GIUSTINIANI, Vincenzo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GIUSTINIANI, Vincenzo

Simona Feci
Luca Bortolotti
Franco Bruni

, Nacque il 13 sett. 1564 nell'isola egea di Chio, territorio della Repubblica di Genova, da Giuseppe di Benedetto del ramo de Nigro e Girolama Giustiniani del ramo Recanelli, ultimogenito dopo Benedetto, di dieci anni maggiore, e tre sorelle.

Nel 1566 Chio - su cui le famiglie consorziate sotto il comune nome Giustiniani esercitavano una sorta di governo derivante dal regime di monopolio del commercio di mastice e allume (la Maona) - fu conquistata dai Turchi. Nel giro di pochi anni il G. poté raggiungere a Roma il padre e il fratello maggiore, che all'inizio del 1569 avevano anticipato il trasferimento della famiglia. A Roma i Giustiniani contavano appoggi importanti e illustri come Vincenzo, zio materno del G., generale dei domenicani e, dal 1570, cardinale.

Sfruttando i legami con il mondo curiale e con la finanza genovese operante sulla piazza, in breve il padre del G. si distinse come uno dei principali banchieri. Nel 1572 fu in grado di versare alla Camera apostolica circa 60.000 scudi per l'affitto delle entrate del Patrimonio (la Tesoreria, la "salara", la dogana del pascolo e le tasse sui cavalli morti), che prese in sostituzione dei mercanti fiorentini Bandini e che detenne per i due successivi decenni. Durante il pontificato di Sisto V, con la crescita della domanda di credito e di moneta della Camera apostolica, le attività di Giuseppe Giustiniani divennero sempre più complesse e importanti. A fianco del depositario generale, il genovese Giovanni Agostino Pinelli, e del depositario della Dataria, il portoghese J. Lopez, il padre del G. convogliò la maggior parte degli investimenti nel debito pubblico. Nel 1586 acquistò insieme con Pinelli, per un capitale di 200.000 scudi d'oro, il Monte della pace e l'anno seguente aggiunse quasi 200.000 scudi a quello delle province; tra il 1588 e il 1590 partecipò con gli altri due banchieri al finanziamento dei Monti S. Bonaventura, Ripa, Cancelleria e Baroni.

Giuseppe Giustiniani provvide con accortezza al prestigio della famiglia: per Benedetto, il primogenito che aveva abbracciato la vita ecclesiastica e la carriera in Curia, acquistò nel 1585 una delle principali cariche finanziarie, il tesorierato della Camera apostolica, pagato 50.000 scudi. Dieci anni dopo, il 12 giugno 1595, acquisì da F. Anguillara il castello e il feudo, senza titolo, di Bassano di Sutri (oggi Bassano Romano) per il G., destinato alla vita civile e a seguire le orme paterne. Della sua educazione, che ebbe luogo a Roma, è noto solo che per volontà del padre incluse la formazione musicale.

Nel marzo del 1586 il G. fu provvisto del cavalierato di S. Paolo, ufficio vacabile istituito da Sisto V, e prima del 1590 sposò Eugenia Spinola, figlia del marchese Giovan Battista e di Porzia Centurione. Dalla moglie ricevette una dote di 22.000 scudi ed ebbe tre figli, Girolamo (di cui sarebbe stato padrino di battesimo il cardinale Alessandro Peretti, il cardinal Montalto, protettore del fratello Benedetto), Girolama e Porzia, che morirono in età infantile.

Il G. affiancò il padre negli affari per lo meno dal 1593. Durante la carestia dell'inverno 1592-93, infatti, i due importarono insieme, per conto del papa, 18.000 salme di grano siciliano.

In questo commercio i Giustiniani soppiantarono i mercanti fiorentini e mantennero, per il ventennio a cavallo del secolo, il monopolio. È, tuttavia, soprattutto Giuseppe a comparire quale intestatario delle operazioni finanziarie successive: ad esempio, la sottoscrizione, sempre nel 1593, di 125.000 scudi d'oro del Monte secondo annona di Bologna, che da questo momento assunse il nome dei Giustiniani. Nell'ottobre dello stesso anno, invece, il G. comprò un ufficio vacabile di segretario apostolico. Nel dicembre del 1594 Giuseppe Giustiniani appaltò, in sostituzione di Giovanni Battista Ubertini, la depositeria generale, l'ufficio che svolgeva la funzione di cassa dello Stato. Il ruolo di depositario generale della Camera apostolica - che i Giustiniani esercitarono per oltre dieci anni - comportò il controllo su tutta la finanza pontificia e la possibilità di commerciare in posizione di monopolio. Tuttavia, come gli altri genovesi attivi sulla piazza romana, essi operarono piuttosto come banchieri speculatori che come mercanti. Anche durante il pontificato di Clemente VIII, infatti, Giuseppe proseguì gli investimenti nel debito pubblico: nel 1594 comprò con gli Ubertini il Monte della fede; nel 1595, da solo o insieme con i Pinelli, acquistò i Monti d'Ungheria, di S. Giovanni, della carne e dell'annona, impegnando in queste operazioni oltre 800.000 scudi. Quest'ultimo impegno finanziario coincise, comunque, con un momento di crisi per il banco, perché Giuseppe si era esposto come intermediario nell'acquisto dello "stato" di Monte San Giovanni e della Terra di Strangolagalli, voluto dalla Camera apostolica per spezzare il legame tra i signori locali, i conti d'Aquino, e il banditismo che travagliava la Campagna. Solo l'intervento di Benedetto salvò il genitore e il G. dal fallimento. Negli ultimissimi anni del secolo, i Giustiniani prestarono gratuitamente 200.000 scudi d'oro a Clemente VIII per continuare la campagna ungherese contro i Turchi e anticiparono, insieme con il banco Doni, 400.000 scudi per finanziare le operazioni militari connesse al recupero di Ferrara.

Nel 1596-97, quando era tesoriere della Camera apostolica Tiberio Cerasi, il G. era depositario generale, anche se in seguito risulta ancora agire a fianco del genitore, ad esempio nei conti della Camera apostolica per i lavori eseguiti a S. Giovanni in Laterano tra il 1599 e il 1600. Padre e figlio, inoltre, operarono alcune transazioni finanziarie in Spagna per il cardinal nipote Pietro Aldobrandini; pagarono nel 1597 i legati del cardinale Francisco de Toledo, di cui Benedetto Giustiniani e l'Aldobrandini erano gli esecutori testamentari, e compirono gli investimenti necessari ad adempiere le volontà del defunto; prestarono somme cospicue anche a L. Ludovisi e agirono come banchieri di alcuni nunzi, come Ottavio Mirto Frangipane, impegnato nelle Fiandre.

Nel gennaio 1600 Giuseppe Giustiniani morì e lasciò un patrimonio che gli Avvisi stimarono pari a mezzo milione di scudi, di cui 300.000 in crediti, un terzo dei quali dovuti dalla Camera apostolica. Per restituire al banco 85.000 scudi, spesi nell'acquisto di grano per assicurare a Roma il necessario fabbisogno in occasione del giubileo, Clemente VIII istituì il Monte dell'abbondanza.

Nel testamento, aperto il 10 gennaio, Giuseppe assegnava ai figli maschi tutti i beni pro indiviso: aveva bilanciato il donativo a favore di Benedetto (in cui comprendeva l'acquisto del tesorierato e altri eventuali debiti), con un legato al G. di 305.000 scudi, la cessione dell'ufficio "Cancelleria e notariato delle Dogane del Patrimonio", ottenuto in appalto da Sisto V nel 1590, e il lascito di due vacabili, il cavalierato di S. Pietro e il cavalierato lauretano. Aveva, tuttavia, fatto divieto al figlio di rivalersi sugli altri eredi per i profitti acquisiti dalla comune attività del banco, "per che veramente lui non ha havuto salvo il nudo nome, et tutti li guadagni […] sono stati fatti per la gratia d'Iddio et miei sudori et travagli" (Arch. di Stato di Roma, Notai del Tribunale della Camera apostolica, vol. 687, c. 41).

La morte del padre segnò uno spartiacque nella vita del G. che, malgrado quasi un decennio di partecipazione agli affari, sentì il peso del nuovo ruolo di protagonista. Egli stesso mise in luce questi sentimenti scrivendo a proposito della sua passione per la caccia: in questo doloroso frangente "fui costretto a lasciarla e attendere ai negozi importantissimi dipendenti dalla depositeria generale esercitata in casa nostra fino che visse papa Clemente VIII, nella quale stava impiegata la maggior parte della nostra azienda, e anco per altri affari attinenti alla nostra casa, nelli quali mi convenne usare industria e diligenza straordinaria" (Discorsi sulle arti e sui mestieri, p. 82). In effetti, nel 1600 e nel 1603, il G. fu depositario generale e in quel triennio detenne anche la depositeria dell'Abbondanza, in sostituzione di Pinelli. Nel 1602, e di nuovo nel 1604, s'impegnò per la tratta del grano siciliano, di cui importò altissime percentuali del fabbisogno cittadino, pari a 15.000 salme e a quasi 11.000 nel 1605, anno in cui, inoltre, il G. risulta essere responsabile del traffico portuale di Civitavecchia. Nel novembre 1603 dette la Cancelleria della dogana del Patrimonio in affitto temporaneo a Francesco Guicciardini.

Il 29 luglio 1604 Clemente VIII nominò il G. signore di Bassano di Sutri, il feudo acquistato per lui dal padre quasi dieci anni prima e, a ricompensa dei servigi offerti "nostro exausto ærario", gli concedette numerosi benefici. Il 22 nov. 1605 Paolo V elevò il feudo a marchesato e i successivi pontefici confermarono privilegi ed esenzioni fiscali: Gregorio XV nel 1621 e Urbano VIII nel 1629, a seguito di un prestito a titolo gratuito di 50.000 scudi d'oro concesso dal G. tra l'ottobre di quell'anno e il dicembre 1630 per fronteggiare l'eventualità di una guerra. La condizione di nobiltà e il mutamento di pontificato influirono sensibilmente sull'impegno del G. nel banco di famiglia. L'attività finanziaria s'improntò più al mantenimento degli investimenti operati dal padre negli ultimi decenni del secolo precedente che al loro accrescimento e, al contempo, si ridimensionò la visibilità del G. tra gli operatori romani. Nel 1604 divenne depositario generale Alessandro Ruspoli, affiancato nel 1606 da R. Primi.

Il nome dei Giustiniani scompare anche dal novero dei principali banchieri che, durante la prima metà del Seicento, investirono nei Monti. Il fenomeno aveva alcuni connotati generali, a causa del calo degli interessi e dei margini di profitto. In ogni caso, l'attività del banco proseguì a pieno regime, e annoverò tra i clienti molti illustri personaggi quali il re di Francia, che nel giugno 1600 versò, attraverso il G. e il congiunto A. Giustiniani, 2500 scudi d'oro al gran maestro dell'Ordine di Malta, il nunzio Innocenzo Del Bufalo, F. Bentivoglio o Tiberio Cerasi.

Dall'inizio del secolo il G. si collegò al banco Magalotti: nel 1619 i due, insieme con Marcello Sacchetti e G. Altoviti, si costituirono creditori del fallimento dei banchieri Herrera e Ottavio Costa, sotto il patrocinio del granduca di Toscana. Nel testamento il G. ricorderà inoltre di aver prestato al papa Urbano VIII, oltre ai 50.000 scudi già menzionati, 1000 luoghi di Monte.

Questo più rarefatto e indiretto esercizio dell'attività finanziaria appare coerente con la concezione che il G. aveva del mercante-banchiere. In uno scritto inedito egli dichiara di approvare solo la mercatura professata "con decoro; voglio dire, se l'huomo nobile non tralascierà per questa l'arti liberali; ma la farà esercitare per mano de suoi agenti […] havendo sempre l'occhio non meno al benefizio publico, che al suo utile privato" (Rolfi, "Della scoltura"…, p. IX n. 66).

In effetti, il G. interpretò sapientemente questo ritratto ideale, dando mostra di raro ingegno, profonda cultura e grande sensibilità per ogni forma d'arte. D'altronde, la collocazione della famiglia ai massimi livelli della finanza romana, la dignità cardinalizia dello zio Vincenzo, del fratello Benedetto e di alcuni congiunti acquisiti (Bandini, Spinola), lo stesso titolo nobiliare gli imponevano di adottare un tenore di vita adeguato. Fu tra i primi protettori del poeta Giovan Battista Marino, insieme con la famiglia Crescenzi; introdusse nelle riunioni mondane, in sostituzione dei giochi di carte, gli intrattenimenti musicali eseguiti "senza concorso di persone mercennarie, tra gentilhuomini diversi" (Discorso sopra la musica…, p. 12); raccolse intorno a sé in famose conversazioni, sovente presso la residenza di Bassano, "una congrega di cavalieri e uomini di ogni professione che non era tale in Europa", tra i quali Theodor Amayden (p. 455) menziona il cardinale Paolo Emilio Zacchia, Orazio Carpegna, Camillo Massimo, il giureconsulto Marzio Milesi, il lettore all'Università di Pisa Gaudenzio Paganino, con cui intorno al 1621 intratteneva una fitta corrispondenza.

Il patrimonio artistico messo insieme dal G. restò non solo l'eredità più preziosa ma anche il segno più marcato della sua esistenza e della sua personalità. In un primo testamento, in mancanza di figli superstiti, egli aveva nominato erede il fratello cardinale, che tuttavia gli premorì nel 1621. In seguito legò tutti i suoi beni - il cui valore gli Avvisi stimarono pari a 800.000 scudi, ma che egli giudicava decuplicato rispetto a quanto il padre aveva lasciato -, e istituì un fedecommesso, il 22 genn. 1631, intestato al congiunto A. Giustiniani, figlio di Cassano del ramo siciliano Banca, da lui adottato, che in seguito avrebbe sposato Maria Pamphili, nipote di Innocenzo X.

In questo atto, le opere d'arte furono vincolate in modo severo, "perché l'intentione mia" - spiegava il G. - "è che[…] restino per mia memoria" (Gallottini, Le sculture della collezione Giustiniani, p. 40). Viceversa le gioie e gli argenti potevano essere alienati per le spese necessarie. Il documento, rivolto agli eredi e ai loro discendenti che avrebbero dovuto leggerlo una volta l'anno, è anche una memoria per indirizzare la vita futura della famiglia: il G., infatti, vi celebrava il padre e ammoniva il successore, "per mantenersi nello stato nel quale io lo lascio, senza deteriorar di conditione, e di facoltà, [a] far risolutione di vivere e trattarsi con decoro honesto, e conveniente, et alla giusta proportione delle sue annue entrate, […] imperò che se attenderà a vivere, e spendere trascuratamente, assecondando li suoi appetiti, e pensieri disordinati, sarà e saranno sempre in necessità di far debiti, e disordinarsi, con […] finalmente à restar senza niente, in vilipendio di tutti come à tempi nostri se ne sono veduti esempij notabili" (ibid., pp. 51 s.).

Il G. morì a Roma il 27 dic. 1637 e fu sepolto, così come aveva disposto nel testamento, nella cappella di famiglia di S. Vincenzo in S. Maria sopra Minerva, nel medesimo sepolcro del padre.

L'imponente attività collezionistica del G., con il ruolo di primo piano nel mercato artistico romano che questa gli assicurò, si combinò indissolubilmente con la sua attitudine mecenatistica e con una vivissima passione antiquaria. Da tale intreccio scaturì, da un lato, l'impresa catalogica e autocelebrativa della Galleria Giustiniana, un'ampia sintesi della sua raccolta di pezzi antichi racchiusa in due volumi di incisioni, che costituì un inestimabile repertorio di soggetti e forme classiche a uso di artisti e amatori; dall'altro, quell'impegno di qualificazione teorica che trovò compimento nei vari scritti sulle arti composti dal Giustiniani. Questi testi, pur nella loro brevità, e senza poter vantare né un vero rigore sistematico né una particolare coerenza nell'argomentazione, si rivelano nondimeno preziosi strumenti per la messa a fuoco del gusto e delle teorie artistiche di primo Seicento, rappresentandone adeguatamente limiti e pregi. Le posizioni del G. come teorico delle arti figurative furono espresse in tre scritti in forma di lettera, tutti indirizzati al medesimo destinatario, l'avvocato olandese Theodor (o Dirck) Amayden. Si tratta del Discorso sopra la pittura, del Discorso sopra la scultura e del Discorso sopra l'architettura (o Istruzione necessaria per fabbricare), pubblicati, a cura di A. Banti, con il titolo Discorsi sulle arti e sui mestieri (Firenze 1981).

Dal primo di questi tre saggi emerge, innanzitutto, un G. esperto conoscitore, perfettamente aggiornato sulle tendenze più moderne e motivato a intervenire sui temi più attuali del dibattito artistico. Egli distingue con occhio sicuro i protagonisti della scena romana, riconoscendone i tratti salienti e collocandoli adeguatamente sotto il profilo dello stile e del linguaggio pittorico. Grazie ad alcune indicazioni ricavabili dal testo, si può stabilire con una certa approssimazione la datazione dello scritto: vi si trova, infatti, un riferimento a un Gherardo pittore fiammingo, che con ogni probabilità è da identificare con Gerrit van Honthorst, il cui arrivo a Roma, seppure non databile con sicurezza, deve essere comunque collocato successivamente al 1610. Recentemente è stato messo in rilievo un probabile terminus ante quem per la redazione dello scritto, stabilendolo nel 1618, anno che segna l'inizio della guerra dei Trent'anni. Nel testo del G., infatti, si invoca la benevolenza del "Signore Iddio" affinché conservi "quella pace che da tutti continuamente si deve desiderare" (p. 45).

Il Discorso sulla pittura costituisce uno stringato ma denso saggetto, in cui viene presentata una minuziosa classificazione gerarchica della pittura. Questa risulta suddivisa in dodici tipi, secondo un ordine crescente di importanza, qualità e impegno tecnico. Per quanto dettagliata, l'organizzazione tassonomica proposta, essendo ispirata al massimo pragmatismo, si traduce in una certa ambiguità dal punto di vista delle posizioni estetiche e rasenta a tratti l'incoerenza nei principî e nel metodo della classificazione: si succedono così, un po' caoticamente, tecniche pittoriche (un aspetto al quale il G. riserva una particolare attenzione), generi figurativi e correnti stilistiche.

I dodici "modi di dipingere" prendono avvio, al gradino più basso, dallo spolvero, tecnica elementare di preparazione dell'affresco. Al posto successivo viene collocato "il copiare da altre pitture" (p. 41), esercizio la cui efficacia è destinata a variare in misura significativa a seconda della bravura e della pazienza dell'artista che imita l'originale. Il terzo modo, complementare al precedente, consiste nel "saper con disegno, con lapis, acquerelle ed ombre ed in penna copiare quel che si rappresenta all'occhio" (pp. 41 s.). Il quarto modo concerne il genere del ritratto: posizione non particolarmente lusinghiera, che in parte è riscattata dal generoso catalogo di competenze che vengono riconosciute al bravo ritrattista. Al quinto grado della scala è posto "il saper ritrarre fiori, ed altre cose minute" (p. 42). Tale collocazione costituisce una delle prime testimonianze di esplicito apprezzamento, teoricamente fondato, in favore della pittura di natura morta. Questo giudizio viene ulteriormente supportato dal G., per il tramite di un'opinione di Michelangelo Merisi da Caravaggio, secondo la quale "tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure". Questo passaggio, ancor più se combinato con gli argomenti espressi a proposito dei due modi successivi, il sesto e il settimo, bene illumina l'indipendenza mentale del G. dai canoni classicisti, specchio della libertà di gusto propria dell'amatore-collezionista. Tale dato risulta ancor più sostanziale alla luce della penuria di dipinti di genere nella quadreria del G., e dunque della mancanza da parte sua di una specifica predilezione per questo tipo di opere.

Al sesto posto è la pittura di prospettive e di architetture, posizione all'apparenza piuttosto sorprendente, ma che si spiega meglio tenendo presente la passione spiccata del G. per l'architettura. Questa fu tanto forte da spingerlo a comporre le assai perite Istruzioni necessarie per fabbricare, e da farlo probabilmente intervenire di persona, come si può evincere in via indiretta dallo stesso trattatello, nella progettazione degli edifici che fece costruire nel suo feudo di Bassano.

Nella settima posizione della gerarchia sono situati i generi affini della veduta e del paesaggio: "Saper ritrarre una cosa grande, come una facciata, un'anticaglia, o paese vicino o lontano". Nell'ambito di questi generi, il G. distingue, con indubbia pertinenza critica, due diverse modalità di rappresentazione, una, peculiarmente italiana, che privilegia la pittura di tocco, "senza diligenza di far cose minute" (ibid.); l'altra, preferita dagli artisti fiamminghi, più dettagliata e minuziosa nella resa paziente delle cose raffigurate. Secondo l'autore, i campioni della prima maniera sono Tiziano, Raffaello, i Carracci e Guido Reni, mentre esponenti insigni della seconda sono il Civetta (Herri met de Bles), P. Bruegel e Paul Brill. L'ottavo modo è quello delle grottesche, genere stimato in modo speciale dal G. per l'erudizione archeologica e la fantasia nell'invenzione che esso richiede. Al nono gradino della scala vengono accostati Polidoro da Caravaggio e Antonio Tempesta (quest'ultimo era uno degli artisti di fiducia dei Giustiniani), nella loro veste di disegnatori e incisori. Del primo è specificamente lodato il "furore di disegno e d'istinto dato dalla natura" (p. 43), mentre ambedue sono apprezzati per i "chiari e scuri, e in stampe di rame, e per invenzione e per buon disegno, sebbene in pitture colorite ad olio non sono arrivati a questo grado" (ibid.). Massimo rilievo rivestono gli ultimi tre modi fissati dal G.: il decimo si riferisce al dipingere "di maniera", ossia prescindendo dall'imitazione diretta del naturale, e assecondando soltanto il dettato della fantasia. Segnalati come esemplari di questo atteggiamento creativo sono Federico Barocci, Cristoforo Roncalli, Domenico Cresti detto il Passignano e Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino. Di contro al decimo modo, l'undicesimo concerne il "dipingere con avere gli oggetti naturali davanti". Perché tale pratica approdi a risultati davvero soddisfacenti è indispensabile che l'artista possieda "buon disegno[…] vago colorito e proprio, che dipende dalla pratica di saper maneggiare i colori […]e soprattutto saper dare il lume conveniente al colore di ciascheduna parte" (p. 44). Questa è la tendenza prescelta da molti pittori fiamminghi, fra i quali il G. ricorda P.P. Rubens, e poi tali Gherardo, Enrico, Teodoro, nomi in cui si è ipotizzato di riconoscere, in modo più o meno persuasivo, rispettivamente Gerrit van Honthorst, Hendrick Ter Brugghen, Dirck van Baburen o Theodor Rombouts. Qualunque proposta a questo riguardo, per quanto plausibile, deve fare i conti con l'ampiezza della comunità neerlandese a Roma, davvero sorprendente in quegli anni.

Il dodicesimo modo è quello capace di fondere i due precedenti, sintetizzando i pregi della pittura di maniera con l'imitazione diretta della natura. Si tratta del più difficile ed eccellente di tutti i modi, e in favore di esso si sono sempre risolti i più grandi maestri, fra i quali il G. allinea i massimi artisti contemporanei: Caravaggio, Annibale Carracci e Guido Reni, "tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, e taluno più nella maniera che nel naturale, senza però discostarsi dall'uno né dall'altro modo di dipingere, premendo nel buon disegno, e vero colorito, e con dare i lumi propri e veri" (p. 44). Oltre alla brillante conoscenza della realtà artistica contemporanea che è in esso palese, il Discorso sulla pittura costituisce una testimonianza significativa di un empirismo edonistico volto ad aggirare ogni principio estetico rigidamente normativo: una posizione che vive una fase di particolare fortuna nel contesto culturale romano dei primi decenni del XVII secolo, e che si traduce in un'attitudine di gusto eclettica, e possiamo dire formalista, pronta a riconoscere i valori artistici a prescindere dalla veste in cui si manifestano e dal contenuto letterario che esprimono.

Non sorprende che sia uno dei maggiori collezionisti della sua epoca a dare appropriata forma letteraria a un simile spirito pragmatico: un appassionato conoscitore così desideroso di aggiornarsi e di ampliare i propri orizzonti da intraprendere, nel 1606, una sorta di grand tour a rovescio lungo tutta l'Europa, allo scopo di visitare molte importanti località artistiche. Di quell'inconsueto tragitto di piacere e di istruzione è pervenuto un resoconto dettagliatissimo, che, pur se redatto materialmente da uno degli accompagnatori del G., l'amico e segretario Bernardo Bizoni, fu evidentemente scritto attenendosi alle sue precise indicazioni. Sotto l'intitolazione di Diario di viaggio di Vincenzo Giustiniani, Bizoni annota tutte le tappe effettuate, elencando le cose viste, le impressioni ricavate e fornendo un gran numero di particolari su ogni aspetto del viaggio, che durò cinque mesi, tra il marzo e l'agosto del 1606. Di questo esisteva un'ulteriore documentazione, quasi integralmente perduta. Si tratta di un taccuino di disegni, composto durante il viaggio da un membro particolarmente autorevole della compagnia: il pittore Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio, il quale nel Diario di viaggio appare come l'interlocutore privilegiato del G. nelle questioni artistiche. Il Roncalli, mentre attendeva a imponenti lavori di decorazione pittorica nella Santa Casa di Loreto, decise inopinatamente di interrompere il suo impegno e unirsi al G. quando quest'ultimo, tra il 25 e il 27 marzo, partito da pochi giorni per l'inizio del tour, si fermò nella cittadina marchigiana. Di questo quaderno di schizzi presi dal pittore durante il viaggio, non rimane che un unico foglio, conservato alla Graphische Sammlung Albertina di Vienna, in cui, su verso e recto, sono riprodotti la villa imperiale di Pesaro, il campanile del duomo di Bolzano e il campanile del municipio di Monaco. La comitiva era composta da dieci persone e, oltre ai membri citati, comprendeva un maggiordomo, uno staffiere, il vetturino, un cuoco e tre servi del marchese. Il gruppo percorse un itinerario attraverso le bellezze d'Europa che è interessante ricostruire nella sua successione: iniziato il 19 marzo da Bassano di Sutri, il viaggio si snodò in territorio italiano attraverso l'Umbria (Amelia, Todi, Perugia, Assisi), le Marche (Fabriano, Jesi, Loreto, Ancona), la Romagna e l'Emilia (Rimini, Forlì, Faenza, Bologna, Ferrara).

All'interno del duomo di Faenza, si svolse un episodio significativo: il G. fu infatti in grado di riconoscere correttamente in Dosso Dossi (Giovanni Luteri) l'autore di una pala d'altare, suscitando l'ammirazione del Roncalli, che non era stato capace di formulare la giusta attribuzione.

La sera del 7 aprile la compagnia arrivò a Venezia, dove fece sosta per nove giorni. Lì il G. acquistò un quadro del Pordenone "con l'istoria di Lucrezia Romana" (si può suggerire di identificare quest'opera con il "quadro…con l'historia di Lucretia Rom(an)a che si uccide col coltello…di mano di Giorgione da Castelfranco" registrato nell'inventario post mortem dei beni del G. del 1638: Salerno, p. 136 n. 25). Dopo Venezia, il giro toccò Padova, Vicenza, Verona, Trento e Bolzano; quindi proseguì a Innsbruck e in terra tedesca. In Germania il G. e i suoi compagni di viaggio visitarono, tra le altre, le città di Monaco, Augusta, Ratisbona, Norimberga, Francoforte, Treviri, Colonia, Aquisgrana, e di lì si inoltrarono nei Paesi Bassi. Ebbero così modo di toccare Maastricht, Lovanio, Bruxelles, Anversa, Gand. Da Calais, l'itinerario proseguì in Gran Bretagna, laddove la sosta a Londra si rivelò di particolare interesse e si protrasse dal 12 al 17 giugno. Il 18 il gruppo era di nuovo a Dover, da dove, attraverso la Francia, ripiegò verso l'Italia. In Francia sostò a Calais, Amiens, Rouen, Parigi (con una permanenza di circa due settimane, dalla sera del 27 giugno all'11 luglio) e poi a Digione, Lione, Avignone, Marsiglia e Nizza. A Genova il G. si fermò cinque giorni prima di rimettersi in cammino per Roma, passando per Lucca e Pisa.

Si trattò di un viaggio di formazione in grande stile, preparato con cura (seppure senza l'iniziale intento di protrarlo così a lungo) e condotto senza economie. I dati riportati nel Diario del Bizoni giustificano appieno il giudizio espresso da Haskell, secondo il quale "al ritorno in Italia, Vincenzo Giustiniani aveva una cultura artistica più ampia e profonda di chiunque altro a Roma ed anche in Europa, con la sola eccezione di Rubens" (1985, p. 63). L'esperienza maturata nel corso del lungo viaggio sarebbe rifluita, di lì a qualche anno, nell'Istruttione per far viaggi, frutto tra i più gustosi dell'attività di poligrafo del Giustiniani.

Dopo lo scritto sulla pittura, è il Discorso sopra la scultura (anch'esso indirizzato all'Amayden) a fornire i maggiori motivi di interesse da un punto di vista storico-artistico. Più ancora del Discorso sopra la pittura, questo saggio è improntato e addirittura pervaso da quel genere di competenze pratiche, fondate principalmente sull'esperienza, che contraddistinguono l'esperto collezionista.

L'autore si rivela, com'è sua consuetudine, molto interessato agli aspetti tecnici e materiali, ma soprattutto bene addentro al complesso dei problemi legati al riconoscimento, la conservazione e il restauro delle statue antiche.

Anche dal Discorso sulla scultura, peraltro assai parco di riferimenti esterni, si può desumere qualche elemento per una sua datazione di massima. In particolare, va assunto come sicuro post quem il rapido riferimento allo scultore Francesco Stati, che nel testo viene detto defunto. Poiché egli morì nel 1627, lo scritto deve essere successivo a quella data.

Accanto ad alcuni argomenti topici, il Discorso presenta più di un motivo di originale interesse. Il G., innanzitutto, definisce le qualità tecniche indispensabili al bravo scultore: questi deve conoscere intimamente il materiale che utilizza e sapere quale sia il modo più conveniente di trattarlo. Bisogna che egli assommi in sé le competenze dello scalpellino e dell'intagliatore. Deve possedere maestria nel disegno, fantasia, e profonda cognizione delle "buone statue antiche e moderne". Più del pittore, inoltre, è necessario che sappia dare "bella postura alle figure, cioè che posino bene in terra, e con grazia e vivacità tale, ch'escano dal parere fatte di pietra" (p. 70).

È inoltre indispensabile che lo scultore prepari disegni relativi a tutti i punti di vista dell'opera che intende realizzare e predisponga attentamente i modelli, poiché "il pittore ha mille e più modi e ripieghi di rimediare a' difetti della postura della figura, e de' piani, che non ha lo scultore, in poter del quale non è di rimediare all'errore già commesso, perché consiste nel mancamento della materia" (ibid.).

Questo complesso di riflessioni, per quanto non sempre originali, rivelano un pensiero teso a uno sforzo, rimarchevole già di per sé, di qualificazione concettuale della sostanza dell'arte della scultura.

Il G. esalta poi la funzione del mecenate, in grado di mettere lo scultore nelle condizioni migliori per condurre il proprio lavoro, col tempo e la tranquillità necessarie, procurandogli buone commissioni e materiali di prima qualità; e precisa come l'assenza di un principe e protettore abbia impedito a molti valenti artisti di sollevarsi dalla mediocrità. Seguono considerazioni particolarmente preziose, circa la difficoltà di riconoscere con certezza le statue classiche dalle copie moderne ("Ch'è negozio difficile, né si conoscono con sicurezza se non da persone che abbiano lunga e squisita esperienza […] a segno che io, sebbene mi sono passate per le mani molte occasioni, non mi assicurerei di darne il parere risoluto": p. 72) e sulle tecniche per contraffare queste ultime, allo scopo di venderle come antiche. Il G. entra nel vivo delle questioni di mercato, rilevando come i ritratti di uomini illustri abbiano un prezzo particolarmente alto e come le statue antiche valgano molto di più delle moderne, con l'unica eccezione dei marmi di mano del cavalier Bernini.

Risulta chiaro dallo scritto, così come dal suo operato di collezionista, che le preferenze del G. sono indirizzate decisamente verso la statuaria classica, considerata più naturale, aggraziata e viva di quanto sia mai riuscito persino ai più grandi fra gli scultori moderni. Indicativo, in questo senso, il paragone fra il cosiddetto Adone dei Pichini (la statua di Meleagro oggi conservata ai Musei Vaticani) e il Cristo portacroce della chiesa romana di S. Maria sopra Minerva, opera di Michelangelo, peraltro stimato dal G. "primo scultore, pittore e architetto del secolo nostro" (p. 69), presumibilmente da intendere "dell'età moderna". Quest'ultima opera viene bensì reputata "bellissima, e fatta con industria e diligenza", ma pur sempre tale da apparire "statua mera, non avendo la vivacità e lo spirito che ha l'Adone suddetto" (p. 70).

Il discorso si conclude con un accenno al tema del paragone fra pittura e scultura, ineludibile nelle convenzioni di genere della teoria artistica. Lo scritto del G. prospetta un'impostazione relativistica del problema, la risoluzione del quale viene fatta gravare sulle personali simpatie del singolo fruitore. A sostegno di tale posizione, il G. richiama i principî enunciati da Gerolamo Fracastoro nel De sympathia et antipathia rerum, trattato naturalistico pubblicato a Venezia nel 1546.

La trasparente predilezione accordata dal G. alle sculture classiche risalta pienamente nella sua collezione, dove alla sparuta rappresentanza di statue moderne si contrapponeva una delle più imponenti raccolte d'arte antica formate nel XVII secolo: più di 1800 pezzi, accumulati nell'arco di pochi decenni, sull'acquisizione dei quali le informazioni sono scarsissime.

Gli oggetti erano distribuiti principalmente fra il palazzo di S. Luigi dei Francesi (che ne conteneva più di 600) e la villa e il parco fuori porta del Popolo (dove erano conservati circa 1000 pezzi), ma anche nella tenuta presso S. Giovanni in Laterano (di cui costituisce una parziale memoria l'attuale casino Giustiniani-Massimo-Lancellotti) e nel palazzo, il giardino e la rocca nel feudo di Bassano di Sutri.

In particolare, la residenza di S. Luigi dei Francesi, nelle parti adibite all'esposizione dei pezzi romani, doveva dare al visitatore la sensazione di trovarsi in una sorta di antiquarium. Ciò valeva per la serie di quattro stanze consecutive del piano nobile (cosiddette delle Veneri, delle Imperatrici, dei Filosofi e degli Imperatori), e specialmente per l'ampia galleria, che, stando all'inventario del 1638 (Salerno), traboccava di 247 oggetti classici di ogni tipo (per un totale di più di 370 pezzi nel solo primo piano). Busti, statue, rilievi, erme, vasi, cippi, colonne e iscrizioni vi erano collocati in quattro file sulle due pareti lunghe, secondo un horror vacui espositivo, nel quale la coesistenza delle opere era bensì disciplinata, ma in un senso pittoresco e antifilologico che rifletteva esclusivamente il gusto personale del Giustiniani. L'originalità di tale assetto risaltava ancor più al confronto coi criteri più diffusi di organizzazione ed esibizione dei pezzi antichi delle principali raccolte dell'epoca, volti a ricreare e trasmettere, anche attraverso l'articolazione degli spazi espositivi, un'atmosfera generale di antichità.

Lo stesso sentimento di ricercata espressione della propria personalità intellettuale, trovò compimento nell'impresa della Galleria Giustiniana, della quale non si conoscono né la data di stampa né lo stampatore (fra le varie copie disponibili si segnala quella della Biblioteca apostolica Vaticana, Cicognara, IX.3397).

Si tratta di due volumi di incisioni a bulino, per un totale di 330 tavole, delle più importanti opere classiche della collezione, ordinate per soggetti. Il primo volume è composto di 153 incisioni e riproduce 150 statue; il secondo consta di 169 tavole ed è prevalentemente dedicato a busti e rilievi. Il frontespizio dell'opera fu realizzato da François Du Quesnoy; due incisioni riproducono il ritratto del G., a opera di Claude Mellan; sedici incisioni rappresentano vedute dei possedimenti del G., e cinque sono dedicate ai ritratti di altri membri illustri della famiglia. Infine, otto rami sono relativi a dipinti di soggetto sacro di proprietà del Giustiniani. La loro esistenza fa presumere una volontà di estensione del progetto anche alle opere d'arte moderne, che non trovò attuazione a causa della morte del Giustiniani.

La datazione della Galleria Giustiniana costituisce un problema particolarmente composito, in primo luogo in ragione della natura del lavoro. Molti furono, infatti, gli artisti coinvolti nelle varie fasi della sua realizzazione. Fra questi, vi sono alcune personalità di grande spicco della scena artistica romana (oltre al Du Quesnoy, Giovanni Lanfranco, Pietro Testa e altri) ma anche autori quasi del tutto sconosciuti, per un totale di 16 disegnatori e 23 incisori.

L'impresa, inoltre, richiese tempi lunghi e modalità produttive assai articolate, e costò al G. una fortuna: ciò di cui un poco egli dovette anche vergognarsi, se in una missiva a Camillo Massimo, all'incirca dell'inizio del 1637, dichiarò: "Avendo io fatta quest'opera di far intagliare le cose della mia Galeria, messa e raccolta insieme per un humor peccante, avuto di lunga mano con spesa continuata più che mediocre, non solamente nel costo delle statue, ma anco nello stesso intaglio de' rami; e conoscendo benissimo che questa spesa si poteva applicare ad altro uso pio, e più utile al prossimo, ho voluto in qualche parte supplire al mio mancamento" (Algeri, p. 87).

Possiamo comunque avvalerci di alcuni preziosi, seppur non definitivi, punti di riferimento cronologici. In primo luogo, c'è da considerare la data del 1631, apposta sul ritratto del G. presente all'inizio di ambedue i volumi, che allo stato delle conoscenze resta il più sicuro riferimento relativamente all'inizio dei lavori.

Di qualcosa di molto prossimo a un'edizione definitiva, inoltre, aveva certo avuto sentore Rubens, quando così dava conto dell'opera all'amico Nicolas de Peiresc, in una lettera del 4 sett. 1636: "Ho visto ancora lettere di Roma, che dicono essere uscita in luce la Galeria Justiniana, a spese del marchese Justiniano, che si pretia un opera nobilissina et spero che capiterà fra pochi mesi qualche esemplare in Fiandra" (ibid., pp. 71 s.). Di tale indicazione, recentemente (Cropper - Dempsey, p. 68) è stato riconosciuto un chiaro riscontro in una missiva del 15 apr. 1636, nella quale Cassiano Dal Pozzo magnificava allo stesso Peiresc le qualità del primo volume del "libro dei marmi del Signor Marchese Giustiniano": possediamo anche l'entusiastica risposta che, a questa lettera, il Peiresc scrisse il 29 aprile. Si può così fare risalire al 1636 la prima edizione del primo volume della Galleria e all'anno dopo la pubblicazione del secondo, rispetto alla quale è ancora il carteggio fra i medesimi personaggi a fornire utili chiarimenti: Peiresc, infatti, l'8 maggio 1637 riferiva a Cassiano Dal Pozzo che "l'altro volume delli bassi rilievi sarà di molto maggiore frutto per le notizie dell'historia antiqua" (Caravaggio e i Giustiniani, p. 364).

Oltre che dal punto di vista del progetto culturale, la Galleria Giustiniana costituisce un'impresa di primo piano per la qualità degli artisti che furono chiamati dal G. a collaborarvi. Anche la presenza ingente di pittori e incisori nordeuropei ne rappresenta un tratto di particolare spicco.

Claude Mellan vi ricoprì un ruolo di primo piano, e un'altra figura che assunse uno speciale rilievo fu Joachim Sandrart, il quale peraltro visse sei anni nel palazzo Giustiniani a S. Luigi dei Francesi. Altri artisti di un certo rilievo che fornirono i loro servigi per i due volumi, furono François Perrier, Cornelis Bloemaert, Theodore Matham, Michel Natalis (gli ultimi tre risedettero, come Sandrart, a palazzo Giustiniani), e probabilmente Giovan Francesco Romanelli, il "Gio. Fran.co da Viterbo", che risulta l'autore di un disegno per una tavola del secondo volume (Gallottini, La Galleria Giustiniana, pp. 239, 256).

Resta infine da considerare la grande collezione di pittura, frutto della brillante azione del G. sul mercato artistico (e naturalmente dei suoi mezzi finanziari ingentissimi). Esiste uno strumento privilegiato per verificarne la composizione: il minuzioso inventario post mortem dei beni del G., ultimato il 9 febbr. 1638, che elenca poco meno di 600 dipinti.

La più marcata opzione di gusto riconoscibile all'interno della collezione Giustiniani è la presenza davvero ingente di dipinti di Caravaggio e dei suoi seguaci, in special modo nordici.

Le opere del Merisi di proprietà del G. erano undici. A queste, nell'inventario del 1638, erano accostate le quattro acquistate dal cardinale Benedetto, per un totale di 15 tele, che formavano la più cospicua raccolta di tele del Caravaggio insieme con quella del cardinal Del Monte. I dipinti del G. erano il S. Matteo con l'angelo, celeberrima prima versione rifiutata per l'altare maggiore della cappella Contarelli, nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi, distrutto nel rogo di Berlino nel 1945; un'Incoronazione di spine, oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna; "Un quadro di mezza figura di Sant'Agostino", perduto; "Un ritratto di Gismondo Todesco Pittore", perduto; il Suonatore di liuto, oggi all'Ermitage di San Pietroburgo; "Un Amore ridente, in atto di dispregiare il mondo", oggi alla Gemäldegalerie di Berlino; l'Incredulità di s. Tommaso, oggi alla Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam; "Un quadro di una mezza figura, Ritratto di una cortigiana famosa", perduto; "Un altro quadro con un ritratto di una cortigiana chiamata Fillide" (Fillide Melandroni), anch'esso distrutto nel rogo di Berlino del 1945; un "Ritratto di una matrona con un velo bianco in testa e suo nome scritto, Marsilia Sicca", perduto e infine, "Un quadro col ritratto del Farinaccio Criminalista […] si crede di Michelang(el)o da Caravaggio". In questo nucleo così rilevante, di speciale significato risulta l'ampia presenza di ritratti, quasi tutti dispersi, in rappresentanza di un genere su cui ancora oggi gli studi caravaggeschi attendono di fare piena luce.

Il vasto drappello dei pittori in senso lato caravaggisti presenti nell'inventario del 1638, allinea, fra gli italiani, Bartolomeo Manfredi, Alessandro Turchi, Nicolò Musso, Giovanni Baglione, Carlo Saraceni, Orazio Borgianni, Antiveduto Gramatica, Bartolomeo Cavarozzi, Giovanni Antonio Galli detto lo Spadarino, Cecco del Caravaggio, Angelo Caroselli, Domenico Fiasella, Artemisia Gentileschi. Fra i seguaci nordici, sempre stando alle indicazioni dell'inventario, si possono annoverare David de Haen, Dirck Van Baburen, Gerrit Van Honthorst, Nicolas Régnier, Trophime Bigot, Valentin de Boulogne, Simon Vouet.

La collezione del G., senza naturalmente disdegnare incursioni di qualità nell'arte italiana del XV secolo (documentate nell'inventario dai nomi di Domenico Ghirlandaio, Marco Palmezzano, Francesco Francia, Perugino), e soprattutto della prima metà del XVI (Giorgione, Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Dosso Dossi, Raffaello, Andrea del Sarto, Correggio, Gaudenzio Ferrari, Pordenone, Lorenzo Lotto, Paris Bordon), appare spiccatamente connotata dalla presenza di opere contemporanee, da un'assidua volontà di aggiornamento, e da uno spirito cosmopolita, che ne alimentò costantemente la curiosità nei confronti degli artisti non italiani. Questi caratteri del gusto del G. non si coniugarono solo con le tendenze caravaggiste, ma si incrociarono felicemente con la produzione dei maestri maggiori bolognesi ed emiliani (Ludovico e Annibale Carracci, Guido Reni, Francesco Albani, Giovanni Lanfranco), e in seguito seppero sintonizzarsi anche con la voga classicista che si affermò decisamente nella cultura figurativa romana negli anni Venti e Trenta del Seicento (François Du Quesnoy, François Perrier, Nicolas Poussin, Claude Lorrain, Pietro Testa).

Il breve Discorso sopra la musica del G. (pubblicato in Le origini del melodramma. Testimonianze dei contemporanei, a cura di A. Solerti, Torino 1903, pp. 98-128), scritto nel 1628, nonostante il limitato ambito cronologico ricoperto, risulta di grande interesse per le molte osservazioni sull'ambiente musicale contemporaneo. Il panorama musicale illustrato dal G. è ricco e variegato e descrive l'evoluzione stilistica dei compositori, del canto e la tipologia degli strumenti utilizzati tra il XVI e il XVII secolo. La sua frequentazione di musicisti e delle accademie musicali gli permise di acquisire una certa padronanza nel campo. Dal Discorso, caratterizzato da uno stile narrativo semplice e senza velleità, sappiamo che il G. studiò la musica sulle opere dei grandi madrigalisti della prima generazione, quali Jacques Arcadelt e Cipriano De Rore, il cui stile fu gradualmente superato da autori come Orlando di Lasso e Luca Marenzio, rappresentanti estremi dell'arte madrigalistica. Le sue osservazioni investono anche la musica sacra e mettono in evidenza l'importante ruolo svolto da autori come Giovanni Pierluigi da Palestrina e i suoi successori Giovanni Maria Nanino e Francesco Soriano. Interessanti le considerazioni sul canto solistico che, alla fine del XVI secolo, si stava affermando soprattutto nella musica profana con il napoletano Giovanni Andrea, con Giulio Cesare Brancacci e con il romano Alessandro Merlo, cantore, compositore, virtuoso di viola.

Descrivendo la vocalità utilizzata dalle dame alle corti di Ferrara e di Mantova, il G. fornisce un quadro dettagliato della prassi dell'epoca, basata essenzialmente sulle capacità dinamico-interpretative, sull'agilità, sulla buona dizione e infine sulla recitazione che doveva accompagnare il canto nella maniera più appropriata. Il G. descrive ampiamente le mode musicali e, soprattutto, non manca di sottolineare l'importanza assunta dagli strumenti nell'accompagnamento solistico delle voci. Sono menzionati, in modo particolare, Pomponio Nenna, e i napoletani Scipione Dentice e Scipione Stella, tutti capeggiati da Carlo Gesualdo principe di Venosa. Nell'illustrare le tipologie dei vari strumenti musicali, il G. descrive attentamente le caratteristiche, la provenienza e la diffusione della pandora (liuto attiorbato), dell'arpa doppia, dell'organo e del cembalo, del liuto, della viola bastarda, della chitarra, della sordellina, del piffero e altri, menzionando, tra l'altro, i virtuosi di tali strumenti. Il Discorso, oltre a informazioni di carattere tecnico, offre infine alcuni spunti di riflessione sul ruolo della musica e i suoi effetti sulla natura umana.

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