Mónti, Vincenzo

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Poeta (Alfonsine 1754 - Milano 1828); iniziò gli studî sotto la guida di un prete di Fusignano e li continuò nel seminario di Faenza, dove apprese bene il latino e fu educato al gusto della poesia di Virgilio. A Ferrara intraprese gli studî di giurisprudenza, che abbandonò poi per quelli di medicina, e cominciò a dar prova della sua vocazione di poeta dalla facile vena, compiacendosi dei motivi di moda nell'ultima Arcadia. Nel 1775 faceva il suo ingresso in Arcadia col nome di Antonide Saturniano e nel 1776 stampava La visione d'Ezechiello, poemetto in terza rima assai vicino ai modi di A. Varano, che segnò l'inizio della sua fortuna. Nel 1778 il padre acconsentì a mandarlo per tre anni a Roma, dove M. si stabilì assicurandosi la protezione del card. Scipione Borghese. Nel 1779 una sua ode in metro di canzonetta, Prosopopea di Pericle, improvvisata in due giorni, la prima delle sue composizioni encomiastiche, ricca d'impeto oratorio, fu letta in Arcadia con notevole successo. Di genere analogo è La bellezza dell'universo (1781), grandioso epitalamio composto per le nozze del nipote di Pio VI, che valse al poeta la carica di segretario di don Luigi Braschi e altri benefici. La cantica, che ha la sua radice in un discorso di F. M. Zanotti, è ricca di infiniti riecheggiamenti: dalla Bibbia a Milton, da Ovidio ad Ariosto e a Tasso. Al Pellegrino apostolico (1782), il più brutto dei suoi poemi, scritto in occasione di un viaggio di Pio VI a Vienna, seguirono gli endecasillabi sciolti al principe don Sigismondo Chigi (1783) e, nello stesso anno, le lasse di sciolti, Pensieri d'amore, appassionata imitazione di Goethe, ispirati dall'amore per la giovane educanda Carlotta Stewart. Una felice ispirazione virgiliana e un del pari virgiliano lavoro di cesello contraddistinguono la Feroniade, poemetto in versi sciolti (in tre canti), mirabile per equilibrio di composizione delle parti più propriamente narrative, iniziato intorno al 1784 e al quale M. lavorò a più riprese fino agli ultimi giorni della sua vita. Intanto a Roma il principe Chigi era caduto in di sgrazia e i nemici del poeta ne approfittarono per scatenare una lotta contro di lui, che era ingolfato nei debiti. Ma una nuova raccolta di versi, plaudenti ai Braschi, gli fruttò un nuovo beneficio. Poco dopo (1784), M. scrisse una delle sue più famose poesie, l'ode Al signor di Montgolfier. Poi, forse indotto dal favore con cui l'alta società romana aveva accolto le tragedie di Alfieri, si volse al teatro drammatico e scrisse l'Aristodemo (1787), rappresentato con trionfale successo, il Galeotto Manfredi (1788) e il Caio Gracco iniziato nel 1788 e terminato nel 1800. Contemporaneamente alle tragedie, scriveva i quattro sonetti Sulla morte di Giuda e gli sciolti Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia. Nel 1791 sposò la bella e giovane Teresa Pikler (1769-1834), figlia di Giovanni Pikler, noto incisore di pietre dure, dalla quale ebbe due figli, Costanza, che sposò in seguito Giulio Perticari, e Giovan-Francesco. Nel 1792 scriveva l'Invito d'un solitario ad un cittadino, ode saffica in cui non difettano tratti di sincera spontaneità idillica, e nel 1793 la cantica in terzine In morte di Ugo Bassville, nota comunemente come la Bassvilliana, nella quale immagina il pellegrinaggio espiatorio dell'anima di N.-J. H. de Bassville (v.), segretario della legazione francese a Roma, che, accompagnata da un angelo, assiste alla rovina nella quale la rivoluzione ha gettato la Francia e, in ultimo, all'esecuzione di Luigi XVI. Il poema ("un Dante passato attraverso l'Arcadia" come replicò De Sanctis a chi aveva parlato entusiasticamente di "un Dante ingentilito"; e fu sempre De Sanctis a osservare che Monti "aveva Dante nell'orecchio, Virgilio nell'immaginazione") fu subito accolto con grande favore e divenne caro alla reazione antifrancese. In Francia, però, il nuovo regime si consolidava e M. si diede allora prudentemente alla stesura di un poemetto mitologico, la Musogonia, centone di miti che poi ripubblicò più volte mutandone il testo qua e là secondo le differenti situazioni politiche. Tra il 1793 e il 1797 si andrà via via liberando dai legami che lo tenevano stretto a Roma, mosso dalla coscienza ancora non ben chiara che la faccia del mondo si sarebbe presto trasformata, dal timore di poter apparire ai fautori dell'ordine nuovo come il poeta della reazione, e anche dal fascino che avevano sulla sua immaginazione l'idea di libertà, di repubblica, di rinato civismo romano. Così il 3 marzo abbandonò Roma nella carrozza del colonnello Marmont dichiarando, non appena giunto al sicuro, di aver scosso dalla sua veste "la polvere della curia romana". Giunto in salvo a Bologna, scrisse il Prometeo, rimasto incompiuto, in cui è vaticinata la gloria di Napoleone, cui seguirono Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo, canti in terzine nei quali per evidente ammenda della Bassvilliana (continuamente rinfacciatagli da vecchi e nuovi nemici e bruciata sotto l'albero della libertà a Milano), la nota giacobina è spasmodicamente sforzata; la canzone Per il congresso di Udine (1797), in cui vorrebbe salutare Napoleone liberatore d'Italia; l'inno cantato al teatro della Scala di Milano il 21 genn. 1799 anniversario della morte di Luigi XVI, nel quale l'ostentato giacobinismo assume nel ritmo travolgente aspetti di truce bellezza. Ma denigrato, forse anche sospetto, si vide contesa la via delle cariche. Le vittorie degli Austro-Russi e il conseguente crollo della Repubblica cisalpina lo indussero a una nuova fuga, prima in Savoia e poi a Parigi; oltralpe visse un anno in attesa degli eventi. L'esilio in Francia ebbe per il poeta importanza decisiva: qui egli terminò il Caio Gracco, tradusse, e splendidamente, con eleganza e in un linguaggio limpido e preciso la Pucelle d'Orléans di Voltaire e compose una cantica in morte di Lorenzo Mascheroni, la Mascheroniana, che con chiarezza e nobiltà esprimeva diffuse aspirazioni di un'ordinata libertà vittoriosa della licenza demagogica. M. s'era avvilito e s'avvilirà ancora nei destreggiamenti e nelle adulazioni, ma pure ebbe i suoi palpiti generosi. Nominato a Pavia professore di eloquenza e di poesia (1802-04), tradusse le Satire di Persio (1804); dei suoi rinnovati studî umanistici il lavoro più importante furono le Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell'Iliade (1807). Ricorderemo appena, nel periodo napoleonico, La spada di Federico II (1806), Il bardo della Selva Nera (1806) in celebrazione della gloria imperiale di Napoleone (che, come è stato giustamente ricordato, era appassionato ai poemi ossianeschi), le odi In occasione del parto della viceregina d'Italia (1807), La ierogamia di Creta (1810), ecc. Ma il capolavoro di questi anni resta la stupenda traduzione dell'Iliade, per la quale si servì di traduzioni italiane e latine. Con la Restaurazione, il vecchio poeta dovette ancora umiliarsi a scrivere versi palinodici; il Mistico omaggio (1815) in onore dell'arciduca Giovanni, il Ritorno di Astrea (1816) in onore dell'imperatore Francesco I, L'invito a Pallade (1819). Di particolare interesse invece l'epistolario di questo periodo; fuori del turbine dorato dell'età napoleonica, la vecchiaia di M. si svolse amareggiata e disagiata. Assillato da difficoltà economiche, ormai quasi cieco e paralitico, pure rifiutò la direzione della Biblioteca italiana per non farsi strumento di G. Acerbi e della politica culturale austriaca. La resuscitata questione della lingua fu occasione per M., validamente sostenuto dal genero G. Perticari e da altri amici, di un'aspra polemica con A. Cesari e i puristi (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, 1817). Ma il poeta declinante ha ancora accenti schietti nell'idillio Le nozze di Cadmo e d'Ermione (1825), in alcuni sonetti di carattere intimo, in un'affettuosa e dolorosa canzone libera alla moglie e nell'antiromantico Sermone sulla mitologia (1825), difesa della sua arte. Questa fu soprattutto esteriore decoratività, neoclassico splendore; non riflette umani problemi; e tuttavia ha una sua indubitabile nobiltà, un suo proprio fascino. Anche all'uomo ormai non si rimprovera acremente come un tempo la facilità con cui era solito volgersi consenziente a questo o a quel monarca, a questa o a quella opinione (rimane a tal proposito esemplare per tutta un'interpretazione romantica di M. il giudizio di De Sanctis: "gli mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere"); duttilità di artista di fronte al mondo che a volta a volta lo affascinava e verso il quale si sentiva attratto dal suo stesso dono di poeta, che fu appunto quello di trasformare in incantevole letteratura tutto ciò che il suo spirito percepiva: "poeta dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun modo" come osservò felicemente Leopardi.

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