Vikalpa

Dizionario di filosofia (2009)

vikalpa


Termine sanscr. che significa «concettualizzazione», l’operazione intellettuale mediante la quale un dato bruto della percezione sensibile viene appreso in quanto, per es., sostanza dotata di determinati attributi e legato a un universale e al vocabolo che lo esprime. La distinzione fra nir-v. pratyakṣa e sa-v. è probabilmente dovuta a Dignāga (➔ Pramāṇavāda). Nir-v. pratyakṣa indica il primo momento in cui viene appreso un oggetto ed è necessariamente non concettuale. Esso precede perciò qualsiasi giudizio sul contenuto conoscitivo appreso, che non può quindi essere descritto a parole. Secondo la scuola Pramāṇavāda tale nir-v. pratyakṣa non può essere erroneo, giacché l’errore è legato all’errata sovraimposizione di un concetto inappropriato ed è quindi legato al momento seguente, quello del vikalpa. Ancora secondo il Pramāṇavāda, rientrano nel v. casi patenti di errore, ma anche l’inferenza (anumāna), che parte da dati già concettuali (per es., l’universale «fumo» e non il dato bruto di una massa grigia o di un’oppressione nel respirare). Secondo Kumārila, invece, esiste all’interno di pratyakṣa un successivo momento, ancora di natura percettiva, ma già concettuale, detto sa-v. pratyakṣa. Sa-v. pratyakṣa è la porta attraverso la quale un contenuto conoscitivo può entrare nell’universo comunicativo e divenire un elemento di ulteriori operazioni mentali (quali l’inferenza) pur senza perdere la certezza che gli deriva dalla percezione sensibile. Secondo l’esempio di Kumārila, in una giornata di pieno sole, entrando in un ambiente chiuso e poco illuminato, dapprima cogliamo solo forme indistinte (nir-v. pratakṣa), ma subito dopo e all’interno dello stesso atto percettivo distinguiamo tavoli e stuoie (sa-v. pratyakṣa). I sistemi filosofici indiani si dividono circa l’accessibilità del primo momento (nir-v. pratyakṣa), spesso considerato un caso limite, che va necessariamente postulato per poter fondare la validità epistemica di inferenza, ma che in quanto tale non può essere né descritto (perché il linguaggio è necessariamente intriso di v.) né oggetto di un atto conoscitivo autoriflessivo. Secondo però lo śabdādvaita (➔ Vyākaraṇa) di Bhartr̥hari e le scuole che a questo si rifanno (➔ Utpaladeva), il linguaggio è sempre presente, seppure in forma sottile, anche nella percezione sensibile e non esiste quindi alcun nir-v. pratyakṣa.