VIRUS

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)

VIRUS

Ferdinando Dianzani

(v. ultravirus, xxxiv, p. 644; App. II, II, p. 1056; virus, App. III, II, p. 1103; IV, III, p. 830)

I v. sono piccoli organismi subcellulari, incapaci di moltiplicarsi al di fuori di una cellula ospite (parassitismo intracellulare obbligato). La particella virale matura (virione) è costituita da un solo tipo di acido nucleico (RNA o DNA) e, nei v. più semplici, da un involucro proteico. L'acido nucleico contiene l'informazione genetica necessaria a programmare l'utilizzazione dei meccanismi sintetici della cellula ospite per la replicazione virale. L'involucro proteico svolge due funzioni principali: in primo luogo protegge l'acido nucleico dai danni che potrebbero essere prodotti dall'ambiente extracellulare; in secondo luogo consente l'ancoraggio del virione sulla membrana della cellula ospite. Una volta che il genoma virale sia penetrato nella cellula ospite, la replicazione virale avviene utilizzando prevalentemente i meccanismi sintetici ed energetici della cellula. I vari costituenti del virione vengono sintetizzati separatamente e successivamente montati, quasi come in un gioco a incastro, per formare le particelle virali che costituiscono la progenie. Questo tipo di replicazione è peculiare dei v. e li distingue da tutti gli altri microrganismi, compresi quelli che condividono con i v. le caratteristiche di parassitismo endocellulare obbligato.

Un'altra importante caratteristica delle infezioni virali è che la maggior parte dei v., a differenza dagli altri microrganismi, non può stabilire relazioni mutualistiche con l'ospite. Infatti, anche se alcuni v. possono produrre infezioni silenti, di regola la loro moltiplicazione causa il danneggiamento o la morte della cellula. Tuttavia, dovendo affidare la propria perpetuazione alla presenza di cellule viventi, e pertanto alla sopravvivenza dell'ospite, i v. tendono evolutivamente a stabilire infezioni non gravi in cui la morte o l'immobilizzazione dell'ospite si verificano più come evento fortuito che non come un esito naturale nell'ambito della normale evoluzione clinica. La spinta evolutiva verso l'attenuazione più che verso la virulenza deriva dalla necessità di trovare sempre nuovi ospiti sensibili per poter propagare la loro specie e, non potendo resistere a lungo nell'ambiente esterno, i v. debbono necessariamente affidare al proprio ospite il compito di trasmetterli ad altri individui. Ne consegue che le possibilità di trasmissione aumentano quando l'ospite, benché infetto, si trovi in buona salute e in grado di svolgere una vita di relazione pressoché normale. Nella maggior parte dei casi l'evoluzione dei v. verso l'attenuazione si esplica attraverso l'acquisizione di una maggiore sensibilità ai meccanismi difensivi dell'ospite. Pertanto questa condizione può essere sovvertita nelle infezioni in soggetti i cui sistemi difensivi siano compromessi da stati d'immunodeficienza primaria o secondaria.

Composizione chimica e morfologia. - L'acido nucleico può essere costituito da RNA o da DNA, ognuno dei quali si può presentare in ciascun tipo di v. in forma mono- o bicatenaria e a unico filamento o segmentato. Il peso molecolare varia da circa 3 × 105 D in alcuni v. difettivi a oltre 108 D nei v. più complessi. Dato che l'acido nucleico contiene l'informazione genetica necessaria per codificare tutte le funzioni replicative del v., compresa la programmazione della cellula ospite per l'espletamento delle funzioni biosintetiche necessarie per la moltiplicazione virale, la grandezza dell'acido nucleico è proporzionale al grado di complessità replicativa e strutturale del particolare virus. Infatti un acido nucleico di 2÷3 × 106 D può codificare circa 5÷6 proteine, mentre uno di 108 D ne può codificare circa 100÷200. Tra le proteine codificate si trovano sia quelle che costituiscono i rivestimenti del virione (strutturali), sia quelle ad attività enzimatica che intervengono durante la replicazione virale (funzionali): ne deriva che un v. che possiede un acido nucleico piccolo debba necessariamente avere una struttura e un ciclo replicativo più semplici rispetto a v. con acido nucleico grande. L'aggregazione delle proteine strutturali può avvenire secondo due diversi meccanismi: l'apposizione delle subunità proteiche lungo l'asse dell'acido nucleico (simmetria elicoidale), o la combinazione delle subunità secondo una distribuzione di tipo cristallino, che consente la formazione di un involucro isometrico (simmetria icosaedrica) che racchiude l'acido nucleico. Indipendentemente dal tipo di simmetria, alcuni v. acquisiscono nel momento in cui escono dalla cellula un secondo rivestimento (pericapside), costituito da proteine virali e da lipidi di origine cellulare (provenienti, cioè, dalla cellula ospite). Le proteine del pericapside sono costituite da glicoproteine esterne e da una proteina di matrice situata all'interno dello strato lipidico. Alcuni dei v. più grandi possono avere una struttura più complessa. Pertanto dal punto di vista chimico i v. risultano composti da acido nucleico, proteine, zuccheri (coniugati) e lipidi (di origine cellulare). Dal punto di vista morfologico e strutturale si possono avere cinque diversi tipi di struttura: v. a simmetria elicoidale nudi, a simmetria elicoidale rivestiti, a simmetria icosaedrica nudi, a simmetria icosaedrica rivestiti, a simmetria complessa.

Meccanismi di replicazione virale. - La replicazione viene schematicamente suddivisa in fasi: adsorbimento e penetrazione, sintesi dei costituenti virali, montaggio delle subunità, maturazione e liberazione.

Adsorbimento e penetrazione. Il contatto del v. con la cellula ospite è casuale e reversibile, a meno che non si stabilisca un legame specifico tra le macromolecole proteiche poste sulla parte più esterna del virione (antirecettori) e macromolecole a esse complementari (recettori), che sono tra i componenti della membrana citoplasmatica della cellula ospite. I recettori cellulari possono essere presenti su tutte le cellule dell'organismo o solo nelle cellule di alcuni tessuti; ciò condiziona non solo lo spettro d'ospite del v., ma anche la patogenesi dell'infezione. Per es. un v. che si adsorba solo sui linfociti dà una patologia esclusivamente emato-immunologica, viene in genere trasmesso per via ematica e colpisce preferibilmente alcune categorie di soggetti (per es. i politrasfusi). Al contrario, v. capaci di adsorbirsi su vari tipi di cellule (epiteliali, linfociti, macrofagi, neuroni, cellule endoteliali, ecc.) possono dare patologie molto variabili, dalle forme subcliniche a occasionali polmoniti, encefaliti, esantemi, ecc. In questi casi, dato che le cellule sensibili si trovano anche nelle mucose, la trasmissibilità del v. sarà molto elevata in tutta la popolazione sensibile, senza l'influenza determinante di particolari condizioni di rischio. Quasi simultaneamente all'adsorbimento, il virione penetra all'interno della cellula per viropessi (pinocitosi), per translocazione o per fusione. Il processo di fusione è facilitato dalla presenza di particolari proteine virali (fattori di fusione) sull'involucro pericapsidico. Le vescicole pinocitosiche si fondono con i lisosomi cellulari che vi riversano gli enzimi litici e ne idrolizzano il contenuto liberando l'acido nucleico virale.

Sintesi dei costituenti virali e strategie replicative. Una volta liberato, il genoma virale è in condizione di esprimere il proprio codice genetico. Il punto centrale è costituito dal fatto che per produrre le proprie proteine il v. deve disporre di propri RNA messaggeri (mRNA). Ciò viene raggiunto da v. differenti utilizzando sei diverse strategie, dette anche classi di replicazione. La prima classe è costituita da v. che possiedono come genoma un RNA monocatenario a polarità positiva, e quindi in grado di fungere da mRNA associandosi ai ribosomi per la sintesi delle proteine funzionali e strutturali. Di conseguenza gli enzimi necessari per la replicazione del genoma sono prodotti dalla cellula infettata e non debbono essere trasportati dal virione. La seconda classe replicativa è rappresentata da v. con genoma a RNA monocatenario a polarità negativa, e cioè incapace di legarsi ai ribosomi. Debbono pertanto sintetizzare un RNA mediante una RNA polimerasi RNA-dipendente, associata al virione. La terza classe è costituita da v. con RNA bicatenario, una struttura che non esiste nella cellula e che pertanto non può essere riconosciuta dagli enzimi cellulari. Anche questi v. debbono quindi veicolare all'interno della cellula il proprio enzima RNA transcrittasi. I v. delle classi quarta e quinta possiedono come genoma il DNA, rispettivamente bicatenario o monocatenario, strutture rappresentate anche nella cellula ospite. Ne consegue che possono utilizzare per la trascrizione gli enzimi cellulari presenti nel nucleo. La sesta classe replicativa è costituita da v. che, pur possedendo come genoma RNA a polarità positiva, seguono un meccanismo replicativo complesso che passa attraverso la sintesi di DNA bicatenario. Si tratta dei retrovirus che, dovendo sintetizzare DNA su uno stampo di RNA genomico, debbono necessariamente veicolare l'enzima capace di compiere questa anomala trascrizione, e cioè la trascrittasi inversa. Questo enzima, oltre alla trascrizione di un filamento DNA complementare all'RNA genomico, provvede anche alla depolimerizzazione dell'RNA sull'ibrido RNA-DNA che si è formato e alla sintesi della seconda catena di DNA. Una volta formata la molecola di DNA bicatenario, questa si circolarizza e s'inserisce nel DNA della cellula ospite avendo la possibilità di rimanere in forma latente o di essere trascritta da enzimi cellulari con produzione di mRNA.

La sintesi delle proteine virali viene regolata a due livelli, e cioè mediante una trascrizione differenziata delle diverse parti del genoma, con produzione preferenziale di alcuni mRNA rispetto ad altri, o a livello della traduzione di messaggeri policistronici che codificano più proteine. Alcuni v. più complessi compiono anche un ciclo di trascrizione destinata alla produzione di proteine di regolazione, capaci cioè di dirigere l'espressione del genoma virale in modo ordinato. Tra queste proteine di regolazione possono esservi molecole cis- o transattivanti, cioè molecole che agiscono, rispettivamente, nel medesimo cromosoma (cis) oppure in un altro cromosoma o in altro sito distante (trans). Queste proteine, agendo su geni cellulari, potrebbero favorire la trasformazione neoplastica della cellula. Durante la replicazione virale le sintesi metaboliche della cellula ospite vengono progressivamente alterate e ridotte. I v. citocidi, soprattutto quelli più virulenti, bloccano in breve tempo le sintesi macromolecolari cellulari, occupando con i propri mRNA i ribosomi e indirizzando così la cellula all'esclusiva produzione di virioni di progenie.

Maturazione e liberazione. Una volta sintetizzati separatamente, i costituenti virali debbono aggregarsi a formare virioni maturi che, liberati dalla cellula, possano infettare altre cellule. Nei v. nudi il montaggio corrisponde alla maturazione e i virioni di progenie si liberano in seguito alla lisi della cellula. I v. con involucro escono dalla cellula per gemmazione. Per la maggior parte dei v. con involucro liberazione e maturazione coincidono, ma talvolta il processo di maturazione, cioè l'acquisizione dell'infettività, si completa dopo la liberazione attraverso ulteriori modifiche delle proteine virali (a opera di una proteasi virale), che si verificano all'interno del virione liberato.

Patogenesi delle infezioni virali. - La patogenesi delle infezioni virali è condizionata da un lato dall'attività infettante e replicativa del v., dall'altro dalla permissività dell'ospite e dei suoi organi, nonché dall'efficacia dei suoi meccanismi difensivi. Infatti il v. per infettare le cellule deve in primo luogo adsorbirsi e penetrarvi e quindi moltiplicarvisi e diffondere l'infezione alle cellule contigue ed, eventualmente, ad altri distretti dell'organismo. Questo processo si evolve attraverso tre fasi successive: l'ingresso del v. nell'ospite; i meccanismi di diffusione dalla sede di primo impianto; la disseminazione agli organi bersaglio.

L'ingresso del v. può avvenire attraverso le mucose, la cute, i tessuti sottocutanei e, per alcuni v., per via placentale nelle infezioni intrauterine, o attraverso il latte o le cellule germinali. L'ingresso attraverso le mucose riguarda prevalentemente quelle degli apparati respiratorio superiore e digerente e, più limitatamente, quelle oculari e genitourinarie. Quella attraverso le mucose è certamente la via di penetrazione più diffusa e interessa le più comuni malattie virali dell'uomo, anche se vi si oppongono meccanismi difensivi dell'ospite costituiti prevalentemente dai cosiddetti inibitori aspecifici del muco, costituiti sostanzialmente da molecole glicoproteiche. Questa prima linea difensiva è però facilmente superata quando la carica infettante virale superi un certo valore soglia. Quando ciò avviene si ha un'iniziale replicazione del v. nella sede d'impianto, cui possono seguire: a) l'arresto dell'infezione per fenomeni reattivi dell'ospite particolarmente efficaci, come l'infiammazione e la produzione d'interferone (v. in questa Appendice), b) la diffusione dell'infezione nella stessa sede d'impianto, per es. le cavità nasali per i v. del raffreddore, c) la diffusione per contiguità a sedi più profonde (per es. il tratto respiratorio inferiore per i v. influenzali), e infine, d) la diffusione a distanza attraverso il circolo linfatico ed ematico.

La trasmissione per via cutanea può avvenire solo quando esista una soluzione di continuo dello strato corneo e viene utilizzata in via primaria solo da pochi v., come quelli delle verruche e del mollusco contagioso; quella cutanea può però costituire un'occasionale via d'ingresso per numerosi v., come quelli delle epatiti B e C, quello rabico, quelli erpetici, ecc. La trasmissione attraverso i tessuti sottocutanei interessa le infezioni trasmesse da artropodi o da mammiferi morsicatori. All'ingresso del v. nell'organismo segue la moltiplicazione nella zona d'impianto, che può esaurirsi localmente, estendersi nel medesimo organo, o diffondersi ad altri organi distanti. L'estensione dell'infezione al resto dell'organo può avvenire per contiguità, per trasporto attraverso i fluidi extracellulari o per trasporto attraverso cellule migranti, per es. i macrofagi. La diffusione per contiguità si verifica nelle infezioni a limitata distribuzione topografica, per es. le congiuntiviti, il raffreddore e le verruche nelle quali, tuttavia, il v. può essere trasportato anche a distanza con interventi meccanici. La diffusione nell'ambito del medesimo organo o apparato può avvenire, oltre che per contiguità, anche mediante il trasporto con il flusso dei liquidi organici o all'interno di cellule migranti che possano essere infettate dal virus. La diffusione a organi distanti avviene in genere per drenaggio del v. nel circolo linfatico e da questo in quello ematico. Si verifica così una prima viremia, in genere fugace, che consente l'infezione di organi distanti, in genere quelli linfoidi, nei quali vengono prodotte grandi quantità di v. che, immettendosi direttamente in circolo, provocano una più prolungata viremia. Questa porta il v. in contatto con tutti gli organi e con gli endoteli che costituiscono le barriere anatomiche fisiologiche, come quella ematoencefalica, ematopolmonare, placentare, ecc. Talvolta il v. può diffondersi anche attraverso i nervi periferici, come avviene per es. nella rabbia e nell'herpes simplex o zoster. Alla disseminazione per via ematica può seguire la moltiplicazione negli organi bersaglio, per es. il fegato per i v. epatitici, le ghiandole per il v. parotitico, il sistema nervoso centrale per i v. neurotropi, ecc., i cui danni costituiscono la caratteristica clinica della malattia. La moltiplicazione negli organi bersaglio è di norma ostacolata dai meccanismi difensivi aspecifici e, dato che si tratta in genere di una fase avanzata dell'infezione, anche dai meccanismi immunitari specifici che si siano sviluppati nel frattempo. Per questo motivo i sintomi clinici possono essere lievi o possono essere rilevati soltanto attraverso dati di laboratorio o strumentali.

Meccanismi difensivi. - I meccanismi difensivi che contrastano la replicazione e la diffusione del v. nell'organismo sono molto efficaci, come dimostrato dall'andamento autolimitante che la maggior parte delle infezioni virali ha nell'ospite immunocompetente. Tali meccanismi difensivi possono essere aspecifici, e pertanto attivi in qualunque infezione virale, o specifici, e cioè legati a una risposta immunitaria verso il particolare v. responsabile dell'infezione. Durante le prime fasi dell'infezione, e cioè prima che l'ospite abbia avuto il tempo di sviluppare una risposta immunitaria specifica, sono soltanto i meccanismi aspecifici a contrastare l'infezione e impedirle di assumere l'andamento potenzialmente devastante che la velocità e l'efficienza di replicazione della maggior parte dei v. potrebbero provocare. Alcuni di questi meccanismi sono costantemente presenti nell'organismo, mentre altri vengono attivati dall'infezione stessa. I meccanismi difensivi che precedono l'infezione comprendono le barriere anatomiche cutanee e mucose, cui abbiamo già accennato, e la fagocitosi. Sulla efficacia della fagocitosi da parte di granulociti e macrofagi nei riguardi dei v. esistono ancora molte incertezze, anche se si tende ad ammettere che questo meccanismo abbia per le infezioni virali una funzione meno importante di quella che invece svolge nelle infezioni batteriche. Se infatti alcuni v. possono essere efficacemente inglobati e distrutti dai fagociti, altri sono in grado di sopravvivere all'interno del fagocita o addirittura moltiplicarvisi; in questi casi la fagocitosi può fungere, anziché da meccanismo difensivo, da fattore di diffusione della infezione. Occorre tuttavia tener conto del fatto che, oltre che con l'attività fagocitaria, i macrofagi possono svolgere un'azione antivirale producendo in seguito allo stimolo virale varie monochine, tra cui l'interferone α, l'interleuchina 1 e il fattore di necrosi tumorale, o TNF (v. immunità e interferone, in questa Appendice). Queste citochine esplicano direttamente o indirettamente un'efficace azione antivirale, rallentando o bloccando la replicazione, potenziando la reazione infiammatoria e incrementando la distruzione delle cellule infette da parte delle cellule dotate di attività citocida naturale (NK). Tra i meccanismi difensivi attivati dalle infezioni i più importanti sono la febbre, l'infiammazione e la produzione d'interferone.

La replicazione virale è fortemente influenzata dalla temperatura, tanto che anche un aumento modesto, da 37°C a 38°C, può inibire significativamente la moltiplicazione di molti virus. Questo fenomeno è stato osservato in colture cellulari e in molti sistemi animali, oltre che in infezioni naturali. Si è infatti osservato che facendo artificialmente innalzare la temperatura in topi infettati con vari v. si ottiene una drastica riduzione della letalità; al contrario un abbassamento della temperatura provoca un aumento di mortalità. Numerose osservazioni indicano che lo stesso fenomeno può verificarsi anche nelle infezioni virali dell'uomo.

La reazione infiammatoria, indotta nei tessuti infetti dai prodotti delle cellule danneggiate dal v. o da vari mediatori come citochine o complemento attivato, può generare vari meccanismi antivirali. I principali componenti dell'infiammazione sono le alterazioni circolatorie, l'edema e l'accumulo di leucociti. Ne derivano un'elevazione della temperatura locale, una riduzione della tensione di ossigeno e, quindi, un'alterazione del metabolismo energetico cellulare e un aumento della concentrazione locale di CO2 e di acidi organici. Per es. l'iperemia passiva provoca una riduzione dell'afflusso di ossigeno che, a sua volta, fa abbassare la produzione di ATP e quindi di energia a disposizione per le sintesi virali. Inoltre il conseguente aumento della glicolisi anaerobica, oltre a far ulteriormente ridurre la produzione di energia, favorisce l'accumulo di CO2 e di acidi organici che possono far abbassare il pH nei tessuti fino a livelli incompatibili con la moltiplicazione virale. L'acidità locale può ulteriormente aumentare in seguito all'accumulo e successiva degradazione dei leucociti che infiltrano l'area. Si può quindi concludere che l'infiammazione indotta dall'infezione virale è in grado di attivare varie modificazioni metaboliche, chimico-fisiche e fisiologiche che, agendo individualmente o in maniera sinergica, possono interferire con la moltiplicazione virale.

L'interferenza virale consiste nell'inibizione della moltiplicazione di un v. in cellule infettate da un altro virus. Il fenomeno può avvenire tra v. omologhi o eterologhi e può avere diversi meccanismi, il più importante dei quali consiste nella liberazione da parte della cellula infetta di una o più proteine, chiamate interferoni, che hanno la capacità di attivare nelle cellule con cui vengono a contatto un secondo flusso di sintesi di proteine: queste sono in grado d'inibire la replicazione di praticamente tutti i v. senza interferire apprezzabilmente con il metabolismo della cellula.

Sono stati finora identificati cinque tipi d'interferone (IFN): interferone α, prodotto da leucociti; interferone β, prodotto principalmente da fibroblasti; interferone γ, prodotto principalmente da linfociti T; interferone ὗ, prodotto da leucociti, e interferone τ prodotto da cellule trofoblastiche durante le prime fasi della gravidanza. Mentre gli ultimi due tipi d'interferone sono stati isolati e caratterizzati solo recentemente, gli altri tre tipi sono stati studiati molto estesamente e sono ormai entrati nella pratica clinica. A differenza degli interferoni β e γ, che sono rappresentati in un unico tipo, l'interferone α comprende numerosi sottotipi codificati da vari geni non allelici. Sono stati identificati almeno 18 geni differenti per l'interferone α, 6 dei quali vengono considerati pseudogeni. L'omologia tra le regioni che codificano i vari geni per l'interferone α è di circa il 90%. Nonostante questa omologia così alta, l'attività biologica dei vari sottotipi d'interferone α mostra alcune differenze. Per es. alcuni sottotipi hanno un'attività antivirale più spiccata rispetto a quella immunomodulante, e viceversa.

Per stabilire lo stato antivirale, gli interferoni debbono interagire con le cellule legandosi a specifici recettori sulla membrana citoplasmatica; gli interferoni α e β utilizzano il medesimo recettore, mentre l'interferone γ si lega a un recettore differente. In seguito al legame con il recettore vengono attivati segnali trans-membrana che portano alla traduzione di proteine neoformate, la cui espressione rende la cellula resistente all'infezione virale. Il numero esatto delle proteine indotte dagli interferoni non è noto, anche se si è accertato che quelle indotte dall'interferone γ sono molto più numerose di quelle indotte dagli interferoni α e β. Alcune di esse sono state ben caratterizzate e la loro produzione è chiaramente associata all'induzione dello stato antivirale. Forse la più importante è la 2′−5′−oligo-adenilatosintetasi che, in presenza di RNA bicatenario (per es. le forme replicative dei v. ad RNA), provoca la sintesi di oligomeri adenilici con un peculiare legame fosfodiestere 2′−5′ tra i residui di ribosio. Queste molecole attivano quindi una ribonucleasi preesistente in forma inattiva, la RNasi L, che depolimerizza l'RNA virale monocatenario. Una seconda proteina, la proteina chinasi RNA bicatenario-dipendente ha come substrato se stessa (autofosforilazione) e il fattore d'inizio eIF-2 che, una volta fosforilato, è incapace di formare il complesso d'inizio 40S. Gli interferoni α e β inducono anche la sintesi di proteine dette Mx, capaci d'inibire la replicazione del v. influenzale inibendone la produzione di mRNA nel nucleo delle cellule infette; queste proteine non vengono invece indotte dall'interferone γ che non esercita un'azione inibente verso il v. influenzale. Il meccanismo per cui le proteine Mx svolgono l'attività antivirale non è ancora ben definito, e solo recentemente è stato dimostrato che l'inibizione della replicazione virale si verifica a livello della trascrizione e della traduzione delle proteine virali. Recentemente è stato osservato che anche il v. della stomatite vescicolare può subire l'inibizione da parte delle proteine Mx.

Per quanto riguarda i v. oncogeni, è stato dimostrato che l'interferone può inibirne la replicazione con vari meccanismi. Per es. alcuni v. oncogeni a RNA possono essere inibiti dagli interferoni durante le fasi iniziali di replicazione o di trasformazione, mentre altri v. sono inibiti durante la maturazione o la liberazione. Quest'ultimo effetto sembra legato a un'alterazione della fluidità della membrana citoplasmatica o a un'alterazione della glicosilazione delle proteine virali, entrambe provocate dall'interferone. È stato invece dimostrato che l'interferone non inibisce l'espressione di sequenze virali una volta che queste si trovino integrate nel DNA della cellula.

Oltre che direttamente attraverso la produzione delle proteine effettrici, gli interferoni possono svolgere un'azione antivirale indiretta potenziando le reazioni immunitarie e influenzando la differenziazione cellulare. È stato per es. osservato che a dosaggi ottimali, al di sotto e al di sopra dei quali l'effetto può non manifestarsi, gli interferoni potenziano notevolmente l'attività citocida delle cellule con attività citotossica naturale (macrofagi e NK) e dei linfociti CD8+ specificamente sensibilizzati verso gli antigeni virali. Attraverso il potenziamento dell'espressione del recettore Fc, può risultare potenziata anche l'attività citotossica mediata da anticorpi (ADCC, Antibody Dependent Cellular Citotoxicity). Questi meccanismi, incrementando l'uccisione delle cellule infette, possono potenziare sensibilmente in vivo gli effetti prodotti dall'azione antivirale diretta.

La modulazione del differenziamento cellulare può avere un'ulteriore azione inibente sulla replicazione virale, nel caso di quei v., per es. i papovavirus, che si moltiplicano soltanto in cellule che si trovano in un determinato stadio di differenziamento. Meccanismi analoghi, oltre a un'attività antiproliferativa e citostatica, possono risultare efficaci anche nel controllo dello sviluppo di alcuni tumori, e vi sono fondati motivi di ritenere che in condizioni fisiologiche anche l'interferone endogeno possa svolgere questa funzione. È stato per es. dimostrato che nel topo l'ablazione del sistema interferone alla nascita favorisce sensibilmente il successivo sviluppo di tumori.

Anche nelle infezioni virali l'importanza dell'interferone come meccanismo difensivo è dimostrata dal fatto che la sua ablazione in un organismo infettato fa peggiorare sensibilmente l'andamento dell'infezione e, d'altro canto, la sua somministrazione subito prima o immediatamente dopo un'infezione virale è in genere in grado di attenuarne sensibilmente il decorso.

I meccanismi difensivi specifici che influenzano il decorso dell'infezione virale sono principalmente mediati dai linfociti T, mentre la funzione degli anticorpi è marginale, da una parte per la sede intracellulare dell'infezione virale, dall'altra per il fatto che molti v., nel corso dell'infezione, mostrano una deriva antigenica che li rende non più attaccabili dagli anticorpi preesistenti. È stato infatti accertato che la presenza di anticorpi è molto efficace nel selezionare mutazioni a carico delle proteine virali di superficie e che talvolta, come nel caso del v. dell'immunodeficienza acquisita umana, è sufficiente la sostituzione di un solo aminoacido per rendere il v. non neutralizzabile dagli anticorpi presenti. Gli antigeni interni sono invece più stabili e possono essere presentati dalle cellule infette e riconosciuti dai linfociti T citotossici, in genere appartenenti al fenotipo CD8. Questi linfociti riconoscono con il recettore per l'antigene la cellula infetta, vi si legano attraverso l'interazione tra il proprio recettore CD8+ e l'antigene d'istocompatibilità di classe I nella cellula e la lisano arrestando così la produzione di virus. Fenomeni di citotossicità possono essere svolti anche da linfociti o macrofagi non specificamente sensibilizzati ma in possesso del recettore per la porzione Fc delle immunoglobuline; attraverso questo recettore tali cellule sono capaci di legarsi alle cellule infette tramite un anticorpo specifico per un antigene virale che vi si trovi adeso (ADCC). I linfociti citotossici vengono prodotti dopo 3÷5 giorni dall'infezione, e quindi in tempo utile per partecipare al processo di guarigione. L'azione antivirale dei linfociti T sensibilizzati può svolgersi anche indirettamente attraverso la produzione di linfochine che, oltre a possedere talvolta un'azione antivirale propria, sono in grado di esaltare la citotossicità di altre cellule (effetto LAK, Limphokine Activated Killing).

Oltre che per i meccanismi di guarigione, i meccanismi immunitari specifici svolgono una funzione fondamentale anche per la prevenzione delle reinfezioni o, quando attivati da vaccini, anche dell'infezione primaria (v. anche vaccino, in questa Appendice).

Farmaci antivirali. - Idealmente un farmaco antimicrobico deve poter inibire la replicazione del microrganismo senza alterare il metabolismo della cellula ospite; in altri termini dev'essere selettivo. Data questa premessa, e considerando la loro pressoché totale dipendenza replicativa dai meccanismi biosintetici della cellula ospite, i v. costituiscono per definizione un bersaglio assai difficile per i chemioterapici. Infatti fino a non molti anni fa i pochissimi farmaci antivirali disponibili erano stati ottenuti con procedimenti relativamente empirici. Più recentemente l'impiego delle tecnologie avanzate ha consentito d'identificare nella maggior parte dei v. strutture molecolari e fasi replicative che si discostano da quelle dell'ospite e che possono pertanto essere aggredite specificamente da farmaci pienamente selettivi. Tuttavia in questi casi la funzione virale che funge da bersaglio impegna per definizione una parte limitata del patrimonio genetico virale, ed è pertanto facilmente modificabile per mutazione. Ne consegue che i farmaci antivirali molto selettivi inducono facilmente selezione di mutanti virali resistenti. Pertanto il trattamento delle infezioni virali, specialmente quelle a lungo decorso, incontra due ostacoli pratici pressoché insormontabili: un accumulo di tossicità per i farmaci non pienamente selettivi o un periodo limitato di attività per quelli molto selettivi. Fanno eccezione i rari farmaci che, come per es. l'acicloguanosina, vengano attivati da una funzione virale (e che pertanto risultano inattivi nelle cellule non infette) e quelli i cui mutanti resistenti presentino una patogenicità ridotta per l'ospite.

Nonostante queste premesse, l'armamentario terapeutico contro le infezioni virali si è notevolmente arricchito rispetto a quello riportato in Appendice IV. Indicheremo pertanto solo i farmaci più recenti, limitandoci a quelli già entrati nella pratica clinica corrente o in fase di sperimentazione avanzata e in procinto di essere approvati.

Le infezioni virali contro le quali è stata sviluppata la maggior parte dei farmaci sono quelle da herpesvirus e quelle da retrovirus. Contro le infezioni da v. herpes simplex ed herpes zoster il farmaco più efficace è l'acicloguanosina, o aciclovir, farmaco che, come si è già detto, viene attivato attraverso un processo di fosforilazione che è iniziato dalla timidina chinasi virale e che nella forma trifosfata funge da terminatore di catena del DNA virale; la sua tossicità per la cellula è molto scarsa, dato che viene riconosciuto molto più efficacemente dalla DNA polimerasi virale che non da quella cellulare. Nell'ospite immunocompetente, ma non in quello immunodeficiente, la comparsa di mutanti resistenti ha scarso significato pratico perché si tratta in genere di ceppi sprovvisti di timidinachinasi che, pur mantenendo la capacità di replicarsi in vitro, hanno perduto sostanzialmente la patogenicità in vivo. Questo farmaco è stato recentemente modificato con l'aggiunta di una valina (valciclovir), e ciò gli conferisce migliori caratteristiche farmacocinetiche. Sempre attivo sui v. erpetici simplex e zoster è un altro derivato della guanina chiamato famciclovir, con caratteristiche simili a quelle del valciclovir.

Per le infezioni da v. citomegalico sono stati recentemente sviluppati due farmaci: la 9-(1,3 didrossi-2-propossimetil)guanina, o ganciclovir, e l'acido fosfonoformico, o foscarnet. Una volta fosforilato dalle chinasi cellulari, il ganciclovir funge da terminatore di catena del DNA del citomegalovirus, per la cui DNA polimerasi ha molta più affinità che non per quella cellulare. Tuttavia, venendo attivato sia dalle cellule infette che da quelle non infette, può produrre a lungo termine una tossicità midollare. Anche il foscarnet, che non necessita di fosforilazione, è un potente inibitore della DNA polimerasi del citomegalovirus e di altri herpesvirus. Risulta molto attivo nelle infezioni da citomegalovirus ed herpesvirus umano 6, ma è dotato di una certa tossicità a lungo termine. Entrambi i farmaci selezionano facilmente mutanti resistenti.

Molti farmaci sono stati sviluppati anche per i retrovirus, nei quali il bersaglio più invitante è certamente la trascrittasi inversa, un enzima virale che non ha corrispettivo nelle cellule. Sono attualmente disponibili tre farmaci anti-trascrittasi: la AZT (azidotimidina), o zidovudina, la didesossinosina, o didanosina, e la didesossicitidina, o zalcitabina. Ancora in sperimentazione, ma prossime all'approvazione almeno in alcuni paesi, sono la dedossi-tiacitidina, o lamivudina (3TC) e la dideidro-desossitimidina, o stavudina (D4T). Tutti questi farmaci sono analoghi di nucleosidi con un buon indice di selettività, ma dotati di tossicità a lungo termine. Altri inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa sono i derivati della benzodiazepina, il più studiato dei quali è un derivato dipiridodiarepionico, o nevirapina. Questi farmaci sono molto più selettivi e praticamente privi di tossicità, ma il loro impiego in monoterapia è ostacolato dalla precocissima selezione di mutanti resistenti.

Un'altra categoria di farmaci attivi sui retrovirus, ma estensibili concettualmente a molti altri v., come per es. quello dell'epatite C, sono gli inibitori della proteasi virale. Si tratta di farmaci la cui struttura è stata studiata per inibire l'azione, o per competervi, dell'enzima virale che in molti v. è deputato alle modificazioni post-traduttive delle proteine virali. Alcuni di questi sono già in fase avanzata di sperimentazione clinica e se ne prevede presto la immissione nella pratica corrente.

Ad ampio spettro, ma approvato per l'impiego clinico solo nelle infezioni polmonari da v. respiratorio sinciziale, è un analogo nucleosidico triazolico, detto ribarivina o virazolo, che interferisce con la sintesi della guanosina monofosfato ed è pertanto attivo sia sui v. ad RNA, sia su quelli a DNA. Il limite principale della ribarivina è costituito da un'eccessiva tossicità agli alti dosaggi e per somministrazioni prolungate.

Un'altra classe di prodotti ad attività antivirale sono gli inibitori biologici, in primo luogo gli interferoni. I successi maggiori sono stati ottenuti nelle epatiti croniche attive da virus B e C, per le quali sono ancora da considerarsi farmaci di prima scelta. Documentata attività antivirale viene esplicata anche nei riguardi dei papovavirus. Tra gli inibitori biologici possono forse essere annoverati anche gli immunomodulanti, come per es. i peptidi timici, che, pur sprovvisti di attività antivirale diretta, possono contrastare l'infezione virale potenziando la risposta immunitaria e accelerando il processo di guarigione.

Una trattazione a parte meriterebbe la descrizione delle strategie di terapia genica (v. in questa Appendice) comprendendo arbitrariamente in questa categoria tutte le molecole ricombinanti, dai nucleotidi antisenso ai ribozimi, capaci d'interagire, neutralizzandoli, con i prodotti intermedi della replicazione virale. Dal punto di vista teorico si tratta di strategie molto valide, come dimostrato dagli ottimi risultati ottenuti in vitro; l'applicazione clinica incontra però problemi ancora irrisolti, che consistono nella difficoltà di veicolare in maniera efficiente queste molecole all'interno delle cellule infette, far loro raggiungere i siti intracellulari opportuni e assicurarne la presenza in forma attiva per tutto il tempo necessario. Vedi tav. f.t.

Bibl.: R. Dulbecco, H.S. Ginsberg, Virology, Filadelfia 19904; Fields virology, a cura di B. Field e D. Knipe, New York 19902; S. Baron, Medical microbiology, ivi 19913; Interferon, principles and medical applications, a cura di S. Baron e altri, Galveston (Texas) 1992.

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