibilmente nel mese di Abu (luglio/agosto), come suggeriscono alcune testimonianze. Una lettera a un re assiro conferma questo svolgimento: "La notte il re eseguirà il maqlû; il mattino dopo il re effettuerà il bilancio di questo rituale" (Abusch 1974, p. 259).

b) Šurpu. Questo rituale era eseguito invece "quando l'infermo non sa in che modo possa aver causato la collera degli dèi […]. Il fuoco svolge in questo caso una funzione purificatrice" (Reiner 1958, p. 3). Il rituale consisteva essenzialmente in una serie di tentativi compiuti dal malato per scoprire la causa dei suoi tormenti, se fossero cioè dovuti a una trasgressione etica o cultuale, o a un contatto casuale con una persona impura. Le principali divinità invocate erano Marduk, dio babilonese a cui ci si rivolgeva in questo caso in qualità di patrono della magia (servendosi in genere del nome sumerico, Asallukhi), e suo padre Ea. La conversazione tra questi dèi riveste un grande interesse:

Marduk si avvide di lui [dell'infermo], si recò da suo padre Ea ed esclamò: "Padre, una maledizione […] è stata lanciata contro quest'uomo […]. Non so cosa fare, in che modo soccorrerlo". Ea rispose a suo figlio Marduk: "Figlio mio, cos'è che dici di non sapere? Cosa altro potrei dirti? […]. Tutto ciò che io so, lo sai anche tu. Va', Marduk, figlio mio! Conducilo alla pura casa delle abluzioni, scioglilo dal suo giuramento [sortilegio] […] pronunciando la formula di Ea il giuramento [sortilegio] sarà pelato come questa cipolla, sbucciato come questi datteri, srotolato come questa stuoia".

Seguiva una serie di incantesimi in cui gli oggetti citati erano pelati, sbucciati, srotolati e gettati infine nel fuoco, suggerendo che anche la malattia del supplice potesse essere pelata, sbucciata e srotolata dal suo corpo. L'infermo veniva liberato dalla malattia gettando nel fuoco gli oggetti che erano stati caricati delle sue trasgressioni.

La divinazione in Anatolia

di Alfonso Archi

La fragilità dell'uomo, minacciato da forze avverse che dèi e demoni possono scatenare, se offesi, insieme alla rivalità perenne tra uomo e uomo, necessitavano di precauzioni e rimedi. I rituali di magia non solo potevano neutralizzare il male già manifestatosi, ma riuscivano talvolta a prevenirlo se si interveniva nei momenti cruciali, come in occasione di una nascita o per la costruzione di un edificio. Occorreva però prendere per tempo certe precauzioni e, in una situazione di crisi, ricercarne le cause con la massima esattezza. Per ciò si ricorreva alla divinazione.

Gli archivi hittiti di Boğazköy, antica Khattusha, conservano alcune serie di testi di divinazione di origine babilonese: segni astrali (fasi lunari, eclissi, posizione dei pianeti), presagi derivati dall'osservazione della Natura (Šumma ālu) e, in particolare, delle malformazioni dei neonati (Šumma izbu), emerologie e anche modelli di fegato raffiguranti conformazioni rilevate negli ovini esaminati in occasione di certe particolari consultazioni oracolari.

Queste tecniche, se attirarono l'interesse degli eruditi tanto che alcuni testi (e un certo numero di modelli di fegato) furono provvisti di traduzione hittita, ebbero tuttavia una modesta rilevanza pratica. Fenomeni naturali come la caduta di un meteorite (se non il passaggio di una cometa), o lo scoppio a distanza ravvicinata di un fulmine, erano interpretati come un segnale del dio della Tempesta, il signore degli elementi. Preoccupava, però, non tanto di decifrare la pura causalità, ma di determinare la volontà degli dèi e identificare le forze avverse. Per questo gli Hittiti si occuparono poco di divinazione deduttiva, ma fecero sistematicamente ricorso alla divinazione provocata, la quale si sviluppò come una vera scienza. Non sapendo come individuare le cause di un'epidemia che devastava da anni il paese, il sovrano Murshili II (1340-1310 ca.) supplica così gli dèi: "Poiché si continua a morire nella terra di Khatti, ne possa io vedere la ragione attraverso un sogno, oppure me la indichi un oracolo, me la dica un veggente, [e per questo] ho ordinato ai sacerdoti di giacere su un letto puro; [per quanto riguarda invece gli oracoli,] me lo dica la maga, l'indovino, o l'osservatore degli uccelli!" (Kammenhuber 1976, p. 19).

Gli dèi comunicavano i loro messaggi agli uomini attraverso ogni tipo di sogni, che pertanto erano sottoposti all'interpretazione di una veggente. Precisi responsi erano poi sollecitati attraverso sogni provocati, una tradizione che rimase viva nell'Anatolia occidentale almeno fino all'età classica, come testimoniano i numerosi santuari noti come luoghi dove si praticava l'incubazione. Dei sistemi oracolari più diffusi, le 'sorti' e l'osservazione degli uccelli erano di origine anatolica, mentre la consultazione delle viscere delle pecore risaliva ai Babilonesi.

a) Le sorti. Questa particolare tecnica, denominata 'l'opera' (KIN) e nota nella sola regione anatolica, era di competenza della 'vecchia' (cioè la maga che aveva anche il compito di celebrare i rituali) ed è attestata già per l'età arcaica. Essa disponeva di un complesso di simboli, la maggior parte dei quali era prestabilita; di questi facevano parte divinità come il dio della Tempesta, le Parche, entità e proprietà diverse, alcune positive come la vita, il benessere, il futuro, altre negative come il nemico, il male, la colpa, la rivolta. Altri elementi, invece, erano scelti in diretta relazione con la particolare indagine oracolare in oggetto, come il re, l'esercito, la città che si intendeva conquistare, talvolta i re rivali di Assur e Babilonia. Alcuni di questi elementi agivano su altri, che erano passivi: un solo elemento attivo 'si alzava' di volta in volta, 'prendeva' uno o più elementi passivi e li 'portava' presso altri simboli in posizione finale; i simboli attivi potevano avere anche funzione finale (e viceversa). Il responso risultava dall'esame di tre movimenti susseguenti. Alcune osservazioni hanno un significato trasparente, come quando qualità positive sono 'portate' a simboli positivi, o qualità negative sono neutralizzate da particolari divinità. Resta oscuro cosa mettesse in movimento i simboli. Forse quelli attivi e passivi, disposti tutto intorno al campo di osservazione, erano legati a fili che la maga tirava a caso, provocandone il contatto con gli elementi passivi, situati al centro, che così venivano spostati verso un elemento sul bordo. Altra possibilità è che si seguissero i movimenti di un animale (una colomba, un pollo), poiché talvolta si specifica "la terza traccia [risulta essere]". Un sistema di divinazione assimilabile alle sortes e che presenta qualche analogia al KIN hittita è praticato ancora oggi in Anatolia. L'operatore dispone di una quarantina di fagioli, ciascuno dei quali ha un segno che lo identifica con persone, qualità, proprietà favorevoli o sfavorevoli. I fagioli sono gettati tre volte, e il responso è tratto dalle combinazioni nelle quali vengono a trovarsi i simboli.

b) La lecanomanzia. Si utilizzava un ampio bacino il cui interno era contraddistinto da alcuni punti denominati secondo divinità, toponimi, edifici, caratteristiche fisiche e morali, sia positive sia negative, a somiglianza del KIN. Per ottenere il responso si osservavano per tre volte gli spostamenti di una biscia o forse di un serpente d'acqua, associando i punti toccati ciascuna volta (se il rettile sfiorava il punto del dio della Tempesta, poi quello denominato 'gli anni lunghi', per fermarsi a quello del re era, per es., un presagio positivo). Questo sistema di divinazione, che si serviva di recipienti contenenti liquidi, fu utilizzato raramente dagli Hittiti ed è documentato da pochissimi testi; probabilmente fu importato dall'Anatolia sudorientale (alcune divinità sono di origine hurrita) adattandolo allo schema delle sorti. Ancora in età classica, in un bacino presso l'antichissimo santuario di Kharran, si allevavano carpe; in Licia, in un santuario dedicato ad Apollo, si interrogavano i pesci che nuotavano in uno stagno, derivando il responso dal fatto che essi accettassero o rifiutassero il cibo.

c) L'ornitomanzia. L'osservazione e l'interpretazione del volo degli uccelli è l'unica tecnica per la quale gli Hittiti abbiano redatto un'opera di carattere teorico: un repertorio che raccoglieva le tipologie dei voli e il loro significato. Praticata anche in Siria, da dove provengono rare e sommarie testimonianze, l'ornitomanzia ebbe in Anatolia tale rilevanza da essere considerata il sistema di divinazione per eccellenza: nei trattati politici imposti dagli Hittiti agli Stati vassalli, si sollecita il contraente a non sottrarsi ai propri impegni prendendo a motivo "il responso di un uccello!". Cicerone ne dava una spiegazione deterministica: "Gli Arabi, i Frigi, i Cilici, poiché sono soprattutto dediti alla pastorizia, percorrendo le pianure d'inverno e le montagne d'estate, hanno perciò notato più agevolmente i diversi canti e voli degli uccelli; e per lo stesso motivo hanno fatto ciò gli abitanti della Pisidia e quelli della nostra Umbria" (De divinatione, I, 94).

Non è mai precisato come venisse delimitato il campo di osservazione, ma un disegno schematico mostra che lo spazio era concepito come un rettangolo, diviso in destra e sinistra (quest'ultima di significato avverso), attraversato da due linee che s'intersecavano tra loro e che congiungevano gli angoli opposti. Nel complesso, gli uccelli osservati erano circa una trentina, tutti non identificabili se si esclude l'aquila, e forse il falco e il pipistrello ('uccello topo'). Di ciascuno si nota la provenienza, l'altezza del volo (alto nel cielo, a mezz'aria, radente), eventuali incontri con altri uccelli, la presenza di qualcosa nel becco, se si posa e canta, infine la direzione dell'allontanamento.

d) L'extispicio. L'esame delle viscere degli ovini, di origine babilonese (v. par. 3), fu trasmessa agli Hittiti dagli Hurriti di Siria. Gli scavi archeologici a Meskene, antica Emar (capitale del paese di Ashtata), sull'Eufrate, confermano alcuni accenni in fonti hittite, che indicano la città come uno dei centri di diffusione di questa pratica divinatoria. La scuola hurrita variò l'ordine delle parti osservate, e gli Hittiti mantennero in larga parte anche la terminologia hurrita. Agli elementi canonici da osservare, una dozzina, se ne aggiungono diversi fortuiti. Le denominazioni utilizzate, allusive alla forma degli organi ('ispessimento', 'cammino', 'dito'), non sono sufficientemente trasparenti da permettere sempre identificazioni sicure. Le circonvoluzioni intestinali assumevano valore favorevole se erano nel numero di 10 o 12.

L'esame delle viscere dei colombi, MUŠENḫurri (praticata anche a Mari, in Siria, nel XVIII sec.), era complementare a questa tecnica e considerava un numero assai ridotto di parti ominose.

La procedura delle consultazioni prevedeva che, attraverso domande estremamente particolareggiate, si arrivasse a determinare le cause che stavano all'origine di una certa situazione o la strategia da seguire per evitare inconvenienti futuri. Uno dei documenti più completi conserva un centinaio di quesiti, tutti finalizzati a stabilire il percorso di una spedizione militare. Questo metodo induttivo procedeva, secondo una logica binaria, per risposte affermative o negative ('favorevole'-'sfavorevole'). Nel configurare un'ipotesi avversa (una malattia, una sconfitta), il responso negativo, vale a dire 'non favorevole', assumeva valenza positiva in quanto negava un'eventualità deprecata.

Gli Annali di Murshili II menzionano, anche se raramente, il ricorso all'ornitomanzia e alla consultazione delle viscere. In genere la procedura era estremamente complessa. Ogni singolo responso dell'extispicio richiedeva l'esame di due pecore. Era poi necessaria un'ulteriore conferma attraverso le sorti o l'ornitomanzia; talvolta con ambedue le tecniche. Un'osservazione ornitomantica sembra necessitasse di un giorno; anche ciascun movimento dei tre previsti per la consultazione delle sorti avrebbe dovuto richiedere un giorno, se si prendono alla lettera le descrizioni (ma qui la terminologia è forse simbolica). Molte consultazioni, conservate negli archivi, comprendono decine di domande.

La divinazione in Siria e Palestina

di Cristiano Grottanelli

Gli interventi magici

Attività magiche sono presenti in Siria e Palestina durante l'intera storia di questa regione. Tre distinte categorie di fonti ne attestano varie forme e tipi: prima di tutto, gli amuleti o simili oggetti dotati di una funzione magica, più o meno chiara a seconda dei casi. Poi, differenti generi di testi magici, redatti su supporti diversi e nei vari modi di scrittura che si succedettero nella zona. Infine, molte sezioni magiche, o descrizioni o narrazioni di contenuto magico, che facevano parte di testi più ampi come iscrizioni funebri, testi di trattati o di patti, o di racconti di vario genere, fino alle parti narrative della Bibbia ebraica. Da tutti questi oggetti o documenti è attestata una ricca tipologia di azioni magiche, volte a influire in modo volontario e determinante sulle vicende di uomini o di donne mediante cose, parole o riti cui si attribuiva, nell'ambito delle società in questione, la capacità di causare determinati effetti. Questo potere era spesso in stretta relazione con quello attribuito a specifiche divinità; ciò mostra l'assenza di una netta distinzione fra magia e religione, intesi l'una come azione rituale esercitata direttamente sugli esseri umani o su altri oggetti, e l'altra come rapporto con entità personali extraumane dotate di potere sulle vicende naturali o umane, distinzione propria invece di un certo pensiero occidentale moderno.

Fra gli oggetti con funzione magico-religiosa, rinvenuti in gran copia nelle sepolture antiche e negli scavi archeologici di abitazioni o di luoghi di culto della Siria e della Palestina antica, è possibile distinguere tre categorie principali:

a) amuleti egizi o egittizzanti, di pasta vitrea, di piccole dimensioni, in forma di animali, di parti del corpo umano, di vegetali, di altri oggetti, di divinità egizie, usati con funzione di protezione magica;

b) oggetti di produzione locale di terracotta, raffiguranti figure umane (donne o dee nude, gravide, o allattanti), animali, edicole o riproduzioni di edifici o di stele, ecc., con funzioni varie, per lo più magiche, votive o cultuali;

c) gioielli di pietra dura o di pasta vitrea in forma di scarabei, con funzione anche di sigillo a stampo e recanti quindi, sul lato opposto a quello che ha forma di scarabeo, decorazioni incise, spesso di tipologia egizia, con scene varie, figure umane e divine, animali, oggetti diversi, con funzioni anche magiche, di amuleti protettivi.

Per tutti e tre i tipi di oggetti, è spesso difficile stabilire nei singoli casi le valenze e le funzioni specifiche, ma senz'altro essi sono pertinenti alla sfera magico-religiosa. Colpisce la lunghissima durata (dai primi tempi della cultura urbana della regione fino alla Tarda Antichità e oltre) e la vasta diffusione nello spazio dei tre tipi; comune al primo e al terzo tipo è la somiglianza, più o meno forte a seconda dei periodi storici e dei casi specifici, rispetto a modelli prodotti nella Valle del Nilo.

I veri e propri testi magici sono attestati dagli inizi della cultura scritta della Siria e della Palestina all'età romana e oltre. I più antichi sono i testi di Ebla databili al III millennio, pubblicati nel 1984 da Manfred Krebernik, che li chiamava Beschwörungen (scongiuri). Tali testi sono tavolette cuneiformi assai frammentarie, alcune in lingua sumerica e altre in lingua semitica (eblaita): mentre ne è certo il contenuto magico, è difficile cavarne molto di più. Spiccano certi nomi di divinità mesopotamiche (in particolare Enlil, Inanna, Ea signore dell'Apsû o abisso di acque infere) e il riferimento appunto a scongiuri, e a malattie, a piante (come il tamarisco), ad animali (come i bovini o gli ovini domestici, o gli uccelli), al miele.

Più chiari sono i testi magici di Ugarit, la città distrutta verso il 1200 a.C., nella lingua semitica detta ugaritico, su tavolette in scrittura 'cuneiforme alfabetica'. Il testo Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.100, per esempio, inizia così:

La madre dello stallone, la giumenta, figlia della fonte, figlia della pietra, figlia del cielo e dell'Oceano primordiale,/ grida a Shapash [= la dea solare], sua madre: Shapash, madre, porta la mia voce fino a/ Ilu [= il padre degli dèi], alla sorgente dei due fiumi, alla confluenza dei due oceani!/ Incantesimo per il morso del serpente, per l'avvelenamento [a causa] del serpente/ tortuoso! Da lui, o incantatore, annienta, da lui estirpa/il veleno! Ecco, egli lega il serpente, nutre a forza il serpente tortuoso./ Egli prepara un seggio e si siede.

A questo testo in lingua ugaritica se ne avvicinano altri sempre da Ugarit e nella stessa lingua e scrittura. La tavoletta molto frammentaria Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.107 contiene un altro incantesimo, che fa riferimento al dio guaritore Horon ed è diretto contro il morso velenoso dei serpenti. Il testo Keilalphabetischen Texte aus Ugarit, 1.124 ha come protagonista l'antenato regale Ditanu, che prima procura un responso oracolare relativo a un fanciullo malato, e poi fornisce una descrizione del rito magico che lo potrà risanare:

Quando il Signore/ degli dèi grandi giunse presso Ditanu/ gli chiese un responso oracolare per il fanciullo./ Ed egli rispose:/ Tu gli risponderai […] prendi/ e metti[lo nel] […]/ nel giorno del plenilunio [?] […] prendi della cassia/ senape/ nel tempio [casa] plasma una figurina, prendi[la]/ e metti[la] nel tempio/ casa e poi distruggi[la]:/ questo è il suo male! E giungerà/ il tuo messaggero presso Ditanu/ per ottenere il responso oracolare./ E gli rispose/ Ditanu: Spezza la figurina/ non [dare al fanciullo] pesce, né pane/ e in seguito non ci sarà più sofferenza.

A questi testi ugaritici si deve accostare almeno un testo magico coevo, proveniente dal vicino sito di Ras ibn-Hani, che sembra volto alla guarigione dell'impotenza sessuale. Tale testo allude a varie azioni rituali, che accompagnavano probabilmente la recitazione di invocazioni agli dèi Baal e Horon contro esseri malefici che si credeva causassero l'impotenza.

A queste attestazioni sicure, e anche abbastanza ricche, del II millennio fa riscontro, per il millennio successivo, una messe alquanto più scarsa. Non rientrano infatti pienamente nel tipo qui discusso iscrizioni come quelle ebraiche di Kuntillet Ajrud (fra il IX e l'VIII sec.), ove spicca, accanto a simboli quali il dio egizio Bes, la vacca che allatta, la mano aperta, la benedizione da parte di divinità. Analoghe nella forma rispetto a prototipi egizi sono due amuleti costituiti da strette lamine d'argento da una tomba di Ketef Hinnom presso Gerusalemme, databili al VII sec. o all'inizio del VI, che recano però invocazioni e benedizioni nel nome di Yahweh. Veri e propri testi magici non si conoscono in questo periodo; e se, come sembra, le iscrizioni dei cosiddetti amuleti aramaici di Arslan Tash sono false, bisognerà attendere le cosiddette coppe magiche aramaiche, siriache e mandaiche, per trovarne ancora.

Formule magiche, in particolare maledizioni, sono invece presenti in iscrizioni di diversa natura in lingue semitiche nordoccidentali del I millennio. Queste comprendono le maledizioni incorporate nelle iscrizioni funerarie fenicie, come quelle che difendono la sepoltura di Eshmunazar re dei Sidonii, V sec. "Chiunque tu sia, ogni re e ogni uomo, non aprire il mio coperchio/ e non scoprire sopra di me e non portarmi via da questo luogo di riposo e non sollevare il sarcofago di questo luogo di riposo affinché non li consegnino/ questi dèi santi e non distruggano quel re e quegli uomini e il loro seme per sempre"; o la tomba di Tabnit, re della stessa città: "soltanto io riposo in questo sarcofago. No, non aprire/ il suo coperchio e non mi disturbare, poiché questa cosa è un'abominazione per Astarte. Ma se apri/ il suo coperchio e mi disturbi, non sia a te un seme fra i viventi sotto il Sole/ né un luogo di riposo fra le ombre dei morti".

Altre maledizioni sono rivolte, nei testi dei trattati e dei patti, contro gli eventuali contravventori, e spesso tali formule sono pronunciate accompagnandole con riti corrispondenti. Così, nell'iscrizione aramaica della faccia A della Stele I di Sefire si legge:

Proprio come questa cera è bruciata dal fuoco, così [sia bruciato dal fuo]co [il contraente] Matti-[El]!/ Proprio come [questo] arco e queste frecce sono rotti, così possano Inurta e Hadad rompere [l'arco di Matti-El]/ e l'arco dei suoi nobili! E proprio come un uomo di cera è accecato, così sia accecato Matti-[El]! [Proprio come]/ questo vitello è tagliato in due, così possa essere tagliato in due Matti-El, e possano essere tagliati in due i suoi nobili! [E proprio come]/ una [p]r[ostituta] è denudata, così possano le mogli di Matti-El essere denudate, e le mogli dei suoi discendenti, e le mogli dei [suoi] no[bili! E proprio come/ questa donna di cera è presa] e la si colpisce sulla faccia, così possano le [mogli di Matti-El] essere prese [e …].

In varie sue parti apodittiche, la Bibbia ebraica condanna la magia e i maghi in nome del culto monolatrico del dio d'Israele, Yahweh.

Ciononostante, nei testi biblici non mancano riferimenti a procedimenti magici, spesso presentati senza alcuna riprovazione o addirittura attribuiti a figure di antenati essenzialmente positive. Così, in Genesi, 27 e 48-49 la benedizione paterna garantisce ai discendenti fecondità e successo, richiamando quanto sulla benedizione divina ci dicono le iscrizioni di Kuntillet Ajrud; mentre in Genesi, 30 il patriarca Giacobbe è mostrato nell'atto di moltiplicare magicamente il proprio gregge:

Giacobbe prese dei rami freschi di pioppo, di mandorlo e di platano, vi fece delle scorzature bianche, scoprendo l'alburno dei rami; quindi piantò i rami che aveva scortecciati davanti al gregge nelle mangiatoie e negli abbeveratoi dove il gregge veniva a bere e andava in calore venendo a bere. Così il gregge andava in calore davanti a quei rami e il gregge concepiva feti striati, chiazzati e macchiettati [che secondo l'accordo fra Giacobbe e Labano suo zio erano proprietà di Giacobbe].

In Genesi, 30, Rachele, la moglie più amata ma fino ad allora sterile di Giacobbe, offre alla sorella Lia, moglie feconda, una notte da trascorrere con il comune sposo in cambio delle mandragore trovate nei campi dal figlio di Lia, Ruben. Il testo non dice che è grazie alle mandragore che Rachele partorisce per la prima volta un figlio (cui sarà posto nome Giuseppe); anzi afferma: "Yahweh si ricordò allora di Rachele, la esaudì e la rese feconda", ma il rapporto fra le mandragore, il sesso e la fecondità, ben noto da molte altre fonti, suggerisce che in tal senso si debba leggere il racconto. Se il carattere magico di questo episodio è ipotetico, è sicura invece la qualità magica di Balaam (Numeri, 22-24), il veggente che, indotto da Balac, re di Moab, a maledire Israele, recita quattro volte un suo carme, e quattro volte contro la sua volontà benedice il popolo eletto o ne predice il successo.

La divinazione in Siria e Palestina

La divinazione è normalmente intesa come modo di prevedere il futuro; ma in realtà sarebbe più corretto definirla un modo di sapere quanto agli esseri umani non è possibile conoscere con i mezzi quotidianamente usati ‒ anche di conoscere un passato o un presente altrimenti ignoti e irraggiungibili. I sistemi di divinazione praticati nel mondo siro-palestinese, dalle più antiche civiltà urbane della zona all'età ellenistica, erano numerosi e molto diversificati. Tali sistemi si prestano a essere classificati, sulla scorta di quanto già proponeva Cicerone nel De divinatione, in due grandi tipi: quello che si potrebbe definire tecnico, basato cioè su accorgimenti anche complessi volti a interpretare segni e a comprendere così l'ignoto, e quello che si dice ispirato, e che si basa, secondo la concezione antica, sulla comunicazione diretta fra il veggente o medium e una o più figure extraumane (spiriti, dèi) che lo possiedono, lo ispirano o ne sono viste e udite. Come in Mesopotamia, così in Siria e in Palestina i due tipi di divinazione esistono, a quanto pare da sempre, fianco a fianco; il secondo apre la strada a quella che, distinguendola per alcuni aspetti dalla divinazione, si chiama anche profezia, caratterizzata quest'ultima dall'iniziativa divina, anche senza o contro la volontà umana di interrogare, e da contenuti che possono trascendere l'informazione contingente, e attingere alla cosmologia, alla dottrina religiosa, all'etica.

La più antica documentazione mantica dell'area siriana è quella della città di Mari sul medio Eufrate, risalente al XVIII secolo. A Mari due ampie serie di tavolette d'argilla con testi in scrittura cuneiforme in lingua accadica testimoniano l'importanza di due diversi tipi di divinazione/profezia. Da un lato, una serie di testi, e in particolare di lettere conservate nell'archivio del palazzo reale, fornisce notizie sull'attività di specialisti detti bārûm, 'indovini', consultati dal re e dagli alti dignitari dello Stato, che predicono il futuro imminente osservando le viscere di pecore sacrificate, e che si vedono talora attribuire, nell'ambito della burocrazia palatina, incarichi di rilievo (come addetti a funzioni amministrative e militari, come ambasciatori o governatori). Tali veggenti devono essere presenti ogni volta che si offre un sacrificio importante; essi hanno il dovere di informare il re dell'esito delle loro osservazioni mantiche; šīrum è il termine tecnico che indica il presagio tratto dall'esame delle viscere, che deve essere riferito con precisione al re, ma custodito come un vero e proprio segreto di Stato. Di competenza del bārûm erano anche altri sistemi divinatori, come la lecanomanzia, la libanomanzia, l'osservazione del volo degli uccelli. Con specifiche tecniche di controllo (epatoscopia, osservazione di uccelli) il bārûm s'informava, e informava il palazzo, sull'importanza eventuale e sul significato di eclissi e di sogni. Gli indovini lavoravano spesso in coppia, e ogni osservazione mantica era seguita da una seconda osservazione, intesa come controprova o verifica della prima: si trattava, in entrambi i casi, di meccanismi per garantirsi la correttezza dei responsi. Siccome nessuna iniziativa poteva essere presa dal palazzo se non era garantita da presagi favorevoli, la pratica mantica consisteva spesso in una serie di prove, rivolte a rispondere a precise domande, alla ricerca di un responso favorevole che consentisse l'azione. Ma a volte tale ricerca si arrestava, perché gli indovini, giunti a quello che sembrava loro un punto morto dell'interrogazione, decidevano di non procedere oltre. Per le loro pratiche essi si avvalevano di un ricco sapere tradizionale, attestato da alcune tavolette con liste di valenze oracolari di determinati aspetti del fegato delle vittime.

Il bārûm di Mari è senz'altro, come è stato definito da Jean-Marie Durand, un "funzionario reale" (per es., ogni esercito che partecipa a una campagna militare ha, accanto ai comandanti, un indovino) e a Babilonia, in tempi non lontani dai nostri testi di Mari, l'indovino riceve razioni pari a quelle di un generale. L'altro principale modo di divinazione esistente a Mari, il modo che ho definito 'ispirato', è anch'esso attribuito a specialisti, che hanno vari nomi, āpilum, assinnum, muḫḫûm, nabûm, qammatum e che non sono però dipendenti diretti del palazzo, ma talora sembra mediato da persone di vario status sociale, che non sono professionisti. Questi mediatori, che si usa ormai definire 'profeti', sono colti da trance e in trance pronunciano messaggi divini: ne abbiamo notizia per lo più da lettere spedite al palazzo da funzionari di varie province che narrano come il medium tale o talaltro (spesso si tratta di donne) avesse profferito, nel nome di una divinità, un certo avvertimento, preannuncio o richiamo. Questo secondo tipo di divinazione ha attratto, soprattutto negli ultimi anni, molta più attenzione di quanta non ne abbia ottenuta il primo, a causa della notevole somiglianza fra i profeti di Mari, quelli assiri soprattutto dei secoli VIII e VII, e quelli ebraici, fra i quali vanno certo annoverati gli autori e i redattori dei libri profetici della Bibbia.

Il centro siro-palestinese meglio documentato verso la fine del II millennio è Ugarit, distrutto verso il 1200. In questa città la divinazione ispirata è documentata scarsamente, ed è in un testo accadico che troviamo la menzione di personaggi in trance che (si feriscono e così) si coprono di sangue: il termine tecnico che indica qui tali personaggi è maḫḫû, che corrisponde al muḫḫûm di Mari, e l'uso di ferirsi a sangue è documentato, ma non approvato, da due passi biblici che lo riferiscono a profeti. Più numerosi sono i documenti ‒ spesso in scrittura cuneiforme alfabetica e in lingua ugaritica ‒ relativi alla divinazione 'tecnica': è attestata l'osservazione delle viscere delle vittime sacrificali e restano un modello di polmone e alcuni modellini di fegato, tutti recanti brevi iscrizioni. Un altro testo ugaritico in cuneiforme alfabetico si riferisce a un'eclissi di Sole, verificatasi, secondo moderni calcoli astronomici, il 3 maggio 1375 a.C., in occasione della quale furono esaminati due fegati: l'eclissi era considerata pericolosa per le sue implicazioni ominali e sembra di capire che l'esito dell'osservazione dei fegati non fosse per nulla rassicurante.

I testi biblici ci mostrano un complesso sistema divinatorio, che includeva tre modi leciti di interrogare il volere divino e diversi modi illeciti. Uno dei passi più illuminanti è I Samuele 28, 6, in cui si narra che siccome Saul, il primo re, aveva commesso peccati contro la divinità, Yahweh cessò di comunicare con lui: "non gli rispose", afferma il testo biblico, "né con sogni, né con urim, né con profeti". Saul è quindi costretto a rivolgersi a una necromante, che evoca per lui il morto profeta Samuele: costui annuncia la morte imminente del re colpevole. Il paradosso sta nel fatto che proprio Saul aveva da poco vietato tali pratiche "eliminando i maghi e i necromanti dalla Terra" (I Samuele 28, 4). Nella pericope biblica in questione si ha dunque la serie dei sistemi di divinazione accettati: la lettura dei sogni è presente altrove nella Bibbia, ed era specialità di personaggi positivi quali Giuseppe nella Genesi e Daniele nel libro omonimo; il sistema che prendeva il nome dei due termini urim e tummim è assai difficile da ricostruire; mentre i profeti, che continuano la tradizione della divinazione 'ispirata', sono, come tutti sanno, un punto di riferimento centrale nella religiosità biblica. Alla serie canonica si contrappone l'evocazione di un defunto, che da un lato trova riscontro nella divinazione mesopotamica e in altri sistemi mantici antichi, e dall'altro fa parte di un gruppo di pratiche vietate che, secondo i libri biblici di carattere apodittico, si devono punire con la morte.

All'interno della categoria dei profeti, la Bibbia istituisce importanti distinzioni. Prima di tutto, essa distingue fra profeti veridici e profeti mendaci: nella prospettiva monoteistica dei libri canonici, sono ovviamente mendaci tutti i profeti che fanno riferimento a divinità diverse da Yahweh; e, fra i profeti yahwisti, mentono coloro le cui predizioni non si avverano. Un'altra distinzione, meno esplicita ma molto importante, è quella fra profeti dipendenti da un santuario o da un re e profeti 'autonomi', alcuni dei quali (come Amos nel libro omonimo) arrivano a negare di essere nebi'im (profeti). Un profeta autonomo e veridico è Michea figlio di Yimla, di cui ci narra I Re nel capitolo 22: i due re alleati di Israele e di Giuda, che stanno per intraprendere una spedizione militare, convocano i profeti. Se ne presentano quattrocento e tutti predicono la vittoria; ma ne manca uno, Michea figlio di Yimla. Egli è dunque convocato da un messo regio, si presenta davanti ai due monarchi, e predice il successo; ma, interrogato con insistenza, alla terza volta annuncia una disastrosa sconfitta, ed è imprigionato. La sconfitta ha luogo, e il re di Giuda muore in battaglia; ma già durante la seduta Michea aveva spiegato la falsa profezia dei suoi colleghi narrando una visione. Egli aveva visto la corte celeste: Yahweh chiedeva un volontario che si recasse a ingannare il re di Giuda, uno spirito che si era fatto avanti offrendosi di annunciare una falsa predizione sulla bocca dei quattrocento profeti, e Yahweh gli aveva dunque ordinato di mettere in atto la sua proposta. Come si vede, nella concezione biblica, che presentava la visione profetica accanto a una possessione divina analoga a quella dei veggenti greci, anche i profeti yahwisti potevano annunciare il falso, e la predizione mendace poteva venire addirittura da Yahweh, qualora quel dio avesse voluto punire con essa un malvagio.

I testi biblici attribuiti a profeti, o relativi a essi, sono certo più tardi di quanto un tempo non si credesse, e poche testimonianze extrabibliche su indovini o profeti sono disponibili per la Siria e la Palestina del I millennio. Fra queste attestazioni spicca un'iscrizione in inchiostro nero e rosso su intonaco, che forse copriva la parete di un edificio, rinvenuta a Tell Deir Alla in Giordania e databile all'VIII secolo. Dell'iscrizione, in una lingua semitica nordoccidentale, sono conservate in parte circa 50 righe; nelle prime dieci righe (delle quali la prima è in inchiostro rosso) si legge:

[Questo è] il libro di [Ba]laam, [figlio di Beo]r, veggente degli dèi. E a lui vennero gli dèi nella notte. [E parlarono] a lui secondo la dichiarazione di El. E parlarono a [Balaa]m, figlio di Beor, così: […] E Balaam si alzò al mattino […]. E non [poteva mangiare. E digiun]ava, piangendo dolorosamente. E la sua gente venne a lui. E [chiesero] a Balaam, figlio di Beor: "Perché digiuni? [E perch]é piangi?" Ed egli disse loro: "Sedetevi! Vi dirò che cosa gli Shad[dayin…]"

Siamo chiaramente davanti a un testo 'profetico', che ha diversi punti di contatto con i libri profetici della Bibbia ebraica; ma il contenuto della profezia di Balaam è di difficile interpretazione: le righe successive del testo narrano di un'assemblea degli dèi e di una loro decisione nefasta, e passano poi a descrivere il comportamento di certi uccelli e di altri animali. Si noti che Balaam, figlio di Beor, è il famoso profeta e mago non ebreo, già citato nel paragrafo precedente, che in un passo della Bibbia (Numeri 22-24) è chiamato da un re nemico di Israele a maledire quel popolo, ma che per volere di Yahweh e contro la propria volontà finisce col benedire gli Israeliti e con l'annunciarne il successo. Il testo di Numeri 22-24 è certo più tardo dell'iscrizione di Tell Deir Alla, mentre il Balaam nominato nel passo biblico è posto in un contesto che, se fosse storico, sarebbe molto più antico della data probabile dell'iscrizione. Esaminando insieme le due testimonianze, è forse possibile ricostruire un oracolo notturno basato sui sogni di un medium riferiti all'alba agli interroganti che hanno trascorso la notte nel luogo sacro: sistemi analoghi sono noti per certi santuari mantici di Apollo nell'area anatolica.

Divinazione mesopotamica e biblica a confronto

di Ivan Starr

Può essere interessante effettuare un confronto tra la visione mesopotamica e quella biblica delle relazioni tra l'uomo e la divinità. L'antico Israele condivideva con i suoi vicini l'idea che Dio fa conoscere all'uomo la sua volontà e questo implica l'esistenza di mezzi di comunicazione. Ma ciò in cui Israele differiva dai suoi vicini era la valutazione di quali mezzi di comunicazione potevano essere considerati accettabili. A differenza degli abitanti della Mesopotamia, per esempio, gli autori della Bibbia non pensavano si dovessero ricercare i segni della volontà divina nelle deviazioni dall'armonia della Natura ma, al contrario, in essa, come testimonianza della perfezione della creazione divina. Dio governa la Natura, ma non è soggetto alle sue leggi; il salmista esprime così questo concetto: "I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l'opera delle sue mani". La legge biblica proibisce pertanto le pratiche associate alla magia e alla divinazione, tra cui i presagi, la predizione del futuro, la stregoneria e la negromanzia, come pratiche abominevoli seguite dalle confinanti popolazioni politeistiche (anche se queste pratiche non furono mai sradicate del tutto dal culto popolare), pur mantenendo aperti alcuni canali privilegiati di comunicazione con Dio. Uno dei mezzi più importanti attraverso cui Dio poteva far conoscere la sua parola agli uomini era la profezia, a patto che a comunicarla al popolo fosse un vero profeta di Dio e non uno falso. Il mezzo principale di comunicazione con la divinità, quantomeno all'epoca dei primi re, era rappresentato dagli urim e i tummim, oggetti di cui non si conosce bene la natura, ma che facevano parte dell'abito del sommo sacerdote, e sono classificabili tra i presagi provocati. Attraverso l'attivazione e l'uso di questi oggetti, che spettava di norma al sommo sacerdote, si contava di ottenere una risposta divina a un quesito, spesso di carattere militare. Sembra certo che gli urim e tummim non facessero parte degli oracoli a estrazione, basati cioè su un sistema binario di risposte positive o negative, dato che spesso la risposta divina comprendeva anche una serie di dettagliate istruzioni.

Una parte essenziale dell'abito del gran sacerdote era l'efod, un indumento simile a una maglia sulla cui parte anteriore era fissato il pettorale del giudizio con le 12 pietre preziose che simboleggiavano le 12 tribù di Israele. Lo scopo dell'efod era appunto quello di sorreggere il pettorale in cui erano posti gli urim e tummim, che erano dunque parte integrante dell'abito del gran sacerdote.

Fisiognomica e oniromanzia

di Claudio Saporetti

Oltre alle previsioni divinatorie basate su fenomeni esterni esistono quelle, meno numerose ma pur sempre cospicue, che si basano sull'elemento umano utilizzato come veicolo di messaggio divino.

Anche queste previsioni sono raccolte, secondo la mania collezionistica a scopo 'culturale' delle popolazioni mesopotamiche, in manuali o 'trattati', composti di più tavolette, con centinaia di casi sempre esposti secondo il semplice sistema dell'ipotesi: una protasi in cui è riportato il fenomeno e un'apodosi che ne rivela la conseguenza. Una gran parte di testi proviene dalla biblioteca ninivita di Assurbanipal (VII sec.). Si può suddividere la mantica in varie categorie: per esempio anche certi casi di malattia o di nascite mostruose hanno dato luogo a previsioni sia di avvenimenti fuori del comune sia sul futuro del singolo o della sua famiglia, con una casistica mai semplice perché esistono eccezioni e mescolamenti di tipologie.

Tav. III

Per quanto riguarda le caratteristiche fisiche di una persona, che potremmo definire comuni e normali, esiste una serie di documenti che costituiscono un trattato di 25 tavolette. L'osservazione dei tratti fisiognomici porta non solo a rivelare il futuro del singolo individuo esaminato, ma in certi casi, che non possiamo più considerare divinatori, anche il suo carattere, o aspetti strettamente personali. Così si stabilisce che un uomo che abbia le unghie lunghe è un taciturno, mentre chi le ha corte è chiassoso, o che l'uomo che porta i capelli arricciati sulle spalle sarà amato dalle donne, ma se i capelli sono rossi vivrà senza avere la mente in pace (Tav. III).

Una variante di queste previsioni è data dal comportamento dell'individuo: non ricordare, non riconoscere una persona o riconoscerla a una determinata distanza erano tutti sistemi per stabilire lo stato di salute di un uomo (per es. "La sua mente è sconvolta") o il suo futuro.

Tav. IV

Al XVIII sec. ca. risalgono importanti testi che riguardano un capitolo particolare della fisiognomica: la posizione dei nei sul corpo umano, con notevole varietà nella casistica e nelle previsioni. Vi è riportato, per esempio, che chi avesse un particolare neo sulla parte bassa della guancia destra, avrebbe visto uno dei suoi figli condurre vita da schiavo, mentre se lo avesse avuto nella parte inferiore del pube sarebbe stato destinato ad avere notevole forza sessuale. Come in altri tipi di presagi, anche qui sembra che la parte destra sia infausta; per esempio un neo nella parte bassa della gamba destra significava lamenti e dolori giorno e notte; cuore gioioso invece se il neo era sulla gamba sinistra. Ugualmente il neo sull'anca destra significava la perdita dei beni a opera di un personaggio importante o del Palazzo; viceversa il possessore di un neo nell'anca sinistra sarebbe stato gratificato dal Palazzo e, di conseguenza, avrebbe avuto beni e gloria (Tav. IV).

Particolarmente importanti sono i sogni. Le letterature sumerica e accadica sono ricche di sogni in cui la divinità appare a un sovrano o anche a un medium (che in genere è una donna), per comandare che si faccia qualcosa, o per predire, o per suggerire la previsione di un fatto attraverso segni che debbano essere interpretati. Per questo esistevano anche degli interpreti professionali.

Anche in questo campo esistevano trattati di oniromanzia. Uno di questi, paleobabilonese del XVIII sec. (è l'epoca del famoso re Hammurabi di Babilonia), può essere considerato quasi un trait d'union tra scienza fisiognomica e oniromanzia: insieme a vere e proprie interpretazioni basate sia su caratteristiche fisiche sia sulla natura di alcuni sogni, elenca una serie di presagi tratti dalla posizione del corpo assunta durante il sonno.

La più vasta casistica di predizioni, sia personali sia allargate alla sfera familiare e pubblica, fondate su sogni, si trova però in un trattato proveniente fondamentalmente dalla biblioteca di Assurbanipal (VII sec.), anche se esistono esempi di composizioni analoghe di altre epoche, fra cui un testo rinvenuto nella città elamita di Susa.

I casi che vi sono attestati vanno da quelli più comuni e magari vicini alle odierne forme di superstizione ("Chi sogna di scendere agli Inferi avrà allungati i suoi giorni") ad altri di varia tipologia fino a quelli decisamente ributtanti. I sogni vi sono divisi per categorie, con numerose casistiche interne: andare da qualche parte o in qualche città, scendere o cadere o innalzarsi verso una meta, mangiare o bere o ricevere o portare qualcosa; ci sono anche i casi di sogni che hanno per oggetto delle divinità che agiscono in vario modo, o movimenti di stelle. Particolare è un testo in cui sono interpretati i sogni del sovrano.

Purtroppo la cattiva condizione delle tavolette spesso non permette di conoscere contemporaneamente protasi e apodosi, cosicché abbiamo la sintetica descrizione del sogno, ma non la previsione, o viceversa.

Nell'interno delle categorie esistono inoltre, anche se non sempre, delle casistiche coerenti. Si vedano per esempio gli ultimi casi in cui si prevede il sogno di mangiare vegetali, e quelli che seguono:

Se [un uomo sogna di] mangiare il seme del pioppo dell'Eufrate, libererà il suo male; se [sogna di] mangiare un pioppo dell'Eufrate, [avrà] un rivale; se [sogna di] mangiare una pianta conosciuta, il suo cuore sarà buono/soddisfatto; se è una pianta sconosciuta, ci sarà un'entrata ‒ Se [sogna di] mangiare bitume, la prigione lo prenderà [e] il suo cuore non sarà buono/soddisfatto; se asfalto, avrà dispiaceri; se nafta: gioia del cuore.

Tav. V

È singolare che esistano anche rituali per rimediare a un sogno sfavorevole (Tav. V).

Per esempio, si può pronunciare una formula magica: "Come la punta del mio piede non può toccare il mio tallone, il sogno che ho avuto questa notte non mi si avvicini e non mi tocchi". La formula deve essere recitata tre volte toccando con i piedi il suolo dalla parte in cui si è scesi. L'operazione deve essere ripetuta poi dall'altro lato.

Uno degli altri sistemi consisteva nel gettare nell'acqua una zolla di terra, pronunciando una formula che, tra l'altro, diceva: "Zolla, nella mia sostanza è mescolata la tua sostanza, in me stesso sei mischiata tu stessa, in te stessa sono mischiato io stesso. Come io ti lancio, zolla, dentro l'acqua e ti sgretolerai, ti disintegrerai e dissolverai, possa il male del sogno che ho fatto durante la notte cadere come te nell'acqua e sgretolarsi, disintegrarsi e dissolversi".

Se il trattato di oniromanzia è accostabile agli altri già visti, basati sulla constatazione di fenomeni spontanei, esiste tuttavia una divinazione provocata anche nel caso dei sogni. Si tratta dell'incubazione, molto nota in epoca tarda, specie nell'Egitto ellenistico, ma già precedentemente in uso nella Mesopotamia. Per esempio, un passo della redazione mediobabilonese dell'epopea di Gilgamesh, in cui il protagonista implora un sogno rivelatore dal dio Sole, sembra far riferimento a un rituale specifico. Il sogno provocato per incubazione, rivelato sia all'interessato sia ai sacerdoti che lo sostituivano, poteva riguardare tanto la previsione del futuro quanto il suggerimento dei sistemi più adatti per guarire da una malattia. Purtroppo non è stato possibile riconoscere finora quali locali templari fossero dedicati a questa pratica.

Non sempre è chiaro dai testi se i sogni riferiti fossero provocati o semplicemente casuali, ma è certo che erano uno dei mezzi più importanti attraverso cui la divinità comunicava con i mortali.

Un personaggio che "giaceva non per dormire, ma per sognare" è il re Sargon di Akkad, vissuto a cavallo tra il XXIII e il XXII sec. ma in seguito mitizzato. Nella sua storia leggendaria si narra che, attraverso un sogno avuto in un tempio, ricevette previsioni e istruzioni dalla dea Ishtar, e che in seguito fu condannato, come punizione per un misfatto, a "non dormire", cioè presumibilmente a non avere più il dono di sogni rivelatori.

Troviamo citazioni di sogni anche in altri contesti della letteratura mitologica. Per esempio, l'eroe del diluvio riceve in sogno, nella versione sumerica (giunta a noi in un testo del XVIII sec.), le istruzioni per sfuggire alla catastrofe. Numerosi sono anche i sogni presenti nell'epopea di Gilgamesh, favorevoli all'eroe ai fini della buona riuscita delle sue imprese, ma sfavorevoli al suo amico Enkidu nell'annunciargli la morte imminente; li troviamo attestati sia nelle redazioni paleobabilonesi del XVIII sec. sia in quella più tarda mediobabilonese, giunta a noi attraverso testi della già citata biblioteca di Assurbanipal. Né va dimenticata la letteratura ugaritica; vi troviamo esempi in composizioni giunte a noi su testi del XIV sec.: nella storia di Keret il protagonista riceve in sogno il suggerimento di scendere in guerra per avere in moglie una fanciulla, mentre in un altro poemetto il dio El capisce da un sogno che il dio Baal, da lui creduto morto, era invece in vita.

Anche nella letteratura storica rimangono molte testimonianze di sogni. Già nella seconda metà del XXV sec. il re sumero Eannatum ha scritto di aver ricevuto in sogno tranquillizzanti notizie, in merito a una imminente battaglia, dal suo dio Ningirsu, mentre nel XXII sec. la stessa divinità inviava sogni al pio Gudea di Lagash per indurlo a costruire un tempio destinato ad avere gloria e fortuna.

Molti esempi sono contenuti nella ricchissima documentazione della città di Mari del XVIII secolo. Al re Zimri-Lim sono state inviate infatti numerose lettere con la descrizione di sogni avuti da servi, donne, specialisti, pieni di esortazioni e di consigli. In epoca successiva appaiono del tutto singolari alcuni sogni del re Assurbanipal. Tra gli altri, il sovrano ninivita ne ricorda uno inviato dal dio Assur non a lui, ma al re Gige di Lidia, con l'esortazione a chiedere l'aiuto dell'Assiria contro l'invasione dei Cimmeri. Altrove Assurbanipal racconta che un interprete specializzato nei sogni aveva ricevuto in sonno un messaggio per lui, inviato direttamente dalla dea Ishtar. Si trattava di una previsione favorevole in merito alla guerra contro il re dell'Elam; una conferma della veridicità della predizione è il famoso rilievo che raffigura Assurbanipal e la moglie sotto la pergola, mentre vicino pende la testa del re elamita.

Ammonizioni, previsioni, comandi sono d'altronde ben attestati anche in altri ambienti mesopotamici (Babilonia) e in altre aree (Hittiti).

Almeno un cenno merita la letteratura sapienziale: nel poemetto cosiddetto del Giusto sofferente il protagonista vede in sogno sacerdoti e sacerdotesse che gli annunciano la guarigione.

Un certo interesse merita l'osservazione sul tipo di correlazione possibile tra protasi e apodosi nell'enorme varietà di casi considerati; non è da escludere che per la fisiognomica e per l'oniromanzia ci fossero dei 'precedenti' considerati indicativi per il ripetersi del fenomeno che si era già verificato. Altre motivazioni dovevano essere comunque alla base delle previsioni: correlazioni basate sugli opposti o, viceversa, su certe somiglianze, o infine, la paronomàsia, usata quasi a indicare una magica corrispondenza fra due termini. Si trovano vari esempi di somiglianza od omonimia delle parole nel citato trattato oniromantico assiro: "Se un uomo sogna di andare nel paese degli Hittiti (Ḫattu), [sarà preso dalla] paura (ḫattu)"; anche in forme più elaborate e complesse: "Se un uomo sogna di ricevere legno-meḫru [=una pinacea], non avrà GABA.RI" (termine sumerico corrispondente all'accadico meḫru, omonimo che significa 'rivale'); oppure: "Se un uomo sogna di andare a Laban, costruirà una casa" (si confronti il verbo labānu, 'far mattoni').

Bibliografia

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