Istituzioni

**Recensione a Barberis, M. (2017), Non c’è libertà senza sicurezza. Il fallimento delle politiche antiterrorismo, Il Mulino
**

«Il tema è la parola sicurezza… Posso chiedervi una cosa semplicissima? Non lasciate mai e poi mai questa parola, sicurezza, agli altri!». Inizia così il teaser del programma televisivo del comico Maurizio Crozza, che nel video rilasciato ai primi di settembre 2017 ha impersonato la figura del ministro dell’Interno Marco Minniti con l’intento di presentarne un ritratto corrosivamente satirico; quest’ultimo, infatti, è balzato agli onori della cronaca politica dopo un’estate in cui il tema della sicurezza (genericamente intesa) ha occupato buona parte dello spazio di discussione pubblica. Proprio Minniti si è rivelato abile nel presentarsi come un ministro attento ai temi della sicurezza pubblica, sostenendo addirittura di aver scongiurato – a suo dire – il rischio per la tenuta democratica del Paese in seguito alle proteste di alcuni sindaci sulle ricollocazioni di alcune migliaia di migranti e profughi (1).

Dichiarazioni di Minniti a parte, il comico genovese ha colto con una battuta calzante come il tema della sicurezza costituisca una delle questioni più spinose e controverse del presente in ragione della difficoltà di tradurre in concreto delle politiche di sicurezza, che risultino al contempo efficaci, convincenti e rispettose delle garanzie individuali. Si tratta, infatti, della difficoltà di trovare un equilibrio nella immaginaria bilancia tra sicurezza e libertà, due principi fondamentali dello Stato di diritto, cui però andrebbe forse aggiunto un terzo elemento altrettanto essenziale come il consenso politico.

Ad aver affrontato con rigore accademico il problema del rapporto tra i due principi senza nascondere il proprio orientamento da giurista e intellettuale liberal, è stato Mauro Barberis, docente di Filosofia del diritto all’Università di Trieste, con un agile volume uscito nella collana «Saggi» della casa editrice bolognese Il Mulino nella primavera del 2017. Il saggio, frutto di una riflessione avviata dallo stesso Barberis almeno dalla fine del 2015 in seguito agli attentati di Parigi (Barberis, 2016), spicca all’interno del dibattito pubblico italiano come uno dei pochi interventi – al di fuori dell’ambito accademico – capaci di affrontare senza allarmismi e sensazionalismi, ma con una buona dose di lucidità e rigore, la spinosa questione del bilanciamento fra sicurezza e libertà in merito ad un aspetto tanto controverso come le politiche di contrasto al fenomeno terroristico.

In Italia, invero, non sembra esserci un dibattito pubblico paragonabile a quello statunitense o francese intorno alla repressione del terrorismo internazionale; nonostante questa scarsa attenzione sia in parte comprensibile per l’assenza di violenti atti terroristici come in altri paesi europei o nordamericani, l’Italia ha tuttavia inserito nel suo ordinamento misure di contrasto al terrorismo già nel 2001, ancora nel 2005 con il «decreto Pisanu» e di nuovo nel biennio 2015-2016 con ulteriori atti normativi, seguendo così un trend comune ad altri paesi e facilmente riconoscibile per la coincidenza con i più importanti attentati dell’ultimo quindicennio.

Collocata all’interno del quadro qui sommariamente descritto, la riflessione di Barberis parte da ciò che definisce senza mezzi termini la «bancarotta delle politiche securitarie adottate dall’Occidente dopo l’Undici Settembre» (p. 7), ossia la totale inefficacia delle misure draconiane e delle pratiche talvolta disumane messe in atto dagli Stati per contrastare il fenomeno terroristico. Barberis parte dal seguente interrogativo: «se la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata al fine di aumentare la sicurezza […] perché le si prende ugualmente?» (p. 8); con questo interrogativo, l’a. intende inoltre sviluppare il triplice obiettivo della sua trattazione: fornire strumenti di analisi delle dinamiche libertà\sicurezza e terrorismo\antiterrorismo; criticare le politiche standard della sicurezza per la loro inutilità e inadeguatezza rispetto ai principi fondamentali del diritto; infine, demistificare e disincantare gli «idoli della sicurezza».

Partendo da queste premesse, l’a. affronta una serie di questioni teoriche, storiche e giuridiche intorno al rapporto tra libertà e sicurezza. Dapprima analizza, forse con troppa disinvoltura, come si è venuto articolando il rapporto tra la libertas e la _securitas_dall’antica Grecia fino ai pensatori agli albori della modernità come Machiavelli, Hobbes e Locke.

Il quadro dipinto dall’a. fa emergere come la sicurezza non costituisse un valore così fondamentale per gli antichi almeno fino all’età augustea e che solo con la modernità si sia tentato di coniugare questa con la libertà, ponendole alla pari. Proprio la teoria hobbesiana per prima avrebbe concepito la libertà nei termini della sicurezza collettiva, mentre sarebbe stato Locke a conferivi un carattere marcatamente individuale fondando su di essa anche il diritto di resistenza; a coniugare però in maniera compiuta i due termini sarebbe stato nel De l’esprit des lois (1748) Montesquieu, laddove affermava che la libertà politica consisteva nella certezza della propria sicurezza, sintetizzando così l’oggettiva incolumità (safety) con la fiducia soggettiva in essa (certainty) fino a garantire al singolo la certezza di chi, delegata la sicurezza allo Stato, possa liberamente pianificare la sua vita (security). Ribadito da Adam Smith, Benjamin Constant e Jeremy Bentham, il nesso istituito tra libertà e sicurezza sarebbe stato riproposto nei principali testi costituzionali settecenteschi, i quali però si sarebbero presto rivelati la sede del bilanciamento tra principi fra loro confliggenti. Da qui sarebbe sorto il presunto paradosso, sottolineato da Michel Foucault, per cui gli Stati otto-novecenteschi, pur dichiarandosi liberali e costituzionali, avrebbero rafforzato a dismisura istituzioni repressive per la garanzia dell’ordine pubblico e la tutela dell’autoregolazione del mercato; per l’a., però, questa «duplicità» del liberalismo sarebbe stata fondamentale anche per la tutela della sicurezza «sociale» tramite le politiche di welfare e di intervento statale (pp. 11-30).

Concluso questo excursus storico-teorico, l’a. dedica i capitoli centrali del saggio ad esporre dapprima i contenuti salienti delle teorie sul pluralismo di valori e sul nuovo costituzionalismo novecentesco (pp. 31-53). In secondo luogo, l’a. parla dei rischi di una governance che sfugga ai controlli giuridici e politici in ragione dell’emergenza che dovrebbe fronteggiare; le derive istituzionali, politiche e giuridiche all’indomani dell’Undici Settembre, infatti, avrebbero inciso in maniera duratura sull’agire dei governi occidentali, conferendo poteri talora illimitati e privi di qualsiasi forma di controllo, in primo luogo giudiziario. L’a. si rifà peraltro ad un dibattito molto acceso negli Usa, criticando in particolare le tesi del filosofo Jeremy Waldron (Waldron, 2010) che, a suo dire, si limiterebbe a proporre rimedi politici contro la deriva securitaria dei governi senza tuttavia prendere adeguatamente in considerazione l’uso di strumenti giudiziari, come invece aveva fatto nel 2005 il giurista Michael Rosenfeld (pp. 55-81)(Rosenfeld, 2005).

A questo punto, la riflessione dell’a. giunge al suo risvolto più originale e interessante, ossia il tentativo di elaborare una risposta al dilemma sul bilanciamento tra libertà e sicurezza. Per farlo, l’a. insiste sulla molteplicità dei significati della parola sicurezza, la quale possiede almeno tre possibili declinazioni e di cui solo una costituisce il terreno su cui l’a. interviene per offrire una soluzione al dilemma del bilanciamento.

In primo luogo, ci sarebbe la sicurezza intesa come diritto individuale, che tenderebbe a coincidere con la libertà-sicurezza teorizzata dai pensatori come Locke e Montesquieu, la quale sarebbe una sorta di «intersezione» (p. 90) degli altri diritti politici, civili, sociali e più in generale collettivi.

Secondariamente, ci sarebbe la sicurezza sociale la quale, pur presentando una serie di analogie con il suo terzo significato, risulterebbe in parte estranea al problema del bilanciamento.

Infine il terzo significato, cioè «la sicurezza pubblica-nazionale, o sicurezza per antonomasia» (p. 96), un bene pubblico o collettivo che entra più facilmente in conflitto con la libertà individuale costituendo così il caso paradigmatico dei bilanciamenti fra libertà e sicurezza. Quest’ultimo significato pone innanzitutto la domanda preliminare se sia possibile sottoporre la sicurezza ad una verifica di natura giudiziaria come il controllo di proporzionalità o se si tratti invece di questioni al di sopra del diritto stesso; per l’a. si tratterebbe del trilemma della sicurezza per cui esisterebbero tre risposte diverse.

La prima si riassumerebbe nella formula ciceroniana secondo cui salus reipublicae suprema lex esto (aggiornata poi con altre teorie più articolate ma convergenti, dal Medioevo sino a Carl Schmitt) che pertanto escluderebbe l’intera materia della sicurezza nazionale dall’ambito giuridico.

La seconda, seppur molto vicina alla prima, consisterebbe nel dare sì rilevanza giuridico-costituzionale alla sicurezza collettiva, ma al punto da farne il principio supremo prevalente sopra ogni altro e dunque incommensurabile.

La terza, infine, si porrebbe in linea con il pluralismo di valori e dunque accetterebbe l’idea che la sicurezza nazionale possa e debba essere valutata e bilanciata con altri principi supremi, come quello della libertà, i quali sarebbero ugualmente fondativi dell’ordinamento costituzionale (pp. 83-101).

Proprio ispirandosi a quest’ultima teoria, l’a. fornisce un esempio di analisi di tre casi abbastanza celebri nella giurisprudenza internazionale (Arar, El-Masri e Abu Omar) sul bilanciamento tra sicurezza e libertà, chiedendosi se essi abbiano rispettato i criteri di adeguatezza, necessità e proporzionalità. La risposta è in tutti e tre casi negativa con la conclusione che, lungi dal garantire una sicurezza maggiore, le politiche antiterrorismo hanno aumentato «la pubblica _in_sicurezza» (p. 105) incrinando la sicurezza individuale e la stessa percezione soggettiva di essa: «la violazione concreta dei diritti individuali, in casi come quelli considerati, è certa, mentre la probabilità della tutela astratta della sicurezza collettiva resta aleatoria, e comunque non solo non aumenta ma può anche diminuire» (pp. 105-106).

Questo conduce l’a. a tracciare le conclusioni del suo ragionamento. Lo «stupidario securitario» (p. 108), adottato dai governi per contrastare le minacce collettive, sarebbe foriero di una serie di fallacie puntualmente elencate da Barberis.

La prima consisterebbe nella deliberata confusione tra sicurezza pubblica e individuale, la quale produrrebbe conseguenze palesemente irrazionali nei comportamenti individuali e collettivi.

La seconda si fonderebbe sull’assunzione che le misure securitarie ledano soltanto le libertà dei potenziali terroristi e non quelle dei comuni cittadini, mentre indagini più puntuali mostrerebbero come tutti i cittadini siano a vario titolo coinvolti da queste misure e soprattutto che esistano minoranze chirurgicamente colpite dalla repressione principalmente su base etnica o religiosa.

La terza, infine, sosterebbe l’ineluttabilità del sacrificio della libertà ai fini della sicurezza, laddove invece solo una parte di questi immolazioni risulta effettivamente utile (es. controlli doganali o nel trasporto aereo) a fronte di molte misure inutili (es. accumulazione dei dati sui frequentatori di biblioteche o i controlli sui dissidenti non-terroristi) o controproducenti (es. arresti di migliaia di musulmani dopo l’Undici Settembre 2001 negli Usa). Si tratterebbe dunque di una sorta di finzione teatrale (p. 112), per lo più inutile sul piano concreto e all’apparenza irrazionale, la quale però trova una risposta se si volge l’attenzione verso un’altra dimensione della questione.

Da quanto detto si potrebbe, infatti, sostenere molto provocatoriamente che le democrazie liberali «non dovrebbero reagire alla sfida del terrore, ma solo aspettare che la marea si ritiri» (p. 124), ma lo stesso a. riconosce che nessun governante potrebbe mai prendere questa decisione anche se consapevole della inutilità della maggior parte delle misure antiterrorismo. Ciò spinge l’a. a raccomandare, per quanto possibile, di emanare una legislazione che rispetti i controlli di proporzionalità per via giudiziaria e si attenga ai principi fondamentali dello Stato di diritto, seguendo un «sano conservatorismo garantista» (p. 126) come suggerito da Luigi Ferrajoli.

Resta però insoluto il problema della comprensione delle ragioni per cui gli Stati e la politica siano costretti ad emanare una legislazione del genere. La risposta si articolerebbe su più livelli.

A prima vista, si potrebbe seguire le motivazioni esplicite degli attori in questione che si appellano a valori come sicurezza, ordine pubblico o pace sociale, i quali però sarebbero solo armi retoriche all’interno del dibattito pubblico. Si passerebbe pertanto ad un livello più profondo, in cui le motivazioni implicite, non dichiarate e inconfessabili dei governanti avrebbero a che fare con il consenso politico o gli intrecci con le imprese belliche o della sicurezza. Ci si potrebbe in fondo fermare a questo punto dell’analisi, avendo raggiunto un livello sufficiente di comprensione, ma l’a. non si accontenta e riconosce l’esistenza di un terzo livello che ha a che fare con la sfera più remota, ancestrale e simbolica dell’agire umano; dall’analisi del lessico securitario, in cui compaiono espressioni come «sacrificare sull’altare della sicurezza» (p. 129), risulterebbe chiaro che le forme più irrazionali dell’antiterrorismo sarebbero «riti e miti di accompagnamento che esprimono pulsioni ataviche» (ivi) che si fonderebbero sul meccanismo del sacrificio rituale di capri espiatori funzionali alle esigenze della comunità, come indagato dall’antropologo francese da René Girard (Girard, 1987).

Uno dei meriti principali della riflessione di Barberis consiste nella capacità di affrontare un tema spinoso e confuso, dissipando molte incertezze e chiarendo alcuni nodi problematici intorno ai concetti di libertà e sicurezza. Il saggio dimostra inoltre di sapersi destreggiare all’interno di una letteratura molto copiosa nel dibattito internazionale, da cui gli sono giunti contributi e riflessioni provenienti da varie discipline oltre al diritto; proprio la capacità di tenere insieme una rigorosa trattazione giuridica, molto attenta peraltro ai risvolti giudiziari dell’ultimo quindicennio, con riflessioni di natura filosofica o antropologica mostra la ricchezza degli spunti e l’ampiezza del ragionamento condotto da Barberis.

Non mancano tuttavia dei limiti nella sua ricostruzione. In particolare, manca una riflessione più attenta e puntuale sulle modalità con cui gli Stati moderni si siano confrontati sul tema del bilanciamento libertà\sicurezza; affermazioni talvolta troppo semplicistiche su alcune dinamiche istituzionali di lungo periodo (es. rapporto esecutivo-legislativo) si accompagnano ad una scarsa profondità storica su alcuni momenti salienti del rapporto tra sicurezza e libertà in tema di terrorismo nel corso dell’età contemporanea, come gli anni Settanta in Italia o in Germania; un confronto con quelle stagioni e le soluzioni adottate allora risulterebbe molto stimolante e interessante per chiarire più precisamente le dinamiche che interessano la risoluzione di dilemmi analoghi a quelli odierni. È evidente, infatti, che nel corso dell’età contemporanea le politiche di contrasto al terrorismo o ad altre gravi minacce per l’ordine pubblico sono state molteplici e con variazioni notevoli in base all’epoca ed agli Stati, oscillando tra politiche più garantiste ed altre meno rispettose della tutela individuale; una ricognizione storica potrebbe inoltre rispondere all’interrogativo sulla loro efficacia o meno nel tutelare l’oggettiva sicurezza dei cittadini.

Risulta poi poco approfondito il rapporto che si instaura con un terzo elemento egualmente fondamentale del bilanciamento libertà\sicurezza, ossia il complesso il rapporto tra l’opinione pubblica e i decisori politici. Questo costituisce probabilmente un polo altrettanto decisivo per l’equilibrio fra libertà e sicurezza in ragione dell’influenza che l’opinione pubblica e gli attori a vari livelli all’interno di essa (gruppi politici, intellettuali, media, accademici…) hanno esercitato sulle scelte politiche in materia di tutela dell’ordine pubblico e delle garanzie individuali; tale rapporto, infatti, non si esaurisce nella semplice ricerca del consenso dell’elettorato da parte della politica, come invece sembra emergere dal libro di Barberis, ma possiede una complessità ben maggiore. Del resto, lo stesso saggio in questione è un tentativo consapevole di orientare il dibattito pubblico e provare anche ad influenzare le decisioni politiche; è uno sforzo compiuto con la piena coscienza da parte dell’a. di essere giurista e intellettuale, ossia in grado (o, forse, con la pretesa) di dirigere l’opinione pubblica con i suoi strumenti tecnici e retorici. Il caso di Barberis è oltretutto di estremo interesse per fare luce sul ruolo giocato dai giuristi, i quali incarnano spesso il duplice ruolo di tecnici del diritto e al contempo opinion makers, capaci pertanto di presentarsi quali mediatori privilegiati del rapporto tra l’opinione pubblica e le istituzioni.

Cionondimeno, nella trattazione di Barberis il complesso rapporto tra la sfera pubblica e l’oscillazione del pendolo tra libertà e sicurezza risulta troppo stereotipato, generico e complessivamente carente, laddove invece sarebbe stato istruttivo scendere più in profondità in una dinamica tanto determinante per l’equilibrio della bilancia dei due principi.

Analogamente, risulterebbe necessaria una maggiore storicizzazione dei termini stessi di libertà e sicurezza, che vada oltre l’elaborazione teorica condotta da alcuni pensatori politici e che si misuri con le concrete situazioni in cui i concetti di libertà e sicurezza sono stati declinati. Questi due principi hanno ovviamente avuto significati e interpretazioni diversi a seconda dei diversi frangenti storici, risentendo del mutevole rapporto intercorso tra l’individuo e la comunità. A titolo esemplificativo basti pensare alle differenti modalità con cui la libertà dell’individuo e la sicurezza collettiva sono state poste in relazione al diritto proprietà nel corso dei secoli XVIII-XX: da garanzia fondamentale della libertà del singolo secondo una lettura lockiana sette-ottocentesca a diritto dipendente dall’appartenenza ad una determinata comunità politica, nazionale o etnica nel corso del Novecento, la proprietà ha finito per traghettare dalla sfera di tutela individuale a materia della sicurezza collettiva.

In definitiva, il saggio di Barberis costituisce un ottimo punto di partenza per riflettere sul nesso fra libertà individuale e sicurezza collettiva e sulle politiche messe in campo per trovare un equilibrio, a patto però di rivolgere lo sguardo ad analoghe situazioni del passato per comprenderne appieno le complesse dinamiche e forse trovare spunti per soluzioni più convincenti rispetto a quelle offerte dal presente.

Immagine: Camp Delta di Guantanamo. Crediti: en.wikipedia.org. Licenza Creative Commons: pubblico dominio.

Bibliografia

M. Barberis, Liberté, égalité, sécurité. Gli equivoci della guerra al terrore, Bologna, «Il Mulino», 2016, n. 4, pp. 565-577

R. Girard, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 19872

M. Rosenfeld, Judicial Balancing in Times of Stress: Comparing Diverse Approaches to the War on Terror, in Cardozo Legal Studies Research Paper No. 119, 2005

J. Waldron, Torture, Terror, and Trade-Offs: Philosophy for the White House, Oxford, OUP, 2010

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Libertà; sicurezza; terrorismo.