**Pensiero politico
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Associare al concetto di intransigenza la vicenda del Partito d’Azione (Pd’A), dalle sue origini nell’estate del 1942 allo scioglimento del 1947, non è certo una novità: la tradizione storiografica ha riconosciuto questa attitudine tanto nell’opposizione al fascismo, quanto nella scelta repubblicana e nelle vicende del dopoguerra (Belardelli, 1993: pp. 239-249). L’obiettivo di questo contributo è mostrare l’esistenza tra gli azionisti di un’intransigenza morale di fondo che, unita a una concezione etica della politica, sottende a tutte le manifestazioni particolari del loro agire, per infine coglierne gli aspetti che possono essere un lascito per il presente. D’altra parte, sono gli azionisti stessi a rivendicare spesso questo tipo di approccio: nel 1943, ad esempio, Carlo Ludovico Ragghianti pubblica sulle pagine del periodico toscano del Pd’A La libertà un articolo dal titolo Intransigenza, in cui definisce tale caratteristica come opposizione «all’opportunismo e al politicantismo di qualsiasi colore, riconoscendo in questi una delle cause della malattia morale e politica che ha portato alla decadenza civile dell’Italia» (Ragghianti, 1943: 5 dicembre). La tensione morale del Pd’A non implica però, lo chiarisco da subito, che essi sostenessero la tesi di uno Stato etico che incarna e crea la moralità, che anzi respingevano; al contrario, ritenevano che si dovesse prima diffondere tra gli italiani una coscienza civile basata su solidi principi morali per poi ricostruire lo Stato e la democrazia. Scrive ad esempio uno dei fondatori del Pd’A, Guido De Ruggiero, sulle pagine della Nuova Europa, in un articolo significativamente intitolato La crisi morale, che «la reintegrazione della sanità morale del paese è la condizione primaria di ogni ripresa di vita e di attività» (De Ruggiero, 1945: 8 aprile).

Ci si potrebbe quindi interrogare intorno alle origini di quest’attenzione alla moralità; esse saranno da ricercare nei riferimenti politici e culturali del gruppo (Valiani, 1984). Innanzi tutto, la concezione rosselliana del socialismo come rivoluzione prima morale e poi materiale (e d’altra parte, dalle file di Giustizia e Libertà confluirono al Pd’A molti militanti) e la riflessione gobettiana che insiste proprio sull’intransigenza necessaria per una rivoluzione liberale anti-fascista; vi è poi il modello di Giovanni Amendola, che evidenzia la necessità di un’uscita dalla crisi morale italiana sotto il fascismo; vi confluisce, infine, il pensiero del liberalsocialismo, nel cui Manifesto già si ribadisce l’inscindibilità di etica e politica e che tematizza anche l’esigenza di una rigenerazione morale, sebbene in termini riformistici e non rivoluzionari, come Amendola stesso ma a differenza di Rosselli e Gobetti.

Tali riferimenti influiscono anche sul giudizio azionista intorno alla recente storia d’Italia; in particolare è gobettiana la concezione del fascismo come crisi di coscienza totale della società italiana, rispetto alla quale esso non ha rappresentato una svolta improvvisa imposta dall’alto, ma il prodotto naturale di quello che è considerato il carattere storico degli italiani: individualista, conformista, opportunista e indifferente ai problemi politici. La convinzione della continuità della storia italiana data dal costante riproporsi di queste caratteristiche identitarie, che il fascismo ha solo reso evidenti, non implica però che gli azionisti non riconoscano nel passato dei modelli positivi da tenere presenti per la ricostruzione attuale dell’Italia. C’era stato, infatti, un Risorgimento che aveva cercato di operare una trasformazione intima della vita italiana e che andava quindi recuperato. A questo proposito, ad esempio, già nel 1935 Franco Venturi, che poi avrebbe aderito al Pd’A, scrive su Giustizia e Libertà incitando a «vedere ciò che negli ideali e negli uomini del Risorgimento può essere ancora animatore» e a «sentire il valore morale che ebbe una formula quale quella dell’Unità» (Venturi, 1935: 5 aprile).

Rispetto a un passato senza soluzione di continuità, per gli azionisti si pone però come netta cesura l’esperienza della Resistenza. Non solo insurrezione militare, la Resistenza è interpretata dagli azionisti che vi prendono parte come sollevazione morale che avrebbe portato a una rivoluzione democratica, indicata ad esempio da Dante Livio Bianco come obiettivo ultimo delle formazioni GL in un articolo del dicembre 1945 pubblicato su Mercurio (Bianco, 1945: pp. 190-195). La Resistenza è per gli azionisti l’occasione storica di tradurre per la prima volta l’imperativo morale che li guida in azioni (De Luna, 1984); a conferma del fatto che non si possa considerare il loro approccio intransigente e moralistico puramente astratto. Esso, forse, è spesso risultato tale negli effettivi eventi del dopoguerra e soprattutto con il governo Parri, ma nelle intenzioni questo metodo, lungi dall’essere solo intellettualistico, è inteso come funzionale a una concreta volontà di intervento. Gli azionisti ritengono, cioè, che non si possa operare nell’immediata contingenza senza un forte principio morale che informi tutto l’agire successivo. Né manca, tuttavia, e anzi predomina spesso sull’azione a breve termine, una visione di lungo periodo. Scrive nel gennaio 1945 sull’Acropoli lo storico Adolfo Omodeo, iscritto al Pd’A: «Occorre […] ravvivare la coscienza positiva della politica, come di dovere civico inderogabile, come di controllo incessante di idee e di prassi, proposito insomma d’influire e d’agire, sia pure a scadenza non sempre prossima, sulle sorti del paese» (Omodeo, 1945: pp. 7-11). Gli azionisti ritengono dunque di avere sì di fronte a sé l’opportunità di intervenire radicalmente sulla società italiana e guidarla verso una salda coscienza politica e civile, ma nella consapevolezza che un processo di questa portata richiede lunghi periodi di tempo.

È proprio in questa fase resistenziale di grande fermento che gli azionisti cominciano ad affermare la necessità di una ricostruzione spirituale dell’Italia che si ricolleghi a quella incompiuta risorgimentale. Nell’edizione lombarda dell’Italia libera, giornale ufficiale del Pd’A, si trovano già nel numero del 1° novembre 1943, e quindi a meno di due mesi dalla proclamazione dell’armistizio, riferimenti al percorso da intraprendere una volta completata la liberazione. Vi si fa notare, infatti, come «prima di instaurare qualsiasi ordine materiale occorrerà restaurare anzitutto l’ordine morale e ripristinare l’unità morale della nazione» e non manca una definizione del momento storico in corso come «rinnovato Risorgimento d’Italia» (L'Italia Libera, 1943: 1 novembre). Per riportare inoltre un esempio più tardo, il 30 aprile 1944 sul settimo numero della già citata Libertà, Enzo Enriques Agnoletti scrive che:

soltanto un potente lievito morale […] può far sì che il popolo italiano dopo più di tre anni di guerra e dopo vent’anni di fascismo trovi la forza di gettarsi in massa nella guerra di liberazione. Una democrazia italiana intransigente, ardita, incapace di compromessi, poteva, e può ancora, generare questo lievito morale (Enriques Agnoletti, 1944: 30 aprile).

Non solo la stampa ufficiale del Pd’A, però, registra la presenza di questo tema. In questo periodo, infatti, si ha una proliferazione di nuove riviste dovuta sia a una spinta liberatoria dopo la ventennale oppressione fascista, sia alla volontà di esprimere le istanze e le voci che avrebbero concorso a rinnovare la società italiana. Tra queste, ad esempio, La Nuova Europa di Luigi Salvatorelli e Realtà politica di Riccardo Bauer del 1944 o Il Ponte di Piero Calamandrei, L’Acropoli di Adolfo Omodeo e Il Mondo di Alessandro Bonsanti del 1945. Tutte queste riviste sono accomunate dalla volontà di riesame critico del recente passato in funzione del rinnovamento presente e futuro; e sebbene molte, come Il Ponte, dichiarino esplicitamente di non farsi portatrici di un unico orientamento o di un’ideologia di partito, di fatto gli strumenti con cui compiono questa operazione sono spesso presi dalla cultura azionista. Ecco che, ad esempio, nel programma del Ponte pubblicato sul primo numero si afferma «il proposito di contribuire a ricostruire l’unità morale dopo un periodo di profonda crisi consistente essenzialmente in una crisi di disgregazione delle coscienze» avendo come mezzi una «passione intransigente» e una «consapevolezza del valore della vita intesa come dovere di coerenza morale» (Il Ponte, 1945: pp. 1-2). Sul primo numero della Nuova Europa, inoltre, è Salvatorelli stesso a bollare il fascismo come «disfacimento politico-morale», a parlare di «malattia universale dello spirito» e ad auspicare un risanamento morale per cui l’Europa può contare solo sulle proprie forze (Salvatorelli, 1944: 10 dicembre). Anche una rivista letteraria come Belfagor si propone di essere una rivista di politica, anzi, «di etica della politica», come affermato nel Proemio del primo numero, in cui emergono tra l’altro temi cari all’area azionista come la critica allo scadimento non solo mentale ma anche morale degli intellettuali italiani sotto il fascismo e al «conformismo, quasi costituzionale all’anima italiana per atavica educazione» (Russo, 1946: pp. 3-6).

Il tema della rigenerazione morale non è però l'unico a emergere con costanza in tutte queste riviste; esso è, infatti, spesso accompagnato da una dichiarazione di intenti pedagogici tipici della riflessione azionista. Questi ultimi derivano, evidentemente, dalla natura del Pd'A stesso in quanto partito di intellettuale, che ritengono quindi di poter guidare l'educazione delle masse, la loro responsabilizzazione civile e politica e la creazione di un senso di appartenenza comune contraria ai particolarismi. Ciò avviene non senza un certo senso di colpa da parte di quegli azionisti che non avevano partecipato in prima persona alle vicende politiche della nazione seguenti all’8 settembre. Ecco quindi che il «sottile struggimento della […] coscienza» (Codignola, 1956) di Piero Calamandrei (così fu definito in un anonimo articolo commemorativo, probabilmente di Tristano Codignola) fa nascere in lui una «disperata volontà di far quel che si può» (Calamandrei, 1968: pp. 43-45), di cui lui stesso parla in una lettera a Pietro Pancrazi del 13 gennaio 1945, e lo porta a rivendicare nel programma del Ponte (in cui si riconosce la sua mano) «il proposito di contribuire a ricostruire l’unità morale» per rifare «nelle coscienze le premesse morali, la cui mancanza ha consentito a tante persone […] di associarsi senza ribellione» al fascismo (Il Ponte, 1945: pp. 1-2). La pedagogia azionista è frutto di una concezione elitaria della politica: in generale, infatti, l’attività del Pd’A non si concentra sulla definizione di strategie finalizzate ad attirare a sé un maggior numero di elettori, ma mira piuttosto, come già detto, a una diffusa rieducazione politica delle masse, in modo che l’elettorato sia tale per una reale riflessione sulle posizioni del partito e non perché semplicemente attratto da quelle frasi demagogiche che il Pd’A imputa ai partiti di massa. Tale concezione emerge chiaramente nella riflessione degli azionisti in seno alla Costituente, in particolare nel discorso di Piero Calamandrei, prima ricordato a proposito del programma del Ponte, del 4 marzo 1947 pronunciato in Assemblea Costituente. Nelle discussioni relative al futuro art. 7 della Costituzione, il giurista ricorda infatti l’«esigenza di chiarezza» che «impone che non si facciano cose di tanta importanza alla chetichella con un rinvio sibillino, che sarà letto senza intenderne la portata dall’uomo che non si intende di leggi» (AA. VV., 1959: p. 175): evidentemente prevale l’idea di un valore educativo della Costituzione nei confronti dei cittadini. Essa, però, sarebbe stata in grado di rappresentare la base della nuova convivenza civile solo se fosse stata compresa dai cittadini per la chiarezza e l’onestà dei suoi enunciati, solo se i suoi principi e i suoi valori fossero stati in grado di radicarsi, nel corso del tempo, nella coscienza collettiva del Paese. Questa convinzione, insieme alla costante attenzione alla ricostruzione morale, gli azionisti portano alla Costituente nonostante gli scarsi risultati elettorali ottenuti il 2 giugno, sia quelli effettivamente eletti come rappresentanti del Pd’A sia quelli confluiti nelle file della Concentrazione democratica repubblicana, ovvero Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. La posizione del Pd’A, ulteriormente indebolita dopo la crisi del governo Parri, dalla scissione e da tale insuccesso di voti, porta alla decisione di porre fine alla vicenda del Pd’A con la confluenza nel PSI. Non analizzerò qui i motivi del fallimento del Pd’A, né il ruolo che in esso abbia avuto l’intransigenza morale con cui essi si approcciano ai problemi dell’Italia post-bellica, un’Italia che vuole dimenticare la propria connivenza con il regime, ma che il Pd’A chiama a un riesame critico delle proprie colpe. Che questo fattore abbia giocato o meno un ruolo di primo piano, di certo gli azionisti interpretano così la fine del partito (Novelli, 2000: pp. 232-261): gli argomenti più chiamati in causa a questo proposito sono quelli del tradimento degli ideali resistenziali e del ritorno al carattere passivo e individualista atavicamente italiano. D’altra parte, la loro visione etica della politica si presenta molto distante dai comportamenti delle maggiori forze politiche che a quelle date si contendono il campo. Si tratta, infatti, di una visione programmaticamente minoritaria, fino al punto da rischiare di subire, per la sua stessa intransigenza, l’isolamento «dell’ultimo gruppo dei mohicani ostinati sulle loro posizioni» di cui aveva parlato Togliatti in un articolo dell’Unità (Togliatti, 1947: 2 aprile).

Il 1947 non segna però la fine degli ideali del Pd’A, che, come ricorda Giovanni De Luna, si interrano temporaneamente per poi «riaffiorare in mille rivoli e ruscelli […], confluendo in una corrente destinata ad alimentare in permanenza l’intera vicenda della sinistra nell’Italia repubblicana» (De Luna, 2006: p. 343). Resta attuale, ritengo, la loro analisi sulla società italiana e sull’intransigenza come criterio di risoluzione dei problemi che l’affliggono, come antidoto alla tendenza al compromesso e al particolarismo; resta attuale l’idea che saldi principi morali possano informare l’azione politica e che questa non sia separabile dall’etica. Mi affido, per concludere, ancora una volta alle parole di Piero Calamandrei, che per rispondere all’accusa prima riportata di Togliatti afferma che

«anche certe forze sentimentali e morali, che hanno sempre diretto e sempre dirigeranno gli atti degli uomini migliori, come potrebb’essere la lealtà, la fedeltà a certi principî, la coerenza, il rispetto della parola data e così via, siano cose reali di cui il politico deve tenere conto se non vuole, a lunga scadenza, ingannarsi nei suoi calculi» (Calamandrei, 1947: pp. 409-421).

Bibliografia

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