WYLER, William

Enciclopedia del Cinema (2004)

Wyler, William (propr. Willy)

Guido Fink

Regista cinematografico tedesco, di famiglia ebrea, naturalizzato statunitense, nato a Mulhouse (Alsazia) il 1° luglio 1902 e morto a Los Angeles il 29 luglio 1981. Fra i più importanti autori del cinema americano, è stato definito quintessential director (Herman, 1995), il regista per eccellenza dell'età d'oro di Hollywod, grazie al suo lavoro ‒ non privo di contrasti e di difficili negoziazioni ‒ con grandi produttori e attori di talento. Per tre volte vinse il premio Oscar per la migliore regia, nel 1943 per Mrs. Miniver (1942; La signora Miniver), nel 1947 per The best years of our lives (1946; I migliori anni della nostra vita) e nel 1960 per Ben Hur (1959). Forse per la natura inguaribilmente colta e raffinata del suo cinema, spesso desunto da lavori teatrali o da classici della narrativa, negli ultimi anni della sua vita venne quasi dimenticato, o considerato l'emblema di un gusto sorpassato e di eleganti operazioni mid-cult; nel corso degli anni Settanta ricevette tuttavia gli omaggi di grandi registi allora agli inizi, quali Steven Spielberg, Clint Eastwood e Mike Nichols, oltre al premio alla carriera dell'American Film Institute conferitogli nel 1976.

Della sua origine europea e della sua nascita in una zona di confine W. non si sarebbe mai dimenticato; figlio di Leopold, commerciante svizzero, e di Melanie Auberbach ricevette una raffinata educazione francese. Dopo essersi dimostrato mediocre allievo di una scuola commerciale e commesso poco zelante in un negozio parigino, nel 1920 fu mandato a New York dalla famiglia, presso la Universal dello zio Carl Laemmle, dove si limitò inizialmente a modeste funzioni, lavorando soltanto occasionalmente in produzioni più impegnative. W. si fece subito un'esperienza con i two-reelers, western a due rulli, dirigendone almeno una ventina tra il 1925 e il 1927; dal 1926 gli vennero assegnati anche otto western di metraggio superiore, i cosiddetti blue streakers, di circa un'ora ciascuno, gli uni e gli altri per la maggior parte perduti. Nel 1930 ottenne il suo primo successo personale con il western Hell's heroes (Gli eroi del deserto), da un fortunato racconto di P.B. Kyne, The three godfathers, storia di banditi in fuga nel deserto dopo un colpo in banca, che fra i resti di una carovana sterminata dagli indiani trovano una donna morente e raccolgono il suo bambino. Destinata a innumerevoli e lacrimevoli versioni, questa vicenda nella realizzazione di W. suscitò notevole interesse. Il finale, in cui un solo bandito superstite si trascina stancamente, venne ripreso dal regista in modo ellittico, in una panoramica sulla sabbia del deserto: del protagonista si vedono solo le impronte lasciate sul terreno (soluzione felice per una scelta obbligata in quanto l'interprete, Charles Bickford, aveva abbandonato il set insofferente al perfezionismo del director). Spesso etichettato come regista di melodrammi borghesi di gusto europeo e di women's films, W. in realtà appare a suo agio nel western, tanto che uno dei suoi film più belli è anche uno dei più suggestivi nella storia del genere: The Westerner (1940; L'uomo del West). Ma perché emergesse il suo vero talento fu necessario l'avvento dei talkies, e quindi di un rapporto del tutto nuovo fra teatro e cinema che il regista esplorò magistralmente a partire da Counsellor-at-law (1933; Ritorno alla vita) e These three (1936; La calunnia), tratti rispettivamente da un lavoro teatrale di E. Rice e, sia pure in modo cauto ed edulcorato, da una commedia, audace per quegli anni, di L. Hellman. Anche in questi film le immagini appaiono in modo parziale, angoscioso ed ellittico: W. utilizzò lo schermo cinematografico come anticipazione e possibile rivelazione di quanto si nasconde al di là di esso, inteso come soglia rispetto a un'altra scena nascosta e segreta. Nello studio degli avvocati Simon & Tedesco, dove si svolge tutta l'azione del primo film, si avverte in modo via via piú preciso il dramma dell'America del 1929 colpita dalla crisi, fra scioperi, violenze della polizia e suicidi; nel secondo, che racconta di due insegnanti di una scuola privata per ragazze sospettate ingiustamente di condotta immorale, si intuisce che il film vorrebbe dire di più, che 'qualcosa' viene solo suggerito; il piú fedele ed esplicito remake che W. avrebbe realizzato nei permissivi anni Sessanta (The children's hour, 1961, Quelle due) suscitò minore interesse.

Nel corso degli anni Trenta i rapporti fra il regista e Samuel Goldwyn, con cui aveva firmato un contratto nel 1926, divennero sempre più problematici: fra il 1936 e il 1939, il produttore, oltre a obbligarlo a terminare (e a firmare) un film di Howard Hawks di cui W. era insoddisfatto, Come and get it (1936; Ambizione), e a impedirgli di sfiorare il tema omoerotico in These three, gli impose di girare in studio, invece che sui luoghi dell'azione come il regista avrebbe voluto, sia la versione cinematografica di una commedia aspra e realistica di S. Kingsley ambientata negli slums di New York (Dead end, 1937, Strada sbarrata), sia Wuthering heights (1939; La voce nella tempesta), riduzione del grande romanzo di E. Brontë. In questo film fu inoltre inserito per volontà di Goldwyn un finale che fece inutilmente protestare il regista, con i fantasmi di Heathcliff (Laurence Olivier) e di Catherine (Merle Oberon) che si allontanano fra musiche celestiali. Più proficua fu la collaborazione di W. con il grande operatore Gregg Toland, da cui sarebbero nate inedite suggestioni panfocali e una nuova teoria di "etica della messa in scena" (Bazin 1958; trad. it. 1986², p. 93). Da ricordare inoltre la collaborazione fra W. e Bette Davis, la quale, dopo aver interpretato due ammirevoli film del regista, in cui l'uso dello spazio scenico risulta forse piú suggestivo e originale che mai (Jezebel, 1938, La figlia del vento; The letter, 1940, Ombre malesi), nel 1941 passò temporaneamente dalla Warner Bros. agli studi di Goldwyn per interpretare la spietata Regina in The little foxes (Piccole volpi), fedele riduzione di un polemico dramma della Hellman.La Seconda guerra mondiale, cui pure W. partecipò combattendo, non interruppe la sua carriera, anzi gli offrì l'occasione di ottenere i suoi massimi successi di pubblico e di critica. Oltre a due notevoli documentari realizzati per la sezione fotografica della U.S. Air Force, Memphis Belle (1944) e Thunderbolt (1945), diretto insieme a John Sturges, firmò infatti per la Metro Goldwyn Mayer uno dei film piú amati di quegli anni, Mrs. Miniver, commosso e commovente omaggio alla Gran Bretagna in guerra e alle sue eroiche 'donne in attesa', non senza dover combattere con la produzione, troppo preoccupata del mercato europeo per poter inserire nel film un perfido aviatore nazista catturato dall'indomita eroina e un discorso finale del parrocco del villaggio che incita alla resistenza contro il nemico, e che sarebbe divenuto magna pars della propaganda americana per l'apertura del 'secondo fronte'. Subito dopo la fine della guerra, W. realizzò il suo film piú celebrato e premiato, The best years of our lives, tratto da un breve romanzo in versi di MacK. Kantor sul disagio dei reduci di guerra ritornati in famiglia e alla vita prebellica, e ispirato a una poetica che si potrebbe definire vagamente 'neorealista'. Fra il 1949 e il 1952, lavorando alla Paramount per un produttore meno invadente di Goldwyn, Lester Koenig, W. tornò ai classici e all'epoca fine Ottocento-primo Novecento con The heiress (1949; L'ereditiera), dal romanzo Washington Square di H. James, con Olivia de Havilland, Ralph Richardson e Montgomery Clift, e Carrie (1952; Gli occhi che non sorrisero), ispirato al romanzo di Th. Dreiser Sister Carrie: fra l'uno e l'altro diresse il meno impegnativo Detective story (1951; Pietà per i giusti), da una commedia di Kingsley, ambientato con unità di tempo e di luogo in una stazione di polizia e centrato sulla figura di un funzionario troppo rigido (Kirk Douglas) di fronte a un doloroso dramma familiare. The heiress è un film perfetto, sul piano dell'ambientazione, della progressione drammatica, di una fluida narrazione realizzata quasi tutta in interni, e soprattutto della recitazione, nonostante la realizzazione problematica. Carrie, invece, sebbene ricco di risvolti inediti e interessanti, risentì del clima di sospetto in cui si svolse la lavorazione: la protagonista Ginger Rogers (poi sostituita da Jennifer Jones) si ritirò dichiarando che si trattava di un film comunista. La Paramount così ne bloccò a lungo la distribuzione e la consentì solo dopo aver eliminato alcune scene relative al degrado economico del protagonista (Laurence Olivier) e al suo suicidio finale, approfittando del fatto che il regista si trovava in Italia per girare Roman holiday (1953; Vacanze romane), una vera e felice 'vacanza' nel mondo della commedia che gli consentì di allontanarsi dai dettami della produzione (tanto da poter offrire una collaborazione sia pure ufficiosa a Dalton Trumbo e ad altri sceneggiatori al bando perché accusati di comunismo: un gesto coerente con la coraggiosa battaglia che W. aveva personalmente combattuto per difendere, fin dall'inizio, i colleghi finiti sulle liste nere).

Con la sola eccezione di The collector (1965; Il collezionista), inquietante vicenda di un sequestro di persona tratta da un romanzo di J. Fowles, che a W. concesse inedite variazioni sullo spazio e si tradusse in una moderna e ossessiva metafora del cinema come impotenza dell'erotismo visivo, gli ultimi film del regista, realizzati fra il 1955 e il 1970, spaziano in aree e generi diversi e vengono per lo piú considerati rivisitazioni tardive di formule risapute. The desperate hours (1955; Ore disperate) è un bel poliziesco che diede vita a una serie di imitazioni televisive; Friendly persuasion (1956; La legge del Signore o L'uomo senza fucile) è una piacevole rievocazione del mondo dei quaccheri e del loro pacifismo messo a dura prova dalla guerra di Secessione; The big country (1958; Il grande paese) è un western che contiene una metaforica apologia della non violenza. Del 1959 è il colossale remake di Ben Hur le cui scene migliori non sono però firmate da W. ma appartengono alle seconde unità, dirette da Andrew Marton, Mario Soldati e Yakima Canutt. Seguirono una commedia sulle falsificazioni nel mondo dell'arte (How to steal a million, 1966, Come rubare un milione di dollari e vivere felici) e addirittura un musical, che lanciò Barbra Streisand (Funny girl, 1968). Anche se W. si congedò dal suo pubblico con un film tutt'altro che compiacente sul razzismo nel Sud (The liberation of L.B. Jones, 1970, Il silenzio si paga con la vita), le incursioni nei generi piú collaudati non gli furono perdonate dalla critica, che cancellò o quasi il suo nome dalla storia del cinema. Solo dopo la morte del regista, per iniziativa della figlia Catherine, nel 1986 è stato presentato un bel documentario sulla sua vita e la sua opera firmato da Aviva Slesin (Directed by William Wyler), mentre nel 2002, per il centenario della sua nascita, l'Academy of Motion Pictures, a Los Angeles, gli ha dedicato una commovente serata con la partecipazione dei suoi collaboratori piú famosi.

Bibliografia

A. Bazin, Qu'est-ce que le cinéma?, 1° vol., Paris 1958 (trad. it. parz. Milano 1973, 1986², pp. 92-116).

C. Hanson, William Wyler, in "Cinema" 1967, 5.

A. Madsen, William Wyler, New York 1973.

G. Fink, William Wyler, Firenze 1988.

M.A. Anderegg, William Wyler, Boston 1989.

J. Herman, A talent for trouble: the life of Hollywood's most acclaimed director, William Wyler, New York 1995.

Presso la biblioteca di Theater Arts della University of California at Los Angeles (UCLA) sono consultabili le 36 casse della Wyler Collection, contenenti soggetti, sceneggiature, lettere, recensioni, interviste e materiale pubblicitario.

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