ALFIERI, Vittorio

Enciclopedia Italiana (1929)

ALFIERI, Vittorio

Manfredi PORENA

Poeta, diede alle lettere italiane, assai povere fin allora di buone tragedie, un grande teatro tragico; cittadino, ebbe con maggior chiarezza di ogni altro suo precursore il concetto dell'unità politica d'Italia fondata sull'indipendenza e sulla libertà, e con maggior ardore e fiducia la profetò.

Vita. - La sua vita è divisa in due periodi, nettamente distinti da una profonda crisi nell'anno 1775. Nato in Asti il 16 gennaio 1749, era vissuto sino allora disutile a sé e agli altri, senza proporre a sé stesso alcun serio fine. Di nobile famiglia (aveva titolo di conte), gli studî che oggi si direbbero medî e superiori aveva fatti poco seriamente presso l'Accademia di Torino, uscendone nel 1766 come porta-insegne (era il primo grado di ufficialità) nel reggimento provinciale di Asti. Ma della libertà che effettivamente gli lasciava tale carica egli si servì soprattutto per viaggiare. I contatti con allievi stranieri dell'Accademia, che gli magnificavano i loro paesi, gli aveva acceso una gran voglia di visitarli; e dopo un primo viaggio per le principali città italiane, iniziato nello stesso 1766 e spinto fino a Napoli, nel '67 e '68 visitò la Francia, l'Inghilterra, l'Olanda e la Svizzera. Meno di un anno dopo partì per un secondo viaggio, e visitò la Germania, la Danimarca, la Svezia, la Russia, di nuovo l'Inghilterra, l'Olanda, la Francia; poi la Spagna e il Portogallo, rimpatriando nel maggio del '72. Tali viaggi, fatti senza nessuna seria preparazione, e per appagare la curiosità, passare il tempo e soddisfare un innato ardentissimo bisogno di movimento, non arricchirono, come avrebbero potuto, la sua cultura, ma gli dettero grande esperienza di cose e di persone, ed ebbero l'effetto notevolissimo di guarirlo dell'amore all'esotismo, e maturare in lui, per contrasto, il senso dell'italianità.

Tornato dall'ultimo viaggio, mise su casa a Torino con gran lusso, e si abbandonò in pieno alla vita elegante e futile dei giovani aristocratici. Una passione ardentissima per una donna indegna (la marchesa Gabriella Turinetti), che lo abbassò vergognosamente, fu poi incentivo alla conversione, che segnò la gran crisi della sua vita. Giacché, sdegnato contro sé stesso dell'inonorevole servaggio, egli si staccò violentemente dalla donna, e per trovar sostegno in qualcosa d'interessante si pose attorno a una sua tragedia, già incominciata senza alcun serio intento, la Cleopatra, per veder di condurla a termine e farla rappresentare. Dovette superare, fra l'altro, la difficoltà formidabile del non conoscere abbastanza la lingua italiana, ché a Torino, nel ceto aristocratico, si parlava ordinariamente francese o piemontese, e i suoi studî letterarî erano stati tutt'altro che serî. Ma le difficoltà a quella forte natura erano stimolo anziché ostacolo: la tragedia fu condotta a termine e rappresentata, con ottimo successo, per tre sere, al Carignane di Torino, nel giugno del'75. Da quegli applausi, che giudicò immeritati, l'A., nella forma nobilissima del suo amor proprio, ebbe stimolo a volerli meritare con qualcosa di veramente degno. Da allora la sua via fu segnata: divenire poeta tragico, e alle lettere italiane, che in quel campo scarseggiavano quanto al valore se non quanto al numero, dare un teatro tragico degno.

Tale la famosa e quasi meravigliosa crisi del 1775; la quale per altro, chi ben guardi, non fu che l'aggrupparsi e organizzarsi, attorno a uno scopo serio, di certe nobili qualità intellettuali e morali di cui già prima erano apparsi i segni. Giacché quel perdigiorni ignorante non di rado avea dato baleni di profonda affettività di nobile amor proprio, di generosità, di sensibilità vivissima a certe bellezze della natura e dell'arte, di disposizioni poeticamente malinconiche, di amore alla libertà, di desiderio di gloria, di una passionalità profonda, anche se manifestata in amori colpevoli. E in qualche tentativo letterario di carattere satirico in lingua francese (sia pur fatto per passatempo) aveva mostrato una certa arguta efficacia, e, quel che più conta, un vigile senso morale pronto anche a riconoscere e condannare i proprî difetti. Ma erano elementi sporadici, fluttuanti, soffocati e travolti nella corrente disordinata d'una vita senza scopo e senza ideali.

A poca distanza dalla crisi del '75, seguì un altro fatto importantissimo. L'A. conobbe e amò Luisa Stolberg, moglie poco felice di Carlo Eduardo Stuart, conte di Albany (v. albany), pretendente al trono d'Inghilterra; e dopo alcuni anni di affannoso e inceppato amore, quando la donna si fu separata legalmente dal marito ubriacone e manesco, convisse maritalmente con lei fino alla morte. Tale amore, acceso anche di alta idealità, lo confermò più che mai nel proposito di fare a questo mondo qualcosa di nobile, lo ispirò, dette alla sua vita appoggio e conforto. E se pure la donna non ne fosse proprio in tutto degna, certo è che senza di lei l'A. non avrebbe fatto tutto quello che fece.

Accenniamo brevemente ai casi esteriori della rimanente sua vita. Maturato il proposito di voler essere poeta tragico. l'A. dimorò ripetutamente in Toscana, dove appunto, nel '77 a Firenze conobbe l'Albany. L'anno seguente per acquistare la libertà necessaria a un libero scrittore quale egli si proponeva di essere, e svincolarsi da ogni soggezione al governo piemontese, retrivo, pedantesco e meticoloso se non tirannico, egli, che aveva già da tempo dato le dimissioni dalla milizia, donò tutta la sua proprietà alla sorella Giulia contro il corrispettivo d'una rendita vitalizia, e in Piemonte, salvo brevi visite, non dimorò più. Firenze, Roma, Siena, Pisa furono i suoi soggiorni più importanti fra il '78 e l'85, con l'intermezzo d'un altro viaggio in Inghilterra fra l'83 e l'84. Fra l'85 e l'87 alternò principaimente le dimore di Martinsburg presso Colmar, in Alsazia, e di Parigi. Stabilitosi poi a Parigi con la sua donna, vi restò, salvo un breve viaggio a Londra nel '91, fino al '92. Nel quale anno, fuggendo insieme la Rivoluzione, dopo breve dimora nel Belgio, si stabilirono a Firenze, dov'egli morì l'8 ottobre del 1803. Fu sepolto in Santa Croce, dove la contessa d'Albany gli fece erigere un monumento scolpito da Antonio Canova.

Il secondo periodo della vita dell'A., dalla conversione alla morte, se guardiamo alle vicende intime e ai prodotti letterarî, può dividersi alla sua volta in due periodi ben distinti, prima e dopo il 1789. Nel primo periodo - il più importante letterariamente - la produzione alfieriana ha soprattutto carattere positivo, tende cioè principalmente a consacrare ed esaltare in opere di poesia e di prosa grandi ideali morali e politici. Nel secondo, compiuta ormai la grande opera tragica non senza amarezze e disinganni, abbattuto e spoetizzato dalla degenerazione demagogica e liberticida della rivoluzione francese, il suo spirito si volge di preferenza a rappresentare e fustigare il male, in forma satirica.

Tragedie. - Diciannove tragedie scrisse l'A. tra il 1776 e il 1786, senza contare la Cleopatra da lui ripudiata: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Maria Stuarda, La congiura dei Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo. Le prime dieci fece stampare in Siena nel 1783, e pubblicò in tre mandate fino all'85; tutte quante ristampò o stampò presso Didot, a Parigi, fra l'87 e l'89.

Quando l'A. intraprese a voler essere poeta tragico, nella letteratura ch'egli aveva alquanto più familiare, la francese, e in quella che subito di proposito si mise a studiare, l'italiana, dominava quasi senza discussione la forma classica di tragedia; il teatro, che poi fu detto romantico, dello Shakespeare e di alcuni suoi grandi seguaci tedeschi era in Francia e in Italia poco conosciuto e apprezzato; e anche se di Shakespeare si ammirava il genio poetico, si facevano tutte le riserve su quel tipo di dramma così libero da regole, così ampio di forme, così ricco e vario di colorito: cose tutte condannate in nome della buona tradizione classica e - si diceva - della ragione: scambiando per dettami della ragione certe abitudini meramente retoriche. Comunque sia, l'A., entrato tardi e come d'improvviso nell'arringo letterario, ebbe un rispetto timido e quasi superstizioso pei canoni che vi dominavano, si può dire, indiscussi, e modellò tutte le sue tragedie sullo stampo classico, sottomettendole, benché a malincuore, perfino alle pedantesche regole pseudoaristoteliche dell'unità di tempo e di luogo. Anzi, la sua tragedia si distingue dalle due principali forme di teatro classico - la greca e la francese - per una semplicità più stringata e asciutta, per la soppressione di tutte le scene in cui l'azione non progredisce, e dei personaggi non necessarî, per una uniformità più costante di tono sempre alto e sostenuto, per la rinunzia quasi assoluta alle scene d'amor tenero dominanti nel teatro francese, a quella familiarità quasi dimessa, talora sfiorante il comico, da cui non rifuggiva il teatro greco.

Ma - e questo è di capitale importanza - la forma classica da lui adottata, anzi esagerata, nei lineamenti essenziali corrispondeva a meraviglia al contenuto essenziale della sua tragedia, che è la rappresentazione dell'uomo sospinto ad agire da una passione e da una volontà prepotente. Nella tragedia alfieriana non v'è in generale quel conflitto interno di passioni nell'animo d'un medesimo personaggio, così caratteristico della tragedia francese, che fa sentire in questa la mancanza dell'ampio sviluppo romantico e rannicchia e scorcia complicati processi psicologici in troppo angusta cornice di ambiente e di tempo. Il personaggio alfieriano, invece, entra in iscena già animato da prepotente passione e da spasimo volitivo, che non ha ostacolo se non nelle prepotenti passioni e nelle indomite volontà d'altri personaggi: onde un cozzo violentissimo che con rapida meccanica corre a risolversi nella catastrofe. E nella forma a grandi linee sincerissima della tragedia alfieriana, noi possiamo riconoscere un doppio significato, lirico e morale. Da un lato infatti quel dramma così uno, così raccolto, così rettilineo ed energico, così volontario, vien quasi a rappresentare il nuovo A., tutto raccolto intorno a un fine fortemente voluto, da quello sparpagliamento e tumulto e contrasto di energie che era stata la prima sua vita. D'altra parte, la rappresentazione della forte volontà fu concepita da lui come un mezzo di educazione degl'Italiani ammolliti de' suoi tempi, e, plasmando i suoi eroi, egli volle proporre modelli di forza e di magnanimità; il che va detto principalmente degli eroi di libertà delle sue tragedie politiche, nelle quali il sentimento dominante è quello che fu bollentissimo nell'animo del poeta: l'odio alla tirannia, e un'ardente, feroce aspirazione alle libertà repubblicane. Ma non è a credere che tutte le tragedie alfieriane abbiano un contenuto politico. Sono spiccatamente tali Virginia, Timoleone, La congiura de' Pazzi, Agide, Bruto primo, Bruto secondo; quasi in tutte però, seppure le passioni dominanti non siano politiche, l'ambizione e la gelosia di regno vi è mostrata produttrice di tristi effetti.

Abbiam detto che in generale la tragedia alfieriana non rappresenta un conflitto interno di passioni. Fanno eccezione il Saul e la Mirra, che son poi i capolavori del Nostro. Nel Saul il vecchio eroe, le cui forze fisiche e spirituali decadono, sente lottare in sé l'invidia pel giovine eroe che lo soppianta, David, e l'affetto e l'ammirazione che ha per lui come suo genero e difensore e campione del suo popolo; e tale ondeggiamento, cui un superstizioso terrore d'essere abbandonato da Dio dà una nota d'angoscia più profonda e morbosa, è ritratto con incomparabile potenza lirica e drammatica. In Saul l'A. riversò tanto del suo animo che per natura era appunto assai proclive ai contrasti, alle malinconie, agli angosciosi furori seguiti da pentimenti; e tale suo personaggio prediletto egli interpetrò più volte assai felicemente negli ultimi anni di sua vita, sulle scene di teatri privati.

Nella Mirra rappresentò la lotta disperata d'un animo purissimo di giovinetta, che, con tormento inaudito e orrore di sé stessa, sente di essere innamorata sensualmente del proprio padre; e riuscì a far di Mirra un personaggio interessante e simpatico, lasciando l'orribile passione nell'ombra, come un nemico ignoto, sino alla fine della tragedia, quando, appena sfuggitale l'involontaria rivelazione, ella se ne punisce uccidendosi.

Nel suo teatro l'A. si mostra in genere assai esperto conoscitore del cuore umano, naturale dipintore di passioni, efficace fabbro d'intrecci semplici, ma di potente interesse. È stato detto che ritrae più passioni astratte che caratteri concreti: e certo, rispetto alla pittura di anime fatta per esempio da uno Shakespeare, che nella ricchezza e libertà dei suoi drammi ci rappresenta un personaggio in mille aspetti, nelle situazioni e nei contrasti più varî, il personaggio alfieriano ha dell'astrazione. Ma è quella naturale astrazione che si opera nell'anima presa da una passione prepotente che soffoca ogni altra voce; e non è punto vero che anche nella rappresentazione condensata delle umane passioni l'A. non sappia darci i riflessi e i baleni del carattere nel senso più individuale della parola; non è punto vero che i suoi tiranni sian coniati tutti sul medesimo stampo, e così i suoi eroi di libertà, e così i suoi subdoli consiglieri di tirannia, e via di seguito.

Ad espressione del forte contenuto della sua tragedia l'A. volle uno stile sostenuto, energico, vibrato, aspro perfino, e rifuggì a suo potere dalla facile e molle armonia del verso metastasiano, che dominava sulle scene d'Italia. Esagerò certo, e peccò anche qualche volta di oscurità. Ma nelle critiche vivaci mosse al suo stile anche da ammiratori d'altri aspetti della sua arte ci fu in parte l'impressione suscitata da un verso drammatico così nuovo, cui le orecchie italiane non erano avvezze.

Notevolissimo, nell'edizione parigina, il Parere aggiunto dall'autore sulle proprie tragedie, in cui, con piena sincerità, egli dà il proprio giudizio sull'arte sua tragica in genere e sui singoli componimenti, riconoscendo coraggiosamente quelli che gli appaiono difetti, e, anche più coraggiosamente, lodandosi di ciò che gli appare lodevole; ma, tirate le somme, attenendosi in tutto l'esame più alla severità che all'indulgenza.

Prose politiche. - L'odio alla tirannia e l'amore alla libertà, che costituiscono l'anima di tante tragedie, furono dall'A. sistematicamente ragionati in due trattati: interamente politico l'uno, Della tirannide; politico-letterario l'altro, Del principe e delle lettere. Compose il primo nel 1777, nel tempo in cui, dimorando in Siena, si strinse d'affetto a colui che considerò allora e sempre il suo più vero e caldo amico: Francesco Gori-Gandellini, ricco mercante non privo di cultura, che nell'animo nobilissimo e austero nutriva gli stessi sentimenti politici dell'Alfieri. Il quale per lui, morto non molti anni dopo, scrisse un dialogo, La virtù sconosciuta, ove, immaginando di conversare in sogno con l'ombra dell'amico, tratteggia il suo carattere e le sue rare virtù. Lui vivo, nelle quotidiane conversazioni, le loro idee, comunicandosi e prendendo forma, si accendevano; e da tale accensione furente e un po' frenetica di odio alla tirannia nacquero la tragedia La congiura de' Pazzi e il trattato Della tirannide. Nel quale, prendendo ad esaminare la forma dispotica di governo, l'autore più che un esame storico di ciò ch'essa era stata ed era, rappresenta con logica astratta e fervore di fantasia a un tempo ciò che la tirannia virtualmente è, dato che il despota è padrone di tutto, può fare e disfare le leggi, operare tutto il male che vuole, ecc., ecc.: il più mostruoso di tutti i governi. E a chi gli obietti che di fatto vi sono stati autocrati buoni, risponde che un monarca che, potendo, non rinunzia alla tirannia, è sempre cattivo, perché lascia la possibilità di successori malvagi.

Il trattato Del principe e delle lettere, cominciato nel '78, scritto per la maggior parte nell'85-86, esamina i rapporti fra la monarchia assoluta, o principato, e le lettere: e la parte essenziale del libro è dedicata a dimostrare che non è punto vero, come è opinione comune, che la protezione dei principi giovi alle lettere. Giacché, se s'intenda la missione delle lettere nel più pieno e nobile senso di rappresentare il vero, non può il fine del principe, che è di nascondere il vero, non contrastare con quella. E poeti come Virgilio, Orazio, Ariosto, Tasso, Racine, la cui poesia prosperò all'ombra dei troni, non si perita di considerare come grandi artisti, ma uomini mediocri, contrapponendo a loro, con ammirazione entusiastica, Dante. Il libro dell'A. è dunque una delle più potenti affermazioni di quel concetto secondo il quale un'opera letteraria è una totalità che non va giudicata secondo il criterio meramente estetico, che è un'astrazione, ma è un'entità vivente, concreta, in cui si proietta tutta l'anima dell'autore, e ricade quindi sotto il giudizio anche morale e intellettuale. Notevolissimo che, là dove ei si dà a vagheggiare quale dovrebbe essere una letteratura di uomini liberi, esprime la speranza che la missione di dare al mondo una tale letteratura, coi conseguenti effetti politici, possa spettare all'Italia. Questa fiducia nel popolo italiano così apparentemente corrotto e infingardo, e nel suo futuro risorgimento, mostra nell'A. una profondità di sguardo davvero meravigliosa. Nell'anno stesso in cui teminava di scrivere il Principe, l'A. scriveva il Bruto secondo, e lo dedicava, con uguale fiducia, al futuro popolo italiano.

In quest'ultima tragedia, riprendendo e svolgendo un'invenzione del Voltaire nella Mort de César, l'A. immagina che Bruto consigli a Cesare di dare la libertà a Roma. Una simile situazione gli era piaciuto ritrarre nel Panegirico di Plinio a Traiano, scritto nel 1785, in cui, rifacendo la famosa orazione tenuta da Plinio il Giovane in senato per ringraziare Traiano della propria elezione a console, immagina che Plinio, alle lodi per Traiano, aggiunga il consiglio di farsi maggiore d'ogni grande monarca che sia mai esistito, rendendo a Roma le libere istituzioni repubblicane.

L'Etruria vendicata. - Fra il '78 e l'84 scrisse L'Etruria vendicata, la più tormentata forse delle sue opere: un poemetto di quattro canti in ottava rima, sull'uccisione di Alessandro de' Medici. Esso arieggia qua e là all'eroicomico, tanto la rappresentazione di Alessandro e della sua corte pende alla caricatura, a detrimento del forte effetto che il poeta voleva ottenere. Viceversa il carattere di Lorenzino vi è di molto nobilitato rispetto alla storia, e l'uccisione, invece di avvenire a tradimento, vi è rappresentata come una specie di duello in cui Alessandro non si difende per mera paura. La rappresentazione realistica vi è alternata con episodî fantastici e soprannaturali, a modo della poesia epica eroica; il che, trattandosi d'un fatto relativamente recente, dà un'impressione di falsità. Probabilmente l'A. seguì in ciò l'esempio poco felice del Voltaire nella Henriade. Certo, l'Etruria è tra i prodotti meno belli dell'ingegno alfieriano.

Odi politiche. - Con una corona di cinque odi, l'America libera, identiche fra loro per lo schema metrico (le strofe sono di canzone petrarchesca, ma manca il commiato, e forse perciò l'autore le chiamò odi), celebrò l'A. la rivoluzione d'America, esaltando la generosità di Lafayette, che portò ai ribelli spontaneo aiuto, e soprattutto la magnanimità di Washington (cui dedicherà poi il Bruto primo) che pareggia ai massimi antichi eroi di libertà. Ma si sente che, in complesso, quella rivoluzione determinata da ragioni soprattutto economiche e risoluta senza grandi battaglie non giunge a infiammarlo com'egli vorrebbe; e l'ultima ode è piena di nostalgia per le magnanime guerre di libertà dei tempi antichi.

Con pieno ardore invece, e per la libertà tutta politica di cui si trattava, e pel carattere stesso dell'avvenimento che parlava alla sua anima drammatica, salutò l'A. la distruzione della Bastiglia con un'ode, Parigi sbastigliata: in cui, pur deplorando alcune atrocità commesse quel giorno, le considera però quasi come necessarie, e apre l'animo alle più liete speranze per le buone intenzioni manifestate dal re subito dopo quel memorabile fatto. Era il primo e ultimo lampo di vera gioia che la Rivoluzione francese sprigionasse da quella grande anima!

Il Misogallo. - Abbiamo già detto come l'anno 1789 segni nella vita dell'A. una nuova importantissima crisi. Da un lato, compiuto ormai in quell'anno il monumento aere perennius della sua vita di poeta con la pubblicazione laboriosissima di tutte le tragedie nell'edizione parigina, nel riposo vuoto che succede a un grande lavoro egli cominciò a sentire, come spesso le anime grandi, la vanità di quella gloria a cui tanto travaglio era stato diretto: sentimento maturato anche dalla piccolezza, scempiaggine, malignità, mala fede, di tante delle critiche che gli erano state avventate; dallo sgomento di vedere che povera cosa fosse mai quel mondo letterario in cui, tardivo neofita, era entrato così pieno di fede e di rispetto. Ma accanto al tramonto del suo ideale soggettivo di gloria, il 1789 segnò il principio di un più doloroso tramonto: quello del suo sogno politico. L'A. aveva sin lì nutrito l'ingenua fiducia (e i suoi scritti lo dimostrano chiaramente) che i mali della società derivassero tutti o quasi tutti dalle forme assolute di governo; e l'esempio dell'antica repubblica romana e delle libere città greche, vagheggiato attraverso un'immagine un po' letterariamente idealizzata, gli aveva fatto credere che bastasse dare a un popolo la libertà politica per averne i migliori frutti. La rapida degenerazione della Rivoluzione francese nel prepotere dei demagoghi ubriacatori delle folle e coprenti sotto le declamazioni libertarie una tirannia assai più feroce di quella che si era abbattuta, turbò profondamente quell'anima d'idealista. Una prima manifestazione di tale turbamento si ebbe allorché, avendo già stampate e pronte le sue opere minori, fra le quali i due trattati Della tirannide e Del principe, ne sospese la pubblicazione, temendo di potere ormai con quei libri sembrar complice degli orrori rivoluzionarî. E quando più tardi il libraio Molini di Parigi li pubblicò per conto suo egli ne sentì il più cocente dolore.

Ma l'odio per la Rivoluzione prese anche colore d'odio verso i Francesi, perch'ei si persuase che quanto avveniva in Francia dipendesse in parte da certi difetti caratteristici del popolo francese: la vanità, l'impressionabilità, la leggerezza, l'inebbriarsi di parole, che sempre, anche prima della Rivoluzione, avevano suscitato la sua antipatia verso quel popolo. Frutto letterario di tali disposizioni fu il Misogallo. È un'operetta che raccoglie prose e versi composti spicciolatamente, fra il 1790 e il 1796, senza un vero filo organico, ma tutti in odio alla Francia e alla Rivoluzione. Ha un'unità come può averla la parte amorosa del canzoniere petrarchesco, e in questo senso potrebbe dirsi che il Misogallo è il canzoniere dell'odio per madonna Francia. Le prose son cinque; i versi sono principalmente sonetti, molti epigrammi e un'ode. L'autore immagina anche un frontespizio allegorico simboleggiante la vacuità e viltà dei Francesi rivoluzionarî. Oltre allo sdegno morale per gli orrori e le colpe della Rivoluzione, ne traspare anche assai sensibilmente il disgusto estetico che in lui, spirito fine e signorile nel senso buono della parola, suscitava quell'infuriare e prepotere di gente brutta, sudicia, maleducata. La morale storica che ne risulta è che la Rivoluzione, dopo i primi tempi, fu una inutile iniquità, perché si sarebbe giunti a più vera e utile libertà, se si fosse permesso a Luigi XVI di attuare le sue buone intenzioni. Tale giudizio è sostanzialmente quello stesso che dà il Manzoni nel suo Saggio storico sulla rivoluzione francese; ed è assai notevole tale coincidenza in due opere così profondamente diverse: tutta lirica passionalità, reagente esaperata a impressioni presenti, l'una; tutto calmo e meditato raziocinio, analizzante dopo quasi un secolo documenti scritti, l'altra - a parte anche l'immensa diversità degli autori.

Ma quel che più importa per noi Italiani nel Misogallo è che, per polarizzazione, l'odio alla Francia riaccende nell'A. l'amore all'Italia; e l'antitesi sentimentale (che si manifesta perfino in alcuni sonetti esaltanti la dolcezza della lingua italiana e vituperanti le nasali cacofonie francesi) dà luogo a un'antitesi storico-politica, per cui assurge al principio che l'Italia non potrà esser grande che distaccandosi dalla Francia e volgendosi contro questa naturale nemica della sua grandezza; e nell'ultimo sonetto accarezza l'immagine di un'Italia risorta, armata d'armi proprie, in campo contro la nemica, riconoscente a lui come a suo vate.

Il Misogallo pecca certamente di esagerazione; ma non è già che in quei lampi d'odio manchi la luce del pensiero, e sarebbe grave errore dare a quell'opera valore meramente lirico, di sfogo passionale. Peggio ancora è il considerarla come un effetto di rancore personale pei danni subiti dal governo rivoluzionario che, fuggito lui da Parigi nel '92, sequestrò tutte le sue cose. Contro tale gretta interpretazione d'un libro passionato sì, ma a suo modo profondo, basterebbe questo: che alcuni tra i più violenti componimenti furono composti prima della fuga da Parigi.

Satire. - Fin dal 1777 l'A. si era proposto di scrivere satire e ne aveva pensato i soggetti. La disposizione satirica era essenziale alla sua natura, e i pochi scritterelli anteriori alla conversione avevano avuto appunto carattere satirico. Ma, acceso poi dalla divina fiamma dei grandi ideali politici e letterarî, l'atteggiamento satirico ne fu come soffocato; e i disegni di satire formati nel '77, salvo il primo, che fu attuato con la Satira prima nell'86, rimasero semplici disegni fino al'93, in cui scrisse la seconda e parte della terza; proseguendo nel'95-96 fino alla settima, e nell'anno successivo con tutte le altre, raggiungendo il numero di diciassette. Il metro è la terza rima. La loro ispirazione è essenzialmente storica, nel senso che lo sdegno del poeta non è suscitato dai vizî generali ed eterni della natura umana, ma da difetti e colpe e ridicolaggini caratteristiche dei suoi tempi: la monarchia assoluta (I re); i grandi di corte (I grandi); il popolaccio (La plebe); la borghesia ricca (La sesquiplebe): le condizioni d'Italia, ove le leggi non si rispettano e infuriano i delitti di sangue (Le leggi); la poca cura posta dai nobili nell'educazione dei figliuoli (L'educazione); la superficialità maligna di Voltaire, che ha dileggiato il cristianesimo non comprendendone l'immenso valore morale (L'antireligioneria); certa critica letteraria italiana dei suoi tempi di cui le sue tragedie avevano subito i morsi (I pedanti); la viltà plebea che combatte il duello non per senso morale, ma per togliere un'arma di difesa agli spiriti nobili (Il duello); il falso spirito umanitario dei filosofastri rivoluzionarî francesi, che inorridiscono di certe costumanze retrive, ma sono genia crudele e sanguinaria, e uccidono chi non la pensa come loro (La filantropineria); lo spirito commerciale dominante il mondo e generatore d'ogni bassezza (Il commercio); la catena di debiti che a cominciare dagl'indebitati governi lega ormai tutto il mondo (I debiti); la piaga dei grandi eserciti permanenti creati dietro l'esempio di Federico II di Prussia (La milizia); le varie imposture filosofiche fiorite nel sec. XVIII, e soprattutto la setta degl'illuminati, adulatrice della ferocia rivoluzionaria francese (Le imposture). L'ultima satira, Le donne, sarebbe invece uno di quegli argomenti di carattere universale ed eterno prediletto da tanti altri poeti satirici. Ma le poche terzine che il Nostro vi dedica sono un contraltare all'ovvia e ormai sfruttata misoginia degli altri; giacché l'A. afferma esser le donne in sostanza migliori degli uomini, e solo imitatrici dei loro difetti. Un carattere speciale ha la satira I viaggi, la più lunga, in cui, un po' sul tono faceto delle satire autobiografiche dell'Ariosto, il Nostro racconta i suoi molti e lunghi viaggi giovanili attraverso l'Europa, punzecchiando o stroncando cose, popoli e persone, ma rivolgendo anche assai sovente la punta contro la propria ignoranza e futilità di allora.

Come si è potuto scorgere dagli argomenti, la Rivoluzione francese e il suo spirito e i suoi effetti non entrano per poco nelle satire alfieriane. A cui l'immediatezza storica dell'ispirazione conferisce una grande vivacità, acuita dallo stile frizzante e originale. L'autore vi fa frequente uso di termini bizzarri ed efficaci di sua invenzione: i titoli di alcune valgano d'esempio. La sincerità ne è assoluta, la causticità scevra di ogni personalità, e nata soltanto da sdegno e dolore prof0ndamente morali.

Commedie. - Per l'affinità dell'ispirazione menzioneremo, subito dopo le satire, le sei commedie, quantunque esse siano l'ultima fatica letteraria dell'Alfieri. Quattro di queste commedie costituiscono una specie di tetralogia politica: L'uno; I pochi; I troppi; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto. Delle altre due, una ha carattere etico universale: La finestrina; l'altra è satira vivace di costumi italiani contemporanei: Il divorzio.

Meditando sulle vicende politiche cui aveva assistito dalla Rivoluzione francese in poi, l'A. giunse a poco a poco alla persuasione che la miglior forma di governo non fosse quella repubblicana da lui ardentemente vagheggiata in giovinezza, ma una forma di monarchia temperata. Del resto, egli aveva sempre avuto simpatia per la monarchia liberale inglese, i cui buoni effetti aveva sperimentati durante le sue dimore in Inghilterra; e nella stessa Parigi sbastigliata mostra di accogliere con gioia speranzosa i buoni propositi di Luigi XVI. I suoi nuovi concetti politici rappresentò fantasticamente nella sua tetralogia comica. L'uno condanna la monarchia assoluta; I pochi, l'oligarchia; I troppi, la democrazia; L'antidoto addita il rimedio ai mali delle tre forme condannate, in una loro fusione monarchica: ove il potere esecutivo spetti al re insieme con la sanzione delle leggi; il fare o modificare queste a un'aristocrazia dei migliori cittadini; l'applicazione sia diritto di tutti, senza esclusioni o privilegi. Difetto essenziale di queste commedie è che nelle prime tre l'invenzione non è tale da mostrare in atto inconvenienti e danni delle varie forme di governo che il poeta condanna; egli non fa che porre rispettivamente monarchi, oligarchi e popolo in situazioni e atteggiamenti ridicoli, suscitando il riso a loro spese, ma non dimostrando, politicamente, nulla. E così non è neanche lontanamente tentata, nella strana invenzione allegorico-fantastica della quarta commedia, una dimostrazione, un'esemplificazione qualsiasi dei vantaggi della monarchia liberale; essi vi sono affermati, e basta. Dalla tetralogia non risulta quindi che un'espressione lirico-politica dell'animo dell'autore, ma null'altro. Né si può dire che una vera vis comica compensi della mancata dimostrazione politica.

Ne La finestrina l'autore immagina che Mercurio, per verificare se i giudizî pronunziati sulle ombre dai giudici infernali siano esatti, apra una finestrina nel costato dei giudicandi, attraverso la quale appare il loro vero animo: ed è un disastro, ché nessun animo, neanche di coloro che hanno operato a questo mondo le cose più grandi e belle, si mostra interamente puro. La conclusione si è che non bisogna troppo indagare sulle riposte intenzioni degli uomini, e contentarsi di stimare chi effettivamente ha operato il bene. È un malinconico adattamento a quel che di fatto è la vita, dal punto di vista di una morale pratica, rassegnata a rimaner lontana dal puro ideale; ma non vuol essere un'amara affermazione misantropica e pessimistica.

Ne Il divorzio, attraverso la rappresentazione d'un matrimonio fondato sul calcolo, satireggia soprattutto la moda dei cavalieri serventi, diritto della sposa solennemente sanzionato nei capitoli matrimoniali; e il titolo della commedia vuole affermare che matrimonî siffatti, invece di segnare il principio di una vera unione fra gli sposi, sono un divorzio: "il matrimonio italico è un divorzio" dice appunto uno dei personaggi della commedia.

Il metro di tutte e sei le commedie è l'endecasillabo sciolto; la lingua ne è spiccatamente toscaneggiante.

Autobiografia. - Così dunque, col Misogallo, con le Satire, con le Commedie - e con gli epigrammi di cui toccheremo parlando delle Rime - l'A., con sdegno movente da un'altissima idealità morale, rappresentava in varie guise l'aspetto negativo della sua visione dell'umanità, in lui prevaleme dopo il 1789. Al medesimo periodo appartiene la Vita, che non può certamente dirsi opera di aspetto negativo, ma si collega a quello stato d'animo malinconico. L'uomo che prende a narrare sé stesso vuol dire che guarda più al passato che all'avvenire. E infatti egli cominciò a scrivere la Vita subito dopo che, assolto con la pubblicazione di tutte le tragedie il grande compito letterario e miorale e politico della sua esistenza, cominciò per lui, com'egli stesso ci dice, il principio del disinganno. La prima parte della Vita fu scritta infatti nel 1790, e giunge con la narrazione fino a quell'anno. La seconda parte, che chiude la narrazione, è del 1803: l'anno della morte.

Che la Vita sia artisticamente un capolavoro, è generalmente ammesso, tanta vi è la vivacità della narrazione, la perfetta aderenza dello stile a quel misto d'alta idealità entusiastica, e ironica o caustica arguzia, violenza passionata e intima bontà, che fu il carattere dell'autore; la scultorietà e spigliatezza a un tempo della forma; la vivacità d'una lingua arricchita spregiudicatamente di parole di conio dell'Alfieri. Quello di cui invece si discute, è se il ritratto di sé ch'egli vi delinea sia somigliante. Sembra che su questo punto debba contare soprattutto il giudizio dei contemporanei intelligenti che lo conobbero. Ebbene, Tommaso Valperga di Caluso, dei più eminenti e intimi amici del poeta, a cui la contessa d'Albany, morto l'A., mandò a leggere il manoscritto della Vita, pur sconsigliandone la pubblicazione, pronunziava il seguente giudizio: "Conoscendo l'ingegno e l'animo di quell'uomo unico, io ben m'aspettava di trovare ch'egli avesse vinta in qualche modo suo proprio la difficoltà somma di parlar di sé lungamente, senza inezie stucchevoli né menzogne; ma egli ha superata ogni mia aspettazione coll'amabile sua schiettezza e sublime semplicità. Felicissima n'è la naturalezza del quasi negletto stile; e meravigliosamente rassomigliante e fedele riesce l'immagine ch'egli ne lascia di sé, scolpita, colorita, parlante". Che nella Vita ci siano errori di fatto, nessuna meraviglia. L'A. scriveva a memoria e rapidamente; e bisogna essere assai inesperti di psicologia per ignorare che, quando si lavora di sola memoria, si va soggetti, nei fatti materiali, ad errori anche grossolani, molto più di chi racconti la vita altrui in base a documenti. Quel che importa è la somiglianza del ritratto; e somigliante quale apparve al Caluso esso appare anche a noi, se lo confrontiamo coi lineamenti spirituali del poeta ricostruiti su tutt'altri documenti. Si può ammettere che vi sia una tal quale idealizzazione, non nel senso che egli si sia voluto render migliore, ma per un'accentuazione dei tratti caratteristici, buoni o cattivi che fossero, atti a dare un'immagine di sé più significativa. Ma è appunto ciò che accade naturalmente e quasi irresistibilmente a ogni artista nel ritrarre persone, cose, avvenimenti e, quando non sia un pregio, può non essere un difetto.

Rime. - Appartengono così al periodo della vita anteriore al 1789, come al posteriore, le Rime. Cominciò l'A. a scrivere rime come esercizio di versificazione e di stile, mentre andava, subito dopo la conversione, componendo la Cleopatra. Ma di quelle rime di mero esercizio tecnico ne conservò solo pochissime meglio riuscite. La maggior parte delle rime stampate o destinate alla stampa (sonetti per lo più) sono amorose, e scritte per la Albany. Che il poeta riecheggiasse il Petrarca, è innegabile. Ma il suo petrarchismo nasce da un'intima consonanza col modo onde il Petrarca sentì l'amore, e non è punto un'imitazione esteriore, riflettente tuiti i varî aspetti del Canzoniere petrarchesco, come sono i canzonieri degl'imitatori veri. Vi sono tanti lati dell'animo e dell'arte del Petrarca che l'A. non sentì: tutto quello che nel Petrarca è galanteria un po' superficiale, affettazione, voluta rievocazione di provenzalismo, poesia d'occasione nel senso più freddo e futile della parola, artificio d'intelligenza e di spirito, nell'animo dell'A. non trova risonanze. Egli sente il solo Petrarca sinceramente e nobilmente amante: quella passione, quella malinconia, quell'elevazione spirituale prodotta dall'amore, perché a quel modo egli sentì l'amore: con una nota individuale, anzi, di passione più ardente, d'idealità più pura, di dolore (quando v'è dolore) più tormentoso; e in situazioni simili gli ricorrono spontaneamente espressioni del suo diletto poeta, "quel sì dolce d'amor mastr0 profondo". Ma petrarchista nel vero senso della parola l'A. non può dirsi affatto; e pensando che è anzi come un Petrarca purificato della parte più leggiera e caduca dell'arte sua, potremo quasi dire che il Petrarca è più petrarchista di lui. Dove l'A. resta nettamente inferiore al cantore di Laura è nell'arte del verso. La squisita musicalità petrarchesca, la costante nobile eleganza della dizione rimasero inaccessibili al duro Astigiano; e pur consentendo che un contenuto tanto più passionato e agitato richiedeva una sonorità un po' diversa dalla petrarchesca, certo è che abbiamo spesso nei versi dell'A. qualcosa di stentato, di scabro, di irto.

Molte delle rime non sono di argomento amoroso, ma o rappresentano altri moti e passioni e aspirazioni, o meditano argomenti letterarî o storici, o sono meramente descrittive: vivamente sentite e originali tutte. Ricorderemo il fiero sonetto per la soppressione dell'Accademia della Crusca, quello celebrante l'alta poesia del culto cattolico, quello a Dante in vituperio dei proprî detrattori, quello sul suo amore alla solitudine, quello infine in cui traccia il proprio ritratto fisico e spirituale, che doveva poi essere imitato dal Foscolo e dal Manzoni giovinetto.

Epigrammi. - Così delle rime stampate dall'autore, come di quelle lasciate pronte per la stampa, fanno parte numerosi epigrammi. Ve n'ha di morali, di letterarî, di politici; dei quali ultimi alcuni erano destinati originariamente a far parte del Misogallo, ma poi se ne distaccarono. Negli epigrammi l'A. esagerò volontariamente le punte, le asprezze, la stringatezza del suo stile, perché ferissero meglio; e sono davvero fascetti di spine.

L'Alceste seconda e l'Abele. - Nel 1797 l'A. si pose nella non facile impresa d'imparare il greco senza maestro, e vi riuscì. Poté così leggere nel testo i tragici greci, conosciuti fin'allora soltanto attraverso le traduzioni latine. Rileggendo in greco l'Alcesti di Euripide, gli si riaccese così forte l'amore di quell'argomento, che, ripreso l'abbozzo in prosa d'una sua Alceste, concepito leggendo la versione latina, lo verseggiò, e ne venne fuori, a dodici anni di distanza dalle altre, un'ultima tragedia, Alceste seconda; in cui il drammaticissimo soggetto di Euripide è trattato con maggior profondità di sentimento, e senza l'immistione di quelle scene semicomiche, che nella tragedia euripidea sciupano la tenera e austera nobiltà della trama. È l'unica tragedia alfieriana in cui, a imitazione della tragedia greca, vi siano i cori.

Altro frutto drammatico concepito prima dell'89, ma maturato più tardi, è l'Abele; con cui l'A. volle tentare una nuova forma teatrale, che, ad esprimere nel nome la bizzarria della forma, chiamò tramelogedia: cioè brani di vera e propria tragedia, alternati con brani di vero e proprio melodramma, e mistura di personaggi umani (prevalenti nella parte tragedica) e soprannaturali (prevalenti nella parte melodrammatica). Il fine del tentativo fu tutto pratico: condurre il pubblico italiano, appassionato dell'opera in musica e restio alla tragedia, verso il gusto e l'amore della vera tragedia, attraverso una forma di transizione, che, seducendo con l'elemento melodrammatico, abituasse a prestare attenzione all'elemento tragico. Del valore pratico che il tentativo avrebbe potuto avere ai suoi tempi è per noi difficile giudicare. Letterariamente parlando, scema di molto l'interesse per la vicenda scenica l'intervento del soprannaturale come causa determinante dei sentimenti umani; sicché la parte tragedica presa in sé è fiacca.

Traduzioni. - Dopo la pubblicazione delle tragedie, l'A. dedicò molto del suo tempo anche allo studio per lo studio: la passione della cultura cresceva in lui con gli anni, e si direbbe ch'egli volesse compensare con una virilità studiosissima gli anni futili e svagati della giovinezza ignorante. Buona parte di tali studî si rivolsero alla letteratura latina e alla greca; e ne furono frutto la traduzione dell'Eneide, di Terenzio, dei Persiani di Eschilo, del Filottete di Sofocle, dell'Alcesti di Euripide, delle Rane di Aristofane. Già prima dell'89 aveva tradotto la Catilinaria di Sallustio. Tutte queste traduzioni furono edite postume.

Lettere. - La raccolta fondamentale delle sue lettere è quella fatta dal Mazzatinti: Lettere edite e inedite di Vittorio Alfieri, Torino 1890. Ma non è questo uno degli epistolari più belli e interessanti della nostra letteratura, anche perché l'interesse autobiografico ne è completamente offuscato dalla Vita.

Religiosità dell'A. - Corse voce che l'A. negli ultimi anni tornasse alle pratiche del cattolicismo. Prove sicure non ve ne sono: certo è che dall'anticlericalismo accanito della Tirannide egli andò a poco a poco moderandosi; che nel Principe già riconosce l'importanza somma della religione e pareggia i grandi santi (sant'Ignazio compreso) ai più grandi eroi dell'umanità; che nella satira L'antireligioneria esalta il valore morale del cristianesimo e vitupera Voltaire; che il sonetto sopra ricordato intorno al culto cattolico, se non è professione di cattolicismo, molto le si avvicina.

Fortuna. - Nonostante le critiche stupide e maligne che abbondarono, e le giuste riserve di una critica più illuminata, la fama e il culto dell'A., soprattutto come poeta tragico, ebbero in Italia rapida diffusione ed enorme influenza sul formarsi dei sentimenti di nazionalità, libertà, indipendenza, unità. Nocque al poeta il movimento romantico, che carezzò un ideale drammatico troppo diverso dall'alfieriano per poter serbare un giudizio imparziale sul teatro di lui. E il culto per il Manzoni, così diverso dall'A. nel suo sereno equilibrio, fece troppo dimenticare il valore che nel loro tempo e in quelle determinate condizioni politiche e storiche avevano avuto anche certi eccessi e certe violenze dell'altro grande. Ma negli ultimi decennî si è tornati a una più esatta ed equa valutazione così del poeta come dell'uomo.

Quanto alla fortuna scenica del teatro alfieriano, è da dire che le tragedie furono dapprima molto più lette che rappresentate: non incontrarono generalmente un vero favore nel pubblico, non, naturalmente, nei governi; né l'autore stesso desiderò di vederle straziate dall'inettitudine delle compagnie drammatiche dei suoi tempi. Ma quando in Italia si trapiantarono le libertà diffuse dalla rivoluzione francese, e con esse riarsero anche i sentimenti d'italianità, l'A. divenne l'idolo del pubblico, almeno del pubblico d'una certa cultura; e, prima nella Cisalpina poi nel resto d'Italia, le sue tragedie si rappresentarono spessissimo, accolte dovunque con immenso plauso. Né l'influenza francese predominante poté impedire un tale entusiasmo. Lo stesso governo napoleonico vide nell'autore del Misogallo l'odiatore della rivoluzione sfrenata, chiuse gli occhi sull'odiatore della Francia, e lasciò che gl'Italiani facessero l'apoteosi del loro poeta e profeta.

La Restaurazione fu un colpo alla fortuna teatrale dell'Alfieri. I governi reazionari erano ormai troppo sospettosi per poter concedere sfoghi tirannicidi e inni alla libertà anche ai morti da venti secoli. Il repertorio alfieriano dei teatri si limitò quindi alle tragedie più politicamente innocenti, fra le quali per fortuna erano le più belle. E queste ebbero la sorte di trovare interpreti insigni. Fu ammiratissima l'interpretazione del Saul fatta da Gustavo Modena, che Luigi Bonazzi, in un suo libro sul famoso attore, ha accuratamente descritta; e così quella della Mirra data da Adelaide Ristori. Dopo il Modena un altro grande interprete del Saul fu Tommaso Salvini, la cui voce, ormai prossima a spegnersi, risuonò ancora nella grande tragedia in una rappresentazione di beneficenza data a Roma non molti anni or sono. Ma tutto sommato, negli ultimi decennî il teatro alfieriano uscì sempre più dal repertorio delle compagnie drammatiche, subendo la sorte della tragedia classica in genere. La quale richiede una recitazione tutta ideale (come ideale è la sua rappresentazione della vita) che è l'opposto della recitazione realistica predominante sulla scena moderna. Ed è ormai rarissimo il caso che una tragedia dell'A. sia rappresentata sui palcoscenici d'Italia.

Opere: Vivente l'autore, e col suo consenso, non furono pubblicate che le prime dieci tragedie (esclusa la Cleopatra, ripudiata), a Siena nel 1783; le medesime e le altre nove scritte fino al 1786 a Parigi 1787-89; e un saggio del Misogallo, col titolo Contraveleno poetico, Firenze 1799. Dopo pubblicazioni avvenute senza il consenso dell'autore o postume, la prima edizione completa delle Opere è di Italia (Pisa), Capurro, 1805-15. Le opere complete furono ristampate in occasione del centenario della morte (Torino 1903). Di singole opere citeremo le seguenti edizioni, Tragedie, per cura di C. Milanesi, Firenze 1855, recentemente ristampata; Vita, giornali e lettere per cura di E. Teza, Firenze 1861; Il Misogallo, le Satire e gli epigrammi, per cura di R. Renier, Firenze 1884; Della tirannide del principe e delle lettere a cura di A. Donati, Bari 1927; per l'epistolario vedi le Lettere edite e inedite pubblicate da G. Mazzatinti, Torino 1890.

Bibl.: Fra gli studî critici complessivi o parziali intorno all'Alfieri e alla sua opera ricorderemo: E. Bertana, Vittorio Alfieri studiato nella vita nel pensiero e nell'arte, 2ª ed., Torino 1903; G. A. Fabris, Studî alfieriani, Firenze 1895; M. Porena, Vittorio Alfieri e la tragedia, Milano 1903; B. Zumbini, Il Saul, in Studî di letteratura italiana, Firenze 1906; F. De Sanctis, Janin e Mirra, in Saggi critici; F. Novati, Alfieri poeta comico, in Studî critici e letterari, Torino 1889; E.,. Masi, Il pensiero politico di Vittorio Alfieri, Firenze 1896; P. A. Menzio, Alfieri e il Risorgimento nazionale, Casalbordino 1912. Pei rapporti col teatro francese v. C. Dejob, in Études sur la tragédie, Parigi 1896. Il tono alle critiche dei romantici fu dato da quanto sul teatro nostro scrisse A. G. Schlegel nel suo Corso di letteratura drammatica, lezione IX.

Per notizie particolareggiate si veda la Bibliografia alfieriana di G. Bustico, 3ª ed., Firenze 1926.

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