Vita Nuova

Enciclopedia Dantesca (1970)

Vita Nuova

Mario Pazzaglia
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Mario Pazzaglia

Opera giovanile di D., composta di 31 liriche (23 sonetti, 2 sonetti doppi, 1 ballata, 1 stanza di canzone, 1 doppia stanza di canzone, 3 canzoni), scelte fra quelle scritte fra il 1283 e il 1293 (o, al più, 1295) e collegate da un commento in prosa (42 capitoli nell'edizione moderna) che presenta le ‛ ragionate cagioni ' delle poesie: ossia, da un lato, le ‛ divisioni ' o suddivisioni di esse in parti, intese a enuclearne lo svolgimento concettuale, dall'altro le occasioni, l'ispirazione e l'intimo significato dei testi visti nella continuità progressiva di una storia poetica e spirituale. L'antologia si evolve così in un libro organico, nel racconto e nella meditazione di una vicenda esemplare: l'amore disinteressato per Beatrice, che nella lode di lei, creatura venuta / di cielo in terra a miracol mostrare, conduce a una radicale ‛ renovatio ' della vita spirituale del poeta, donde nascono le nove rime - il dolce stil novo dantesco - e la tensione verso una poesia più alta (cap. XLII) che sia, nel contempo, un più profondo intelletto d'amore.

L'assunzione dell'esperienza poetica nella complessiva vicenda etico-conoscitiva, la fermezza del gesto che commisura di continuo la favola cortese a supremi archetipi spirituali, fino a velare la storia esemplata di una luce di " novissimi ", e contemporaneamente l'instaurazione di un dialogo serrato con tutta la poesia d'amore precedente e coeva (soprattutto col Cavalcanti, indicato in XXX 3 come destinatario del libro), l'attenzione puntigliosa del poeta al proprio lavoro, col riconoscimento del valore gnoseologico dell'invenzione e della tecnica letteraria, la definizione di una poetica di forte impegno intellettuale e tendenzialmente sapienziale (cap. XXV), costituiscono il fascino del libello e ne rendono al tempo stesso ardua l'interpretazione, escludendo ogni tentativo esegetico che si affidi a forme di realismo angusto e di convenzionale psicologismo.

Opera fervida e passionata, scritta a l'entrata de la... gioventute (Cv I I 16-18), seguendo le intuizioni di un ingegno che ‛ vede ', ma come sognando (II XII 4; e sono, queste del Convivio, le uniche citazioni esplicite del libro in tutta l'opera di D.), la Vita Nuova fonda il mito di Beatrice (v.) correlato con quello di Amore come slancio conoscitivo, partecipazione della persona all'armonia dell'essere (v. anche DONNA GENTILE).

Testo. - La tradizione manoscritta è stata vagliata e sistemata dal Barbi nell'edizione critica (Firenze 1907, riveduta nel 1932) considerata a buon diritto uno dei capolavori della filologia italiana moderna.

La recensio del Barbi comprende quaranta manoscritti, alcuni dei quali frammentari, dell'opera, più quattro stampe con varianti manoscritte, e altrettanti codici che trasmettono in estratto le sole poesie; suddivisi in due grandi famiglie, α e β risalenti a un archetipo caratterizzato da pochi errori sicuri e quindi molto vicino all'originale, e bipartite a lor volta α in k e b, β in s e x. Nel primo gruppo di α è particolarmente autorevole, anche per l'ortografia, il Chigiano L VIII 305 (metà del sec. XIV), mentre il gruppo b (la tradizione più copiosa e fortunata) dipende da un codice autografo del Boccaccio, il 104 6 della Capitolare di Toledo. Assai autorevole è il Magliabechiano VI 143 (metà del sec. XIV) che insieme col Veronese 465 forma il primo gruppo di β (s); mentre più numeroso e suddiviso in due sottogruppi è il gruppo x (Martelli 12; Vaticano Capponiano 262; Laurenziano Ashburnhamiano 843, ecc.). Inoperanti per la costituzione del testo i codici rinvenuti dopo la recensio del Barbi, il Ginori-Conti (cfr. " Studi d. " XX [1937] 125), il Landau 172 della Nazionale di Firenze (cfr. D. De Robertis, La V.N. in un consanguineo dell'Ashburnhamiano 679, ibid. XXVI [1959] 213-220) e il frammento (capitoli XXVII-XXXV) del secondo quarto del sec. XIV, assai vicino al Martelli 12, rinvenuto nel 1967 nel monastero carmelitano femminile di Trespiano e siglato Ca (cfr. G. Tamburrino, Un antico frammento della V.N., in " Italia Medioev. e Uman. " X [1967] 373-383, e recens. di G. Contini, in " Studi d. " XLVI [1969] 359-363).

Tre sole furono le edizioni a stampa prima del sec. XIX: quella, comprendente le sole liriche, pubblicata a Firenze nel 1527 dagli eredi di Filippo Giunta (Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani: i Sonetti e canzoni di D. Alaghieri ne la sua Vita Nuova costituiscono il primo libro), quella di Bartolomeo Sermartelli (Firenze 1576), che è l'editio princeps, curata da Niccolò Carducci ed esemplata per le rime sulla Giuntina, per le prose sul Laurenziano XL 42, ma " castigata " con scrupoli controriformistici (mutamento o eliminazione delle citazioni scritturali e di ogni riferimento alla divinità), e quella di G.G. Tartini e S. Franchi (Venezia 1723), curata da A.M. Biscioni ed esemplata sul Marciano it. IX 26. Le edizioni critiche anteriori a quella del Barbi (Rajna, Witte, Casini, Beck) sono fondate su una recensio lacunosa e non sistematica.

Datazione. - Assai controversa è la data di composizione del libro. Sicuramente databili sono alcune liriche: A ciascun' alma, che, per ammissione di D., è del 1283; Voi che portate e Se' tu colui, che sono dell'inizio del 1290; Era venuta, scritta nell'anniversario della morte di Beatrice, e quindi nel giugno del 1291, che resta il terminus post quem della Vita N.; l'ordine, infine, in cui le liriche sono presentate riflette per lo più (ma non sempre) la loro successione cronologica. Per la stesura del libro, confutata l'ipotesi del 1300 (si pensava, a proposito dei peregrini di XL 9 1, al giubileo di quell'anno) e quella di una data ancor più vicina alla Commedia, di cui si vedeva un presupposto immediato nella mirabile visione di XLII 1, si oscilla oggi fra il 1292, o, al più, l'inizio del 1293 (Zingarelli, Shaw, Barbi) e la tendenza a spostare questa data al 1294 (Cosmo, Montanari, De Robertis) o al 1295 (Santangelo, Foster e Boyde).

Le maggiori difficoltà nascono dall'interpretazione dei passi del Convivio che contengono la ragionata... cagione (III XII 1) di Voi che 'ntendendo, a cominciare da II II 1 ss., dove D. identifica la gentile donna menzionata ne la fine de la Vita nuova con la Donna gentile o Filosofia. Solo che mentre l'amore per lei (Vn XXXV-XXXVIII) è presentato nel libello come avversario de la ragione e malvagio desiderio (XXXIX 1-2), presto debellato col ritorno a Beatrice, nel Convivio, pur avvertendo di non volere minimamente derogare alla Vita N., D. celebra la vittoria conclusiva dell'amore per la Donna gentile.

Per sanare la contraddizione, il Pietrobono ipotizzò una doppia redazione della Vita N.: la prima, anteriore al Convivio, si sarebbe chiusa con la vittoria della Donna gentile, mentre gli ultimi capitoli di quella attuale, col trionfo e l'esaltazione di Beatrice, sarebbero stati aggiunti dopo il 1312 a chiarimento ecorrezione del Convivio, per meglio allineare la Vita N. alla Commedia che D. stava allora componendo. Difese invece l'unità originaria del libro il Barbi, giudicando strana l'assenza di ogni testimonianza della prima redazione nella tradizione manoscritta e sostenendo il carattere non allegorico dell'episodio della Donna pietosa. L'addentellato fra le due opere sarebbe stato stabilito da D. in seguito, alla luce dei nuovi ideali etico-culturali del Convivio (la scoperta della filosofia, la volontà di essere maestro di virtù, di dottrina e di civili costumi), con un'interpretazione allegorica che, secondo la dottrina del tempo, non contemplava una rispondenza puntuale fra lettera e sovrasenso. Il Nardi riprese, modificandole, le argomentazioni del Pietrobono, sostenendo, in vivace polemica col Barbi, che la Vita N. terminava in un primo momento con l'annuncio del contrasto fra l'umil pensero di Beatrice e il nuovo amore per la Filosofia ormai vittorioso; solo dopo la stesura del Convivio, probabilmente verso il 1308, D. avrebbe modificato la parte finale della Vita N. e avrebbe aggiunto il capitolo XLII (la mirabile visione). Tale ipotesi appare ancor oggi al Branca difficilmente refutabile, nonostante le nuove prove portate dal Marti a sostegno della tesi del Barbi.

Altro punto controverso è l'interpretazione della cronologia di Voi che 'ntendendo (posta da D. all'inizio di una nuova fase poetica successiva alla Vita N.) in Cv II II 1-5 e XII 1-9. Nel primo passo D. afferma che la Donna gentile parve primamente, accompagnata d'Amore ai suoi occhi e prese luogo alcuno nella sua mente, due rivoluzioni del Cielo di Venere dopo la morte di Beatrice (1168 giorni = fine agosto 1293; ma si vedano le obiezioni del Santangelo) e che vi fu lunga battaglia, espressa appunto nella canzone, prima che questo amore divenisse perfetto. Nel secondo, dice di aver letto la Consolatio di Boezio e il Laelius di Cicerone per trovar conforto all'angoscia conseguente alla morte di Beatrice, di aver concepito, in seguito a quelle letture, amore per la filosofia, immaginandola come donna gentile e misericordiosa, e di avere quindi frequentato le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti, giungendo, dopo trenta mesi, a un amore esclusivo per lei, espresso appunto nella canzone. Le due indicazioni non parvero al Barbi né parallele né successive: esse indicherebbero soltanto che l'interesse di D. per la filosofia cominciò nell'agosto del 1293, termine invalicabile per la composizione della Vita N., mentre la canzone risalirebbe alla primavera seguente. Per altri (ad es. per il Foster e il Boyde) i due passi alluderebbero invece a due momenti successivi, il che sposterebbe il compimento del libro al 1295.

L'ipotesi del Barbi, anche se suscettibile di qualche ritocco, vale soprattutto per l'implicito invito a interpretare la Vita N. senza piegarla ai risultati di una storia successiva, ai posteriori paradigmi sui quali D. venne via via costruendo e modificando una propria biografia esemplare. Sembrano, comunque sia, da respingere gli accostamenti cronologici alla Commedia e la conseguente lettura della Vita N. sulla falsariga del poema, con un'interpretazione allegorico-mistica che non pare la più producente per una retta intelligenza dell'opera.

Titolo. - Il titolo è enunciato nel cap. I, dove D. trascrive l'incipit latino, ritrovato nel libro de la... memoria, che dice, appunto, vita nova. La metafora scrittoria va ricondotta alla topica simbolistica medievale del libro dell'universo (comprendente anche il suo riflettersi e attualizzarsi nella mente umana), connessa, da un lato, al tema classico-cristiano dell'armonia dell'essere, dall'altro a quello del visibile come segno dell'invisibile. Considerata in questa prospettiva, la memoria è il compendio dell'esperienza e reca implicita anche la coscienza del significato e della direzione di essa. Intento del poeta è quello di trascrivere (assemplare) le parole che stanno sotto questo titolo; e parole sono anzitutto le liriche, ma anche, più generalmente, i ricordi, in quanto nel libro della memoria, come in quello dell'universo, gli eventi sono parole o segni portatori di un messaggio spirituale. Le vicende raccontate dalla prosa tendono quindi anch'esse a tradursi in parola-rivelazione: dai colloqui di D. con Amore personificato, cui spesso l'uso del latino conferisce una solennità sacrale, a quelli con le donne gentili, che assecondano il progressivo espandersi dell'illuminazione interiore, ai discorsi corali in lode di Beatrice, che ne testimoniano l'essenza mirabile - a partire dalla semplice pronuncia del suo nome da parte dei molti che non sapeano che si chiamare (II 1) - alle parole bibliche che imprimono ai momenti decisivi della vicenda un carattere di rivelazione totale.

Per l'interpretazione del titolo, non converrà fermarsi all'equazione vita nuova-giovinezza, ma si dovrà cogliere nell'aggettivo un senso più profondo. Numerosi interpreti, dal Casella al Singleton, al Roncaglia, al De Robertis, al Branca (e magari a E. Bloch) vi hanno colto l'eco di una tradizione che dai Salmi a s. Paolo ai Vittorini insiste sulla renovatio spirituale dell'uomo illuminato dalla Grazia e sulla complementarità di vita nova e " canticum novum " che ne consegue. Quest'idea, accolta nella seconda metà del sec. XIII anche dalla letteratura profana (Chrétien de Troyes, Bernart di Ventadorn), porta nella topica della novità del canto (e in quella del concetto di " jovens ", intimamente congiunto a quelli di cortesia e amore) un complesso nodo di significati, che giunge, da un mero processo d'intensificazione lirico-metaforica, a un approfondimento intellettuale della metafora, fin quasi a riproporne l'iniziale accezione religiosa, con un'ambiguità fra la sfera profana e quella mistica che rappresenta anche il problema centrale nell'interpretazione della Vita Nuova.

Struttura Del Libro. - L'idea costitutiva dell'opera - il nesso inscindibile della lode e della superiore esperienza e intelligenza d'amore - è il criterio discriminante della scelta antologica compiuta da D., con l'esclusione di un folto gruppo di liriche (almeno Rime LIX, LX, LXV, LXVI, LXVII, LXVIII, LXIX, LXX, LXXI, LXXII; ma altre se ne potrebbero aggiungere), dovuta ora a ragioni di gusto, ora a una strategia compositiva più intimamente connessa alle ragioni del libro. È il caso delle due canzoni E' m'incresce di me, che pure è il primo tentativo di una storia (con, per giunta, l'allusione al libro de la mente), che verrà riecheggiata in Vn II-III e XII-XVI, e Lo doloroso amor, l'unica fra le Rime in cui Beatrice sia espressamente nominata; escluse l'una e l'altra dal libro per la loro eccentricità rispetto al tema dell'amore beatificante.

Fra le liriche accolte, le tre canzoni Donne ch'avete, Donna pietosa e Li occhi dolenti segnano i momenti spiritualmente decisivi; attorno a esse le altre poesie appaiono disposte con calcolate rispondenze. Il Singleton osserva che Donna pietosa, la sedicesima delle trentuno, fa da cerniera fra quelle in vita e quelle in morte di Beatrice e propone lo schema (già indicato, nell'Ottocento, da Norton Foster) 10, I, 4, I, 4, I, 10 (i numeri romani indicano le canzoni, gli altri i componimenti minori), o anche, in conformità alla simbologia del nove, 1, 9, 1, 9, 1, 9, 1 (considerando il primo sonetto come prologo e l'ultimo come epilogo). Il De Robertis pone al centro le tre canzoni e gli otto sonetti della lode, ai due lati le rime del dolore, in vita e in morte di Beatrice, agli estremi, quelle dello sviamento (le donne-schermo) e dell'oblio (la Donna gentile).

Anche senza puntare su simmetrie rigorose, si può tuttavia osservare che la prima e la terza canzone sono indicate, da un breve proemio in prosa (XVII 1 e XXX 1), come iniziatrici di una nuova materia. Ne deriva una tripartizione del libro: fase di conquista del perfetto amore; momento della lode o conseguimento di un supremo ideale d'amore e poesia; nuovo momento di crisi e finale riconquista.

La successione delle liriche delinea una storia della poesia dantesca, dal primo momento curiale e guittoniano, al dialogo col Cavalcanti, all'originalità dello stilo de la loda. Nelle liriche più antiche D. viene ora scoprendo una linea progressiva coerente; nelle più recenti, mentre prende atto di un acquisto sicuro e definitivo, procede con nuove sperimentazioni verso una nuova poesia, che la conclusione lascia intravedere come un ancor lontano presagio. Alcune liriche poterono essere aggiunte al momento della stesura del libro: forse anche Donna pietosa, con la sua inattesa intensità drammatica e visionaria, dato che è assente, come ha osservato il De Robertis, dalla tradizione manoscritta anteriore alla Vita N.; altre ricevettero una sistemazione definitiva, come attestano le varianti della tradizione ‛ estravagante ', riconducibile all'Escorialense e III 23, che sembrano d'autore.

L'alternanza verso-prosa inserisce l'opera nella tradizione del prosimetron (Boezio), mediata da quella più specificamente ermeneutica delle razos provenzali e, ancor più, dei commenti, sul tipo di quello di Brunetto Latini alla Rettorica ciceroniana. La prosa conferisce al libro, con la sua continuità esegetica in antitesi con la discontinuità delle occasioni liriche, un'organicità di discorso narrativo che non va tuttavia definita nella linea evolutiva di uno spazio e di un tempo concepiti realisticamente o di un'azione che si svolga su una linea logico-causale. Gli spazi - la cittade, la camera de li sospiri, una chiesa, evocata, si direbbe, sulle suggestioni del sensorio affettivo (un riecheggiare nell'animo delle parole de la regina de la gloria, un risentirsi fra l'intrecciarsi di sguardi indagatori), una strada che è cammino de li sospiri, pura dimensione di transito e apparizioni -; i tempi - un ritmo novenario di rivoluzioni celesti, reale e simbolico, un poi, un appresso, uno giorno (come senso astratto di successione) - sono costantemente ricondotti alla misura interiore, e dall'ordine naturale a quello teleologico. Il vero spazio è quello, avventuroso ma tuttavia rettilineo, dell'itinerarium, il vero tempo, lo scatto - e lo scarto - fra visione e significato, fra insorgenza patetica e costruzione intellettuale; prevalentemente fra la coruscatio del " sermo interior " (il " verbum memoriae ", il " verbum cordis ", il " verbum intellectus ", per usare una terminologia fra agostiniana e tomistica) e il suo tradursi in " sonantia verba ", segno di Una conquista gnoseologica che è, insieme, ontologica. L'allora e l'ora si configurano quindi come la primitiva appercezione e il pieno attualizzarsi di un significato cui D. perviene isolandone le successive epifanie e privilegiando quelle che assumono carattere di segni sicuri dinanzi alla coscienza attuale. Il primo sogno, con Amore che va piangendo verso il cielo (III 7), il compianto di una giovane donna morta (VIII), il pianto enigmatico di Amore (XII 4), la morte del padre di Beatrice (XXII la visione di Donna pietosa, si presentano, nel momento in cui il libro viene concepito, come segni che l'intelligenza può ora comporre in progressione sicura, non sulla linea di una concatenazione logica, ma sull'intensificarsi dei presagi in una scansione profetica. La prosa ha la funzione di rileggere, riconoscere e collegare i fatti contenuti nel libro della memoria, imprimendo sul disordine dell'accadere l'ordine dell'intelligenza, sul " tempus " che, scolasticamente, " facit distare ", l'attuarsi delle cose nella pienezza conoscitiva. Ma pienezza conoscitiva è anche pienezza esistenziale in un mondo in cui l'essere e la verità coincidono, come la conquista della parola è la conquista della realtà interiore, l'attuarsi del significato che illumina l'esperienza.

Sulla funzione immediatamente esegetica prevale dunque, nella prosa, quella affabulatrice, che dall'indicazione delle occasioni delle liriche giunge a vere e proprie forme di racconto disteso, in gara, a volte, con le poesie, come nella scena del gabbo (XIV 1-10) o nella visione-presentimento della morte di Beatrice (XXIII 1-16); oppure riferisce la sentenzia di poesie escluse, per colmare i vuoti fra quelle accolte, o ne svolge più ampiamente certi particolari, o, persino, ne aggiunge, definendo in tal modo uno scorrere del tempo che si commisura su un cammino progressivo di edificazione. Si è parlato per questo della Vita N. come Bildungsroman (Bàrberi Squarotti), come di un ritratto dell'artista da giovane; ma va sottolineato il carattere medievale di questo romanzo, dove la quête è deliberatamente orientata nel senso di un conoscere che è un riconoscere, di un ritorno ad archetipi coincidenti con la struttura oggettiva del mondo, presentati, sin dall'inizio, come impliciti in un'esperienza che si giustifica e acquista significato e autenticità solo in quanto, superando le ragioni individuali, si realizza in una dimensione universale ed esemplare. Su questo piano, la struttura del libro si può dire fondata sulla dinamica di potenza e atto, congiunta alla verticalità agostiniana dell'" homo interior "; e il " verbum interius " è la meta effettiva, anche se poi la ferma decisione di diffonderne e renderne comunicabile il messaggio giustifica la strenua ricerca di uno stile che diventa filo conduttore del libro.

Nel cap. XXV D. difende la maggiore licenza di parlare concessa ai poeti rispetto ai prosaici dittatori (§ 7), purché sia fondata su una ragione che si possa poi aprire per prosa (§ 8). La motivazione della prosa della Vita N. è l'illustrazione del verace intendimento, ossia della sostanza conoscitiva della parola-segno: un commento come ricerca, nella parola, della verità che l'illumina. Ma il fatto che il commento sia un autocommento, senza distinzione fra autore e sponitore, stabilisce una tensione fra l'autore delle liriche e il chiosatore che tramuta la memoria in un'immaginazione attuale e interpreta il passato alla luce di un'intelligenza che appartiene al presente, ma nel passato ricerca la propria fondazione e autenticazione, e del presente (e del futuro) ha la tipica instabilità, fra un conforto di acquisite certezze e l'ansia di una nuova ricerca. Il commento ribadisce l'irruzione del tempo attuale nella vicenda conclusa del libro della memoria, lo riapre con la ricerca di un verace intendimento che si scopre, alla fine, scala a uno più profondo, per ora appena presentito, ma che determina, intanto, una fondazione di valori. A ben vedere, infatti, è proprio la prosa a costituire il mito di Beatrice, interpretando, come non era possibile al tempo della stesura delle liriche, la sua presenza terrena alla luce del compimento celeste; ed è ancora la prosa a costituire il mito del perfetto amore come armonia e integrità della persona.

All'origine di questa trasfigurazione stava però un evento reale e decisivo, la morte di Beatrice, che aveva proposto, nel cuore di un sogno di purezza edenica, il senso della fragilità umana, e insieme l'urgenza di una giustificazione del vivere e dello scrivere. La vicenda passata veniva così ricostruita attraverso il raffronto con le ragioni di sempre, esprimeva esemplarmente la dialettica fra la volontà di un'edificazione spirituale e gli elusivi indugi della ‛ sensualitas ', fra amore come passione e amore come nobile esaltazione intellettuale, fra morte e gloria; la prosa configurava questa storia saldando coerentemente le sparse intuizioni del passato, vi scopriva una continuità di significato, ribadendola e intensificandola con citazioni bibliche e scoperte analogie cristologiche, sì da imporre al racconto un andamento liturgico-rituale.

Tale carattere è stato messo in rilievo dai critici più attenti della prosa della Vita Nuova. Lo Schiaffini ha sottolineato il ricorrere di parole come miracolo, apparve, la tendenza a smussare il particolare concreto, a incorniciare il racconto in un alone mistico e devoto, definendo per questo l'opera come " Vita miracolosa, o Laude, o Legenda, di Santa Beatrice "; il Terracini ha rilevato il " ritmo legato e piano ", l'andamento " contemplativo e pensoso " della prosa del libello, e soprattutto la sua cadenza biblica, ribadita da stilemi come il frequente mi parla, affine al biblico " videbatur ", che conferisce ai sogni del poeta il carattere di una rivelazione profetica, e dalle ricorrenti figure del polisindeto, della simmetria (con carattere d'intensificazione e di tensione), e della prolessi; il Segre ha osservato come l'apparente elementarità dei moduli narrativi del libro venga impreziosita da un'interna musicalità che appare come un'eco prolungata delle liriche o resa " estaticamente solenne " da echi biblici. Sulla cadenza melodica hanno insistito numerosi altri critici, richiamandosi al giudizio dantesco dell'opera fervida e passionata e sottolineando la gracilità strutturale di questa prosa nei momenti in cui intenderebbe piegarsi alla dimostrazione concettuale, a differenza di quanto avverrà nel Convivio.

Il tono fra estatico e onirico aderisce alla struttura interna del libro, dove visioni e accensioni liriche coincidono coi punti nodali dell'azione, e i momenti più intensi sono quelli in cui D. appare inteso a cogliere l'erompere di una rivelazione che si fa parola, sia che si tratti di una più profonda intelligenza d'amore, sia del tramutarsi dell'emozione nella volontà del dire poetico. Si pensi, a questo proposito, al racconto di XIX 1-2, col solitario cammino, lo scorrere del rivo chiaro molto, l'improvvisa volontà di dire, la lingua che parla quasi come per se stessa mossa (§ 2) e dice Donne ch'avete intelletto d'amore; dove si ha come un comporsi del ritmo vitale nell'impulso di una germinale illuminazione e il tradursi del gesto interiore in parole armonizzate con legame musaico (Cv I VII 14).

Ma la cadenza biblica sottolinea soprattutto la volontà di D. di riferire il libello al Libro, di commisurare la propria esperienza e il proprio messaggio sui valori immutabili garantiti dalla trascendenza; a cominciare dall'affermazione della dignità del sentimento umano che è implicita nella volontà di rimodellare, pur nella coscienza della fragilità terrena, l'amore umano su quello divino. Su questa via D. scopre la bellezza come manifestatio del bene, l'amore come partecipazione alla verità e bontà dell'essere, la morte come segno della precarietà, ma anche come cammino a una vita più alta che quella terrena deve iniziare e prefigurare. In questa prospettiva il nuovo stile poetico attinge una giustificazione ontologica: la lode assume, come già nelle Confessioni agostiniane, il carattere e la validità della testimonianza, diviene vita e partecipazione.

La prosa, tuttavia, definisce anche uno spazio concreto di risonanza del messaggio poetico; un pubblico, cioè, atto a recepirlo, come già al tempo della divulgazione delle singole liriche, e a divenirne compartecipe: l'aristocratica schiera dei " Fedeli d'Amore ", indicati più volte come destinatari dei componimenti, nelle persone di Guido, di un amico (Vn XX 1), del fratello di Beatrice (XXXII e XXXIII di due donne gentili (XLI 1), di tutte le donne che hanno intelletto d'amore (XIX 4 1). Di qui la calibratura della vicenda su un riconosciuto codice di cortesia, il dialogo coi poeti precedenti e coevi, le dichiarazioni di poetica, la sottolineatura della novità della materia, non solo come rivendicazione di originalità, ma anche come ribadita fedeltà all'edificazione di un comune ideale di vita, d'amore e di poesia. La totale reversibilità fra gaudio amoroso ed entusiasmo poetico, fra pienezza gioiosa dell'essere e del dire, riscontrata dallo Zumthor e dal Guiraud nella lirica cortese, che conduce il canto a essere specchio di sé e suo proprio oggetto e all'equivalenza di amore e poesia, è ben presente non soltanto nelle rime della lode, ma in tutto il libro; anche nella circolarità di cadenze e di ritorni della prosa, nel suo costante protendersi a una tensione poetica, a un ritmo di fondazione di valori e di rivelazioni paradigmatiche.

La Trama. - Dopo il proemio, la vicenda si apre con un tono vagamente ieratico. Nove è la prima parola: un numero simbolico e sacro, destinato a conferire, con le sue nove ricorrenze nel libro, un carattere di predestinazione e di miracolo agli eventi. Alla fine del nono anno D. vede per la prima volta Beatrice che ha da poco terminato l'ottavo. Ne consegue una prima rivelazione d'amore, iscritta in un ritmo liturgico dalle frasi pronunciate - in latino e con echi biblici - dalle tre potenze dell'anima (secondo la fenomenologia psichica definita da Alberto Magno): lo spirito della vita, lo spirito animale, lo spirito naturale. Si ha già qui " una specie di prova generale delle immaginazioni future, un piccolo condensato della Vita nuova " (De Robertis), per la riduzione della vicenda alla sua risonanza spirituale, per la drammatizzazione, di ascendenza cavalcantiana, dell'evento interiore, per il condensarsi dell'esperienza in figure e simboli che alludono al compimento futuro e determinano, intanto, una cadenza di destino. Le parole profetiche dello spirito della vita prefigurano la vicenda narrata nei capitoli XI-XVI, quelle dello spirito naturale i capitoli IV-X, mentre in quelle dello spirito animale c'è il presagio del tema della contemplazione beatificante (capitoli XVII ss.). Ma soprattutto si delineano qui due proposte tematiche fondamentali: la lode di Beatrice (non parea figliuola d'omo mortale ma di Deo) e l'esaltazione di un amore retto sin dall'inizio dal fedele consiglio de la ragione.

Fino al cap. XI, la vicenda ripercorre le tappe progressive di un'iniziazione ‛ cortese ', come conquista di una ‛ gentilezza ' che è, insieme, del costume e del ‛ dire '; dal sogno del cap. III (dopo il primo saluto di Beatrice, a nove anni dal primo incontro), raccontato nel sonetto A ciascun'alma, che solleciterà la risposta del Cavalcanti e l'inizio dell'amicizia fra i due poeti, ai gesti ispirati a una precisa liturgia amorosa dei capitoli IV-X (tener celato l'oggetto del proprio amore, nasconderlo dietro donne-schermo, ecc.), che rinvia a un codice famoso, il De Amore di Andrea Cappellano e alla topica provenzale e siculo-toscana. È il momento del libro in cui più evidenti appaiono la distanza fra la poesia e la prosa e la difficoltà che questa incontra nel comporre le disperse occasioni di quella in una prospettiva coerente con gli sviluppi successivi. Converrà tuttavia notare, vincendo le tentazioni di una lettura psicologistica, il rilievo attribuito da D. ai nuclei tematici e stilistici che preannunciano la poesia futura: in O voi che per la via, il tema della vita dolce e soave (§ 9), e cioè della ‛ leggiadria ' d'amore, in Piangete amanti, quello dell'ascesa al cielo della giovane donna morta, in Morte villana, quello della salute (v. 19).

Questa fase si conclude col cap. X (il saluto di Beatrice negato, in seguito alle voci che infamavano D. come noioso, cioè privo di ‛ cortesia ', per il rapporto instaurato con la seconda donna-schermo); coi capitoli XI-XVI si ha invece quella dell'amore doloroso, in cui più evidente appare l'influsso del Cavalcanti.

Il cap. XI, presentato come digressione, intorno agli effetti del saluto di Beatrice, riprende la tematica cavalcantiana dei capitoli II e III (la mitologia di ‛ spiriti ' e ‛ spiritelli ', l'amore come excessus mentis e sconvolgimento delle potenze vitali), come pure il colloquio simbolico-allusivo con Amore (cap. XII). Difficile è interpretare le parole che il dio pronuncia dopo l'esortazione ad abbandonare la finzione delle donne-schermo. Il suo pianto, la frase Ego tamquam centrum circuli cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic (§ 4), seguita dall'esortazione, di stampo paolino, Non dimandare più che utile ti sia (§ 5), segnano una svolta decisiva dell'azione, anche se è difficile liberarle dall'oscurità profetica. Secondo il Barbi, l'immagine del circolo va riferita alla prescienza divina e la profezia alluderebbe quindi alla morte imminente di Beatrice; per altri è immagine di perfezione, implicito invito a D. a ritornare dalla dispersione dei simulati amori alla centralità del proprio sentimento genuino (Parodi, Todeschini); altri critici sviluppano quest'ultima interpretazione riconducendola al centro ideologico del libro: l'amore che ha il proprio fine in sé stesso, non nel perseguimento di un fine contingente e, comunque sia, interessato come il saluto (De Robertis, Bàrberi Squarotti).

Dopo questa rivelazione hanno finalmente inizio le rime rivolte a Beatrice, anche se, fino al cap. XVI, sono in realtà rime per la non-Beatrice, espressione di un amore tormentoso e inappagato. La situazione giunge a un culmine drammatico con la scena del ‛ gabbo ' (XIV 7 ss.), topica dell'imagery cortese, ma intensificata pateticamente nel racconto in prosa fino a soverchiare la convenzionale gestualità galante, tanto che un critico l'ha vista inscritta nella filigrana ascetica dello scherno degradante del fedele dinanzi al Deus ludens.

Senza procedere tanto oltre, colpisce tuttavia quel gusto di parole definitive (Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare, § 8) che riconduce l'episodio a un'esperienza paradigmatica di amore-morte. L'intensità patetica è assai meno rilevata nei quattro sonetti dei capitoli XIII-XIV (e nella ballata del cap. XII, largamente intessuti di echi e stilemi cavalcantiani, ma nettamente inferiori poeticamente sia alla prosa sia alla canzone Lo doloroso amor, evidentemente esclusa dal libro per la risoluta volontà del poeta di puntare sulle rime della lode, relegando l'esperienza precedente a un mero precorrimento.

La matera nuova e più nobile che la passata è presentata nel cap. XVII come superamento della crisi contenutistica ed espressiva attestata dagli ultimi sonetti (credendomi tacere e non dire più, XVII 1). Attraverso il vaghissimo colloquio con le donne che hanno intelletto d'amore e che divengono d'ora innanzi le destinatarie del messaggio poetico (XVIII), viene enunciata la nuova invenzione lirica: la beatitudine del poeta, quella che non gli può venir meno, sta nelle parole che lodano la sua donna. È il passaggio, sottolineato da numerosi interpreti, dall'amore alla caritas: all'amore della persona amata per ciò che è, non per ciò che può donare all'amato. D. perviene a intuire la vera essenza d'amore come unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata (Cv III II 3), di altissimo valore etico-conoscitivo, cui corrisponde la gioia della lode che esprime la vita nuova dell'animo.

La nuova intelligenza d'amore comporta il superamento della tematica cortese e un nuovo ideale di aristocrazia intellettuale e spirituale che comprende anche un'idea nuova della poesia: il canticum novum assume una funzione illuminatrice di edificazione spirituale.

Questo amore, che assume analogicamente il carattere della Dei dilectio, ha il proprio modello nella tradizione cristiana - dai testi sacri a s. Agostino, a s. Bernardo, ai Vittorini - e in quella classica della trattatistica sull'amicitia, dall'Etica Nicomachea al Laelius di Cicerone, di cui il Gilson ha messo bene in rilievo l'influsso nei testi mistici del Medioevo e, successivamente, anche nella lirica profana. Per la Vita N. i riscontri più persuasivi sembrano quelli indicati dal De Robertis, oltre che col Laelius (un'opera, come attesta il Convivio, meditata da D. subito dopo la morte di Beatrice, al tempo, dunque, della concezione della Vita N.), anche col De spirituali amicitia di Aelredo di Rhidal, che propone l'ideale di un amore dulcis ex affectu e castus ex ratione, permeato di spiritualità cristiana.

La poetica della lode si esplica nei capitoli XVIII-XXVII, a partire dalla canzone Donne ch'avete, rivolta all'eletto coro femminile su cui s'irradia la luce della gentilissima. Temi centrali delle nove rime sono la dolcezza come trascrizione dell'intima soavità di amore e l'umiltà come mitezza serena dell'animo, come gioia di donarsi che si traduce nella felicità della lode disinteressata, superando ogni forma di egoismo e d'istintività passionale. L'estasi contemplativa trapassa a volte in un vero e proprio impeto visionario, come nel " prologo in cielo " della seconda stanza della canzone, dove Dio stesso si fa garante della missione salutifera di Beatrice, ribadita poi nel sonetto Tanto gentile (e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare, vv. 7-8).

La claritas, lo splendore di Beatrice esprime un'idea della bellezza come luce intellettuale che trapela nel sensibile: sembra alludere a quella luce intellettüal piena d'amore (Pd XXX 40) che segnerà, nella Commedia, l'approdo conclusivo del poeta.

Su queste rime, sui sonetti Ne li occhi porta e Vede perfettamente, sulle movenze estatiche della prosa si costituisce il mito di Beatrice-amore. Gli effetti prodigiosi che la sua presenza opera (far nascere nei cuori dei contemplanti una dolcezza onesta e soave che induce a perfezione, far nascere amore dove non è in potenza) sfiorano di continuo l'ineffabile. La gioia della lode cinge di un nimbo di stupefatto prodigio il suo apparire e il suo incedere, riconosce nella dolcezza che ella infonde nei cuori un segno sicuro di redenzione: donde la tensione corale delle rime e della prosa, il risolversi della lirica nell'inno.

Concettualmente lo stilo de la loda non si allontana molto dalla scoperta guinizzelliana dell'identità di amore e " cor gentile ", ribadita nel sonetto Amore e 'l cor gentil sono una cosa, e all'atmosfera stilnovistica riconduce la poetica del cap. XXV, dove D. rafforza la propria auctoritas con quella del Cavalcanti, indicato, nel cap. XXIV e nel sonetto Io mi senti' svegliar, come precursore della sua nuova poesia. La collocazione di questi testi al centro del libro, fra le pagine che più si sono prestate a un'interpretazione agio-grafica, rivela il consapevole e dominante impegno letterario dell'autore. Ma la retorica ha pur sempre, per D., una forte giustificazione gnoseologica: la conoscenza della parola comporta quella della cosa. Il procedimento espressivo su cui si fonda la lode, la transumptio, che, insegnava Boncompagno da Signa, può anche derivare da un " inenarrabilis mentis affectus " è immediatamente ricondotto da un significato tecnico a una scoperta intellettuale, dai verba alle res (e anche di questo era in Boncompagno più di una semplice indicazione); coerentemente con una visione del mondo in cui " nomina sunt consequentia rerum ", e la dolcezza del nome Amore fa apparire impossibile che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce (XIII 4); in cui, cioè, la parola partecipa ontologicamente dell'oggetto. Un nuovo modo di poesia coincide dunque per D. con un nuovo modo di essere, lo stile della lode manifesta l'intima partecipazione esistenziale alla reale essenza dell'amore.

La collocazione della canzone Donna pietosa - nata da quella che viene definita una ‛ vana immaginazione ' di delirio, ma, in realtà, profetica - al centro delle rime della lode, riconduce, nel momento dell'esaltazione più intensa di un amore perfetto e di una creatura perfetta, il senso della precarietà creaturale. I presentimenti di morte che avevano tramato tutto il libro, fino al cap. XXII (la morte del padre di Beatrice, anch'essa nel cuore delle rime della lode), culminano nella visione apocalittica del transitus di Beatrice, accompagnato dagli stessi sconvolgimenti naturali che accompagnarono la morte di Cristo. È vero che c'è qui anche una resurrezione e trasfigurazione - l'ascesa dell'anima di Beatrice al cielo fra una moltitudine di angeli - ma pur sempre nello strazio di una dipartita radicale. L'annuncio, pochi capitoli dopo (XXVIII), della morte reale di lei si riduce alla citazione di una lamentazione di Geremia, che rende tuttavia corale il rimpianto come corale era stata la lode.

La lamentazione di Geremia è il cominciamento allegato quasi come entrata de la nuova materia che appresso viene (XXX 1), caratterizzata sin dall'inizio dall'effusa e densa tonalità elegiaca della canzone Li occhi dolenti (XXXI 8-17), che pervade anche Venite a intender li sospiri miei (XXXII 5-6), Quantunque volte, lasso!, mi rimembra (XXXIII 5-8), Era venuta ne la mente mia (XXXIV 7-11) e, dopo l'episodio della pietosa consolatrice che induce D. a un momentaneo oblio della sua donna (capitoli XXXV-XXXVIII, coi sonetti Videro li occhi miei quanta pietate, Color d'amore e di pietà sembianti, L'amaro lagrimar che voi faceste, Gentil pensero che parla di vui), in Lasso! per forza di molti sospiri (XXXIX 8-10) e in Deh peregrini che pensosi andate (XL 9-10). Il pianto, da un lato, come fedeltà, e dall'altra la ripresa di un incerto cammino, dell'antica amorosa erranza, dietro le suggestioni della favola cortese, che ritorna, con la casistica di Ovidio e di Andrea Cappellano e persino con stilemi guittoniani, nelle rime per la Donna gentile e pietosa, e ancor più nelle prose. Ancora una volta è un improvviso evento interiore a risolvere la situazione; la forte imaginazione che riconduce nell'animo Beatrice qual era apparsa la prima volta e l'affida all'intimo recupero della memoria (XXXIX 1-2). L'amore per la pietosa diventa avversario de la ragione, mero e vile desiderio contro la constanzia di essa.

Nonostante la fermezza di questa conclusione, si può tuttavia discernere, nell'ultima parte del libro, un movimento nuovo, un effettivo riaprirsi del discorso. Lo stile della lode è senz'altro un acquisto sicuro, che permarrà anche in liriche posteriori (basta pensare ad Amor che ne la mente o anche ad Amor che movi tua vertù dal cielo) e che permea della sua dolcezza anche la nuova tematica dolorosa, riaffermando a tratti la propria capacità visionaria, come nella seconda e terza stanza di Li occhi dolenti e nei vv. 20-26 di Quantunque volte, ma predomina ora la vena patetico-elegiaca. Col dolore ritorna il senso del relativo dei giorni e dell'anima, cui corrispondono modi intimistici più dimessi, diversi dalla densità epica dell'inno, dalla sua liturgica fermezza. La morte ha ricondotto nel presente estatico della lode il senso della ferita del tempo, dove la fedeltà si avverte problematica, travagliata da una continua dialettica di deviazione e riconquista.

L'ultimo sonetto, Oltre la spera che più larga gira (XL 10-12), mentre accosta Beatrice a uno sfondo di eternità celeste, contiene anche l'ammissione dell'impossibilità di un colloquio attuale con le sustanze separate da materia (Cv II IV 2), e quindi di un'intelligenza d'amore non più sostenuta dalla conoscenza sensibile.

Ed è poi questa la situazione di contrasto che verrà espressa in Voi che 'ntendendo, che contrappone il tema della Donna gentile a quello di Oltre la spera: una Beatrice ormai inattingibile per l'intelletto, anche se la sua memoria resta indelebile nel cuore.

La soluzione, nella Vita N., non può venire, ancora una volta, se non dall'alto: da una mirabile visione, nel senso oramai reale che la parola aveva nella spiritualità del Medioevo, che potrà essere effigiata soltanto da una poesia più alta, da una nuova maturazione d'arte e di pensiero. Con questa tensione verso un ideale ancora una volta etico e poetico si chiude il libro della memoria.

Interpretazione dell'opera. - L'interpretazione della Vita N. è tuttora controversa. È merito della critica degli ultimi decenni l'aver debellato le pretese positivistiche di riscontri puntuali fra il libro e la biografia esterna di D., i modi di lettura decadentistica e preraffaellita e le interpretazioni esoteriche, intese a ricercare nel libro messaggi settari e iniziatici. La disputa è oggi essenzialmente fra chi pone l'accento sul carattere mistico-agiografico di esso e chi ne privilegia il carattere ‛ laico ' (anche se non privo di una forte componente religiosa), insistendo su un conclusivo significato letterario e poetico. Alla formula interpretativa Legenda sanctae Beatricis, proposta dallo Schiaffini, si contrappone Beatrix de amore, ricalcata dal De Robertis sul ciceroniano Laelius de amicitia, con l'intendimento di orientare l'ethos del libro in quella tradizione retorica (inscindibile dall'etica e dalla politica) che da Cicerone giunge fino a un maestro di D., Brunetto Latini. Secondo quest'interpretazione, la Vita N. presenta innanzitutto l'attuarsi progressivo della poetica della lode, entro una ben definita coscienza letteraria.

A sostegno della prima tesi può essere assunto il copioso numero di citazioni bibliche, esplicite e implicite, che se, per le liriche, possono essere giustificate come metafore (ricorrenti, del resto, anche nella lirica provenzale e in quella italiana coeva a D.), nella prosa vengono a costituire un insieme sistematico e quindi fortemente allusivo (anche per la minor licenza di parlare concessa ai prosaici dittatori), cui vanno aggiunti le insistite analogie cristologiche, temi come quello della salute, che appare un trasparente simbolo religioso, il tono agiografico con cui è rievocata, soprattutto a partire dal momento della lode, la vita di Beatrice, la certezza della sua gloria celeste, e, infine, quella sorta di progressivo cammino ascetico che contraddistingue l'esperienza amorosa di Dante. Su questa via le proposte ermeneutiche più importanti sono state, dopo il vecchio saggio del Marigo, quella del Singleton e, più di recente, quella del Branca.

Questi interpreti non negano la realtà storica di Beatrice e dell'amore di D., ma interpretano il libro in senso anagogico. Per il Marigo la vita nuova di D. si svolge in tre momenti che corrispondono a quelli dell'itinerario mistico configurato dai Vittorini e da s. Bonaventura: la purificazione dei sensi e dell'immaginazione, la lode e la contemplazione spirituale, la contemplazione intellettiva, corrispondente all'esaltazione dell'essenza incorporea e angelica di Beatrice beata. La donna diventa guida a Dio, l'amore umano scala a quello divino, alla contemplazione dell'essenza di Dio e a una mistica partecipazione o synderesis, rappresentata dal sonetto Oltre la spera. Il Singleton insiste invece soprattutto sulla simbologia cristologica, largamente riscontrabile negli eventi in vita e in morte di Beatrice, creatura perfetta in cui più viva balena analogicamente la figura di Cristo, la cui immagine risplende nelle pagine del libro della memoria, come in tutta la vita cristianamente intesa. Modellando il proprio amore sulla charitas, D. risolverebbe il conflitto fra l'amore per una donna e quello per Dio, senza dover rinunciare né all'uno né all'altro, ma mantenendoli entrambi in un'unica ‛ teoria ' dell'amore.

La possibilità di queste interpretazioni nasce dalla componente intellettualistica e idealizzante implicita nell'idea stessa dell'amor cortese, che nel suo svolgimento storico subì senz'altro l'influsso della coeva cultura filosofica e religiosa. Ma l'ipotesi del Marigo lascia l'impressione di una forzatura, soprattutto quando attribuisce a Oltre la spera un significato mistico contraddetto dalla limpida esplicazione del testo offerta da D. nella prosa. È difficile inoltre non vedere che Beatrice e non Dio resta sino alla fine l'oggetto della lode; la prima parte del libro può essere solo arbitrariamente astratta dall'atmosfera cortese e l'ultima ascesa proposta è un ideale di poesia più alta, la ricerca di un nuovo dire, piuttosto che la negazione di esso in un mistico silenzio. Quanto alla giustificazione dell'amore umano sul piano etico-religioso, effettivamente presente nella Vita N., resta da vedere se l'accento vada posto sull'assunzione della cultura laica in un modello sacro o non piuttosto sulla secolarizzazione della cultura religiosa. Resta infine da definire l'importanza e il significato assunti in questo processo dalla poesia, la cui presenza diviene tanto più fuorviante, ai fini del racconto di un'esperienza mistica, quanto più la prosa ne sottolinea il carattere d'invenzione tipicamente letteraria.

Il tema di Beatrice come creatura nella quale, per la perfezione e la nobiltà dell'animo, più puro risplende il modello divino o l'analogia entis è stato sviluppato con nuove argomentazioni da F. Mazzoni, ed è certo difficile escluderlo dalla lode di una persona che il poeta può effettivamente considerare, ora che è morta, nella gloria del Paradiso. Su questa linea interpretativa il Branca ha recentemente offerto un contributo di notevole interesse, indicando come possibile modello della Vita N. le vite di sante (Giuliana Falconieri, Margherita da Cortona, ecc.), fiorite nell'ambito della spiritualità francescana, dove queste eroine cristiane vengono designate come " specula Christi ". I copiosi e persuasivi raffronti, utili per la definizione di un modello letterario ed eidetico, non devono tuttavia far dimenticare che il libro, più che una " vita Beatricis ", effigia una " vita Dantis " e la storia di una poesia aristocratica e schiva, lontana da un messaggio di universale divulgazione qual è quello dell'agiografia.

Sul carattere letterario insiste invece l'analisi del De Robertis, attenta ai riecheggiamenti, nel libro, della trattatistica de amicitia dal Laelius ad Aelredo, interpretati però come giustificazione di un amore umano e terreno come conquista intellettuale, che pur definendosi nel confronto con le strutture culturali offerte dalla secolare meditazione cristiana, giunge ad affermare una propria dignità autonoma. E la poesia, espressione di una ‛ gentilezza ' conseguita attraverso l'amore, è il culmine di questa esperienza: le citazioni dei testi sacri sono compiute in una direzione definita essenzialmente dalla fantasia, l'analogia trapassa dal significato mistico a quello metaforico. L'esaltazione di Beatrice è fine a sé stessa; l'amore per lei trae forma dall'amore di Dio, ne assume i caratteri, ma non è assunto nell'amore di Dio, non è scala a esso, anzi, proprio da questa revocatio ad eius formam trae coscienza della propria perfezione. Le rime della lode sono un atto di fede nell'oggetto poetico, la Vita N. celebra essenzialmente un ideale di poesia, la nascita di una coscienza letteraria che definisce le proprie istituzioni con piena coscienza " dell'autonomia e libertà dell'operazione poetica in quanto operazione intellettuale, della sua facoltà di alterazione e sostituzione della realtà ".

È vero peraltro che l'autonomia dell'amore umano e dell'immaginazione poetica non appaiono, nella Vita N., come una conquista definitiva e che il libro non si conclude con le rime della lode, ma con una nuova crisi esistenziale e poetica che rivela a D. la precarietà di ogni valore terreno: anche la nuova vita dell'animo appare insidiata dalla stessa ambiguità del sentimento (la donna gentile) e dalla difficoltà di conservarsi fedele a un supremo ideale etico e intellettuale, nell'incerto cammino e nell'illusoria fascinazione del senso.

Secondo il Bàrberi Squarotti la Vita N. oscillerebbe fra artificio ed escatologia, fra la rappresentazione dell'epifania di Dio in una storica incarnazione terrena (Beatrice), che coinvolgerebbe il riconoscimento e l'atto d'amore verso di essa da parte del testimone, e la letteratura che stabilirebbe la trama esteriore, traducendo l'esperienza escatologica nelle proprie figure, cioè nei termini della figurazione d'amore, dandole una forma di diffusione, un carattere di comunicatività, ma anche ritrovando in sé stessa una potenzialità profetica e rivelativa. Ma si ha l'impressione che, sovraccaricando il testo con un tale significato, si sia di nuovo costretti a leggerlo in chiave mistico-iniziatica, e che la letteratura, non che giovare alla sua comunicabilità, vi apporti, come si è accennato, un elemento di ambiguità e confusione. Senza contare che l'escatologia della Vita N. si riduce al vedere la persona amata nella gloria celeste che attende ogni giusto alla fine della vita e a considerarla, nel suo passaggio terreno, come dotata di altissima perfezione morale (di quella nobilitade umana che verrà poi definita in Cv IV XIX 6 e XXI 10) che diviene presagio di santificazione. Il superamento dello strazio provocato dalla sua morte in una speranza ultraterrena, che si riflette poi in una nuova vocazione spirituale e artistica del poeta, appare come una scelta, motivata religiosamente, ma in ultima istanza etica, piuttosto che come una rivelazione poetica.

Si sarebbe così indotti a ritornare alla Vita N. come a un codice amoroso ispirato all'esperienza cortese, inteso alla lode della donna amata in gara con tutta la poesia precedente (Montanari), in cui i riferimenti biblici resterebbero metafore, secondo il procedimento retorico dell'intensificazione e dell'iperbole. Resta però il problema del significato che assumono nella continuità di un libro che è già, come suggerisce il Sollers, una " comédie du langage et du chemin "; di una prosa che si propone di giustificare le intuizioni lirico-fantastiche nel quadro di una verità intellettuale e di una storia reale.

Scopo della Vita N. era giungere a una definizione dell'amore che superasse la descrittiva psicologistica di ascendenza ovidiana e anche le formulazioni dottrinali dei due Guidi, per enuclearne il carattere di moto spiritale (Pg XVIII 32) beatificante, di conoscenza che si fa vita e si sublima nella gioia del donarsi. Ora è vero che per questa via D. poteva giungere a ritrovare il modello trinitario implicito, secondo la prospettiva cristiana, nella struttura della persona, e, di qui, al superamento di una figura d'amore pur sempre umano in un'esperienza mistica, oppure usare la teologia come tropo, impegnandosi in una mera gara d'intensificazione retorica. Ma è altresì indubitabile che, pur commisurando la propria vicenda su quelli che sono, per una coscienza cristiana, i modelli di ogni essere e di ogni accadere, e pur inserendo il suo dire, con piena e a volte polemica consapevolezza, in una ben definita tradizione espressiva, egli sceglie originalmente un'altra strada: quella della storia. Dalla storia effigiata nel libro, dalla sua scansione e dal suo concrescere nel tempo e nello spazio, nasce il personaggio di D., in quanto le parole della memoria (le poesie e le idee o rappresentazioni a esse collegate, emerse da un'esperienza reale) segnano ora l'assunzione consapevole, da parte dell'auctor, di un destino che restava soltanto oscuramente presentito dall'agens: quello di un amore paradigmatico, ma pur sempre frutto dell'esperienza biografica e intellettuale concreta, e di una vocazione poetica portata ora a definirsi nell'esemplarità del libro come summa e integrazione di un vivere e di un conoscere. Allo stesso modo, in una storia e in un destino si definisce il personaggio di Beatrice, simbolo delle più alte aspirazioni dell'animo del poeta, ma anche persona incontrata e amata al tempo della giovinezza; e in una storia, infine, nelle svolte di un cammino progressivo, si definisce anche il terzo personaggio del libro: le liriche, cioè la poesia di Dante.

Lo stilo de la loda supera la tematica cortese non tanto per la novità dell'invenzione retorica, ma per l'assolutezza dei valori che scopre: dalla vita nuova dell'animo a quella, inscindibilmente connessa alla prima, della parola.

Come in VE I IV 4 l'uomo si attualizza pienamente nel verbum che è accettazione compartecipe del gesto creatore che lo chiama alla vita, lode, quindi, e testimonianza, così la poesia, vertice del linguaggio umano, riconosce e costruisce nel tempo i valori che imprimono nella relatività dell'accadere una tensione d'assoluto: quella che dall'inizio alla fine del libro coincide con la ricerca di un dettato più esaustivo. La Vita N. scopre l'essenza pura del verbum come laus (il vituperium, come il male e come la parola inadeguata all'oggetto, è mera privazione), e il dire come fondazione di vita. In tal senso, amore e poesia coincidono. La stessa ansia di una giustificazione trascendente investe l'esperienza vissuta e quella poetica, pur situandosi ben consapevolmente nel paradosso della vita e della morte.

Beatrice è morta, e l'immaginazione la configura ora come una santa, emblema della direzione e del significato del vivere, ma un valore analogo è conferito anche a un amore visto nella pienezza e dignità del suo compimento terreno. Tutto un corso di eventi si dispone nel senso di un itinerario: dall'amorosa erranza al ritrovamento del vero amore, dalla rivelazione della bellezza a quella del bene, attraverso il dramma sofferto della caducità: da un dire che allontana dall'oggetto a uno che esprime le intuizioni profonde dell'animo. L'immaginazione afferma la propria funzione di mezzo euristico di una conoscenza ultrasensibile negata e insieme postulata dalla sensualitas e dall'affectus nel loro cammino verso l'intelligenza; proietta Beatrice su uno sfondo celeste, aiuta l'amore e la poesia a ritrovare la loro realtà ontologica.

Si può allora parlare di fede nell'oggetto poetico, purché la si metta poi in relazione con la fede cristiana medievale di una congruenza totale dell'essere e della verità nel bene, di una realtà che non diviene, ma è, nella sua struttura di sempre, radicata nell'anima che analogicamente e pur realmente riflette il divino. Anche nell'immaginazione, in virtù della quale, come dice Riccardo di San Vittore, essa crea ogni giorno un nuovo cielo, una nuova terra e " quasi alius quidam creator quantaslibet... creaturas omni hora actitat et pro arbitrio format ". In una lingua immaginosa e poetica parlavano, del resto, i testi sacri, a cominciare dal Cantico dei Cantici e dai grandi poeti antichi, e certo non sanza ragione, ma assecondando la naturale capacità conoscitiva dell'uomo: il senso parabolico coincideva, come affermava s. Tommaso, con la verità del senso letterale.

Non occorre pertanto ricercare nella Vita N. l'allegoria di un itinerario mistico o messaggi iniziatici, quando tutta la vicenda si svolge in un tempo che è misura di movimenti umani e la realtà dell'opera sono proprio le parole in cui è scritta, col loro spazio di risonanza che, per un uomo del Medioevo, tende sempre a essere terreno e metafisico. Che D. sia partito dall'ethos e dall'imagery cortese è una riprova della fedeltà al suo tempo: alla cultura e alla problematica esistenziale di esso. Che abbia voluto superare le ambages pulcerrimae di una mera immaginazione sensibile e di un elegante giuoco di società per cogliere il significato spirituale dell'avventura cortese, che abbia ricercato l'intima razionalità e il valore del movimento affettivo, riconducendolo agli archetipi essenziali del vivere è la riprova che la Vita N. è una tappa fondamentale nello sviluppo del suo realismo cristiano.

Fortuna. - Sin dall'inizio, la fortuna della Commedia tende a offuscare e limitare quella della Vita N., considerata come un primo abbozzo ancora incerto e lacunoso della grandiosa architettura artistica e ideologica del poema. É merito del Boccaccio l'avere insistito sulla realtà storica di Beatrice, contro le interpretazioni allegoristiche e neoplatonizzanti che si rafforzeranno nei due secoli immediatamente seguenti e di aver trasmesso questa persuasione ai primi commentatori della Commedia, ma è anche vero che, a partire dalla Vita di Dante, l'atmosfera estatica del libello è ridotta a una trama novellistica. Nonostante i riecheggiamenti del Filocolo e dell'Ameto, l'influenza della Vita N. sulla poesia del Trecento è assai limitata; i temi dell'amata morta, del suo ritorno in sogno, della fedeltà alla sua memoria, della problematica etico-religiosa dell'amore passeranno nella letteratura seguente attraverso la ben diversa affabulazione petrarchesca e i suoi moduli espressivi, lontani ormai dalla concezione intellettualistico-scolastica dell'amore.

Il Boccaccio è anche un benemerito trascrittore del libro, ma gli scarsi codici trecenteschi attestano una modesta diffusione di esso, limitata geograficamente alla Toscana e a zone limitrofe. Quelli quattrocenteschi sono assai più numerosi, ma tramandano in gran parte soltanto le liriche, rivelando il gusto di un pubblico poco disposto alla problematica ideologica e culturale. Ne tentò una rivalutazione e una più ampia diffusione Lorenzo il Magnifico, facendola trascrivere al primo posto nella Raccolta aragonese, e qualche influsso di essa è riscontrabile in opere quali il Comento dello stesso Lorenzo e l'Arcadia del Sannazaro.

Nel sec. XVI la fortuna dell'opera subisce un nuovo declino. Di fronte ai commenti alla Commedia e al rinnovato interesse per il Convivio e il De vulgari Eloquentia sta la tardiva editio princeps del Sermartelli (1576), le cui correzioni al testo rivelano una sensibilità e una cultura ormai incapaci di comprenderne le intime ragioni. Più fortunata fu la tradizione delle liriche: la Giuntina del '27 è ristampata a Venezia nel 1532.

Per la seconda edizione bisogna attendere quella del Biscioni del 1723, riprodotta peraltro a Venezia nel 1741, 1751, 1752 e ancora, insieme con le altre opere di D., nel 1758 e nel 1760. Queste edizioni e la ristampa della Giuntina (Firenze 1727 e Venezia 1731) sono una riprova del rinnovato interesse del secolo per Dante.

Fino al sec. XIX è assai scarsa anche la fortuna europea del libro, che appare noto in Spagna, nel sec. XV, ad Auzias March, al Marchese di Santillana, a Juan de Mena; ancor più sporadiche sono le tracce nelle altre letterature, ove si escluda il Comus del Milton.

La ‛ riscoperta ' di D. nell'età romantica, anche se prevalentemente rivolta alla Commedia, comporta tuttavia un interesse più vivo per la Vita Nuova. Del 1810 è l'edizione tedesca del Keil, la prima stampata in lingua originale fuori d'Italia, seguita dalle traduzioni di F. Von Oenyhausen (1824) e del Förster (1841) e da quella, limitata alle sole liriche, del Kannegiesser. La prima traduzione francese, di J. Délecluze, è del 1841; del 1843 quella, annotata, di Sébastien Rhéal, cui segue quella delle sole liriche del Fertianet (1849 e 1854). Echi dell'opera si riscontrano nelle Méditations del Lamartine (1820), nelle Consolations di Saint-Beuve (1829) e nel poema Béatrice di Saint-René Taillandier (1840).

La Vita N. ebbe però la sua maggior fortuna nell'Ottocento inglese e americano. Fu ammirata dal Coleridge, dallo Shelley, che ne riecheggiò l'intima atmosfera nell'Epipsychidion e ne parlò con entusiasmo nella Defence of Poetry (1825); fu tradotta nel 1861 da Dante Gabriele Rossetti, dopo che il Lyell (1835) e il Martin (1845) ne avevano tradotto le liriche e R. Monckton, nel '48, aveva composto The Vision of D., che è una traduzione del libro in blank verse. Altri poeti ne subirono il fascino, da W.S. Landor a R. Browning; fra gli americani basta ricordare il Longfellow, R.W. Emerson e J. Garrow, che ne pubblicò una versione inglese a Firenze nel 1840. Il culmine di questa fortuna si ha forse coi Preraffaeliti, responsabili però anche di una lettura decadentistico-estetizzante del libro (cui si rifanno anche le illustrazioni pittoriche di D.G. Rossetti), certo meno rigorosa e profonda di quella di poeti angloamericani posteriori, quali E. Pound e T.S. Eliot, o di quella di benemeriti critici dalla fine del secolo ai nostri giorni, quali gl'inglesi P. Toynbee ed E. Moore e gli americani E.C. Norton, J.E. Shaw e C. Singleton.

All'Ottocento inglese risale anche la divulgazione delle interpretazioni iniziatico-settarie, instaurate da un esule italiano, erede del neoghibellinismo risorgimentale, Gabriele Rossetti, che nel saggio La Beatrice di D. (1842) interpretò l'amore del poeta come devozione alla causa imperiale e Beatrice come la Monarchia. Per i critici di questa tendenza, che ebbe diffusione europea, la Vita N. è scritta in un gergo per iniziati, inteso a celare un contenuto eterodosso: secondo E. Aroux, ad esempio, Beatrice è la fede settaria ed eretica del poeta (D. hérétique, revolutionaire et socialiste, Parigi 1854). Parallelamente si svolge l'interpretazione allegoristica; per il Gietmann, Beatrice è la rappresentazione simbolica della Chiesa, per il Perez, la figurazione dell'intelligenza attiva (a parte vanno considerate le interpretazioni del Pascoli, anch'esse arbitrarie, ma fondate su una lettura approfondita, e non priva di spunti e suggestioni notevoli, del testi agostiniani). Nonostante la dimostrazione, offerta dal Del Lungo, della realtà storica di Beatrice, questi modi di lettura ebbero fortuna anche nel Novecento (Valli, Earle, Ricolfi, ecc.), e la parabola del dantismo esoterico non sembra ancora conclusa (v. BEATRICE).

Nell'ultimo trentennio dell'Ottocento, dopo le sintesi geniali del De Sanctis e del Carducci, cominciò un'analisi approfondita del libro. Un fondamentale avvio all'intelligenza di esso si ebbe coi seguaci del metodo storico-filologico, dal D'Ancona al Rajna al Del Lungo al D'Ovidio al Barbi, critici cosiddetti ‛ realisti ', per la loro assunzione della realtà storica di Beatrice e della vicenda narrata nell'opera. Anche i critici cosiddetti ‛ idealisti ', dal Bartoli al Cesareo al Croce, pur insistendo sulla trasfigurazione fantastica operata dal libro nei confronti della realtà storico-biografica, portarono nuovi contributi a un'intelligenza approfondita dell'ispirazione e della validità poetica di esso.

Con questi critici si definisce una problematica critica non estetizzante o mitologizzante, che è stata approfondita dagl'interpreti posteriori. Come si è potuto vedere nel paragrafo precedente, la discussione attuale appare intesa a un'analisi delle componenti culturali e letterarie della Vita N., in una prospettiva effettivamente storica, che sola può consentire una corretta interpretazione, o quanto meno, una lettura non divagante.

Miniatura. - Rispetto alla lunga e doviziosa storia delle miniature della Commedia (v.), ben scarsa e di non elevata importanza figurativa è l'attività delle botteghe di miniatori, tanto fiorentini e toscani quanto settentrionali o meridionali, attorno alla Vita Nuova, come anche alle Rime. Gioverà tuttavia ricordare per la Vita Nuova almeno il Parigino ital. 545, datato 1456, e il primo-cinquecentesco Laurenziano Strozziano 170, recenziori comunque e non orientativi di una diffusa tendenza a illustrare le situazioni narrative e psicologiche sia del libello che delle canzoni della silloge boccacciana, certo per il loro carattere astratto e allusivamente allegorico. Non mancano, certo, nei codici seniori fregi o iniziali o rubriche o stemmi in miniatura, però mai con finalità propriamente illustrative del testo. Per le Rime il ricordo va soprattutto alle eleganti miniature del Senese I IX 18 della Comunale o alle meno fini ma di maggior vigore plastico del Riccardiano 1035 (il noto manoscritto di mano del Boccaccio, che contiene, con le quindici della silloge, anche il testo del poema, ma incompleto).

Bibl. - Edizioni. Dopo i primi tentativi di P. Rajna, di A. D'Ancona, Pisa 1872 (1884²), di K. Witte, Lipsia 1876, di T. Casini, Firenze 1885 (rist. nel 1962 con importante nota introduttiva di C. Segre), di F. Beck, Monaco 1896 (fondata sulla recensio più ampia: 35 manoscritti), cfr. l'edizione critica di M. Barbi, La V.N. di D., Firenze 19071 (cfr. E.G. Parodi, in " Bull. " XIV [1907] 9-97) e 1932² (cfr. N. Sapegno, Per il testo critico della V.N. di D., in " La Nuova Italia " [1932] 369-374). Per la tradizione delle liriche v. anche D. De Robertis, Censimento dei manoscritti di rime di D., in " Studi d. ", dal XXXVIII (1960) al XLI (1964); ID., Il canzoniere Escorialense e la tradizione " veneziana " delle rime dello stil novo, in " Giorn. stor. " suppl. 27, Torino 1954. Cfr. infine G. Folena, La tradizione delle opere di D.A., in Atti Congresso Internaz. studi dant., I, Firenze 1965, 14-18; A. Pézard, La rotta gonna. Gloses et corrections aux textes mineurs de D., I, Firenze-Parigi 1967.

Edizioni commentate. Oltre a quelle citate del D'Ancona, del Witte, e del Casini, si segnalano quelle di P. Fraticelli, Firenze 1839 (1876³); G.B. Giuliani, ibid. 1863 (1883²); C.E. Norton, Boston 1892; G.L. Passerini, Torino 1897; E. Moore-P. Toynbee, Oxford 1904³; G. Melodia, Milano 1905; F. Flamini, Livorno 1907; G. Federzoni, Bologna 1910 (1918²); M. Scherillo, Milano 1911; G.A. Cesareo, Messina 1914; D. Guerri, Firenze 1922; G. Manacorda, ibid. 1928; L. Di Benedetto, Torino 1928; N. Sapegno, Firenze 1932; L. Pietrobono, ibid. 1933 (l'introduzione è rist. in Saggi danteschi, Torino 1954); T.L. Rizzo, Pisa 1934; D. Mattalia, Torino 1936; A. Polvara, ibid. 1937; W. Kuchler, Francoforte 1950; A. Vallone, Roma 1953 (e Torino 1966); A. Pézard, in D.A., Oeuvres complètes (con traduzione, note, appendice e importante introduzione), Parigi 1965; A. Del Monte (in Opere minori di D., Milano 1960); U. Leo, Francoforte 1964; F. Chiappelli (in D.A., Opere, Milano 1965); M. Pazzaglia (in D.A., Opere, a c. di M. Porena e M.P.), Bologna 1966. Non commentate ma con un'importante introduzione quelle di F. Mazzoni (Alpignano 1965) e di E. Sanguineti (Milano 1965).

Edizioni commentate delle sole liriche: M. Barbi-F. Maggini, Rime della V.N. e della giovinezza, Firenze 1956; Dante's Lyric Poetry, a c. di K. Foster e P. Boyde, e v. anche Contini, Rime e Barbi-Pernicone, Rime.

Studi. Restando ovviamente impliciti i rinvii alle più importanti storie della letteratura italiana, alle opere generali su D., nonché alle bibliografie citate alle voci BEATRICE; RIME; Stil Nuovo; e alle voci dedicate alle singole rime della Vita N., si vedano: P. Fraticelli, Dissertazione sulla V.N., Firenze 1839 (introduzione all'edizione cit.); F. De Sanctis, Lezioni e saggi su D., a c. di S. Romagnoli, I, Torino 1955, 129-145; R. Renier, La V.N. e la " Fiammetta ", ibid. 1879; R. Fornaciari, Studi su D., Milano 1883; P. Rajna, Per la data della V.N., ecc., in " Giorn. stor. " VI (1885) 116-162; M. Scherillo, Alcune fonti provenzali della V.N., in " Atti Accad. di Archeologia Lettere Belle Arti Napoli " XIV (1889-1890) 201-316; P. Rajna, Per la data della V.N., in " Biblioteca Scuole Italiane " Il (1890) 161-164; L.F. Mott, The Sistem of Courtly Love as an Introduction to V.N., Boston 1896; V. Crescini, Le " razos " provenzali e le prose della V.N., in " Giorn. stor. 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