BRANCATI, Vitaliano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 13 (1971)

BRANCATI, Vitaliano

Nino Borsellino

Nacque a Pachino (Siracusa) il 24 luglio 1907eintraprese gli studi a Modica proseguendoli a Catania dove, nel 1929, si laureò in lettere discutendo con N. Busetto una tesi su Federico De Roberto. Il suo attivismo letterario, precocemente stimolato dal padre Rosario (funzionario di prefettura, scrittore dilettante ligio all'apologetica fascista), si accompagnò negli anni liceali con l'attivismo politico svolto con gruppi nazionalistici, esprimendosi anche in sodalizi poetici improntati a un ingenuo dannunzianesimo, cui s'ispirano i suoi primi versi pubblicati nella rivista Ebe (1923). Collaboratore dal 1922 del Giornale dell'isola, quotidiano di Gabriello Carnazza, ministro dei Lavori Pubblici nel primo ministero Mussolini, poi, dal '29, del Popolo di Sicilia e del Tevere, organi del nuovo regime, il B. esordì come autore teatrale con testi dettati da un esaltato spiritualismo (Fedor, Catania 1928, dedicato a G. A. Borgese) e da un fanatismo politico (Everest, ibid. 1931; Piave, Milano 1932)che finivano per eccesso di baldanza intellettuale col risolversi in formule drammatiche inconsapevolmente grottesche. Questo baldanzoso esordio fu coronato nel 1931 da una visita fatta a Roma a Mussolini, narrata dal B. in un articolo del Tevere, che sta a testimoniare gli sforzi da lui compiuti, e tesi a interiorizzare un esagitato culto della personalità mussoliniana, peraltro forse già allora, nell'intimo, incrinato.

Tuttavia non si trattava soltanto di incontrollata goffaggine giovanile, come più tardi sarà indotto a credere lo stesso B. quando affermerà sprezzantemente che "in certe epoche non bisognerebbe avere mai vent'anni". Il culto del dittatore s'iscriveva in una sorta di mistica della forza e dell'azione che il B. professava in quegli anni di apprendistato letterario con una foga morale che nascondeva "un moto inconscio di ammirazione per la libertà": poiché - dirà sempre molto più tardi (Appunti sul comico, in Corriere della Sera, 31 ott. 1952) - "in una società totalitaria il dittatore spicca come il solo uomo libero", mentre "sarà soltanto dopo, con uno sforzo penoso, che il giovane si accorgerà prima di tutto che la sua ammirazione per la cosiddetta 'grandezza' del dittatore è semplice ammirazione per la semplice libertà e... che, non soltanto egli fa parte di una società asservita, ma che il dittatore non è un uomo libero". Di fatto i due romanzi L'amico del vincitore (Milano, 1932) e Singolare avventura di viaggio (ibid. 1934) e il "dramma per gli stadii" L'urto (in Quadrivio, 1934) si prestano ad essere interpretati con la chiave di questa coscienza posteriore. Ma tanto il conflitto tra due opposte nature di giovani, sensibile e contemplativo l'uno, attivo e volitivo l'altro, confusamente enunciato nel primo romanzo, quanto la dissipazione erotica del protagonista, rappresentata nel secondo con un realismo che determinò il ritiro del libro dal commercio, non si traducono in congrue soluzioni ideologiche e narrative. Giudicata nei suoi moventi psicologici e morali, questa produzione ancora informe, suscettibile anche di sbocchi intimistici (cfr. il dramma Il viaggiatore dello sleeping-car n. 7 era forse Dio?, in Convegno, X [1932]), rinvia a una problematicità esistenziale la cui ascendenza letteraria va cercata nell'opera di Borgese, lo scrittore che il B. sentì più vicino in quel periodo, non senza la pretesa di superare volontaristicamente l'irrisoluto criticismo dei suoi modelli.

L'amicizia con Borgese, resistente anche alla disparità delle posizioni politiche, agevolò i suoi contatti culturali a livello nazionale, presto consolidatisi con l'incarico svolto nel 1933 di redattore-capo di Quadrivio, il settimanale di L. Chiarini e T. Interlandi che il B. presentò sulla Stampa come un'occasione di confronto tra le diverse tendenze letterarie operanti in Italia, probabilmente forzando le intenzioni programmatiche più rigide dei suoi direttori.

Comunque furono proprio i suoi nuovi impegni di pubblicista e il contatto con gli ambienti romani più o meno condizionati dalle direttive culturali del regime a far sviluppare i sintomi della sua crisi politica. Ne sono testimonianza la sua riluttanza a collaborare più organicamente col ministero della Cultura popolare e la sua decisione di dedicarsi all'insegnamento di materie letterarie, realizzata a partire dal '36 negli istituti magistrali prima di Caltanissetta, poi di Catania e infine di Roma, ma maturata nel '34. Appunto in quell'anno il B. lasciò la redazione di Quadrivio e tornò a Catania adducendo pretesti che mascheravano un radicale rifiuto, etico e politico, prima che letterario, del suo passato: l'anno dopo, infatti, ripudiò tutti gli scritti giornalistici e letterari prodotti fino a quel momento, non esitando a bollarli come "stupidaggini".

L'abiura pronunciata dal B. nei confronti delle sue esperienze giovanili ha una rilevanza fondamentale nella sua personale biografia ed è nell'Italia del ventennio fascista un gesto singolare, benché privo di immediata risonanza. L'educazione sentimentale del giovane intellettuale di provincia s'era conclusa a Roma con la constatazione di un fallimento: l'imperativo volontaristico, la mistica dell'azione, vale a dire i supporti della giovanile ideologia brancatiana, gli si rivelano meglio nell'"urbe" mussoliniana, dove erano più vistosamente esibiti, come gli abiti da parata di una società sostanzialmente immutata nelle sue basi etiche, una società che sviluppava i vizi della borghesia più aggressiva, rifiutando le virtù della più libera e spregiudicata cultura borghese. Il B. ne ha fastidio e si rifugia in provincia, dove può difendersi meglio dagli allettamenti corruttori del regime e recuperare la sua dignità spirituale. Come Borgese nel suo esilio degli Stati Uniti, donde gli aveva scritto nel luglio del '33 una lettera che influì certamente sulla risoluzione della sua crisi, così il B. nel suo ritiro catanese salvava la propria anima con un gesto che ha, rispetto a quello compiuto dagli esuli politici e dagli oppositori interni al fascismo, evidenti limiti individualistici, ma che tutelava, col sacrificio di una rapida fortuna ufficiale, la coerenza delle sue convinzioni morali e intellettuali. Lo confortava nella decisione anche il fascino intimistico di quella probità ottocentesca che d'ora in poi il B. mostrerà sempre più d'apprezzare, sia che s'incarni nei miti di una severa spiritualità siciliana rivelatasi nel silenzio quasi ventennale dell'ultimo Verga o nel desiderio testamentario di Pirandello di rivestire per la morte "l'abito di rigore della povertà", sia che si manifesti, passato un momento di spavalda infatuazione gentiliana, come consonanza razionale con una tradizione di pensiero liberale, da Croce a Bergson a Ortega, portatrice di valori personalistici.Artisticamente il ripudio del B. coincideva con la scoperta letteraria del comico. Questa svelava la falsità della sua precedente esperienza di scrittore contrassegnata da un attivismo programmatico e da un problematicismo che sovrapponevano, nel migliore dei casi, alle suggestioni del Rubè borgesiano quelle del dostoevskiano Ivan Karamazov (tipica in questo senso la paura che coglie il protagonista di Singolare avventura di viaggio per la sua stessa ostentata professione di libertà morale). La scoperta di questa nuova dimensione artistica s'identificava a sua volta con la scoperta di Gogol', che per il B. fu "soprattutto un'esperienza rivelatrice, un mezzo di conoscenza" (Moravia). I primi risultati dell'arte brancatiana escono infatti, come si disse, dall'intellighenzia russa dell'Ottocento, dal Cappotto di Gogol'. Una prima avvisaglia gogoliana è il racconto Nel mezzo del cammino, anteriore alla crisi (1933): storia di un travet timoroso di uscire dalla sua mediocrità burocratica e di scoprire la vita. Più decisa invece è l'impronta di Gogol' nel romanzo Gli anni perduti, scritto dopo il ritorno a Catania, tra la fine del '34 e il '36, ma pubblicato due anni più tardi a puntate nel settimanale Omnibus, cui il B. aveva cominciato, a collaborare con corrispondenze dalla Sicilia e notazioni di costume redatte nel gusto di quel sodalizio "libertino" (Maccari, Pannunzio, De Feo, Benedetti, Longanesi) che riusciva a manifestare i propri umori anticonformisti con un elegante impiego di temi allusivi.

L'avvio del romanzo è chiaramente autobiografico. Leonardo Barini ha lasciato la redazione della rivista Campoformio (Quadrivio) e s'è ritirato nella sua città natale, Nataca (Catania), ma con l'intenzione di ritornare presto a Roma, come intenderebbero fare anche i suoi due amici Giovanni e Rodolfo. Ma l'atmosfera di quella provincia intorpidita dallo scirocco e da un'endemica sovreccitazione erotica tarpa i disegni dei tre protagonisti: finché non giunge a rimuoverne la latente volontà d'azione lo pseudoamericano Francesco Buscaino, reincarnazione un po' smorta del Čičikov delle Anime morte, progettatore di una torre panoramica nel cuore di Nataca, una specie di provinciale Eiffel. I tentativi dell'intraprendente forestiero per realizzare il progetto, assecondati dai giovani natachesi, sono ora il pretesto per la presentazione in primo piano di una serie di tipi locali: maniaci inventori del moto perpetuo o del linguaggio universale, poeti-filosofi in vernacolo, teorici dell'amore e del nulla, ricchi possidenti di terre sterminate atterriti dai microbi, giovani lions pronti ad assalire la Repubblica di San Marino per il gusto della bravata. In tredici anni di frenetico attivismo la torre è edificata, e Leonardo si sente animato, come gli altri suoi amici, da una nuova speranza di felicità. Ma le autorità ne impediscono l'accesso dichiarandola "luogo pericoloso" al pubblico che potrebbe essere indotto in pensieri suicidi. Trasformatosi il grande progetto in grande disinganno, Buscaino fugge, pieno di debiti, da Nataca che gli appare ispessita nella tristezza e nella noia, mentre i giovani col rammarico degli anni perduti dietro un miraggio che forse nascondeva, come ha svelato la grigia obiezione burocratica, una segreta volontà di morte, sono riassorbiti nel clima plumbeo della città, che via via rinnova e disfà impossibili piani d'evasione.

La prolissità della narrazione, troppo divagante dietro le tentazioni di un bozzettismo spesso incolore, limita gravemente i risultati artistici di questo romanzo comico-simbolista che è stato giustamente definito, un "cartone di prova" (Pancrazi). Ma il valore emblematico degli Anni perduti è ciononostante notevole. Come tutte le scritture di genere "fantastico", intese ad esasperare i dati di una condizione reale, il romanzo brancatiano non è portatore di un significato univoco. Può essere decifrato nel suo significato più immediato come rappresentazione di una umanità chiusa e polverosa, irrigidita nei suoi tic, ma può anche essere letto più pertinentemente come l'allegoria dell'esperienza fascista dello stesso B., rispecchiata nel simbolismo del balordo progetto che agita per tredici anni (pressappoco corrispondenti agli anni dell'impegno politico dell'autore) i velleitari protagonisti della grottesca vicenda, succubi di un venditore di fumo abile, ma alla fine battuto dall'ignavia provinciale. Questa ignavia appunto, una sorta di oblomovismo siciliano che caratterizza anche l'atmosfera di una commedia scritta nel '37, Questo matrimonio si deve fare (ed. in Convegno, XVII[1938]), è per il momento valorizzata dal B. come una posizione negativa, di difesa contro il dinamismo burattinesco imposto dal regime; un dinamismo generatore di situazioni comiche sulle quali ormai si esercitava con opportuni mascheramenti la vena umoristica dello scrittore, come nel racconto paradossale ed esplicitamente satirico Il bacio, del 1938.

Ma il tema favoriva anche la risoluzione di un problema specificamente letterario: la necessità di ritagliare sulla misura di un personaggio tipologicamente ben individuato la materia narrativa altrimenti dispersiva fornita da quel divertito osservatorio provinciale. È quello che il B. riesce a fare nel suo primo romanzo di successo, Don Giovanni in Sicilia, scritto nel 1940 a Zafferana Etnea, suo soggiorno estivo preferito, e pubblicato l'anno dopo a Milano.

Il protagonista, un quarantenne catanese carico di stimoli erotici soddisfatti dalle sensazioni "dolci e profonde" provocate dai discorsi sulle donne con gli amici, è un personaggio ormai incontaminato dalla problematicità dei romanzi ripudiati e dall'autobiografismo simbolico degli Anni perduti. I "buffi" di Palazzeschi, l'autore italiano più congeniale al B. tra i contemporanei, gli prestano una fisionomia farsesca nitida e nient'affatto greve, di qualità ben diversa da quella di stampo siciliano-vernacolare messa in circolazione da popolari prototipi teatrali e cinematografici. Essi riverberano anche il loro nitore caricaturale sullo scenario e i personaggi di contorno: sugli interni borghesi odoranti del tanfo di un arredo trasandato e degli effluvi di una cucina troppo carica di sapori; sugli esterni oleografici di una città eccitata da sguardi, indiscrezioni, ammiccamenti, malizie; sulle tre sorelle senza marito, di taglio appunto palazzeschiano, con cui Giovanni Percolla convive, di fatto segregandosi nei piaceri dell'immaginazione; sulle molte comparse che s'inseriscono con una rapidità incisiva ma un po' meccanica nel ritmo sostenuto del racconto.

L'indugio descrittivo questa volta non è prolisso; asseconda le volute barocche per ricavare effetti forse facili ma saporosi, che sono le spie stilistiche di un programmato distacco tra l'autore e il mondo rappresentato, come appare dal seguente specimen narrativo: "Qui venivano gli amici, e anch'essi si buttavano, o, come diceva Muscarà, s'abbiavunu e sdavaccavunu, sui pagliericci e le ciambelle di cuoio, riempiendo presto la camera di un tale fumo di sigaretta che, dal balcone socchiuso, i passanti vedevano uscire una sorta di lenzuolo grigio palpitante nell'aria". Ma il ritmo da "opera buffa" (Cecchi) è rallentato nella seconda parte del romanzo, successiva al matrimonio di Giovanni, che apre la scena su un ambiente nettamente divergente da quello catanese: l'ambiente dell'efficiente borghesia milanese in cui Giovanni, per volere della moglie, tenta di acclimatarsi perfino sottoponendosi a regolari pratiche igienistiche e sportive. In realtà le smanie erotiche di un tempo in lui si sono calmate: la facilità di contatto con le donne gli spegne quel piacere celebrativo, grottescamente "stilnovistico" (Sciascia) della donna, che la separazione dei sessi, tipica della società meridionale, gli faceva coltivare. Tuttavia a Milano deve giocare la parte del siciliano, secondo un cliché di naturalità impostogli dai nuovi amici che egli non si sente più di assecondare nemmeno nelle prestazioni d'amante che gli vengono frequentemente sollecitate. Perciò, quando torna a Catania per un breve soggiorno, il rifugio nella vecchia casa delle sorelle, dove riassapora sia pure per poco il gusto dimenticato del pranzo siciliano che "colora le guance" e dell'interminabile sonno pomeridiano, ha il valore di una riconquista: è il recupero della sua autenticità smarrita.

"Avere i sogni, e la mente, e i discorsi, e il sangue stesso perpetuamente abitati dalla donna, porta che nessuno sa poi reggere alla presenza di lei". Volendo ridurre nello schema della farsa erotica l'effetto di un libro tanto effervescente come Don Giovanni in Sicilia, questo pensiero, tratto da I piaceri, le moralità raccolte in volume nel 1943, potrebbe servire come epigrafe. Ma il buffo Percolla non è soltanto un maniaco divoratore di immagini femminili: personaggio osservato nella sezione milanese del romanzo come una curiosità antropologica da una società di fatto più indiscreta di quella catanese, finisce per assumere le qualità dell'eroe negativo, del non inserito. Paradossalmente, il docile anticonformismo di questo personaggio mette in luce istintive doti di buonsenso che per il B. (cfr. ancora I piaceri)costituivano una, qualità tanto più apprezzabile quanto più era trascurata dal suo secolo, malato di "profondismo", ovvero della mania di complicare le verità semplici per nascondere le incertezze intellettuali e sentimentali. Il buonsenso invece era la virtù praticata da pochi saggi che non esitavano a chiudersi in una "torre d'avorio" donde osservavano i vizi della società o dove, come faceva il più saggio di tutti, Benedetto Croce, riuscivano a rinsaldare un sistema ideale, la cui, efficacia gli sembrava proporzionale all'equilibrio e alla limpidezza del pensiero.

Il crocianesimo del B. non va al di là di questa lezione di ordine mentale e morale che lo aiuta a sopportare il suo malumore di anticonformista negli anni difficili del fascismo. Il B. neattende il crollo senza assumersi compiti espliciti di oppositore, ma facendo passare, quando gli è possibile, attraverso le maglie della censura il controcanto del suo ironico e malinconico moralismo, non rassegnato comunque a considerare scomparsa la prospettiva di una società dignitosamente civile. In piena guerra, quando certe affermazioni non potevano risuonare che come provocazione, scriveva a proposito dell'amore di patria: "Molta avarizia e molta stupidità entrarono in quest'amore...: ecco quelli incaricati ad amarla, amarla a voce alta, amarla alla radio, sui giornali, al megafono; e quelli invece incaricati di scoprire chi l'ama tiepidamente, aguzzando gli occhi come i gatti e muovendo gli orecchi come i cani; e altri infine incaricati di perseguitare chi non l'ama" (prefazione a G. Leopardi, Società,lingua e letteratura d'Italia, a cura di V. B., Milano 1942). Il mestiere del delatore gli suggerisce addirittura una farsa teatrale, Le trombe d'Eustachio, messa in scena al Teatro dell'università di Roma nel 1943, anno in cui squadre fasciste interruppero al Teatro delle Arti le repliche di Don Giovanni involontario, estrosa rêverie amatoria che lascia trapelare una vena sottile di disfattismo.

La caduta del fascismo lo colse nel pieno di questo fervore satirico che stava per traboccare in aperta polemica, ma invertì la direzione dei suoi strali. Segregato per un anno a Catania, fino alla liberazione di Roma, alternava all'entusiasmo per i nuovi compiti civili riservati allo scrittore l'amarezza per le occasioni perdute dall'antifascismo ufficiale, sollecito nel condannare le responsabilità personali dei fascisti, soprattutto dei più innocui, ma non di estirpare le colpe morali del fascismo con un processo educativo spietatamente critico che lo sradicasse dalla coscienza o dalle abitudini degli Italiani. È questa ora la sua nuova materia satirica, quella ironica e amara che gli ispira un piccolo capolavoro narrativo, Il vecchio con gli stivali (ed. in Aretusa, I [1944];in vol., Roma 1945; premio Vendemmia 1946), e un apologo teatrale, Raffaele (ed. in Botteghe oscure, I [1948], dopo reiterati impedimenti contro la rappresentazione), che nel finale risuona di un severo monito ai vincitori perché non deludano nei popoli l'attesa di un "mondo migliore".

Il vecchio con gli stivali fu il racconto più fortunato del Brancati. Una trasposizione cinematografica (Anni difficili, regia di L. Zampa) rese popolare la patetica vicenda del mite Piscitello, fascista controvoglia, provato duramente dai disastri della guerra in cui gli muore il figlio, eppure alla fine condannato ad espiare le colpe impunite dei veri responsabili della dittatura. Nel cinema questa acre immagine di "umiliato e offeso" inaugurò un filone di satira politica, contrastatissimo sul momento, poi destinato ad affermarsi, cui il B. diede un notevole contributo anche con soggetti originali (Anni facili e L'arte d'arrangiarsi diretti dallo stesso Zampa). Sia pure nell'ambito di una produzione minore e spesso di routine, nella quale il B. era coinvolto come sceneggiatore di mestiere dopo l'abbandono del suo insegnamento, questa attività cinematografica mette in luce aspetti della poetica brancatiana del comico, di cui resta qualche interessante formulazione, come le considerazioni su Il comiconei regimi totalitari edite postume (in Il Mondo, 12 e 19 ott. 1954).

Il comico era per il B. un mezzo artistico non transitorio di rappresentazione della realtà: la dittatura l'aveva alimentato, pur proibendolo, non solo col quotidiano rituale propagandistico che lo scrittore non si stanca di rievocare convinto degli effetti terapeutici del ridicolo, ma perché il singolo in regime totalitario, per gli speciali rapporti che intrattiene con il potere, si definisce più oggettivamente come "carattere", si semplifica psicologicamente, trasformandosi da persona in "tipo". Quanto all'espressione, il comico rappresenta una scelta contrastante con i procedimenti stilistici inaugurati col decadentismo, rispecchia in forma classica la realtà contemporanea secondo gli schemi del realismo ottocentesco. "Io non amo la mia epoca - ebbe a dichiarare infatti in un'intervista del 1948 il B. - E se così spesso ne racconto i fatti è per applicare uno stile di racconto ottocentesco che me li renda lontani. Se potessi capovolgere i tempi mi piacerebbe raccontare agli uomini gentili dell'Ottocento le crudeltà e gli orrori del nostro tempo".

Del resto anche le società libere, sempre minacciate dai cedimenti della libertà e dal conformismo, hanno bisogno di ridere di se stesse. Invece, constatava il B., "nessuna cosa dispiace in Italia quanto una lucida intelligenza fornita di disgusto e di ironia... Si ha paura del comico come di un potere diabolico. La stessa nostra filosofia, quella più libera e polemica, ha assegnato alla commedia un posto secondario". Da parte sua egli ambiva ad esercitare negli "anni facili" dell'Italia libera una funzione fustigatrice di tipo aristofanesco. Il guinzaglio e la museruola che il grande attore Rossi, protagonista della commedia Una donna di casa (ed. 1950; rappresentata postuma per i soliti impedimenti censori), lancia verso il pubblico sono i segni di una nuova schiavitù che il B. vedeva riaffiorare tanto nelle rinnovate vocazioni totalitarie dei "possidenti", pronti a "perdere la libertà di pensiero e d'espressione pur di rimanere ricchi", quanto nelle mitologie populiste dei partiti di massa. Il "terzaforzismo" del B. s'esprime qui in forma drastica e schematica, come nei suoi interventi più scopertamente politici (articoli, conferenze, interventi contro la censura), ma coincide con il suo rifiuto dell'arte impegnata, nel senso proposto da Sartre proprio in quegli anni, e con la rivendicazione delle ragioni individualistiche che trovava già sostanzialmente espresse da Gide nel Journal;posizione che in Una donna di casa sitraduce nell'esaltazione della virtù sconosciuta della protagonista, la quale si autocontempla nella solitudine perché si sente capace di esprimere pensieri onesti e liberi.

Seppure in linguaggio teatralmente rigido e spesso brutalmente mutuato dalla pubblicistica politica corrente, la commedia testimonia il disagio dello scrittore negli anni postbellici: l'invito a intervenire nella realtà più immediata per commentarla e correggerla continuava a tentarlo, ed era facile alla sua vena satirica assecondarlo; ma il richiamo verso la "torre d'avorio", alla ricerca di una interiorità privata, favorevole alla chiarezza razionale e sentimentale, non restava inascoltato. Le note di diario che egli andava pubblicando su quotidiani e riviste (negli ultimi tempi particolarmente sul Mondo e sul Corriere della Sera) e raccolte postume da G. A. Cibotto e S. De Feo col titolo Diario romano (Milano 1961) riflettono questa irrisolta duplicità di atteggiamenti di fronte alla realtà. E perfino Ilbell'Antonio (ibid. 1949), romanzo d'impianto comico percepibile ad apertura di libro negli incisi scherzosamente cronachistici e nei commenti d'autore, partecipa, contenendone ancora gli sbocchi, di questa oscillazione di impulsi pubblici e privati.

Il bell'Antonio riprende in pieno dal Don Giovanni in Sicilia il tema del "gallismo", consistente, secondo l'accezione brancatiana, nella supposizione, tipica della mascolinità siciliana, di una "veemenza" superiore alla normale, esibita per un meccanismo di compenso delle frustrazioni provinciali. Ma rispetto a quel sorridente e quasi arcadico precedente ne amplia la risonanza ambientale fino a trasformarlo in uno stimolo inquietante e ossessivo. Recitata in parallelo con la commedia del fascismo, più impudica di quella erotica, la commedia del gallismo diventa nel nuovo romanzo la rappresentazione farsesca di un'alienazione collettiva che la scoperta delle imprevedibili difficoltà sessuali del bellissimo protagonista, supposto eroe dell'erotismo catanese, fa scoppiare con un crescendo parossistico. Antonio è un personaggio bivalente: l'impotenza lo spiritualizza rendendolo cosciente della possibilità di una vita liberamente riflessiva perché sciolta dalla catena degli istinti; ma questo gli è possibile finché dura l'affetto della donna che ha sposato e ha creduto di fare felice con un rapporto teneramente platonico. Poi, abbandonato dalla moglie, isolato dagli amici scandalizzati del suo segreto, chiuso nell'autocompianto della sua "disgrazia", nella trepida attesa di un riflusso sanguigno che gli faccia intravedere un barlume di felicità, lascia scorrere davanti a sé il seguito degli avvenimenti: la guerra, la morte del padre ossessionato dal disonore familiare, il suicidio dello zio Ermenegildo, un finto scettico assetato di verità, la caduta del fascismo. Alla fine del romanzo quel riflusso giunge in sogno, con furia animalesca, e Antonio, intiepidito da questa gioia inaspettata, non pensa ad altro, non ascolta gli inviti del cugino Edoardo, passato nevroticamente dal fascismo all'antifascismo, a spezzare tra tante nuove speranze comuni il guscio del suo erotismo. L'autore lo congeda al culmine di un paradossale scambio di parti tra lui e il cugino, fissandolo in un'immagine di "adolescente tardivo", tra singhiozzi di felicità.

La spirale dell'erotismo blocca in questo romanzo la fuoruscita dei contenuti etici e politici che il B. sottopone a un trattamento fin troppo disinvolto: esasperandoli come manifestazioni di crisi individuali, ma anche degradandoli nell'aneddotica dei piccoli fatti provinciali. Tuttavia il B. sfugge ai pericoli dell'incongruenza tra serio e comico, regolando sia pure dall'esterno il concertato di queste marionette siciliane dentro la schema di un'opera chiusa, dove tutto ruota, attorno allo sfuggente e delicato protagonista, e ritmando la scansione tematica della vicenda tra la concitazione del dialogato di gusto dialettale e i lunghi recitativi delle confessioni personali, rispetto ai quali gli interventi dell'autore hanno la funzione di ironiche didascalie.

Il bell'Antonio è comunque l'ultimo testo unitariamente comico del B., capace di trasmettere contenuti seri attraverso fatti e personaggi strutturalmente comici. Nelle due opere successive, il dramma La governante (edito in appendice a Ritorno alla censura [Bari 1952], un pamphlet ispirato proprio dalla proibizione teatrale del dramma) e il romanzo incompiuto Paolo il caldo (ed. postumo, Milano 1955, con prefazione di A. Moravia), la scissione tra comico e serio appare definitiva.

Il congegno molieriano della Governante consente al B. di avviare dentro una precisa dimensione comica la vicenda, ma non ne impedisce la risoluzione in senso tragico. Caterina, la protagonista, è un Tartufo reinterpretato in chiave freudiana. La sua moralità apparentemente serena la impone sui componenti dell'irrequieta famiglia Platania: il vecchio Leopoldo, siciliano ancora disadattato al costume permissivo di Roma, il figlio Enrico, affetto da incurabile gallismo, la moglie di questo, Elena, una précieuse alla rovescia che esibisce il suo complesso di stupidità per accattivarsi la simpatia degli intellettuali sazi di mondanità culturale, come il depresso Bonivaglia al quale la governante spiega con sorprendente lucidità le motivazioni neurotiche della sua aggressività di scrittore antiborghese. Ma la rivelazione del vizio intimo di Caterina, che la sua intransigenza morale non riesce a reprimere, non ha la funzione del deus ex machina molieriano, tanto pacificante per il gruppo familiare insidiato. Colpevole, seppure indirettamente, della morte della giovane cameriera Jana, cui aveva ispirato una partecipazione senza remore inibitorie alle sue stesse tendenze, Caterina esce dal suo groviglio psichico suicidandosi, mentre i farseschi personaggi che la circondano tornano ad agitarsi tra inconcludenti contraddizioni.

Con quel tanto di astrazione intellettualistica che intacca la sua credibilità di figura tragica, Caterina è personaggio oppositivo nella cornice comica del dramma, e il suo suicidio non è, come quello di Ermenegildo nel Bell'Antonio, il fruttodi un'esagitazione cerebrale divenuta spiritualistica per carenza di vitalità. Il gesto della governante è un atto dostoevskiano, è l'uscita di sicurezza di chi ha paura della propria libertà mentre ne è ancora orgoglioso.

Un ritorno al dostoevskismo giovanile di Singolare avventura di viaggio è evidente in questa fase terminale dell'opera brancatiana, e non è casuale che di tutta la produzione ripudiata lo scrittore intendesse riesumare quel romanzo. In realtà Paolo il caldo è di fatto un parziale recupero di quella irrisolta tensione etica, riproposta ancora una volta in chiave erotica. Con la differenza che ora l'autore prende le dovute distanze tra sé e il protagonista oggettivando, nei termini della sua poetica del comico, la catastrofica vicenda di questo nuovo eroe del gallismo. Come chiarisce lo stesso B. nel capitolo introduttivo del romanzo, Paolo, il protagonista, esce da una memoria tenebrosa della Sicilia, da quella "parte luttuosa della luce" siciliana "dalla quale derivano l'apprensione e la lussuria".

Il suo erotismo è il contrassegno di una tabe venerea da cui è contagiata la famiglia dei nobili Castorini, grotteschi Karamazov catanesi, deformati in uno spasmo perpetuo di libidine che lascia immune solo l'esangue e spiritualissimo Michele, eroe di una utopistica razionalità che non lo sottrae al suicidio. Il B. colloca i suoi personaggi dentro quadri narrativamente autonomi, quasi scene di genere (come il pantagruelico pranzo in casa Castorini) che servono anche a caratterizzare sociologicamente la loro follia sessuale con vistose contrapposizioni di vita umile: tragici squarci di esistenza subalterna, ancora una volta ricalcati su esemplari dostoevskiani. Allo stesso modo nel secondo tempo del romanzo, occupato dalle esperienze romane di Paolo, i fatti privati si proiettano in una successione di scene di vita sociale (il salotto di casa Ippolito, la seduta di Montecitorio), rappresentate col gusto memorialistico del romanzo stendhaliano e proustiano popolato di personaggi a chiave, che aspira a disegnare i connotati morali di un'epoca. Il protagonista non può giocare in questo quadro il ruolo dell'ironico testimone. Teso nella costruzione di unacoscienza superiore agli istinti, ma non limitato da costrizioni ideologiche, là destinato a sopravvivere al fallimento della sua scommessa morale. Non per questo egli si lascia attirare dal demone del mezzogiorno siciliano che riassimila i protagonisti dei precedenti romanzi. L'ultimo viaggio che egli compie a Catania prima della morte della madre è una discesa negli inferi della demenza familiare che sta dissolvendo via via i superstiti parenti. Paolo cerca di sottrarsi al destino della famiglia che prefigura il suo destino, e si consacra a un'esperienza matrimoniale in cui tenta di realizzare la concordia tra sensi e ragione. Ma l'esperienza si rivela catastrofica. Abbandonato dalla moglie, va ancora in cerca delle più impensate uscite di sicurezza per liberarsi dalle sue ossessioni di erotomane, finché, come indica la traccia conclusiva del romanzo lasciata tra le disposizioni testamentarie dello scrittore, preso da "successivi accessi di fantastica gelosia" per la moglie lontana, non si aggroviglia "sempre di più in se stesso fino a sentire l'ala della stupidità sfiorargli il cervello".

Contrariamente alle intenzioni dell'autore, Paolo il caldo, anziché essere il romanzo di una crisi risolta, è il documento di una crisi in atto. In quelle pagine di intensa autobiografia che formano il capitolo introduttivo del romanzo il B. si dichiarava convinto d'avere raggiunto una consapevolezza artistica serenamente individualistica. Si sentiva libero tanto dall'"oscuro rimorso sociale", che favoriva l'equivoco di un'arte condizionata dalle contingenti necessità politiche, quanto dal suo snobismo di osservatore satirico del costume nazionale, che egli considerava ormai come "una materia facile per anni di malumore", quando si poteva credere che bastasse "una frase elegante" per distinguersi dalla "volgarità" e dalla "rozzezza". La sua nuova dimensione artistica gli appariva invece una legittima rivendicazione di "egotismo" che per lui significava il recupero di un'autenticità faticosamente perseguita dal '34 in poi: come ricerca di un equilibrio tra felicità e ragione (problema da cui è appunto ossessionato fino al suicidio il padre del protagonista dell'ultimo romanzo e il protagonista stesso, ma che, è presente anche nelle opere precedenti) e come sviluppo del "sentimento comico", che gli consentiva finalmente di tradurre in gesti, figure, situazioni d'altri perfino le sue memorie più inquiete e i suoi pensieri più tenebrosi. Di fatto in Paolo il caldo i momenti di questa difficile esperienza si sovrappongono, e il protagonista, privo sia della colorita tipicità del Don Giovanni sia dell'ambiguità romanzesca del Bell'Antonio, soffre del carico di una tensione ideologica che lo irrigidisce come maschera delle sue contrastanti manie dell'eros e del logos. La sua verità come personaggio è imposta dallo scrittore, dall'esterno, dal suo tenace moralismo, e forse risente, come s'è voluto supporre, della sua storia personale, dolorosamente segnata negli ultimi anni dal fallimento del matrimonio, contratto nel 1946 e allietato dalla nascita di una figlia, con l'attrice Anna Proclemer.

Il B. comunque non sopravvisse alla sua crisi né poté definire meglio i caratteri, certo cupi ed esplicitamente pessimisti, del suo terzo tempo di scrittore, di cui La governante e Paolo il caldo sono forse soltanto una registrazione provvisoria. Costretto infatti a sottoporsi a un intervento di chirurgia toracica, si recò a Torino e ivi morì il 25 sett. 1954.

Le opere del B., da lui approvate, oltre che in varie isolate edizioni, sono raccolte nell'edizione postuma in 5 voll., in corso di stampa (Milano, Bompiani), comprendente: Gli anni perduti,Don Giovanni in Sicilia,Il bell'Antonio (I); Paolo il caldo (II); Racconti (III); Moralità: I piaceri,Diario,Saggi (IV); Teatro (V).

Fonti eBibl.: G. Pampaloni, V.B. Il bell'Antonio, in Belfagor, IV (1949), pp. 729-32; P. Pancrazi, B. umorista serio, Bari 1950, pp. 23-33; L. Russo, Inarratori, Milano 1950, pp. 301-04; E. Falqui, Tra romanzi e racconti del Novecento, Messina-Firenze 1950, pp. 159-62; G. De Robertis, Itre libri di B., in Nuovo Corriere, 16 apr. 1953, poi in Altro Novecento, Firenze 1962, pp. 394-401; C. Muscetta, B. e la censura, in Letteratura militante, Firenze 1953, pp. 278-83; A. Benedetti, L'amico migliore, in Il Mondo, 5 ott. 1954; A. Bocelli, L'opera di B.,ibid.;A. Riccio, Ricordo di B.,ibid., 12 ott. 1954; L. Sciascia, Ricordi di B., in Letteratura, II (1954), n. 10, pp. 67-70; E. Cecchi, in Di giorno in giorno, Milano 1954, pp. 123-26; A. Moravia, pref. a Paolo il caldo, cit.; C. Bo, in Dizionario degli autori, Milano 1956, sub voce;N. Borsellino, Moralismo di B., in Mondo operaio, suppl.scientifico-letterario, XI (1958), 5, pp. 21 ss.; P. De Tommaso, V.B., in La rassegna della letteratura italiana, LXVI (1962), 1, pp. 120-31; L. Jannuzzi, V.B., in Letteratura italiana - I contemporanei, Milano 1963, pp. 1413-27; C. Salinari, Uno scrittore antifascista, in Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli 1967, pp. 67-75 (già in Il contemporaneo, 9 ott. 1954); M. Pompilio, La situazione di B., in Contestazioni Milano 1967, pp. 9-35 (già in La ragioni narrative, 1960); G. Todini, V.B., in Belfagor, XXIII (1968), pp. 697-715.; L. Sciascia, Don Giovanni a Catania, in La corda pazza, Torino 1970, pp., 159-66; V. Gazzola Stacchini, La narrativa di V. B., Firenze 1970 (con bibl. in ordine cronologico delle opere del B., pp. 127-36).

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