CESARINI, Virginio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESARINI, Virginio

Claudio Mutini

Nacque a Roma nel 1595 in una famiglia di antica nobiltà: il padre Giuliano era ducadi Civitanova, la madre Livia era figlia di Virginio Orsini. Giovanissimo fu mandato col fratello maggiore Alessandro a Parma presso il parente duca Ranuccio Farnese per studiarvi filosofia peripatetica. Sembra che lo studio assiduo compromettesse sin da questa età la salute del giovanetto, la cui gracile costituzione non seppe resistere a una tubercolosi tracheale che lo stroncò a soli ventinove anni. Comunque gli anni parmensi, trascorsi tra le feste di corte e le cavalcate, i giochi e i primi riconoscimenti di una eccezionale precocità intellettuale, rappresentarono il periodo felice del C., rievocato dallo scrittore in termini di doloroso rammarico.

Ritornato a Roma sicuramente prima del 1610 egli entrò in familiarità con Maffeo Barberini, il futuro pontefice Urbano VIII, e con Roberto Bellarmino, dedicandosi con molto profitto allo studio del diritto e della teologia. Più tardi, per diretto influsso del parente Federico Cesi, il C. cominciò a interessarsi di matematica e di astronomia, discipline nelle quali egli fu sempre, in fondo, un geniale dilettante, ma che servirono a metterlo in relazione con uomini come Giovanni Ciampoli e il Galilei e che gli permisero di essere ascritto (nel 1618, insieme con il Ciampoli) all'Accademia dei Lincei, in quel periodo così importante per la vita dell'Accademia e della scienza italiana che corrisponde, appunto, alla disputa galileiana contenuta nel Saggiatore.

I materiali biografici sul C. raccolti dal Cesi e parzialmente pubblicati dal Gabrieli, permettono di seguire da vicino il maturarsi nel giovane studioso romano di interessi scientifici moderni, da una matrice culturale immancabilmente scolastica: "... onde - precisa Federico Cesi - mentre il Cesarini attendeva a difendere come acerrimo scolastico li suoi Enti rationali con disputatione continua, il Principe pian piano lo veniva persuadendo, procurando tirarlo alle sensate cognitioni, col inculcarli spesso che "veritas altercando admittitur". E questo durò gran tempo senza frutto, pigliando il principe occasione non solo di lunghe sessioni, ma anco di condurlo seco in campagna, e spesso convitarlo con altri letteratissimi che erano nella Corte nelli suoi antiquarii presso il Vaticano et altri luoghi, volendo con lungo assedio il Principe ridurre questo che conosceva grandissimo ingegno alla vera e sensata filosofia".

Il C. ebbe occasione di conoscere Galileo allorché questi compì il terzo viaggio a Roma nel 1615-16. Si entusiasmò per gli studi galileiani e fu questa probabilmente la spinta decisiva che lo indusse all'abbandono dell'aristotelismo.

Una annotazione del Cesi è molto importante non solo in ordine agli studi del C., ma per seguire gli indirizzi culturali (e anche per fissarne il limite "rinascimentale") in cui si muoveva, l'Accademia romana sotto la guida del Cesi, allorché egli, il Galilei e il Ciampoli si studiano di "metter avanti alli occhi al Cesarini che il più bel libro di tutti era quello del mondo tutto e della Natura scritto da Dio benedetto, e posto avanti alli occhi di tutti gl'huomini, così hoggi come al tempo di Pitagora, Platone, Aristotele, e tutti li scrittori, i quali se n'havevano a lor modo letto e ritratto qualche cosa, ancora noi potevamo leggerci, e dovevamo esercitarci a copiarne chi meglio e chi più poteva in laude a Dio, che questa era lodevole copia, e non quella che si faceva col far centoni di testi copiati et aggruppati insieme delle humane scritture, come hoggi per lo più s'usava". "Non cessarono le battaglie del Principe e sopradetti - conclude il Cesi - fino che, rasserenata la mente, cominciò a gustare di questa vera e mirabil lettura; e risoluto il Cesarini, andò un giorno a trovare il Principe, e dirli che conosceva che la strada da lui proposta era la vera di filosofare e arrivare alla cognitione delle cose della natura e delle matematiche certezze; onde, stretta amicitia molto maggiore che non era il vincolo del sangue, comenciorno molto più spesso ad esser insieme, non più con contrasti, ma con amichevoli discorsi e disputationi e conferenze che tendevano al ... ricercamento della verità".

Con il Ciampoli il C. visse in stretta intimità: "Venni per alloggiar dal signor don Virginio due giorni - scriveva il Ciampoli a Galileo il 31 dic. 1616 - e la cortesia di questo Signore non mi vuol lasciar partire; sì che mi credo che per questa invernata riceverò il commodo e la grazia profertami con sì affettuosa insistenza che non mi par lecito il ricusarla, anzi al genio mio è desiderabilissima, particolarmente seguendo ciò senza una minima diminutione della mia solita libertà" (Galilei, Opere, XII, p. 300).

Nel periodo di aggravamento della malattia gli fu sempre vicino l'amico: così quando il C. si spinse fino a Nettuno e a Gaeta (1620) per tentare di trovarvi aria più salubre; così quando intraprese un viaggio a Bologna per consultare nuovi medici e fu costretto a sostare ad Acquasparta nel palazzo ducale dei Cesi (aprile-maggio 1620). Di qui incoraggiò Galileo a comporre una risposta alla Libbra astronomica del Grassi che sarà, appunto, il Saggiatore (in tale circostanza sappiamo dal Cesi che il C. conobbe Claudio Achillini: venne infatti a visitarlo "il Potieri medico, quale arrivò insieme col sig. Claudio Achillini filosofo bolognese insigne e, trovato il Cesarini assai ben rinfrancato, andò avanti a Roma, e poi ritornò incontro al sig. don Virginio, quale accompagnato dal Principe per buon pezzo, se ne tornò a Roma in assai buon stato, per finir la sua cura ne l'aria nativa").

In effetti a Roma il medico Curzio Clementi riuscì a migliorare notevolmente le condizioni di salute del Cesarini. Il quale nelle pause della malattia si dedicò con fervore, insieme con il Ciampoli, all'incremento dell'Accademia esercitando in assenza del Cesi e per suo incarico le funzioni di principe e di presidente, tenendosi in rapporti epistolari con i lincei di altre città italiane (soprattutto di Napoli), elargendo tutte le residue energie all'approfondimento delle esperienze galileiane. Contemporaneamente egli offrì tributi alla poesia latina e volgare stringendo rapporti con i letterati più famosi dell'epoca: Agostino Mascardi, Tommaso Stigliani, che fu stipendiato dal C. a Roma e che gli dedicò delle rime, il Marino, il Chiabrera, il Testi, nelle cui liriche il nome del C. appare come quello di un mecenate. Ma si trattò di rapporti umani che egli non poté completamente maturare assillato come fu dal peggioramento delle condizioni fisiche e forse anche tormentato dalle difficoltà finanziarie dovute al suo costume di generosità verso amici e protetti nonché dalle discordie che lo divisero negli ultimi anni dai familiari.

Si spense a Roma il 1º apr. 1624: era entrato in Curia, quale cameriere segreto di Gregorio XV e poi di Urbano VIII, che lo volle nominare anche suo maestro di camera apprezzandolo per le indubbie capacità intellettuali.

Ciò che costituisce nel C. motivo di maggior interesse non è tanto la sua curiosità scientifica quanto l'attività letteraria raccolta nell'edizione romana dei Carmina (1658: l'edizione contiene sia le poesie latine sia quelle italiane). Scrivendo al Galilei nel 1618 il C. non mancava di sottolineare gli elementi originali della propria lirica. ("Negli studi di lettere humane e particolarmente di poesia il signor Ciampoli ed io havemo qualche pensiero di novità non affatto disprezzabile": G. Galilei, Opere [ed. naz.], XII, p. 413). E ancora: "Io vado trattenendomi alle volte con le Muse, e cerco che i componimenti non siano affatto scarsi di qualche dottrina filosofica, e quanto io posso procuro in essi lasciar viva testimonianza dell'ossequio e riverenza ch'io porto alle virtù eminenti" (ibid., XIII, p. 88). Si tratta dunque chiaramente per ciò che concerne la produzione in volgare, di una lirica che tralascia lo psicologismo petrarchesco, il descrittivismo del Marino e, insomma, ogni elemento goduto nella forma edonistica più superficiale dalla poetica del Seicento, per tentare un discorso di più vasto respiro, autobiografico e moraleggiante insieme, che, secondo la moda del secolo, intendeva ispirarsi a Pindaro e a Orazio.

A parte tali ambizioni riscontrabili nella scelta dei modelli, le poesie italiane svolgono una tematica tipicamente controriformistica, sia che lo scrittore si impegni a dimostrare che le calamità della vita, le infermità del corpo sono desiderabili al fine di rafforzare la virtù, sia che consigli di evitare l'ambizione e le ricchezze, sia infine che, professando un impegno genericamente filosofico, cerchi di dimostrare la moralità delle favole antiche allorché tenta un'interpretazione della mitologia che è molto vicina a quella del Bartoli.

Il metro usato quasi costantemente nelle liriche in volgare è la quarta rima: una misura idonea a contenere l'ispirazione riflessiva del C., il quale raggiunge assai sporadicamente effetti artistici di qualche rilievo, anche se la moralità dell'ispirazione e la sincerita degli intenti edificanti gli valsero il consenso dei contemporanei e una serie di giudizi elogiativi che oggi non si possono in alcun modo condividere. Soprattutto Fulvio Testi fu prodigo di lodi per il C. e per il Ciampoli ricordandoli come "i due miracoli dell'Italia che hanno ... nell'opera loro dimostrato che le Muse toscane non arrossiscono in paragone delle greche" (prefazione delle Rime dei Testi, Modena 1627); e, riferendosi all'insegnamento antimarinistico dello scrittore romano, non esitava a indirizzargli versi siffatti: "Tu dilungando da le vie più triste / il mio piè vaneggiante, / m'insegnasti vestir dedalee piume" (Opere scelte di Fulvio Testi, I, Modena 1817, p. 76). In realtà l'insegnamento del C. si restrinse all'ufficio, molto più limitato, di innestare sugli schemi stilistici della lirica tardorinascimentale alcuni calchi desunti dalla poesia classica, e in ciò non fece che continuare, magari esasperandole, alcune esperienze di riforma petrarchistica già maturate nel Cinquecento da un Molza, poniamo, o da un Bernardo Tasso.

Mentre tale tentativo non rafforzava che esteriormente gli schemi di una poesia oratoria e didascalica, questa nei contenuti non poteva che riproporre quei vuoti appelli a un conformismo morale di cui si nutriva la letteratura inventivamente opaca della Controriforma: il che getta un dubbio più che lecito sul presunto dinamismo culturale del C. nel campo della collaborazione alle idee della nuova scienza.

Senz'altro più felici sono le liriche in latino (vi prevalgono l'esametro e il distico elegiaco) sia perché qui la lezione dei classici è più diretta e immediata sia perché meno elaborato vi appare lo sforzo di adeguare l'espressione al pensiero e più libera, quindi, si distende la confessione di una umanità dolorosa, il rimpianto della giovinezza non goduta, il fosco presagio di un avvenire che presto stroncherà le energie vitali.

Fonti e Bibl.: G. Galilei, Opere (ed. nazionale), XX, Indice dei nomi (p.125), Indice biografico (p. 416); F. Testi, Lettere, I, Bari 1967, pp. 28, 34, 120; I. N. Erithraei [G. V. Rossi] Pinac. imaginum ill. doctrina vel ingenii laude virorum ..., I, Coloniae Agrippinae 1645, pp. 59 s.;P. Mandosio, Bibliotheca Romana, Roma 1666, p. 69; N. Ratti, Memoria sulla vita di quattro donne illustri della casa Sforza e di mons. V. C., Roma 1785; N. Conigliani, V. C., Piacenza 1928; G. Gabrieli, Due prelati lincei in Roma alla corte di Urbano VIII: V.C. e Giavanni Ciampoli, Roma 1930; L. von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, p. 915; E. Raimondi, Il "Teatro delle Meraviglie", in Letteratura barocca, Firenze 1961, p. 331; Id., Alla ricerca del classicismo e Paesaggi e rovine nella poesia di un virtuoso, in Anatomie secentesche, Pisa 1966, pp. 38 s., 43-72; A. Belloni, Il Seicento, Milano s.d., ad Indicem; C. Varese, Teatro,prosa,poesia, in Storia della letter. italiana, a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, V, Milano 1967, pp. 796 s.

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