Monti, Vincenzo

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

Monti, Vincenzo

Maria Maddalena Lombardi

Vita

Vincenzo Monti nacque ad Alfonsine di Fusignano (Ravenna) nel 1754. Dal 1778 risiedette a Roma, dove cominciò la carriera letteraria; nel 1797 si trasferì a Milano. Durante il regime napoleonico ebbe numerosi incarichi ufficiali, cui corrispose una cospicua attività letteraria. Negli anni della Restaurazione si dedicò agli studi linguistici, che culminarono nella pubblicazione della Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca. Morì a Milano nel 1828.

Fu autore di poemetti, tragedie, poesie liriche e della più celebre versione italiana dell’Iliade. Monti curò personalmente la maggior parte delle edizioni delle sue opere; rimase inedita la traduzione della Pulcella d’Orléans di Voltaire, pubblicata dapprima nel 1878 e poi nuovamente sulla scorta di ulteriori ritrovamenti autografi.

Il percorso linguistico

Il percorso linguistico di Monti si articola a partire dagli inizi ferraresi, dominati da una rimeria di derivazione tardo-arcadica. Al trasferimento a Roma è inizialmente sordo alle novità dominanti del neoclassicismo winckelmanniano: la Prosopopea di Pericle (1779) è ancora una canzonetta metastasiana e l’elemento classico risulta esornativo e di maniera; nell’ode Al signor di Montgolfier (1784) il classicismo è un «manto» (Contini 1986) che adorna l’esaltazione del progresso scientifico contemporaneo.

Attento alle suggestioni del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther, Monti inventa, sulla scorta di un’effettiva esperienza biografica, un romanzo d’amore nei versi sciolti di A don Sigismondo Chigi e nei Pensieri d’amore (1783). I due testi rappresentano «un varco tra illuminismo e protoromanticismo» (Contini 1986) in cui l’impasto linguistico elegiaco e sentimentale apre nuovi campi espressivi alla poesia italiana. Il poemetto antirivoluzionario In morte di Ugo Bassville (1793) segna il recupero del magistero dantesco dal punto di vista stilistico e linguistico.

L’adesione alla politica culturale napoleonica condusse Monti a una più meditata e motivata partecipazione al neoclassicismo, percepibile già nel Prometeo (1797). Con il poema In morte di Lorenzo Mascheroni (1801) Monti ripropose in un’ottica politica rovesciata la visione della Bassvilliana, con un registro linguistico dantesco mediato da formule e modi della lirica didascalica del secolo precedente. Il più celebre testo poetico montiano degli anni napoleonici, Il Bardo della Selva Nera (1806), rinvia per temi e forme al modello dell’Ossian tradotto da  ➔ Melchiorre Cesarotti.

Nei numerosi testi occasionali dedicati alla figura di Napoleone, Monti mise a punto una poesia pacata e musicale, dimostrando un’autentica adesione ai canoni del neoclassicismo. È questo lo stile caratteristico anche delle rare prove poetiche degli anni della Restaurazione: nel Sermone sulla mitologia (1825) egli condanna come lontano dal buon gusto l’eccessivo uso della mitologia, sia classica che nordica, restando fedele a quell’ideale di razionale attualizzazione dell’antico che la sua esperienza di traduttore di Omero gli aveva fatto maturare. La traduzione di Persio (1803) costituisce un interessante banco di prova delle possibilità linguistiche dell’italiano letterario, forgiato da Monti in modalità anche estreme (➔ paratassi, ➔ arcaismi, ➔ latinismi, linguaggio comico).

La traduzione dell’Iliade rappresenta il capolavoro della poesia montiana e il suo prodotto letterario più maturo. Monti prende come base del proprio lavoro non tanto il testo greco, quanto le sue traduzioni latine e italiane, tra cui quella recente di Cesarotti. Seguendo il principio secondo cui, traducendo, occorre avere riguardi non tanto per la lingua da cui si traduce, ma per quella in cui si traduce, Monti, badando più al contesto che al testo e riecheggiando la grande tradizione italiana, realizza una traduzione uniforme dal punto di vista stilistico, enfatica e senza asprezze. Ricorrendo a figure retoriche e perifrasi, evita di riprodurre le formule omeriche e gli epiteti composti, mal tollerati dal gusto contemporaneo (per es. la traduzione dell’aggettivo omerico leukólenos, epiteto di Era, è dalle bianche braccia).

Per quanto concerne Monti prosatore, nei dialoghi linguistico-letterari e nella Proposta egli manifesta una carica polemica che si traduce in uno stile vivace, ironico e colloquiale, erede della migliore tradizione illuministica. L’eredità di questa prosa fu raccolta da  ➔ Giacomo Leopardi nello stile delle Operette morali.

La lingua della poesia

Per fonetica, morfologia, sintassi e lessico, la lingua di Monti rappresenta in modo compiuto e controllato le caratteristiche della poesia e della prosa tra Sette e Ottocento, con la costante attenzione a riprodurre in modo razionale e ordinato le regole della tradizione. Per limitare la disamina al versante poetico e seguendo Serianni (1998), si rileva dal punto di vista fonetico, a parte la presenza di forme come nui, surse, virtude, l’uso del dittongo uo per il verbo suonare, non comune in poesia fino al Settecento, a vantaggio del monottongo o. In linea con la tradizione è la terza persona del passato remoto in -eo, -io, come poteo, perdeo, uscìo, aprìo, coprìo, fuggìo, morìo, sparìo, udìo.

Monti ripropone in modo clamoroso nella lingua poetica la costruzione, tipica del fiorentino antico, accusativo + dativo nelle sequenze di pronomi atoni (➔ clitici): per es., lo ti consente, lo si chiuse, lo ti rechi, la mi rapio, ecc. Sistematico è l’uso dell’imperfetto privo di labiodentale (-ea): doveami (Prosopopea di Pericle, 61), attendea (La bellezza dell’universo, 72), rabbellia (A don Sigismondo Chigi, 17), tenea (Pensieri d’amore VIII, 21), percotean e nascondea (Bassvilliana II, 31 e 105). Nella sintassi, inarcature (o enjambement) e inversioni costituiscono la cifra stilistica prevalente: «un pauroso / di sozzi mostri abisso» (Sulla Mitologia, 100); «l’odorosa educar dolce famiglia» (Feroniade I, 55); «intento della madre alle parole» (ivi, II, 291).

Quanto al lessico, notevole in tutta la poesia montiana è il ricorso all’onomastica classico-mitologica, marca distintiva del neoclassicismo letterario. Il più celebre neologismo montiano è l’aggettivo tricolore (nella Bassvilliana IV, 327; nel Prometeo I, 626; e nel Bardo IV, 26). Altra marca neoclassica è data dalla diffusa presenza della coppia nome + aggettivo, spesso appoggiata a una cospicua tradizione cinque-settecentesca: lunghi affanni (Feroniade I, 1), lungo studio (ivi, 64), barbaro costume (ivi, 61), aure amiche (ivi, 72). In particolare, gli aggettivi deonomastici evocano un’immediata eco classicistica e instaurano un clima antirealistico consono alla poesia elevata: sabini (Feroniade I, 10), circeo (ivi, 744), appulo (ivi, 76), ascrèo (Alla Marchesa Malaspina, 13), cirrèe (ivi, 23), libico (Bardo V, 53), cadmea (Nozze di Cadmio e d’Ermione, 104), delfica (Prometeo I, 29), insubre (Nozze di Cadmio e d’Ermione, 158), lidia (ivi, 170), boreal (Sulla Mitologia, 1), aonie (ivi, 17), apollineo (ivi, 46), sabei (ivi, 71), aquilonar (ivi, 74), argive (Prosopopea di Pericle, 52), achee (Iliade I, 456), ausonio (Mascheroniana IV, 133). In generale, la tendenza a evitare moduli realistici è sottolineata dall’uso di sinonimi aulici e di latinismi (salme, Al Signore di Montgolfier, 83; pelago, ivi, 131) o di metonimie (abeti, ivi, 2; zeffiro, ivi, 99) (Meacci 20022). Il ricorso alla terminologia scientifica (botaniche, La bellezza dell’universo, 155; chimici, ivi, 159; anatomia, ivi, 3 e Mascheroniana III, 228; potenza chimica, Al Signore di Montgolfier, 39; ipotesi, ivi, 51) o l’inserzione di nomi stranieri italianizzati o no (Sthallio e Black, Al Signore di Montgolfier; 42; Robert, ivi, 88 e 107; Damiens, Ankastrom, Ravagliacco, Bassvilliana II, 187-188; cfr. Serianni 1989: 213-219) sono limitati a testi più legati alla poesia didascalica settecentesca del periodo romano, con qualche ritorno nel Bardo della Selva Nera (nitri V, 284; alcali V, 265, ittiologo V, 271, idraulico V, 279, scandaglio V, 280). Frequentissimo è il ricorso ai latinismi, che per Monti costituisce un dato naturale e intrinseco nella lingua italiana, come ravvisato anche nello Zibaldone da Leopardi (p. 14), che giudicava la sua eleganza e sobrietà dovuta all’uso di «acconce parole latine destrissimamente, disinvoltamente e morbidamente insinuate nella composizione» (tiene «occupa», Bassvilliana II, 169; trattar «maneggiare», Musogonia, 135; elegge «sceglie», ivi, 158; invase «assalì», Iliade VI, 415; producea «protraeva», ivi, 666), che talora diventano veri e propri ➔ neologismi, come rudente per «corda» (Contini 1986).

La idee sulla lingua

Monti partecipò attivamente al dibattito linguistico del primo Ottocento, all’interno del quale fu «il più significativo esponente del classicismo linguistico» (Serianni 1989: 48; ➔ classicismo; ➔ Ottocento, lingua dell’), contrapposto al ➔ purismo, sottolineando l’importanza del valore letterario delle scritture da prendere a modello e ammettendo un arricchimento della lingua (necessario in particolare agli scienziati), soprattutto rifacendosi al principio dell’ ➔ analogia.

La prima espressione dell’interesse di Monti per la questione della lingua è la prolusione all’insegnamento di Eloquenza nell’Università di Pavia del 1803-1804 (Dell’obbligo di onorare i primi scopritori del vero in fatto di scienze, pubblicata postuma nel 1832). Nel 1813 Monti interviene in una polemica del periodico milanese «Il Poligrafo» contro l’Accademia della Crusca, pubblicando il dialogo antifiorentino Il Capro, il Frullone della Crusca e Giambattista Gelli. La risposta di Antonio Cesari, autore della recente edizione del Vocabolario della Crusca cosiddetta veronese, trascina Monti in un’impietosa analisi della soluzione purista di questa edizione che pubblica in altri due dialoghi sul «Poligrafo», Il 31, il 36 e il 46 (1813) e Il Dottor Quaranzei, e il Compare Trenta-prusor-uno (1814). L’impegno nella commissione dell’Istituto nazionale per il progetto di un nuovo vocabolario consente a Monti di utilizzare e ampliare il cospicuo materiale accumulato negli anni relativo a spogli linguistici e lessicografici. Così nel 1818 (ma con data 1817) inizia la pubblicazione della Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca, che si protrae fino al 1824 con la pubblicazione di sei tomi, cui segue nel 1826 un’Appendice di indici.

Nella Prolusione pavese del 1803 Monti accusa l’Accademia fiorentina di avere fornito un vocabolario basato esclusivamente sul versante retorico-letterario e quindi inutile a scienziati e filosofi, costretti a ricorrere nelle loro opere a neologismi cosmopoliti che deturpano la lingua «più bella […] di quante se ne parlano sulla terra» (➔ accademie nella storia della lingua). Nel primo dei tre dialoghi del «Poligrafo», Monti accusa il Vocabolario della Crusca di imporre il dialetto fiorentino, becero, popolaresco e intelligibile solo dalla plebe di Firenze, quale modello della lingua comune e illustre. L’autorità del fiorentino sta nell’essere il più vicino tra i dialetti italiani alla lingua comune, ma la legittimità nell’utilizzo dei vocaboli deve essere dettata dall’uso e non dai testi di un prestabilito numero di autori del passato. Nei due dialoghi successivi Monti si scaglia contro gli errori, le carenze e soprattutto contro i vocaboli arcaici contenuti nella cosiddetta Crusca veronese, da lui attentamente postillata.

I cardini teorici della Proposta sono gli stessi già messi a fuoco nel primo dialogo e l’Accademia della Crusca, piuttosto che l’anacronistico esperimento veronese, è il vero obiettivo delle dimostrazioni montiane (Dardi 1990). Lo scopo del trattato è dichiaratamente quello di apportare «correzioni» al Vocabolario, che, mettendo a fuoco gli errori (in particolare la registrazione «senza discernimento [di] tutto il materiale offerto dai testi antichi, anche se filologicamente incerto»; Serianni 1989: 49), tolgano autorità alle sue prescrizioni. La parte relativa alle «aggiunte» è più contenuta ma significativa: molte di esse riguardano voci della scienza e della tecnica, accanto a voci letterarie di autori non fiorentini del secolo precedente (Mascheroni,  ➔ Vittorio Alfieri, Verri, Parini). L’avversione di Monti per l’uso dei dialetti, anche nella produzione letteraria, corrisponde alla sua aspirazione a una lingua veramente «comune» e «universale d’Italia».

Dal punto di vista contenutistico e redazionale la Proposta risulta un’opera molto varia. Una parte considerevole è occupata dall’Esame delle voci del Vocabolario della Crusca, disseminata in vari tomi e inframmezzata da interventi differenti (lettere dell’autore o dei suoi corrispondenti, dialoghi, recensioni a opere recenti) e dai due trattati redatti dal genero, Giulio Perticari (il primo sugli «Scrittori del Trecento»; il secondo sull’«Amor patrio di Dante» e sul «suo libro intorno il volgare eloquio»), che ripropone, debitamente aggiornate, posizioni ‘italianiste’ antifiorentine.

Come ha notato Timpanaro (1980: 159-160), «la tesi del Monti sulla questione della lingua» sta «all’inizio di una linea di sviluppo che ebbe poi in Carlo Cattaneo e più tardi in Graziadio Isaia Ascoli i suoi rappresentanti più insigni, e che dev’essere considerata più avanzata, più rispondente alle esigenze culturali di una borghesia moderna» di quella «neofiorentinistica» di  ➔ Alessandro Manzoni (➔ questione della lingua). Come ha puntualizzato Dardi (1990: 34, in nota), Monti rappresenta in questo senso il culmine di un filone teorico ‘lombardo’, partito dalla Rinunzia avanti notaio […] al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri e ben radicato nella cultura milanese del primo Ottocento. Ancora nel 1852, Carlo Tenca poteva scrivere che la Proposta continuava ad essere «il punto di partenza, in fatto di lingua e di riforma del vocabolario, opera nazionale e monumentale che l’Italia invoca indarno da tanto tempo».

Fonti

Leopardi, Giacomo (1991), Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 3 voll.

Monti, Vincenzo (1817-1826), Proposta di alcune correzioni e aggiunte al Vocabolario della Crusca, Milano, Imperiale regia stamperia, 4 voll. in 7 tomi.

Monti, Vincenzo (1953), Opere, a cura di M. Valgimigli & C. Muscetta, Milano - Napoli, Ricciardi.

Monti, Vincenzo (1998), Poesie (1797-1803), a cura di L. Frassineti, Ravenna, Longo.

Monti, Vincenzo (2002), Lezioni di eloquenza e Prolusioni accademiche, a cura di D. Tongiorgi & L. Frassineti, Bologna, CLUEB.

Monti, Vincenzo (2005), Postille alla Crusca “veronese”, a cura di M.M. Lombardi, Firenze, Accademia della Crusca.

Studi

Contini, Gianfranco (1986), Letteratura italiana del Risorgimento (1789-1861), Firenze, Sansoni.

Dardi, Andrea (1990), Gli scritti di Vincenzo Monti sulla lingua italiana, Firenze, Olschki.

Meacci, Giordano (20022), L’italiano, lingua della poesia, in La lingua nella storia d’Italia, a cura di L. Serianni, Roma, Società Dante Alighieri; Milano, Libri Scheiwiller, pp. 215-292.

Serianni, Luca (1989), Il primo Ottocento. Dall’età giacobina all’Unità, in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, il Mulino.

Serianni, Luca (1998), Per una caratterizzazione linguistica della poesia neoclassica, in Neoclassicismo linguistico, a cura di R. Cardini & M. Regoliosi, Roma, Bulzoni, pp. 27-64.

Timpanaro, Sebastiano (1980), Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi.

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