Vita di Castruccio Castracani

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Vita di Castruccio Castracani

Alessandro Montevecchi

L’opera ci è stata tramandata da numerosi manoscritti, ma unicamente affidabili sono considerati il codice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Palatino 537, che è dell’ottobre 1520, e quello della Biblioteca Laurenziana di Firenze, Laurenziano XLIV 40. Le prime stampe avvennero quasi contemporaneamente: quella del Blado (Roma 4 genn. 1532) comprende anche Il Principe e Il modo che tenne il duca Valentino; la giuntina (Firenze 8 maggio 1532) comprende Il Principe, Il modo che tenne il duca Valentino, Ritratti di Francia e Alamagna. L’Edizione nazionale (La vita di Castruccio Castracani da Lucca, a cura di C. Varotti, in Opere storiche, coord. di G.M. Anselmi, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, t. 1, 2010, pp. 1-66) ha seguito il Palatino, emendandone evidenti errori e colmando lacune e omissioni per mezzo del cod. Laurenziano e dell’edizione Blado.

M. scrisse questa biografia nell’estate del 1520 a Lucca, dove era stato inviato da alcuni mercanti fiorentini per curare i crediti che vantavano nei confronti del lucchese Michele Guinigi. Si trattava di un incarico privato, anche se i creditori erano vicini ai Medici. Partito da Firenze il 9 luglio, M. rimase a Lucca due mesi e approfittò di quel soggiorno per studiare la costituzione lucchese, che espose nel Sommario delle cose della città di Lucca. Inoltre lesse la biografia latina scritta da Niccolò Tegrimi Vita Castruccii Antelminelli lucensis ducis (pubblicata a Modena nel 1496).

La decisione di comporre la Vita di Castruccio Castracani (d’ora in poi abbreviata in Vita), alterando deliberatamente la realtà storica (come vedremo), è da collegare con il progetto di una «provisione per scrivere o altro», indicato da Battista Della Palla in una lettera del 26 aprile 1520 (Lettere, p. 362), cui seguì l’8 novembre di quell’anno l’incarico di scrivere le Istorie fiorentine. Questo legame fu ben compreso dai dedicatari della Vita, Zanobi Buondelmonti (→) e Luigi Alamanni (→), cui l’opera fu inviata il 28 agosto con una lettera che è andata persa. La risposta di Buondelmonti (6 sett.), che cita anche le opinioni dell’Alamanni e di altri, è un documento prezioso di come questi amici, in genere letterati esperti, comprendevano le ragioni della manipolazione letteraria compiuta da Machiavelli. L’opera è «cosa buona e ben detta», anche se può essere migliorata in «certi luoghi»:

come è quella parte ultima de’ ditterii e de’ tratti ingegnosi e acuti detti del detto Castrucci, la quale non tornerebbe se non meglio più breve, perché, oltre all’essere troppi quegli suoi detti o sali, ve ne è una parte che è ad altri et antichi e moderni savi atribuita; una altra non ha quella vivacità né quella grandeza che si richiederebbe a un tanto uomo. Ma ve ne resta tanti buoni che si possono di lui adurre, che la sua vita ne resta rica assai (Lettere, p. 366).

Era così riconosciuto il carattere eminentemente letterario dell’opera, ma anche il suo rapporto con il lavoro storico che M. si apprestava a svolgere:

Pare a tutti che voi vi dobbiate mettere con ogni diligenzia a scrivere questa istoria; et io sopra gli altri la desidero, perché, se bene non intendo quanto ciascuno de’ preallegati, né ne so rendere quelle ragione che si converrebbe, sento che questo vostro modello di storia mi diletta [...] (Lettere, p. 366).

Era quindi chiaro a questi amici di M. che egli aveva inteso, con questo «modello di storia», dare prova della sua capacità di storico e anche della sua cultura letteraria, data la peculiarità della narrazione storica rispetto alle precedenti trattazioni teoriche.

Fin dall’inizio M. vuole svincolare il protagonista da qualsiasi appartenenza familiare e sociale: deve essere un eroe venuto dal nulla ed emerso vincendo condizioni fortunose e avverse, come Romolo, Ciro e altri eroi menzionati nel Principe (capp. vi 12, viii 4 ecc.):

E’ pare, Zanobi e Luigi carissimi, a quegli che la considerano, cosa maravigliosa che tutti coloro [...] che hanno in questo mondo operato grandissime cose, e intra gli altri della loro età siano stati eccellenti, abbino avuto il principio e il nascimento loro basso e oscuro, o vero dalla fortuna fuora d’ogni modo travagliato; perché tutti o ei sono stati esposti alle fiere, o egli hanno avuto sì vil padre che, vergognatisi di quello, si sono fatti figliuoli di Giove o di qualche altro Dio (La vita di Castruccio Castracani, cit., § 1, p. 7).

Questo perché la fortuna vuole «dimostrare al mondo» di essere lei, e non la «prudenza» (§ 3, p. 8) a rendere grandi gli uomini, e perciò si manifesta nei primi anni di vita di un uomo quando la saggezza non può ancora avere alcun effetto. Castruccio fu uno di quegli uomini eccellenti, di cui M. ha voluto «ridurre alla memoria delli uomini» la vita, «parendomi avere trovato in essa molte cose, e quanto alla virtù e quanto alla fortuna, di grandissimo esemplo; e mi è parso indirizzarla a voi, come quegli che, più che altri uomini che io cognosca, delle azioni virtuose vi dilettate» (§ 5, pp. 8-9). Un «esemplo» di virtù, dunque, ma soprattutto dell’immenso e prevaricante potere della fortuna, con le ferree limitazioni che essa pone alla prassi umana sulla base dei «tempi», del luogo e delle modalità della nascita, come emergerà anche nella conclusione dell’opera. La famiglia Castracani è descritta da M. come una delle più nobili di Lucca, anche se ormai estinta. Ma non è Castruccio ad appartenervi, bensì un canonico Antonio, la cui sorella Dianora trova in una vigna il fanciullo abbandonato, che è poi adottato da Antonio. La tonalità del racconto è tutta novellistica, o addirittura fiabesca:

Occorse che andando una mattina, poco poi levata di sole, madonna Dianora [...] a spasso per la vigna [...] sentì frascheggiare sotto una vite intra e pampani e, rivolti verso quella parte gli occhi, sentì come piangere; onde che, tiratasi verso quello romore, scoperse le mani e il viso d’uno bambino che, rinvolto nelle foglie, pareva che aiuto le domandasse (§ 10, p. 10).

Il vero Castruccio nacque a Lucca, figlio di Gerio di Castracane e di Puccia degli Streghi, il 29 marzo 1281 (data tradizionale). La famiglia era dedita ad attività commerciali e finanziarie e aveva assunto il cognome degli Antelminelli pur non essendo nobile. Esiliati da Lucca nel 1300 con altri ghibellini o guelfi bianchi, i Castracani avrebbero soggiornato in Inghilterra. Qui Castruccio avrebbe intrapreso la carriera militare proseguendola dopo il ritorno in Italia, con il definitivo abbandono della sua condizione di mercante. La famiglia si accostò al partito imperiale per tornare in patria. Il Castruccio di M. deve invece solo a sé stesso la propria realizzazione personale: Antonio pensa di avviare al sacerdozio il giovane, che dimostra ingegno e prudenza, ma si ribella rivelandosi un «subietto allo animo sacerdotale al tutto disforme» (§ 15, p. 11) e, chiamato da un istinto invincibile, si dedica agli esercizi militari, interessandosi solo di letture che parlino «di guerre o di cose fatte da grandissimi uomini» (§ 16, p. 12). L’aspirazione alla grandezza e alla potenza suggerisce analogie con il Giugurta di Sallustio (Bellum Iugurthinum vi 1) o il Ciro di Senofonte (Ciropedia I 5). L’incontro con un personaggio immaginario, come il condottiero Francesco Guinigi, segna il destino di Castruccio. La precisione con cui ci è descritta la scena sottolinea, come per la nascita, l’eccezionalità dell’evento: stando nella piazza di S. Michele, Guinigi nota più volte la superiorità del giovane sui coetanei. Chiamatolo, gli offre la possibilità di scegliere se entrare «in casa di uno gentile uomo» che gli avrebbe insegnato a cavalcare e combattere, o in casa di un prete, dove non si udisse altro che «ufizii e messe». La risposta di Castruccio, intimidito ma sicuro, è naturalmente favorevole alla prima opzione(§§ 17-20, pp. 12-14). È una concezione della vita come rischio e virile militanza che torna in alcuni dei detti attribuiti a Castracani, quali il desiderio di morire come Cesare (§ 162, p. 60) o il rifiuto di salvare l’anima facendosi frate, poiché sarebbe strano che frate Lazzero andasse in paradiso e Uguccione della Faggiuola all’inferno (§ 175, p. 63).

Divenuto in breve tempo per virtù propria «uno vero gentile uomo», Castruccio a 18 anni va con Guinigi a Pavia per sostenere i ghibellini contro i guelfi. In realtà sappiamo che nel 1311 il vero Castruccio era impegnato altrove, probabilmente come mercenario degli Scaligeri e poi di Venezia, e il 22 agosto 1313 era a Pisa, il cui signore (da settembre) Uguccione della Faggiuola divenne l’unico appoggio per i ghibellini dopo la morte dell’imperatore Arrigo VII. Con la pace del 25 aprile di quell’anno i guelfi bianchi e i ghibellini poterono rientrare a Lucca. A questo punto il Castruccio di M. e quello storico si riavvicinano. Tornato a Lucca il giovane consegue un decisivo aumento di potere perché Guinigi, morendo, lo lascia tutore del figlio tredicenne Paolo e dei suoi beni. Se i due personaggi sono d’invenzione e la vicenda può ricordare fonti classiche, come Sallustio (Bellum Iugurthinum ix 3-4, x), corrisponde invece a verità che Castruccio, sostenuto da Uguccione della Faggiuola, ebbe ragione di una congiura ordita contro di lui dal capo dei guelfi lucchesi Giorgio degli Opizzi, cioè Luti (G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, 1990, X 58) o Lucio degli Obizzi (N. Tegrimi, Vita Castruccii Antelminelli lucensis ducis, 1742, p. 16). La scena notturna in cui Castruccio e Uguccione, accorso in armi da Pisa, massacrano i nemici (14 giugno 1314) è tipica dell’adesione di M. alle soluzioni nette ed estreme, collocate in una topografia precisa:

E venuta la notte che si era composto con Uguccione, dette il segno a quello, il quale era sceso nel piano con di molta gente [...]; e veduto il segno, si accostò alla porta a San Piero, e misse fuoco nello antiporto. Castruccio da l’altra parte levò il romore, chiamando il popolo a l’arme, e sforzò la porta dalla parte di dentro; tale che, entrato Uguccione e le sue genti, corsono la terra e amazzorono messer Giorgio con tutti quegli della sua famiglia [...] (§§ 34-35, p. 17).

Uguccione resta così il padrone della città, che affida ai figli, prima Francesco poi Ranieri, determinando una fuga in massa dei guelfi lucchesi. Ciò preoccupa Firenze, che chiede e ottiene la protezione del re di Napoli Roberto d’Angiò. Rafforzandosi i fiorentini, appoggiati anche dai guelfi bolognesi e toscani, in Valdinievole e Valdarno (G. Villani, Nuova cronica, cit., X 61), si scontrano con le forze di Uguccione e Castruccio. Contro la verità storica (G. Villani, Nuova cronica, cit., X 70-71), ma d’accordo con Tegrimi (Vita Castruccii Antelminelli, cit., pp. 18 e 20), M. attribuisce al solo Castruccio il merito della vittoria nella battaglia di Montecatini (29 ag. 1315). La perfetta gestione della «giornata» è dovuta alla conoscenza del campo, mentre il nemico si inganna credendosi superiore. La tecnica militare corrisponde a fonti classiche (Sallustio, Bellum Iugurthinum xxxviii 1-4, o Livio XXVIII xiv), riprese nell’Arte della guerra (IV 26-30), e lo stesso può dirsi dell’orazione che Castruccio rivolge ai soldati prima della battaglia (Livio XXX xxxii-xxxiii e Arte della guerra IV 135-39). Contro i nemici, che hanno concentrato le truppe nel mezzo dello schieramento, Castruccio mette le sue forze migliori nelle «corna», così che la battaglia è dominata da un esatto ordine geometrico: «le più gagliarde genti di Castruccio» combattono proprio «colle più debole delli inimici», e mentre i nemici delle due ali si sbandano, quelli del mezzo «vedendosi nudati da’ fianchi dai suoi, sanza avere potuto mostrare alcuna loro virtù, si fugirono» (§§ 44-45, p. 21). Per M. morirono nella battaglia diecimila nemici e solo trecento soldati di Castruccio (tra cui Francesco, figlio di Uguccione), e ciò prova la sua intenzione di amplificare la vicenda, poiché in realtà i morti furono duemila (G. Villani, Nuova cronica, cit., X 72), come lo stesso M. ammette nelle Istorie fiorentine (II xxv 3).

Il signore di Pisa si insospettisce per la grandezza di Castruccio, nominato (ma questo non è detto) anche visconte della Lunigiana dal vescovo Gherardino Malaspina (4 luglio 1314) e poi vicario di quel territorio strategico dall’imperatore Federico III d’Asburgo (ag. 1315), così che pensa solo a «come lo potessi spegnere» con una «occasione onesta» (§§ 48-49, p. 22). Nel racconto di M. un Pier Agnolo Micheli (personaggio d’invenzione) viene ucciso a Lucca, e l’assassino si rifugia in casa di Castruccio, il quale respinge gli sbirri. In realtà Castruccio fu arrestato per crimini («certe ruberie e micidi», G. Villani, Nuova cronica, cit., X 78) commessi in Lunigiana. Uguccione incarica il figlio Ranieri o Neri, da lui insignorito di Lucca, di arrestare e poi uccidere Castruccio. L’arresto avviene a tradimento (10 apr. 1316), dopo una cena nel palazzo del signore, cui Castruccio si era recato «domesticamente» (§ 50, p. 23): e vengono in mente scene analoghe, come quella di Oliverotto da Fermo nel Principe (cap. viii). Ma qui Ranieri manca della spietata determinazione necessaria ed esita, poiché Castruccio è molto popolare in Lucca. Uguccione allora si muove personalmente da Pisa, ma subito i pisani gli si ribellano e lo stesso accade a Lucca, inducendo il già potente signorotto a rifugiarsi presso gli Scaligeri. Castruccio è liberato e diviene «come principe di Lucca» (§ 55, p. 25), ottenendo la carica di capitano delle milizie, poi capitano generale (apr. e giugno 1316), carica in seguito confermatagli per dieci anni. Dopo le imprese di Sarzana, Massa, Carrara, Pontremoli, con cui il condottiero riconquista tutto il dominio lucchese, egli sarà nominato dagli Anziani signore di Lucca (26 apr. 1320).

Nel 1327 discende in Italia l’imperatore Ludovico il Bavaro, confuso da M. con Federico III d’Asburgo, in realtà rivale del primo per la doppia elezione imperiale del 1314. Con l’Asburgo si era in un primo tempo schierato Castruccio, come si è visto, ma qui il racconto di M. si distacca dalla vicenda storica, passando bruscamente dal 1320 al 1327 e omettendo quindi di descrivere la grande vittoria di Castruccio contro i fiorentini ad Altopascio (23 settembre 1325), che è invece ricordata nelle Istorie fiorentine (II xxix). Lo scontro militare era stata la risposta dei fiorentini all’occupazione lucchese di Pistoia (4 maggio 1325), che nella Vita è invece puntualmente descritta (§§ 73-78, pp. 32-35). La sequenza dei fatti stabilita da M. è insomma questa: Castruccio incontra «Federigo di Baviera» (cioè l’imperatore Ludovico) e ne riceve l’investitura a luogotenente in Toscana (duca di Lucca, Pistoia, Luni e Volterra) nel novembre 1327, dopo che era stato già dichiarato vicario imperiale (29 maggio 1324). Ludovico va a Roma (17 genn. 1328), accompagnato da Castruccio che diventa capo del ghibellinismo toscano, alleandosi anche con Matteo Visconti. Questi, assalito dai «guelfi di Piacenza» (§ 63, p. 29), chiede aiuto a Castruccio, che interviene indirettamente attaccando a Fucecchio e San Miniato Firenze, che aveva aderito, con il papa e con il re di Napoli, all’azione contro Milano. Tutta questa vicenda è in realtà accaduta nel 1320: si può forse congetturare che lo scrittore, avvicinando tempi diversi, abbia voluto sottolineare il ruolo centrale di Castruccio come capo del ghibellinismo non solo toscano, e questa sua esemplarità si manifesta anche in campo militare, dato che organizza un esercito di leva ordinando «tutta la città e il suo paese alle armi» (§ 62, p. 28).

Le imprese di Castruccio sono interrotte da una congiura contro di lui ordita in Lucca dalla famiglia di Poggio. Anche qui la realtà storica è alterata: vi furono una congiura dei Quartigiani nel giugno e una dei Carincioni nel luglio 1327 (N. Tegrimi, Vita Castruccii Antelminelli, cit., p. 34), quindi prima e non dopo l’investitura imperiale, e anche uno scontro di Castruccio con Stefano di Poggio, ma per altre ragioni. Nel racconto di M. i ribelli uccidono il luogotenente di Castruccio e vogliono far insorgere il popolo, ma «Stefano di Poggio, antico e pacifico uomo, il quale nella congiura non era intervenuto» induce i suoi, con la sua autorità, ad arrendersi, offrendosi come mediatore. I congiurati depongono le armi, ma – ci anticipa M. – «non con magiore prudenza che le avessero prese», poiché Castruccio è intenzionato a sfruttare l’occasione per «assicurarsi» dei nemici. Per questo inganna Stefano, che lo prega di perdonare non lui stesso (che anzi pensa di essere in credito), ma i congiurati perché giovani e inesperti. Castruccio dimostra di saper usare sia la «golpe» sia il «lione»: risponde «gratamente» a Stefano, invitandolo «a stare di buono animo», poi lo conforta a far venire a lui i ribelli «dicendo che ringraziava Dio di avere avuto occasione di dimostrare la sua clemenzia e liberalità. Venuti adunque sotto la fede di Stefano e di Castruccio, furono insieme con Stefano imprigionati e morti» (§§ 66-70, pp. 30-31). La vicenda corrisponde ai criteri del cap. xviii del Principe, ma ricorda anche la descrizione dei fatti di Senigallia (Modo che tenne il duca Valentino, in SPM, §§ 48-52, pp. 604-05).

Il racconto riprende con la riconquista di San Miniato da parte dei fiorentini e con una tregua tra Lucca e Firenze, non ben identificabile. Castruccio rafforza il suo potere in Lucca eliminando i suoi nemici e distruggendone le torri, il cui materiale è usato per edificare un’unica fortezza. La costruzione in realtà ebbe inizio nel 1322, ma posta a questo punto della vicenda assume il significato simbolico della demolizione dei poteri delle singole famiglie e consorterie a favore di un potere unico e unificante. Il condottiero, per espandere il suo potere senza ricorrere alle armi, pensa di impadronirsi di Pistoia, di cui era già stato fatto vicario imperiale, per «avere uno piè» in una città così vicina a Firenze (§§ 73-74, pp. 32-33). Nella realtà storica Castruccio entrò in Pistoia il 5 maggio 1325 per tradimento di Filippo Tedici, mentre nel racconto egli inganna i due capi dei bianchi e dei neri, Bastiano di Possente e Iacopo da Già (nomi d’invenzione), aizzandoli l’uno contro l’altro per batterli poi entrambi. La fonte può essere un episodio della Ciropedia (VII 4) menzionato anche nei Discorsi e nel Principe, ma l’azione di Castruccio è descritta in modo molto più vivace che in Senofonte (ove si tratta di due fazioni della Caria e l’azione è condotta da Adusio, uomo di fiducia di Ciro):

E dato loro [ai due capi delle fazioni] il tempo a punto, mandò Paulo per la via di Pescia ed esso a dirittura se ne andò a Pistoia; e in su la mezza notte, che così erano convenuti Castruccio e Paulo, ciascuno fu a Pistoia, e l’uno e l’altro fu ricevuto come amico. Tanto che entrati dentro, quando parve a Castruccio, fece il cenno a Pagolo, doppo il quale l’uno uccise Iacopo da Già e l’altro Bastiano di Possente. E tutti gli altri partigiani loro furono parte presi e parte morti; e corsono sanza altre opposizioni Pistoia per loro; e tratta la Signoria di palagio, costrinse Castruccio el popolo a dargli obedienza [...] (§§ 77-78, p. 34).

Castruccio sa essere «golpe» e «lione»: in particolare il suo cenno a Paolo Guinigi ricorda quello del Valentino a don Michele durante l’episodio di Senigallia. M. attribuisce al protagonista la capacità di liquidare il vecchio potere familiare per appoggiarsi sul popolo, compreso il «contado», e creare uno Stato unitario: cosa storicamente non vera, perché in realtà egli sfruttò il rapporto con Tedici, cui diede in moglie una sua figlia. Castruccio è quindi impegnato in un’altra vicenda che si svolge a Roma, dove un tumulto di popolo minaccia il luogotenente imperiale Enrico, costretto a rivolgersi per aiuto al signore di Lucca. In realtà Castruccio fu a Roma solo nel gennaio-febbraio 1328, ma al seguito di Ludovico il Bavaro, mentre non è chiaro chi sia «Enrico». Per M., comunque, il condottiero lascia Lucca al fido Paolo e va a Roma con «secento cavagli», onoratamente ricevuto da Enrico (§ 82, p. 36). Con la sua sola presenza dà «riputazione» all’impero e placa il malcontento facendo affluire frumento da Pisa. È così nominato senatore e si presenta alla cerimonia con «una toga di broccato indosso, con lettere dinanzi che dicevano: “Egli è quel che Dio vuole”; e di dietro dicevano: “E’ sarà quel che Dio vorrà”» (§ 83, p. 36). Il fatto è storicamente attestato (G. Villani, Nuova cronica, cit., XI 60), ma al tempo della calata del Bavaro.

Abbiamo poi una descrizione (ampia nella stessa economia dell’opera) dei rapporti di Castruccio con Firenze, dove sono accostati episodi avvenuti intempi diversi. È vero che Firenze reagì alla conquista di Pistoia con un attacco militare, respinto da Castruccio nella battaglia di Altopascio (qui non descritta) il 23 settembre 1325, e che i fiorentini allora si posero di nuovo sotto la protezione di Roberto d’Angiò, che inviò il figlio, Carlo duca di Calabria.

M. parla di una riconquista fiorentina di Pistoia, che avvenne nel gennaio 1328, mentre Castruccio era a Roma con il Bavaro e in realtà riprese Pistoia nel maggio 1328 (Istorie fiorentine II xxx 10-11). La controffensiva lucchese qui descritta e il teatro del conflitto con Firenze (Montecatini e la Valdinievole) si riferiscono invece al 1325, mentre il terreno dello scontro per M. è Serravalle, dove non c’è stata alcuna battaglia, ma vari elementi coincidono con quella di Altopascio. Le truppe di Castruccio sono inferiori per numero a quelle di Firenze, ed egli deve supplirvi con l’abilità con cui le sposta sul terreno. Così gli «impreparati» fiorentini sono assaliti dai «preparati e ordinati nimici». Nella vivida descrizione di M. l’esercito fiorentino è gettato nel caos, cui si contrappone la lucida strategia di Castruccio:

disceso il romore per il resto del campo de’ Fiorentini, si riempié di confusione ogni cosa: i cavagli erono oppressi dai fanti, i fanti dai cavagli e dai carriaggi, i capi non potevono per la strettezza del luogo andare né innanzi né indietro, di modo che niuno sapeva in tanta confusione quello si potesse o dovesse fare. Intanto e cavagli che erono alle mani con le fanterie nimiche erano amazzati e guasti [...]; pure più per forza che per virtù resistevono, perché, avendo dai fianchi i monti, di dietro gli amici e dinanzi gli inimici, non restava loro alcuna via aperta alla fuga (§§ 96-97, p. 41).

Castruccio, recuperata Pistoia, si spinge fino a Prato, provocando apertamente Firenze (siamo in realtà nel 1325, il fatto è descritto nelle Istorie fiorentine II xxix 1-11), poi il condottiero deve andare a Pisa per reprimervi una congiura avvenuta però nel gennaio 1326 (G. Villani, Nuova cronica, cit., X 336). Il Benedetto Lanfranchi, indicato da M. come congiurato, in realtà aveva complottato a favore di Castruccio nel 1323. A M. importa enunciare i suoi principi sulle congiure (come nei Discorsi III vi) e sottolineare la durezza della repressione, necessaria per assicurarsi della città (§ 104, p. 45). Mentre il signore lucchese è così impegnato, i fiorentini avanzano con un «grossissimo esercito» (§ 105, p. 45; per M. nel maggio 1328) verso San Miniato. Castruccio «non sbigottito» (§ 107, p. 46) affronta i fiorentini nella battaglia di Fucecchio, in realtà mai avvenuta, pensando che, con la vittoria, «la fortuna» gli apra le porte al dominio di tutta la Toscana. Abbiamo anche qui la descrizione del territorio che Castruccio sfrutta abilmente, della disposizione delle truppe e dello scontro. Il lucchese induce i nemici a passare l’Arno e li attende in posizione elevata, sulla riva («grotta») del fiume, dove cerca di ricacciarli. Vedendo Castruccio che la battaglia si prolunga senza frutto, ordina di aprire le file davanti, permettendo l’avanzata dei fiorentini, «ma venuti alle mani i freschi con gli affaticati, non istettono molto [i lucchesi] che gli spinsono nel fiume. Intra la cavalleria dell’uno e dell’altro non vi era ancora vantaggio», ma il «disegno» (parola chiave in un piano di battaglia così geometricamente concepito) di Castruccio ha previsto anche questo: i cavalieri fiorentini sono assaliti dalla fanteria lucchese; i fiorentini tentano allora di inviare i fanti a valle del fiume, per colpire i lucchesi «per fianco», ma invano, perché le «grotte» sono alte e Castruccio le ha già occupate, prevenendo la mossa nemica. La preda è grande, l’uccisione grandissima, «con gloria grande e onore di Castruccio» (§§ 114-26, pp. 47-49).

A questo punto, quando il lucchese è al culmine del successo, dopo una battaglia in realtà mai avvenuta, M. fa intervenire il potere necessitante della fortuna e della stessa precarietà biologica dell’uomo:

Ma la fortuna, inimica alla sua gloria, quando era tempo di dargli vita, gliene tolse, e interruppe quegli disegni che quello molto tempo innanzi avea pensato di mandare ad effetto, né gliele potea altro che la morte impedire (§ 127, p. 49).

Verità storica e invenzione sono strettamente intrecciate. È vero che Castruccio si ammalò e morì per gli strapazzi subiti durante l’assedio di Pistoia (N. Tegrimi, Vita Castruccii Antelminelli, cit., p. 154; «soperchio di disordinata fatica» per G. Villani, Nuova cronica, cit., XI 87), ma M. drammatizza l’evento immaginando l’eroe che si ferma affannato e sudato «sopra la porta di Fucecchio» per aspettare le sue truppe vittoriose e ringraziarle di persona e così è colpito da un vento «pestifero» e colto da una «grandissima febbre» (§§ 128-29, pp. 49-50). Ormai moribondo rivolge al figlio adottivo Paolo Guinigi un discorso che riprende quello di Micipsa morente a Giugurta (Sallustio, Bellum Iugurthinum x), e stilisticamente può ricordare in parte i congedi di un padre ai successori, come, nelle Istorie fiorentine, quelli di Benedetto Alberti (III xxiii) o Giovanni de’ Medici (IV xvi); l’incipit («Se io avessi creduto [...] che la fortuna [...]», § 130, p. 50) si può avvicinare ad analoghi esordi nelle Istorie: «Se io avesse bene misurato la fortuna mia [...]» (V xxxv). L’orazione però abbandona ben presto il motivo patetico del congedo da Paolo per assumere un significato schiettamente machiavelliano, nella preoccupazione per la situazione politica italiana e nel freddo calcolo dei difficili equilibri di potere regionale che il successore dovrà gestire. Elemento centrale dell’orazione è la precarietà: malsicura e non durevole è la costruzione politica realizzata dal Castracani, poiché, come ci sarà detto poco dopo, Paolo a fatica conserverà il potere nella sola Lucca dopo aver perso Pisa e Pistoia, non avendo «la virtù e la fortuna» di Castruccio (§ 143, p. 54); incerta è la fortuna (è appena il caso di ricordare il cap. xxv del Principe); precaria è la vita umana, la nostra stessa condizione biologica, che può vanificare all’improvviso azioni politiche concepite con valore e lungimiranza (e vengono in mente la morte di Alessandro VI e la malattia di Cesare Borgia nel cap. vii del Principe):

Se io avessi creduto, figliuolo mio, che la fortuna mi avesse voluto troncare nel mezzo del corso il cammino per andare a quella gloria che io mi avevo con tanti miei felici successi promessa, io mi sarei affaticato meno e a te arei lasciato, se minore stato, meno inimici e meno invidia. Perché, contento dello imperio di Lucca e di Pisa, non arei suggiogati e Pistolesi e con tante ingiurie inritati e Fiorentini, ma [...] arei menata la mia vita, se non più lunga, al certo più quieta, e a te arei lasciato lo stato, se minore, sanza dubbio più sicuro e più fermo. Ma la fortuna, che vuole essere arbitra di tutte le cose umane, non mi ha dato tanto iudizio che io l’abbia potuta prima cognoscere, né tanto tempo che io l’abbi potuta superare (§§ 130-32, pp. 50-51).

Nell’orazione, che è la parte più bella dell’opera anche per Buondelmonti («E sopra ogni cosa mi pare che vagliate in quella orazione»: Zanobi Buondelmonti a M., 6 sett. 1520, Lettere, p. 366), Castruccio ricostruisce i suoi rapporti con il padre di Paolo, verso cui nutre sentimenti di gratitudine: e qui la personale storia del condottiero morente e la solennità del commiato fanno risaltare valori come la fedeltà e la lealtà, in contrasto con la consueta spregiudicatezza della «golpe». Egli ha adottato e «nutrito» Paolo con «fede» (§ 134, p. 51) e per favorirlo non ha mai voluto sposarsi. In realtà il Castruccio storico sposò Pina di Vallecchia e Corvara, da cui ebbe nove figli, il primo dei quali, Arrigo, successe al padre (G. Villani, Nuova cronica, cit., XI 87). Ma qui M. vuole rilevare la solitudine dell’eroe, privo affatto di una vita privata e totus politicus. In contrasto con l’eroismo di Castruccio che ha deliberatamente cercato «potenzia e gloria», Paolo dovrà invece abbandonare questa posizione agonistica per una politica di moderazione, fare uso di «industria», «reputazione», «prudenza», dovrà «cognoscere sé stesso», saper misurare le sue forze e, non eccellendo nell’arte militare, governare «con le arti della pace» (§§ 138-39, pp. 52-53). La «prudenza» qui prevale nettamente sul potere della fortuna, e si rovescia la formulazione iniziale, per la quale è la fortuna e non la prudenza a rendere grandi gli uomini. Questa non sembra però tanto una critica di M. alla troppa animosità di Castruccio, quanto un mutamento del ruolo attribuito alla fortuna, che dall’orientamento progettuale e ancora aperto al futuro del cap. xxv del Principe (P. Trovato, introduzione a N. Machiavelli, La Vita di Castruccio Castracani, a cura di R. Brakkee, 1986, p. 110) evolve verso una considerazione molto più storicizzata e pessimistica, più vicina all’Arte della guerra e alle Istorie che al Principe o ai Discorsi (Sasso 1980, pp. 658-61).

In queste ultime opere e nella Vita la storicità della vicenda si manifesta come evento definito per sempre, che consegna i modelli politici al passatorendendoli inimitabili. È questo mutato contesto a differenziare Castruccio dal Valentino del Principe, il quale, per quanto colpito da «una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna» (vii 9) e «nel più alto corso delle azioni sua [...] da la fortuna reprobato» (xxvi 4), può essere ugualmente proposto come «imitabile» (vii 42) a un principe nuovo, che voglia, forte di quell’insegnamento, ritentare l’impresa, temporaneamente fallita (G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, a cura di G. Inglese, 1991, p. 33), mentre l’impresa di Castruccio muore definitivamente con lui. Per questo è stato da più parti osservato giustamente (P. Trovato, introduzione a N. Machiavelli, La Vita di Castruccio Castracani, cit., pp. 42-43) che è da respingere l’accostamento di Castruccio al Valentino, e cioè l’idea che M. abbia voluto comporre un «romanzo pedagogico», proponendo il «tipo» o il «modello ideale» di principe, come sostenuto a lungo dalla critica. Bastino poche citazioni. Per Federico Chabod, M. ha voluto con la Vita «effigiare una figura ideale di principe», «trasportando nel passato le sue aspirazioni verso un perfetto capo di governo» (1949, p. 788, poi 1964, p. 402); ancora più nettamente per Luigi Russo (1957) la Vita e le Istorie fiorentine sono semplici «esemplificazioni storiche delle dottrine e degli idoli politici» di M., per il quale «le storie [...] non potranno essere che gli specimina della sua speculazione politica» (pp. 58-59). Secondo queste note conclusioni critiche, M. avrebbe quindi fissato in modo aprioristico un modello ‘tecnico’ perfetto per poi mostrarlo in azione su di un terreno storico a questo scopo prestabilito e deformato. Ora, per le Istorie fiorentine è appena il caso di rilevare che la dipendenza dalle fonti e la stessa corposità del racconto storico rendono più problematica che nelle opere politiche l’identificazione di modelli proponibili, mentre si fa strada l’idea di una irreversibile decadenza italiana (Montevecchi 1998). Ancor più chiara è la situazione della Vita, dove la fortuna e la stessa condizione umana prevalgono sul principio di imitazione e di ripetibilità dell’azione: Paolo non potrà seguire le orme del padre adottivo, così come Fabrizio Colonna nell’Arte della guerra non ha avuto l’occasione per agire come avrebbe voluto e potuto. Lo stesso «esemplo» che la Vita dovrebbe offrire, non ha valore di proposta politica, ma è soltanto l’illustrazione di «azioni virtuose» in sé considerate, come si è visto. Anche il luogo di nascita (una piccola città come Lucca, circondata da nemici potenti) costituisce un limite insuperabile, nonostante la virtù di Castruccio, dice M. nella conclusione: e si pensi al Rinaldo degli Albizzi delle Istorie (V xxxiv 8) le cui possibilità politiche sono state limitate dalla nascita in una città divisa come Firenze. Nella Vita, in conclusione, il ruolo esemplare di Castruccio, nato dal nulla e la cui azione torna nel nulla, è solo apparente.

Per le stesse ragioni si può intendere la Vita come un «modello di storia», ma solo in senso strettamente operativo, come un mezzo per M. di dar prova delle sue capacità di storiografo. Da un punto di vista strutturale non è invece possibile avvicinare una tale biografia al lavoro storico vero e proprio, poiché vi manca il riscontro critico con le fonti e la pluralità dei punti di vista. La forte letterarietà dell’opera è denotata dalle risorse retoriche, che emergono nel racconto fiabesco del ritrovamento nella vigna, nelle descrizioni di battaglie, nell’orazione di Castruccio morente e, infine, nei detti attribuiti all’eroe. Dopo aver respinto nella dedica del Principe (§ 4) l’uso di «clausule ample» e «parole ampullose e magnifiche», è in questa direzione che lo scrittore inclina qui e nelle Istorie (oltre che nel cap. xxvi del Principe). L’altra fonte di alterazione letteraria è costituita dall’idealizzazione del personaggio, ben visibile da un confronto con la narrazione delle Istorie fiorentine, assai più veridica e realistica. Castruccio è un «giovane, ardito e feroce, e nelle sue imprese fortunato» (II xxvi 1), conosciamo la sua «sete [...] di gastigare i Pistolesi e i Fiorentini sgarare» (II xxx 11), ma lo vediamo anche umanamente impaurito («sbigottì») e in fuga verso Serravalle, di fronte al grande esercito che gli lanciano contro i fiorentini il 3 luglio 1323 (II xxvi 7). La «gran zuffa» di Altopascio è fedelmente riferita (II xxix 9-11) così come la successiva avanzata del lucchese su Firenze, ma la sua vittoria è attribuita soprattutto alla malafede e incapacità di Ramondo di Cardona, comandante fiorentino. Sappiamo poi che Castruccio occupa Pisa, ma Firenze senza spaventarsi riprende «per trattato» Pistoia, subito riconquistata nel 1328 da Castruccio, che muore improvvisamente il 3 settembre successivo (II xxx 1-12). Di lui, infine, Luigi Guicciardini parla con scherno come di «un vile cittadino lucchese» (III xi 13).

La Vita si avvia alla conclusione con il giuramento di fedeltà a Paolo Guinigi delle città soggette e con le esequie, cui segue il canonico quadro delle qualità fisiche e morali di questo uomo «raro» (§ 144, p. 54): alta statura, aspetto piacente e buon tratto umano, i capelli rossi, l’abitudine di stare a capo scoperto, la tendenza a vincere più con la frode che con la forza, poiché quello che importa è la vittoria, il disprezzo per una religione che insegni la debolezza (e sono ovviamente idee di M., rispettivamente nel Principe xviii 18 e nei Discorsi I xi e xiii, II ii ecc.). Abbiamo poi i detti attribuiti a Castruccio, introdotti da alcune osservazioni sul suo carattere mordace:

Potrebbesi etiam dire di Castruccio come era mirabile nel rispondere o mordere, o acutamente o urbanamente; e come non perdonava in questo modo di parlare ad alcuno, così non si adirava quando non era perdonato a lui. Donde si truovono di molte cose dette da lui acutamente e molte udite pazientemente, come sono queste (§ 148, p. 56).

In realtà questi detti risultano alquanto eterogenei e furono giudicati anche da Buondelmonti «troppi» e di troppo evidente origine classica, estranea in buona parte al contesto. Il loro numero variò nei vari testimoni: sono 34 nel codice Palatino, 16 in meno nel Laurenziano, 32 nelle edizioni Blado e Giunta. Tegrimi attribuisce a Castruccio quattro sentenze (p. 172) e una di esse è rimasta: Castruccio fa uccidere un cittadino di Lucca ed essendo rimproverato perché si trattava di uno dei suoi «amici vecchi», risponde che, al contrario, ha eliminato «uno inimico nuovo» (§ 171, p. 62). Per il resto i detti derivano, con alcune modifiche e adattamenti, dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, che circolavano nella traduzione latina di Ambrogio Traversari. In particolare dalla Vita di Aristippo derivano i detti 149-64; dalla Vita di Bione i detti 165, 166, 168, 169; dalla Vita di Aristotele il 167; dalla Vita di Diogene i detti 170, 172-80, 182; nel 181 si nota invece la diretta influenza di Dante (Inferno XXI 40-42), poiché Castruccio cita ironicamente il solo «Buontura» come l’unico che a Lucca non abbia fama di barattiere. In verità, attraverso il velame dell’imitatio classicistica, non è difficile cogliere talvolta i sali del pensiero di M. prestati al suo personaggio, come la frase nel detto 163 («Chi è tenuto savio di dì, non sarà mai tenuto pazzo di notte»), che ricorre quasi uguale nella lettera a Francesco Vettori del 5 gennaio 1514 (Lettere, p. 305); o come il già ricordato detto 175 (superiorità dell’uomo d’azione Uguccione su «fra Lazzero») che, pur tradotto abbastanza fedelmente dalla fonte, non può non ricordare le idee di M. sulla religione, particolarmente nei Discorsi (G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, cit., pp. 34-35; C. Varotti, in La vita di Castruccio Castracani da Lucca, cit., pp. 63-64).

La conclusione dell’opera non può che ribadire i suoi elementi di fondo, ossia il potere assoluto della fortuna e il ferreo limite che deriva dalla sua imperscrutabile volontà, come pure dalla durata della vita umana e dalla finitudine della situazione in cui si è nati e si è agito:

Visse XXXXVII anni, e fu in ogni fortuna principe. E come della sua buona fortuna ne appariscono assai memorie, così volle ancora che della cattiva aparisseno; perché le manette con le quali stette incatenato in prigione si veggono ancora oggi fitte nella torre della sua abitazione, dove da lui furono messe acciò facessino sempre fede della sua avversità. E perché vivendo ei non fu inferiore né a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, né a Scipione di Roma, e morì nella età dell’uno e dell’altro, ei sanza dubbio arebbe superato l’uno e l’altro, se in cambio di Lucca egli avessi avuto per sua patria Macedonia o Roma (§§ 184-85, p. 66).

Bibliografia: Fonti: N. Tegrimi, Vita Castruccii Antelminelli lucensis ducis, Lucca 1742; G. Villani, Nuova cronica, ed. critica a cura di G. Porta, 3 voll., Parma 1990-1991. Edizioni critiche: La Vita di Castruccio Castracani da Lucca, a cura di R. Brakkee, introduzione e commento di P. Trovato, Napoli 1986; La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, a cura di G. Inglese, Milano 1991; La vita di Castruccio Castracani da Lucca, cura e commento di C. Varotti, in Opere storiche, coord. di G.M. Anselmi, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, t. 1, Roma 2010, pp. 1-66.

Per gli studi critici si vedano: F. Chabod, Vita di Castruccio Castracani da Lucca, in Dizionario letterario delle opere e dei personaggi, Milano 1949, pp. 788-89, poi in Id., Scritti su Machiavelli, Torino 1964, p. 402; L. Russo, Machiavelli, Bari 19574; M. Luzzati, Castracani degli Antelminelli Castruccio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 22° vol., Roma 1979, ad vocem; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna 1980; A. Montevecchi, Le Istorie fiorentine: i «grandissimi esempli» nella storia, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 537-51.

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