PITT, William

Enciclopedia Italiana (1935)

PITT, William (detto Pitt il Giovane, per distinguerlo dall'omonimo padre)

Pietro SILVA

Secondogenito e degno figlio del grande Pitt, nato a Hayes (Kent) il 28 maggio 1759, morto a Putney (Londra) il 23 gennaio 1806. Continuò le tradizioni del padre come parlamentare e statista di prim'ordine e come campione della lotta britannica contro la Francia, per il consolidamento del primato navale e coloniale inglese e per l'abbattimento del tentativo francese di egemonia continentale. A differenza però del padre, che tenne il potere per brevi anni, fu al governo, anzi capo del governo, per lunghissimo tempo, divenendo primo ministro quand'era appena ventiquattrenne. La sua ascesa nella vita parlamentare e politica fu d'una rapidità meravigliosa. Eletto membro della Camera dei comuni a ventidue anni nel 1781, nel 1782 era già cancelliere dello Scacchiere nel ministero formato da lord Shelburne. Siffatto balzo era dovuto non tanto al nome illustre che portava, quanto alla posizione eminente che aveva saputo conquistarsi appena entrato ai Comuni, con i primi discorsi e con i primi atteggiamenti. La sua eloquenza, sobria e sarcastica, era diversa da quella teatrale del padre, ma produceva effetti altrettanto profondi. Dopo il suo primo discorso il famoso rivale di suo padre, Fox, grande oratore egli stesso, lo proclamò uno dei migliori oratori dei Comuni. Non minore dell'eloquenza fu la sua abilità di manovra nell'agitato e torbido periodo di vita politica e parlamentare determinato dal contrasto tra l'oligarchia dei whigs capitanati da North e da Fox, e il re Giorgio III che voleva imporre e sviluppare il proprio potere personale (v. inghilterra: Storia).

Il giovane P. riuscì a diventare l'uomo di fiducia di Giorgio III, che nel dicembre del 1783, dopo avere costretto alle dimissioni il ministero North-Fox, che qualche mese innanzi aveva rovesciato il ministero Shelburne, del quale Pitt faceva parte, affidò al giovane ventiquattrenne addirittura la carica di primo ministro. Mai decisione più temeraria ebbe più clamorosa e piena giustificazione dai risultati. In meno d'un anno il giovanissimo "premier" divenne arbitro di quella Camera dei comuni, che pure aveva accolto la sua presentazione come primo ministro con clamorose risate, impedendogli di esporre il programma del governo, e poi lo aveva messo in minoranza parecchie volte.

Ma i voti contrarî non erano riusciti a rovesciare il giovine P., che era forte dell'appoggio del re, di quello della Camera dei lord, e che guadagnava ogni giorno più terreno nell'opinione pubblica, nauseata degl'intrighi e delle rivalità dei vecchi uomini politici. Giovò pure al P. la tattica sbagliata adottata dal suo più forte avversario, il Fox, il quale lavorava a impedire nel 1783 lo scioglimento della camera, facendo così il giuoco del primo ministro, desideroso di arrivare allo scioglimento solo quando fosse stato sicuro di un esito favorevole nelle elezioni. Fatto sta che quando, nel 1784, il P. credette venuto il momento di sciogliere la camera, ebbe piena ragione dai risultati a cui giunse; giacché le elezioni mandarono ai Comuni un'enorme maggioranza di deputati tories a lui favorevoli, riducendo a uno sparuto gruppo gli avversarî prima potentissimi.

Conseguita dopo di ciò una posizione parlamentare e politica straordinariamente forte, sicuro dell'appoggio del re che lo considerava come un baluardo contro i vecchi uomini dell'oligarchia dei whigs, da lui odiati, il P. volse le cure principali della sua attività di governo a una politica di riforme, specialmente nel campo finanziario ed economico, anche per porre riparo alle conseguenze della guerra d'indipendenza d'America, chiusasi nel 1783 col trattato di Versailles, dopo essere costata all'Inghilterra enormi somme e la perdita delle tredici colonie americane. Tale attività riuscì ad alleviare il carico del debito pubblico e a diminuire molti dazî d'importazione, agevolando con ciò lo sviluppo delle molteplici intense forze produttive, che si erano svegliate in Inghilterra in quel periodo caratterizzato dalla cosiddetta "rivoluzione industriale", in connessione con le invenzioni del telaio meccanico, della macchina a vapore, e con l'applicazione del carbone nella lavorazione del ferro. Fatto sta che il primo decennio di governo del P. coincise con l'ascesa dell'Inghilterra verso una grande prosperità economica, mentre lo sviluppo delle conquiste in India compensava le perdite coloniali subite in America. In quell'epoca di fervida attività riformatrice l'instancabile primo ministro cominciò a pensare anche a una riforma elettorale, per mettere meglio in armonia con i nuovi tempi l'antiquato sistema di elezione e di ripartizione dei seggi. E concepì altresì il piano d'una conciliazione con l'Irlanda.

Ma a volgere l'attività del P. dal campo delle riforme pacifiche e della politica interna a quello della politica estera e della guerra sopravvennero le complicazioni determinate da quella rivoluzione francese, che pure nel suo periodo iniziale il P. aveva considerata con indifferenza, se non addirittura con simpatia, dato che sembrava indebolire e paralizzare la pericolosa Francia. Quando alla fine del 1792 le armi dei rivoluzionarî francesi, vittoriose contro l'Austria e contro la Prussia, si avanzarono oltre il Reno e nei Paesi Bassi, il P. adottò in pieno la concezione del suo amico Burke intorno agli avvenimenti di Francia, e si schierò risolutamente contro la nuova repubblica, diventando il centro e l'anima della coalizione antifrancese (febbraio 1793). Tale decisione del P., determinata senza dubbio dal pericolo d'una rinnovata egemonia francese sul continente e dell'espansione francese fino ad Anversa e alle bocche della Schelda, fu d'importanza storica, perché coinvolse l'Inghilterra in una lotta che non doveva finire se non a Waterloo. I risultati conseguiti nel 1815, anche se a prezzo di enormi sforzi e sacrifici, dimostrarono che il giovine P. aveva avuto ragione nella decisione del 1793, così come aveva avuto ragione il vecchio Pitt in quella del 1757. La lotta, che il P. condusse con ferrea energia e indomabile tenacia fino alla morte, ebbe una sola breve interruzione nel 1802-1803, per la pace di Amiens. Prima di tale pace il P. aveva dovuto dare le dimissioni, perché abbandonato e sconfessato dal re, nel marzo 1801. L'abbandono regio era avvenuto sulla questione dell'emancipazione dei cattolici, che il P. avrebbe voluto attuare fin dal 1800 come corollario dell'atto d' unione dell'Irlanda all'Inghilterra attuato in quell'anno. Ma il dissenso sulla questione dell'emancipazione dei cattolici era un pretesto: in realtà il P. cadeva, perché la maggioranza dell'opinione pubblica, desiderosa della pace dopo otto anni di guerra e illusa sulla possibilità d'un duraturo accordo con la Francia, voleva eliminare in lui il principale ostacolo a una conciliazione con la repubblica francese. Già nel 1795, all'apertura del parlamento, e più ancora nel 1797, si erano avute grida ostili e tumulti popolari contro di lui, come protesta contro l'enorme carico fiscale e per paura del crollo finanziario, date le spese che la lotta imponeva, mentre gli alleati avevano a uno a uno piegato di fronte alla Francia vittoriosa lasciando sola l'Inghilterra. Nel 1798-99, quando la politica del Direttorio in Italia e in Egitto aveva dato modo al P. di costituire la seconda coalizione, la cui azione bellica era stata nel primo periodo coronata da clamorosi successi, la posizione del primo ministro si era di nuovo rafforzata; ma dopo Marengo e le defezioni dei varî alleati la situazione era tornata quella del 1795-97, donde il nuovo indebolimento politico del P. e la sua caduta, dopo diciassette anni d'ininterrotta permanenza alla testa del governo. L'avvenimento clamoroso fu a ragione ritenuto sintomo della prevalenza delle tendenze pacifiste nella politica britannica. Infatti il successore del P., Addington, iniziò le trattative che dovevano condurre nel marzo 1802 alla pace di Amiens.

Privo del potere, il P. tenne una condotta abilissima. Mostrò di appoggiare il suo successore, col quale mantenne contatti, approvò il trattato di Amiens, pur mostrando di dubitare della sua solidità. Si mantenne, insomma, in vista, in attesa che gli eventi facessero ritornare verso di lui il fiotto della popolarità. Non dovette attendere molto, perché già nel 1805 la nuova rottura con la Francia venne a dimostrare che la sua concezione della lotta a oltranza era giusta. Così il P. si trovò presto nella possibilità di attaccare gli avversarî politici che lo avevano scalzato nel 1801; e ne approfittò, passando all'opposizione contro il ministero Addington, che egli tacciò di debolezza e d'insufficienza di fronte alla situazione creata dalla ripresa della lotta contro Napoleone. Nel maggio 1804 il ministero Addington si sfasciava, e naturalmente il P. ritornava al posto di primo ministro, se pure non in posizione così forte come nel periodo precedente: infatti si trovò ad avere alleati contro di sé Addington e Fox, mentre uno dei suoi fidi seguaci, lord Grenville, si era allontanato da lui con un gruppo di amici. E Napoleone imperatore appariva un avversario ben più formidabile che non la repubblica rivoluzionaria del 1793. Ma le difficoltà non spaventarono il P., che iniziò una vigorosa politica di guerra, lanciando un prestito di venti milioni di sterline, tassando la proprietà, e tentando all'interno una specie di unione nazionale con la conciliazione con Addington, mentre all'estero lavorava con successo a costituire la terza coalizione. I risultati di siffatta attività non furono però quali il P. sperava. All'interno, gli avversarî politici non gli diedero tregua, e montarono contro il suo ministero uno scandalo, lanciando accuse di corruzione contro uno dei ministri, il Melville, che il P. dovette sacrificare; mentre l'Addington dopo un breve periodo di accordo tornava all'opposizione recisa. All'estero i trionfi napoleonici di Ulma e di Austerlitz e il crollo dell'Austria con la pace di Presburgo parvero occultare e annullare il risultato raggiunto dal Nelson a Trafalgar, di cui allora nessuno intuì l'importanza decisiva. Accasciata da siffatti colpi e logorata dal lavoro immane, la fibra del P. si spezzò. Il grande statista morì a 47 anni. Le sue ultime parole furono: "O mia patria! In quale stato lascio la mia patria!".

Effettivamente l'apparenza delle condizioni in cui si trovava l'Inghilterra all'inizio del 1806 era preoccupante: all'estero Napoleone vittorioso anche della terza coalizione e arbitro del continente, all'interno una situazione finanziaria ed economica quanto mai pericolosa per il carico delle spese di guerra. E l'esito della lotta si presentava molto dubbio. Pure, perseverando nella via che il P. aveva segnata, i suoi successori arrivarono ai risultati del 1815, il cui merito va quindi in parte attribuito a lui. Come è suo merito avere considerato e impostato problemi che nel sec. XIX l'Inghilterra dovette risolvere per continuare l'ascesa: il problema della riforma elettorale, il problema dell'emancipazione dei cattolici, il problema dell'Irlanda. In siffatta antiveggenza, in siffatta giustezza di valutazione delle vie da seguire nell'interesse della patria sta la caratteristica più importante della grandezza del P.

Bibl.: Lord Rosebery, P., Londra 1841; F. Salomon, W. P., voll. 2, 1901-1906; E. Marchs, Der jüngere Pitt und seine Zeit, in Männer und Zeiten, I (1911); J. H. Rose, W. P. and Napoleon, Londra 1912; id., Life of W. P., ivi 1923. Cfr. anche inghilterra: Storia.