GAZZOTTO, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GAZZOTTO, Vincenzo

Francesca Castellani

Figlio di Isidoro, di professione oste, nacque a Padova il 10 ag. 1807. Nonostante l'origine modesta e la scarsità di mezzi economici, sin da giovanissimo il G. dovette rivelare doti tali nel disegno da interessare la scelta cerchia di eruditi e conoscitori che a Padova faceva capo al conte Giovanni De Lazara. Grazie a una segnalazione di questo a L. Cicognara, presidente dell'Accademia di belle arti di Venezia, il giovane G. venne accolto il 7 nov. 1821 agli affollatissimi corsi di ornato del celebre decoratore G. Borsato, e ufficialmente iscritto ai corsi per la figura e l'ornato nel 1822 (e non nel 1823 come riferito tradizionalmente).

Stando ai registri, e complice forse l'età acerba, il G., quattordicenne, non sembra eccellere negli studi al pari - ad esempio - del più anziano e dotato M. Grigoletti. Pare quindi improbabile che il G. abbia ottenuto il premio di incoraggiamento per il "disegno ornato" distribuito annualmente dall'Accademia (Pietrucci, p. 127); negli annali a stampa dell'istituzione veneziana, d'altronde, il suo nome non compare mai tra i premiati.

Unica traccia stilistica di questo momento d'esordio è il ritratto a matita del padre Isidoro, conservato al Museo civico di Padova, dove il pittore vergò di proprio pugno l'iscrizione: "Fatto nel 1822 per avere una memoria di suo padre. V. Gazzotto. Ben contento di avere trovato questa memoria 25 aprile 1863".

Stando alle fonti, la permanenza del G. all'Accademia di Venezia si protrasse fino al 1827, data del suo rientro a Padova; nessuna conferma, invece, circa un viaggio d'istruzione a Roma (Fantelli, p. 846), che certamente doveva rientrare nelle ambizioni ma non nelle possibilità economiche dell'artista (Pietrucci, p. 128). Nella città natale il G. doveva comunque trovare stimoli e indicazioni frequentando la scuola del nudo aperta dal pittore bellunese G. De Min, approdato a Padova all'inizio degli anni Venti alla ricerca di committenze più fruttuose rispetto all'ambiente veneziano.

De Min, che aveva maturato il suo lessico neoclassico sotto la guida di A. Canova durante il pensionato a Roma, dominava in quegli anni l'orizzonte artistico padovano con un attivissimo cantiere di decorazione nei più prestigiosi palazzi. Dal maestro bellunese il G. mutuò alcuni termini d'ispirazione letteraria - le quarantanove illustrazioni a penna per l'Orlando furioso pubblicato dal tipografo Antonio Sacchetto nel 1829, forse il primo incarico del pittore, non sono prive di riferimenti ai soggetti ariosteschi trattati da De Min in palazzo Gaudio - ma ricevette anche occasioni di sicura pratica e utili contatti con artisti e committenti.

Legati alla bottega deminiana figurano, tra gli altri, l'architetto G. Jappelli e il pittore P. Paoletti accanto ai quali il G. si trovò a operare nelle sue prove più importanti, al caffè Pedrocchi e nel teatro Verdi di Padova, nonché in quella casa "Manzoni di Cadore" di cui dà notizia Pietrucci (p. 131), da identificare forse nella villa costruita da Jappelli per il mecenate G.A. De Manzoni a Patt di Sedico, che nel 1836-37 vedeva riuniti De Min, Paoletti e il G., autore di un perduto quadro di soggetto medievale.

Non è da escludere che il sodalizio abbia pesato anche nelle altre imprese decorative sicuramente affrontate dal G. entro il 1858: un fregio a chiaroscuro per i conti Cittadella Vigodarzere, suoi principali protettori nonché committenti di Paoletti nel 1842; le Quattro stagioni in casa Beretti, replicate nella torretta del giardino jappelliano di villa Trieste a Vaccarino (1835-42); un soffitto in casa Montalti. Infine, i cinque grandi quadri con Fatti della storia di Padova dipinti nel 1833 a olio su muro per il palazzo dei Salom, altri illustri mecenati di Jappelli: nell'ispirazione medievale dei soggetti (Speronella liberata dai Padovani, o Giacomo da Carrara fatto signore di Padova, ad esempio) il G. sviluppava il classicismo deminiano in un'inflessione purista in cui la critica immediatamente ravvisò un riferimento tutto locale al "fare piuttosto severo" dell'"immortale Mantegna" (Pietrucci, p. 127); un richiamo a quel "gusto dei primitivi" che informava l'ambiente erudito di Padova.

Tale clima trova eco, ancora agli esordi del G., nelle copie dagli affreschi di Tiziano giovane alla Scuola del Santo (1829) e nella partecipazione, con 55 tavole incise, allo straordinario repertorio figurato Il costume di tutte le nazioni e di tutti i tempi, descritto e illustrato con atlante pubblicato da Lodovico Menin tra il 1833 e il 1843 (i disegni sono conservati al Museo civico di Padova). All'esigenza di verosimiglianza nelle ricostruzioni ambientali, in appoggio agli spunti tipicamente narrativi del momento, il G. rispondeva con un'ispirazione tratta dai modelli della pittura antica: dagli affreschi giotteschi di Giusto de' Menabuoi e di Altichiero, fino alle copie dirette da Guariento e Gentile Bellini. Tornata in auge non soltanto nella pratica accademica, ma anche per assecondare spirito ed esigenze della recente ondata di studi storico-artistici, la copia era un'attività in cui il pittore evidentemente si riconosceva e per la quale venne più volte utilizzato, in questa fase, dai committenti. Una corrispondenza tra il suo primo protettore, G. De Lazara, e il conte vicentino L. Trissino, anch'egli esponente della cultura artistica in Veneto e a sua volta intimo di Cicognara, Canova e Leopardi, testimonia il "bravissimo Gazzotto" impegnato tra il 1831 e il 1832 in una replica dal ritratto di Valerio Vicentino nella prima edizione delle Vite del Vasari, che evidentemente coinvolgeva gli interessi eruditi di entrambi.

Qualche anno dopo, nel 1841, il G. venne interpellato da un altro letterato e conoscitore padovano, l'abate A. Meneghelli, per fornire un disegno da Tiziano da inserire nella Storia della pittura italiana che il pisano G. Rosini andava pubblicando a dispense (Padova, Biblioteca civica, f. 2350, n. IX). Non sappiamo esattamente di quale dipinto di Tiziano si trattasse - probabilmente ancora un dettaglio dalla Scuola del Santo - ma resta significativo il coinvolgimento del G. in un ambiente che annoverava le più avvertite personalità del momento e che doveva ravvisare nell'artista un'adeguata sensibilità nei confronti dell'antico. Complice forse la disputa con P. Selvatico, il volume di Rosini non sembra aver avuto corso, ma i rapporti con il pittore si erano comunque deteriorati dato che in ben due anni il "novello Cellini" - così l'apostrofa lo studioso - non aveva ancora portato a termine il suo incarico (ibid., n. X).

Emerge qui un tratto caratteriale tipico dell'artista: la scarsa assiduità nel lavoro, interpretata dagli ammiratori come eccesso di riflessione ma dai detrattori come semplice incostanza. Valga per tutti il giudizio lapidario di C. Boito, nel veloce panorama della coeva pittura veneziana: "il Gazzotto di Padova, al quale una indolenza invincibile ha sempre conteso la fama". Una lentezza che ne spiega la produzione esigua, talvolta nemmeno portata a compimento, e che gli è valsa in più di un caso la pubblica protesta: come quando, in un articolo di giornale del 1851, i cittadini lamentano i troppi "lavori da lui molto felicemente incominciati e poi sospesi", a partire dalle citate copie da Tiziano al Santo fino alle nuove copie dagli affreschi di Mantegna agli Eremitani, già molto deteriorati, di cui il pittore era stato incaricato dal Comune nel 1840 (oggi al Museo civico di Padova; Corrispondenze…, 1851). Se a questa tendenza si unisce una certa asprezza e irascibilità del temperamento, si comprende perché nonostante la protezione di personalità illustri il G. non abbia fatto fortuna. Persino il suo più attento mecenate, Andrea Cittadella Vigordarzere, ne tracciava un profilo saporito: "Pensatore e distratto; passionato e indifferente; attivo e sfaccendato; intollerante e accurato; verboso e mutolo; schietto e chiuso; scherzoso e serio; carezzevole e disdegnoso; modesto e conscio di valere; ecco indoli opposte in lui unificate" (1856, pp. 3 s.). È un ritratto che coincide con le poche immagini rimasteci: una foto con l'abito disegnato da sé, una "Improvvisazione a penna" - come amava definire le proprie grafiche - nel ruolo di spettatore scettico di una disputa, entrambe conservate alla Biblioteca civica di Padova.

Un aneddoto lo vede abbandonare sdegnato gli ospiti di cinque lunghi anni, i Marchiori di Lendinara, e le decorazioni dantesche iniziate nel 1851 nel palazzo di famiglia per il consenso negato al suo matrimonio con la figlia Teresa (Somigliana Zuccolo, p. 234); altri lo vogliono effigiare risentito con i propri concittadini in sapide caricature, tra cui il celebre trio degli Artefici del Pedrocchi (G. Jappelli, B. Franceschini e A. Pedrocchi; in due versioni, Padova, Museo civico). Certo lo spirito e l'agilità della penna hanno fatto del G. un notevole caricaturista, "così finemente arguto, da far ridere col segno quanto i lodatissimi abbozzatori francesi" (Cittadella Vigodarzere, 1856, p. 4); un umorismo sovente speso al servizio della riproduzione litografica più corrente, come nella serie "di costume" stampata dalla tipografia Prosperini intorno al 1840 o nella Visita all'ammalata per conto della Casa di riposo nel 1843 (tutte a Padova, Biblioteca civica).

L'abilità nella resa dei caratteri ha trovato naturalmente esito anche nell'attività ritrattistica, praticata dal G. sin dalla metà degli anni Trenta (Ritratto di A.C. de Galateo, Ritratto di G.A. Giacomini, Ritratto di L. Mabil, 1835, Padova, Biblioteca civica; Ritratto di G.B. Belzoni, 1866, Padova, Museo civico) nonostante la censura della critica verso un genere considerato "non proprio di un artista" di alto calibro (Corrispondenze…, 1851).

Pressato dai problemi economici, nel 1837 il G. aprì una scuola di disegno che nonostante la destinazione prevalentemente artigianale (Pietrucci, p. 128) tenne a battesimo un'intera generazione di artisti, da L. Naccari a L. Toniolo, da A. Astolfi a G. Manzoni, da A. Caratti a L. Papafava, tutti particolarmente versatili nel campo del ritratto.

Nella pratica d'insegnamento il maestro non doveva scostarsi troppo dai precetti appresi in Accademia: esercizi prospettici, chiaroscuro, nozioni di storia, geografia e letteratura per indirizzare correttamente l'invenzione, questi almeno i principî che emergono da una lettera aperta a D. Martelli pubblicata sulle pagine del Gazzettino delle arti del disegno, e a cui Martelli rispose rinnovando la propria fede naturalistica (23 febbr. 1867).

Nonostante l'attività didattica intrapresa, il G. restava perseguitato dai debiti. Le richieste di prestito si susseguirono negli anni: nel 1842 ma anche nel 1870, quando era ormai ospite fisso nella tenuta dei Cittadella Vigodarzere, a Bolzanella. In una lettera a G. Galter del settembre 1842 il pittore motivava le proprie difficoltà in un dissidio con A. Pedrocchi, proprietario dell'omonimo caffè.

"Per le mie condizioni pittoriche, sarei costretto a domandare a questo mostro d'ambizione, parte del compenso ch'egli mi deve per l'opera che stò (sic) facendo nella dorata gabbia, o stalla come vuoi, ch'egli abita; la posso pretendere pel già fatto, potrei domandare anche un'anticipazione… ma essendo lui un mostro anche d'inurbanità, di stupidità, d'idiotismo, pensa a qual gozzo mi deve venire all'approssimarmi a lui" (Puppi, p. 66).

L'opera in questione è l'affresco con Il trionfo della Civiltà che, nella "dorata gabbia" concepita da Jappelli come un florilegio di stili, occupa il soffitto della sala rinascimentale accanto ai lavori del vecchio maestro De Min e di Paoletti, rispettivamente impegnati nelle sale greca ed ercolana. Commissionatogli nel 1841, durante la seconda campagna di lavori che interessavano il piano superiore del caffè, il Trionfo va annoverato tra gli "incompiuti" del G. proprio a causa degli alterchi che, con Pedrocchi, investivano gli altri artefici dell'impresa, Jappelli e Franceschini. Così le descrizioni all'indomani dell'inaugurazione del locale, nel settembre del 1842, non poterono che elogiare il "raro magistero di composizione" della pittura, "la quale come ognun vede è in semplice sbozzo" (Falconetti, p. 38).

La vicenda non impedì al pittore di ottenere intorno al 1846 un'altra prestigiosa commissione legata a un cantiere di Jappelli: il sipario per il teatro Nuovo (ora Verdi) di Padova, andato perduto in un incendio nel 1947 e conosciuto tramite fotografie e attraverso un grande bozzetto conservato al Museo civico (Somigliana Zuccolo ne ricordava ancora una seconda versione "a chiaro-scuro di piccole dimensioni", p. 226). Oltre a Jappelli, il G. ritrovava impegnato al teatro ancora Paoletti, autore del soffitto con La danza delle Ore (la tradizione vuole i due compagni effigiati nel dipinto: Caffi, p. 21).

L'ampia composizione del sipario, che comprendeva "400 figure", non vide comunque termine che nel 1856 "dopo lunga serie di fatiche e di vicende", tra cui un apposito viaggio d'istruzione "per le principali città d'Italia per studiare il metodo migliore nell'esecuzione di tali lavori" (Corrispondenze…, 1851). Il soggetto - La festa dei fiori, detta anche "Il Castello d'Amore" - riprendeva una leggenda locale su cui il G. si era già esercitato in casa Salom: la vicenda di Speronella, rapita dal tiranno Pagano e liberata dall'intera cittadinanza, preludio ai patti di Pontida.

Orgoglio municipalistico e patriottismo antiaustriaco trovavano nelle descrizioni coeve pronti agganci alle ormai consuete citazioni dalle "glorie" pittoriche locali: Giotto e i giotteschi, Squarcione, Mantegna. Padova tornava a riconoscersi nel talento del suo refrattario pittore, e una Soscrizione pubblica per acquistare il modello del sipario da regalarsi alla Civica Pinacoteca venne aperta nel 1856 con apposita società per azioni, sotto gli auspici del Cittadella Vigodarzere e di molti notabili, anche se tra le righe si avverte la necessità di sottoporre a controllo l'artista, "forse un po' troppo penetrato dall'adagio "chi fa fretta, ha disdetta"" (Fanzago, 1855).

Tra il 1852 e il 1861 si scalano i tre disegni a penna (Padova, Museo civico e collezione privata) eseguiti per Antonio Sacchetto su soggetto dantesco, già praticato dal G. in villa Marchiori a Lendinara, sulla scia di un interesse che ancora una volta coinvolgeva la memoria tutta municipale di un Alighieri esule a Padova. Nel 1854 (Fanzago, 1855) erano ultimati Inferno e Purgatorio mentre una seconda versione delle due cantiche venne esposta insieme al Paradiso all'Esposizione nazionale di Firenze del 1861, ottenendovi una medaglia.

L'ispirazione - ambiziosa nel cercare il confronto col più rappresentativo poeta della neonata nazione come nella scelta di rendere la complessità di ogni cantica non in un singolo momento narrativo ma cercandone "lo spirito, l'essenza, il carattere", ebbe a scrivere P. Selvatico (1863, p. 56) - trova esito in composizioni di ampio formato affollate di immagini, dense di invenzioni, nel chiaroscuro infittito da un segno sorprendente per la minuzia davvero "primitiva", non senza suggestioni dalla tradizione tedesca e da A. Dürer.

La critica si mostrò pressoché unanime nell'ammirazione per la perizia tecnica, dosata con uno strumento che non concede ripensamenti, ma anche nello sconcerto per la libertà di certe "licenze" prospettiche e la crudezza di molte forzature anatomiche e fisionomiche, rasentanti il grottesco, dove qualcuno scorse echi della "cagnara" degli avventori del Pedrocchi (Varietà…, 1865); il successo all'Esposizione di Firenze valse comunque all'artista una fama più allargata, e nel 1865 i tre disegni fecero parlare ancora di sé alla mostra Permanente di Venezia.

Da questo momento, tuttavia, le notizie sul G. si fanno sempre più esigue. Non partecipò alla grande Esposizione che a Padova, nel 1869, celebrò l'Unità d'Italia, e dove tutti i suoi allievi ottennero un consistente successo; né c'è traccia del suo nome tra gli artisti nelle varie guide o Indicatori cittadini. In effetti, a partire dal 1868 il G. si era trasferito a Bolzanella, nella residenza dei suoi protettori Cittadella Vigodarzere, probabilmente per alleviare i disagi economici e la solitudine. Da una lettera al senatore Alberto Cavalletto, datata 1879, emerge il dolore di una vedovanza di cui non si è trovato altro riscontro, e una certa insofferenza per l'isolamento in qualche modo patito suo malgrado "dall'esser confinato in una campagna ove le corrispondenze si fanno come si fanno" (Padova, Biblioteca civica, f. 2027, n. II). I suoi ospiti peraltro si prodigavano nel dargli occupazione: un'apposita casetta fu costruita accanto alla cappella mortuaria della villa, dove il G. per ben sedici anni si applicò a un affresco con I tre angeli della Resurrezione (Fede, Speranza, Carità) dove, tra i risorti, collocò il ritratto del suo antico mecenate Andrea Cittadella Vigodarzere (Somigliana Zuccolo, p. 235).

Con il conte Andrea aveva condiviso anche la passione dantesca, dedicandogli un ritratto a penna dell'Alighieri fors'anche in risposta all'entusiastica perorazione dei tre disegni esposti a Firenze che il letterato aveva apposto a sigillo del suo Dante e Padova, paragonandolo al Doré, al Flaxman e al Pinelli.

Gli interessi del pittore sembravano però spostarsi su inediti temi religiosi: la Somigliana Zuccolo (p. 236) ascrive a quest'ultimo periodo le pale d'altare con La carità di s. Martino per la parrocchiale di Saonara e il S. Michele per la chiesa di Montemerlo.

Il G. morì a Bolzanella il 30 genn. 1884.

L'epitaffio dettato da A. Sacchetti ne celebrava le maggiori imprese, senza dimenticare lacune e difficoltà del suo talento: "Ad attingere un eccelso ideale / se coll'assiduo esercizio avesse invigorite addestrate / le ali del grande ingegno / Vincenzo Gazzotto / del secolo nostro starebbe / fra i massimi pittori".

Fonti e Bibl.: Venezia, Arch. dell'Accademia di belle arti, Matricola degli alunni inscritti dall'a.a. 1807 al 1822-23, n. 35; Ruolo degli alunni iscritti, Scuola di ornato, 1821-22, n. 96; 1822-23, n. 124; Lendinara, Archivio storico, Fondo De Lazara, A 54, X, f. 2, nn. 162 s. (lettere di L. Trissino a G. De Lazara, 25 ott. 1831; 16 e 23 apr. 1832); Padova, Biblioteca civica, Raccolta manoscritti autografi, f. 646, nn. I-III (lettere del G. ad A. Maistrello, Padova 2 luglio 1842; a G. Galter, 5 sett. 1842; ad A. Palesa, Bolzanella 12 luglio 1870); f. 2350, nn. IX-X (lettere di G. Rosini ad A. Meneghelli, Pisa 25 sett. 1843; 3 dic. 1844); f. 2027, nn. I-II (lettere del G. ad A. Meneghelli, Padova 5 dic. 1843; ad A. Cavalletto, con nota ms. di A. Cavalletto: Bolzanella 8 dic. 1879); Ibid., BP 29-1009, Soscrizione per l'acquisto del quadro modello del signor V. G. rappresentante la Festa dei fiori da regalarsi alla Civica Pinacoteca, s.d. (ma 1856); A. Falconetti, Il caffè Pedrocchi. Dagherrotipo artistico-descrittivo, Padova 1842, pp. 35-38; Corrispondenze dalle provincie, in Il Progresso. Giornale umoristico e letterario, 19 marzo 1851, nn. 19 s.; F. Fanzago, Ricordi storici di Padova. Dagherrotipo di Padova nel 1854, Padova 1855, p. LXIII; Id., Fotografia di Padova nel 1855, Padova 1856, pp. 76 s.; E. Caffi, Il sipario del Nuovo teatro di Padova dipinto da V. G., Padova 1856; A. Cittadella Vigodarzere, V. G. e il sipario del teatro Nuovo di Padova da lui dipinto, Padova 1856; F. Fanzago, Fotografia di Padova nel 1856, Padova 1857, pp. 35 s.; N. Pietrucci, Biografia degli artisti padovani, Padova 1858, pp. 127-132; C. Ferrigni, Viaggio attraverso l'Esposizione italiana del 1861, Firenze 1861, pp. 100 s.; Quanto fu detto dei tre disegni o tocchi a penna del celebre artista V. G. di Padova premiati con medaglia all'Esposizione italiana del 1861, Padova 1863, pp. 4-16; P. Selvatico, Arte ed artisti. Studi e racconti, Padova 1863, p. 56; Varietà. Esposizione permanente di belle arti, in Il Tempo, 28 luglio 1865; A. Cittadella Vigodarzere, Di tre disegni a penna di V. G. e di altri rinomati illustratori della Divina Commedia, in Dante e Padova, Padova 1865, pp. 371-385; P. Selvatico, Guida di Padova…, Padova 1869, pp. 228, 347; C. Boito, Scultura e pittura d'oggi, Torino 1877, p. 114; A. Sacchetti, Epigrafe in morte di V. G., Padova 1884; B. Brunelli, I teatri di Padova, Padova 1921, pp. 427-434; A. Somigliana Zuccolo, V. G. e la sua scuola, in Boll. del Museo civico di Padova, XXI (1928), pp. 220-237; B. Brunelli, Vita fastosa di Padova nel prezioso sipario del Verdi, in Gazzetta veneta, 18 dic. 1947; G. Toffanin, Piccolo schedario padovano, Padova 1967, p. 54; G. Pavanello, La decorazione neoclassica a Padova, in Antologia di belle arti, IV (1980), 13-14, pp. 62, 73; L. Puppi, Il caffé Pedrocchi di Padova, Vicenza 1980, pp. 65-67, 79 s.; M.L. Frongia, Le opere pittoriche delle sale superiori del caffè Pedrocchi, in Jappelli e il suo tempo, a cura di B. Mazza, Padova 1982, pp. 599-616; R. Maschio, Immagini, ricordi, rovine. Iconografia dei protagonisti, in Il caffè Pedrocchi in Padova. Un luogo per la società civile, a cura di B. Mazza, Padova 1984, pp. 63-78; G. Pavanello, L'"ornatissimo" Pedrocchi, ibid., pp. 94, 104; P.L. Fantelli, in La pittura in Italia. L'Ottocento, Milano 1990, I-II, ad ind. e pp. 846 s.; Le pitture murali. L'edilizia civile a Lendinara e Badia Polesine (catal.), Venezia 1999, p. 68-73; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, p. 308; Diz. encicl. Bolaffi dei pittori… italiani, V, p. 312.

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