Istituzioni

Nel mondo politico e giornalistico si dice spesso che l’Unione europea si trovi a metà di un guado: da quando è stata introdotta la moneta unica, l’Europa ha lasciato la strada della semplice cooperazione tra gli stati in materia di economia e bilancio senza però raggiungere il traguardo di una unione fiscale federale, restando in una posizione intermedia difficile da mantenere per lungo tempo. La crisi del COVID-19, pur nella sua eccezionalità, ha confermato questa immagine, dimostrando quanto sia cruciale per l’UE, e in particolare per la zona euro, avere a disposizione strumenti non solo di politica monetaria, ma anche di politica fiscale, per poter far fronte a shock economici e riprendere velocemente la crescita economica. Sebbene tra gli economisti esperti di affari UE sia possibile riscontrare un certo consenso sull’importanza di strumenti fiscali comuni per uscire insieme dalle crisi (Bénassy-Quéré, et al., 2018), tra gli stati e le relative classi politiche è in atto, e non da oggi, uno scontro sul percorso da compiere per la costruzione di questi strumenti. Il problema principale che blocca il salto istituzionale dell’eurozona verso un’unione fiscale di carattere federale è come coniugare da una parte l’esigenza di alcuni paesi maggiormente vulnerabili alle crisi economiche di condividere i rischi a livello europeo, e dall’altra la preoccupazione dei paesi con maggiore spazio fiscale di evitare comportamenti di azzardo morale. Questa contrapposizione ha l’effetto di fermare il processo di integrazione europea, indirizzando l’opinione pubblica di uno stato membro su posizioni di ostilità verso gli altri stati, che vengono visti a seconda del caso come cicale o formiche, colombe o falchi, spendaccioni o austeri.

Per poter sciogliere questo nodo, facendo procedere di pari passo la condivisione dei rischi e la disciplina delle finanze pubbliche, occorre riformare il sistema di incentivi agli stati membri per mantenere i conti pubblici in ordine. La situazione attuale prevede, in primis, i criteri di convergenza del Trattato di Maastricht, che richiedono agli stati la cui moneta è l’euro di mantenere un rapporto debito-PIL pari al 60% e un rapporto deficit-PIL al 3% (Articolo 104c; Protocollo sulla procedura di disavanzo eccessivo). Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC), firmato nel 1997 e riformato nel 2005, ha aggiunto la procedura di disavanzo eccessiva, ossia un meccanismo sanzionatorio che serve a costringere gli stati a riportare il livello di deficit ai parametri richiesti, e gli obiettivi di medio termine, ossia valori di deficit che ogni stato deve seguire per assicurare l’impegno a mantenere un livello di debito pubblico sostenibile. Gli stati tuttavia hanno fatto molta fatica ad attenersi a queste regole, violandole ripetutamente (Hansen, 2015), e la crisi dei debiti sovrani ha definitivamente mostrato quanto fosse difficile controllare i livelli dei debiti pubblici tramite gli strumenti del PSC. Per far fronte a questo problema, nel pieno della crisi finanziaria, gli stati membri hanno deciso di rafforzare gli strumenti preventivi e correttivi previsti dal PSC, attribuendo poteri di monitoraggio delle finanze pubbliche alla Commissione, tramite il cosiddetto semestre europeo, che ha allineato le tempistiche delle politiche di bilancio nazionali (Amtenbrink, 2015). Oltre a questo, gli stati hanno inserito nelle proprie costituzioni il principio di equilibrio dei conti pubblici vincolando così sia lo stato centrale che gli enti locali a politiche fiscali responsabili. Queste riforme sono avvenute tra il 2011 e il 2013 con il patto Euro Plus e il Fiscal Compact. Oltre a questi vincoli di carattere giuridico vi sono anche incentivi di mercato: gli stati che ‘sgarrano’ lasciano intendere ai mercati finanziari che non è nel loro interesse assicurare la sostenibilità delle proprie finanze pubbliche, causando un aumento del tasso d’interesse sui propri titoli di debito e aumentando il costo di rifinanziamento dello stesso, un problema che si fa sentire tanto più quanto maggiore è lo stock di debito pubblico. Per quanto riguarda sia i vincoli giuridici che i (dis)incentivi di mercato, non stupisce che l’opinione pubblica dei paesi più indebitati tenda a vedere la stabilità delle finanze pubbliche come una condizione imposta dall’esterno piuttosto che come un bene comune a vantaggio delle generazioni presenti e future.

Per invertire questa narrazione dominante sul debito pubblico e la stabilità dei conti, occorrerebbe sottolineare nel dibattito pubblico quanto le politiche fiscali – da quelle che riguardano i pensionamenti al sostegno ai redditi e le spese fiscali – comportino innanzitutto una redistribuzione di risorse pubbliche tra i cittadini all’interno dei singoli stati, e non invece uno scontro tra regole austere e stati bisognosi. Occorre quindi trovare un modo per re-internalizzare lo scontro politico sulla politica fiscale e mostrare in tutta chiarezza ai cittadini e alle classi politiche nazionali quanto una politica fiscale responsabile sia in primis un interesse fondamentalmente nazionale, prima che una condizione per l’appartenenza a un progetto per il quale si ottengono numerosi benefici. In altre parole, occorre incrementare la ownership nazionale delle regole fiscali europee. L’istituzione che meglio assolverebbe a questo ruolo è quella dei Fiscal Councils, istituzioni pubbliche indipendenti che monitorano le politiche di bilancio degli stati e le cui analisi sono pubblicamente accessibili ai partiti politici e all’opinione pubblica.

I Fiscal Councils sono ufficialmente previsti dalle norme europee in materia di coordinamento delle politiche di bilancio nazionali. La direttiva 2011/85/EU, parte del Six Pack, è il primo documento che chiede agli stati membri di introdurre nel proprio ordinamento un Fiscal Council, prevedendo “il controllo effettivo e tempestivo dell’osservanza delle regole, basato su un’analisi affidabile e indipendente, eseguita da organismi indipendenti od organismi dotati di autonomia funzionale rispetto alle autorità di bilancio degli Stati membri”. Il regolamento 473/2013, parte del Two Pack, norma nei dettagli i Fiscal Councils nazionali degli stati della zona euro. Grazie all’attività normativa dell’Unione europea, i Fiscal Councils si sono moltiplicati sul territorio europeo, tuttavia non tutti svolgono un ruolo di dialogo con l’opinione pubblica tale da aumentare effettivamente l’ownership delle regole, a causa della diffidenza da parte della classe politica e amministrativa (Balassone, Franco, & Goretti, 2013) e della frammentazione dei modelli istituzionali.

Il caso di Fiscal Council di maggior successo è quello dell’Olanda, ossia il Centraal Planbureau (CPB), il Fiscal Council più antico e autorevole del mondo, fondato nel 1945. Il CPB è uno degli unici Fiscal Council che calcola il costo dei programmi elettorali dei partiti durante le campagne elettorali e contribuisce costruttivamente e imparzialmente al confronto tra i candidati. L’opinione pubblica olandese vede nel CPB un’istituzione che aiuta a scegliere il partito che meglio usufruisce della ricchezza pubblica tramite informazioni indipendenti e di qualità. Per queste ragioni, il CPB è considerato come un caso di estremo successo (Bos & Teulings, 2013), le cui prerogative vanno ben oltre i requisiti derivanti dalle normative UE.

Il Fiscal Council italiano, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), è stato introdotto in seguito all’approvazione della legge costituzionale 1/2012. Si tratta quindi di un’istituzione molto più recente rispetto al caso olandese. L’UPB ha ricevuto una forte attenzione mediatica solo nell’autunno 2018, quando nel caso delle politiche fiscali proposte dal governo Conte I – ossia ‘reddito di cittadinanza’ e ‘quota 100’ – ha inviato una lettera al Ministero dell’Economia e delle Finanze non validando le previsioni di finanza pubblica relative. L’apparizione mediatica dell’UPB è tuttavia limitata a questo episodio. Nonostante l’UPB svolga un ruolo eccezionale a servizio del parlamento nell’analisi delle politiche fiscali, come dimostra la recente audizione parlamentare relativa al DL Rilancio, esso non ha ancora raggiunto un pieno riconoscimento da parte dell’opinione pubblica italiana. L’aumento della ownership nazionale delle regole fiscali con un maggior coinvolgimento dei Fiscal Councils nel dibattito pubblico potrebbe avere il duplice beneficio da un lato di rendere più consapevole l’opinione pubblica, e quindi invertire la narrazione del conflitto creditori-debitori, e dall’altro di responsabilizzare la classe politica, rimediando alla crisi di fiducia reciproca che si è creata con la crisi dell’eurozona (Bastasin, 2012) e non si è ancora risolta. Per questa ragione, i Fiscal Councils possono giocare un ruolo di primo piano nell’evoluzione istituzionale dell’Unione europea, consentendo agli stati membri di portare l’Unione un po’ più al di là del guado, verso la realizzazione di una piena unione fiscale.

Immagine: Crossing the Ford, Crediti: Jan Siberechts (commons.wikimedia.org) CC-PD-1.0

Bibliografia

Amtenbrink, F. (2015), “The Metamorphosis of European Economic and Monetary Union”, in Chalmers, D. & Arnull, A., The Oxford Handbook of European Union Law, Oxford: Oxford University Press, pp. 719- 58.

Balassone, F., Franco, D., & Goretti, C. (2013), “Italy: What Role for an Independent Fiscal Institution?”, in Kopits G., Restoring Public Debt Sustainability: The Role of Independent Fiscal, Oxford: Oxford University Press, pp. 250-69.

Bastasin, C. (2012), Saving Europe: Anatomy of a Dream, Washington DC: Brookings Institution Press.

Bénassy-Quéré, A., Brunnermeier, M., Enderlein, H., Farhi, E., Fratzscher, M., Fuest, C., . . . Zettelmeyer, J. (2018), Reconciling risk sharing with market discipline: A constructive approach to euro area reform, Centre for Economic Policy Research: https://www.bruegel.org/wp-content/uploads/2018/01/PolicyInsight_91.pdf.

Bos, F., & Teulings, C. (2013), “Netherlands: Fostering Consensus on Fiscal Policy”, in Kopits G., Restoring Public Debt Sustainability: The Role of Independent Fiscal Institutions, Oxford: Oxford University Press, pp. 121-47.

Hansen, M. (2015), “Explaining deviations from the Stability and Growth Pact: power, ideology, economic need or diffusion?”, in Journal of Public Policy 35/3, pp.477-504.

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