Istituzioni

Adam Przeworski è professore in political science alla New York University, accademico di fama internazionale. Il suo libro “Perché disturbarsi a votare” è uscito nella versione italiana nel 2018, edito da Università Bocconi Editore. L'intevista è a cura di Lorenzo Mesini.

Professore, oggi molte persone non sono soddisfatte della democrazia per tante ragioni. Nel suo libro dimostra che le elezioni competitive sono il sistema migliore per risolvere i conflitti in maniera pacifica. Lei definisce il suo approccio alla democrazia come un approccio minimalista, churchilliano. Ci può spiegare meglio quali sono le principali caratteristiche di questo approccio churchilliano alla democrazia?

La caratteristica più importante del mio approccio è che la democrazia è pensata come un sistema fondato su elezioni, dove il governo in carica può perdere. Molte persone cercano di aggiungere qualcosa a questa definizione minimalista. Ad esempio, il mio collega e amico Pasquale Pasquino aggiungerebbe lo stato di diritto. Pierre Rosanvallon parla in modo generale di costituzionalismo. Nella concezione minimalista le elezioni sono caratterizzanti, e solo in seguito si cerca di investigare se tali altre caratteristiche, come il sistema giudiziario o il costituzionalismo, procedono di pari passo con le elezioni e sotto quali condizioni.

Oggi, in molti paesi occidentali tante persone sono scontente con la democrazia. Questo sentimento è spesso collegato a fattori economici come la stagnazione dei salari e un tasso di disoccupazione molto alto, specialmente in Europa. In questo contesto molte persone pensano che i loro figli non avranno un futuro migliore di quello che loro hanno avuto. Come lei sottolinea nel suo libro, queste dinamiche rappresentano un grande cambiamento nelle aspettative delle persone. Ecco, in che modo le diseguaglianze economiche e la disoccupazione rappresentano, se così si può dire, una minaccia per i sistemi democratici?

Io credo che rappresenti un pericolo. Ciò che sta alla base dello scontento a cui assistiamo oggi sono fenomeni di natura economica o sociale più che questioni politiche in senso stretto. Le persone vogliono governi che si impegnino a migliorare le loro condizioni di vita, è sempre stato così. Credo che ciò che è nuovo sia il fatto che le persone credano che le istituzioni rappresentative, che in certi stati sono state ereditate da secoli di tradizione, non funzionino molto bene. Lasciatemi dire che trovo contraddittorio che molte persone si lamentino delle ineguaglianze e allo stesso momento del populismo, perché se in un sistema che dovrebbe essere rappresentativo abbiamo diseguaglianze persistenti, o addirittura crescenti, c’è sicuramente qualcosa che non va con le istituzioni rappresentative. Ecco perché abbiamo tutti questi movimenti che aspirano a rendere la democrazia più diretta, più immediata, più attenta in qualche modo alla voce del popolo. Dove questo andrà a finire, non proverò a predirlo.

Pensa che le questioni economiche hanno giocato un ruolo importante nelle scorse elezioni europee?

Sì, certamente, ma le questioni economiche sono davvero complesse. Abbiamo infatti avuto la disoccupazione, pure con tassi elevati, anche in passato. Le persone vedono che hanno redditi insufficienti, ma la maggior parte delle volte essi sono più ricchi di quanto lo sono stati i propri genitori alla medesima età. Quindi credo che i fattori economici non siano sufficientemente adatti. Vedo che qualcosa di strano sta accadendo e non siamo in grado di capirlo. Questo fatto è che la distribuzione geografica dei fattori economici sta giocando un ruolo. Questo lo posso dire della Francia, dove ho trascorso molti anni, e degli Stati Uniti – purtroppo non conosco altrettanto bene la situazione italiana. E io credo che quello che scopriamo in questi e in molti altri paesi sia che spesso i movimenti populisti sono nati nelle aree dei paesi che sono morte, penso ad esempio alle città piccole. Le persone erano abituate a lasciar andare a piedi a scuola i propri figli, ora devono accompagnarli in auto e ci mettono venti minuti. Un tempo si recavano al panettiere di paese vicino a casa e adesso devono andare in macchina al supermercato. Se si guarda agli studi sui comportamenti elettorali e sugli atteggiamenti politici, si scopre che sono queste persone a essere più suscettibili a rivolgersi verso le destre.

Dopo l’elezione di Donald Trump, la Brexit e la nascita di molti partiti anti-establishment in Europa, molti giornalisti e politici parlano di crisi della democrazia. Tutt’ora è un tema al centro del dibattito politico e giornalistico. Lei invece nel suo libro mostra un certo scetticismo nei confronti di questo concetto di crisi della democrazia. Ecco, dal suo punto di vista minimalista, churchilliano, è possibile descrivere oggi i cambiamenti in corso nella democrazia come una crisi piuttosto che come una trasformazione?

Non si può ancora sapere. In realtà il mio punto di partenza per pensare le crisi è Gramsci, quando dice che tutto quello che conosciamo è morto, il nuovo deve ancora emergere e nel frattempo si verificano sintomi preoccupanti. Io credo che siamo esattamente in questa fase di transizione. Il sistema democratico probabilmente non sta funzionando e al contempo vedo che tutte le alternative che vengono proposte nell’orizzonte politico non sono soluzioni ma solo dei palliativi. Io non credo che la democrazia stia morendo. Siamo senza dubbio in una crisi, ma questo non significa che la democrazia sta morendo. In passato siamo passati attraverso diverse crisi e delle soluzioni sono state trovate. Questo è quello che possiamo dire al momento.

Tornando all’Europa, lei crede che oggi, in futuro, ci sia una qualche possibilità di risolvere i problemi della democrazia sul livello europeo, sovranazionale invece che nazionale?

Io non credo che l’Unione Europea stia per diventare sovrana. Eppure, nello stesso momento, non credo che l’Unione sia destinata a disintegrarsi, anche se gli inglesi si sono comportati come idioti, il che dimostra che uscire dall’Europa non è una soluzione. In fin dei conti, credo che questa resti una situazione estremamente complessa destinata a restare tale. Le persone sono ovviamente insoddisfatte con Bruxelles, perché credono che sia lontana, ma sono ugualmente insoddisfatti con i governi nazionali per lo stesso motivo e con i governi regionali perché non riescono a erogare servizi pubblici adeguati. Quindi non credo che ci sia uno scontro tra Europa e stati o tra stati e regioni.

Per giungere infine all’argomento del suo libro, votare è ancora importante?

Se non si vota, come si potranno risolvere i conflitti? Quali altri meccanismi abbiamo a disposizione? Abbiamo le corti e abbiamo quel poco che rimane delle contrattazioni collettive, perché i sindacati si sono molto indeboliti. Se non proviamo a risolvere i conflitti con le persone, l’unico luogo per risolvere i conflitti è combatterli violentemente nelle strade. Per questo dico sì, votare è ancora fondamentale.

Immagine: "Candidate List at Rome Polling Station" (4 marzo 2018). Crediti: OSCE Parliamentary Assembly, Creative Commons Attribution 2.0 Generic.

Bibliografia

Przeworski, A. (2018), Perché disturbarsi a votare? Università Bocconi Editore : Milano

Rosanvallon, P. e Moyn S. (2006), Democracy past and Future, Columbia University Press : New York

Pasquino, P. (2012), "Introduction to the Articles On Rule of Law and Divided Power." Justice System Journal, 33.2, pp. 131-35

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