**● Pensiero politico
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Intervento in occasione del seminario "Spazi politici e idee d'Europa: un itinerario dal mondo moderno al mondo globale" organizzato da Agenda e Scuola Normale Superiore (Pisa, 13 dicembre 2017)

Il tema del nostro seminario è vasto e impegnativo. Lo onorerò in minima parte soffermandomi essenzialmente su due temi: il problema dell’identità dell’Europa e il ruolo della memoria. Spenderò qualche parola per chiarire il senso che intendo attribuire a questi due lemmi.

‘Identità’ è un termine abusato nell’attuale discorso pubblico. Lo impiego per alludere a una delle condizioni di esistenza di una comunità politica. Perché una comunità politica esista, non basta che si dia una precisa organizzazione istituzionale e disponga di un potere di governo su un territorio.  Occorre anche che i suoi membri condividano valori, memorie, aspettative, progetti: è una siffatta condivisione che rende possibile la formazione di ciò che Koselleck ha chiamato un “gruppo-noi”.

Anche il termine ‘memoria’ gode di una recente fortuna. Ne vorrei sottolineare la connessione con il tema dell’identità. Come l’individuo, così una comunità politica esiste in quanto si colloca in un orizzonte temporale, si mostra capace di ricordare e di dimenticare, di elaborare una narrazione per mezzo della quale affermare una continuità e un’identità. Identità collettiva ed esercizio della memoria si implicano a vicenda. Una comunità politica racconta il passato a partire dall’idea che essa ha di se stessa e a sua volta la narrazione del passato rafforza o modifica la sua visione del suo presente e del suo futuro.

Proprio perché plasmata dal presente e costruita in rapporto ad esso, la narrazione del passato, in quanto momento di un’identità collettiva, sceglie che cosa ricordare e che cosa dimenticare. Una comunità politica non ricorda e non dimentica per caso, ma sviluppa una vera e propria ‘politica della memoria’, che si traduca nell’elaborazione di un racconto capace di proiettare all’indietro un’immagine identitaria che si vuole condivisa.

Quali immagini del passato sono state chiamate in causa nel lungo processo dell’unificazione europea? Quale narrazione, quale politica della memoria, ha sostenuto il processo di Europe-building? Il problema è complesso perché il recupero del passato è un obiettivo perseguito da soggetti eterogenei, che si propongono finalità diverse e impiegano strumenti conoscitivi e tecniche comunicative differenti. Mi limito a ricordare tre classi di soggetti: in primo luogo, la comunità degli specialisti del passato, gli storici, che ambiscono a una rappresentazione tendenzialmente integrale e cognitivamente attendibile del ‘mondo che abbiamo perduto’; in secondo luogo, gli organi di comunicazione di massa, dominati dalla tendenza a spettacolarizzare e ad attualizzare il passato; infine la politica della memoria portata avanti direttamente dalle istituzioni.

Si formano narrazioni diverse del passato, anche se indubbiamente interagenti (basti pensare, ad esempio, all’incidenza tanto degli storici professionali quanto delle istituzioni su un settore chiave come la manualistica scolastica). Non potrò dar conto di queste varie narrazioni e del loro intreccio. Mi concentrerò soltanto sulla politica della memoria direttamente coinvolta nel processo di unificazione europea. E dovrò limitarmi comunque, nel poco tempo disponibile, a proporre un quadro schematico e riassuntivo.

Partiamo dagli entusiasmi europeisti del secondo dopoguerra. Di fronte alla catastrofe della guerra è diffusa la convinzione (già coltivata dai federalisti fra le due guerre) che la responsabilità del conflitto fosse imputabile al potere assoluto e incontrollato degli Stati sovrani. Occorre voltar pagina e costruire un ordinamento europeo sovranazionale e sovrastatale. È questo il progetto di massima, che nei federalisti duri e puri assume una forza peculiare.

Se questo deve essere il futuro dell’Europa, che cosa pensare del suo passato? Occorre divenire coscienti che esso non è soltanto il campo di battaglia fra potenze contrapposte. Occorre rintracciare, al di sotto delle esasperate differenze e conflittualità statual-nazionali, una soggiacente unità, una corrente carsica che precede i nazionalismi e ora deve tornare in superficie: un universo etico-spirituale sviluppatosi in una storia millenaria nel quale i cittadini delle tante nazioni europee si riconoscono.

Al di sotto delle fratture e dei conflitti esiste, nel cuore del processo storico, un’unità ideale che è il portato di culture diverse che si sono susseguite nel tempo giungendo a una perfetta e conclusiva fusione: la cultura greca, il diritto romano, il cristianesimo. È la tradizione greco-romano-cristiana che coincide con l’identità culturale dell’Europa e rende possibile la sua identità politica.

Il passato non è lontano ed estraneo: è in diretta continuità con il presente e con il futuro. L’unificazione dell’Europa appartiene, sì, al futuro, ma questo futuro trova nel passato una sua indispensabile premessa. La storia d’Europa ha un telos immanente che coincide con l’unificazione politica del continente.

Una siffatta visione teleologica della storia mostra un’evidente aria di famiglia con la visione della storia dominante negli ottocenteschi processi di nation-building. In quel contesto, la nazione, infatti, non ‘nasce’, ma ‘risorge’: la nazione è un’unità immanente al processo storico, è un’identità collettiva da sempre esistente, sepolta nelle sabbie mobili della storia ma mai perduta, una forza immanente al processo storico e capace di indicarne le finalità profonde.

Lo schema retorico impiegato dagli ‘europeisti’ del secondo dopoguerra è analogo. Occorre però chiedersi: a quale Europa ci stiamo riferendo? Quali sono i suoi confini? Una risposta chiara ci giunge dalla relazione di Toynbee a un celebre convegno europeista riunito a L’Aja nel 1948: per lo storico inglese l’Europa di cui rintracciare la soggiacente e ‘identitaria’ tradizione è quell’Europa greco-romano-cristiana che coincide con i paesi occidentali del continente, mentre i paesi orientali (per non parlare della Russia) appartengono a uno spazio esterno all’Europa.

La memoria del passato fonda l’identità europea, ma tende a identificare l’Europa con la sua area occidentale. È nell’occidente che la tradizione europea (greco-romano-cristiana) si è realizzata. L’Europa legittimata dalla sua storia è essenzialmente l’Europa occidentale. Anche da questo punto di vista, passato e presente si armonizzano perfettamente: l’Europa era infatti ormai segnata dalla principale frattura geo-politica del dopoguerra: la ‘guerra fredda’, la contrapposizione fra Oriente e Occidente, fra democrazia ‘borghese’ e democrazia ‘socialista’. In questa cornice l’Europa viene a usufruire di una seconda legittimazione, di ordine, per così dire, non più temporale, ma spaziale, non più storico, ma ideologico e geopolitico: è l’Europa occidentale la roccaforte che si contrappone, in nome delle libertà fondamentali, al blocco ‘totalitario’. Passato e presente, politica della memoria e contrapposizioni ideologiche, cooperano nell’offrire all’auspicata unificazione europea una doppia, ma convergente legittimazione.

Certo, nel corso del tempo questa doppia legittimazione si indebolisce fino a divenire sostanzialmente inutilizzabile. La svolta interviene con la fine della guerra fredda e lo scioglimento del patto di Varsavia nel ’91 e con il Trattato di Maastricht, del ’92. Da un lato nasce l’Unione Europea (una vera e propria ‘comunità politica’ che, se pure non realizza gli Stati Uniti d’Europa agognati dai federalisti, nemmeno è un semplice organo di collegamento fra Stati sovrani) e nasce una nuova classe di soggetti – i cittadini europei. Dall’altro lato, cambia gradualmente, nel corso del tempo, la composizione della Comunità, non più identificabile con l’Europa occidentale, a seguito della progressiva inclusione degli Stati un tempo appartenenti al blocco orientale.

I vecchi schemi di legittimazione hanno fatto il loro tempo, ma non è facile approntare immagini alternative di una condivisa identità europea, come dimostrano gli sterili dibattiti intorno alla costituzione europea (fino al blocco del processo costituente a seguito dei referendum francese e olandese). Gradualmente le istituzioni europee prendono a sviluppare una diversa politica della memoria. Entra in gioco un passato diverso. Non è un passato remoto, non è il rinvio a una tradizione plurisecolare, bensì è un passato tanto prossimo quanto traumatico: le sofferenze di cui nel corso del Novecento sono state vittime i popoli europei.

Si annuncia una politica della memoria profondamente diversa da quella dominante nella prima fase dell’unificazione europea. Si dirà: già gli europeisti del secondo dopoguerra avevano fatto leva sulla catastrofe della guerra, avevano collegato la nuova ‘guerra dei trent’anni’, per usare il fortunato topos impiegato da Churchill e da De Gaulle, alle polemogene sovranità nazionali e ne avevano tratto argomento per perorare la causa di un ordine sovranazionale. In questo schema, però, la guerra entrava in gioco soltanto come un evento da lasciarsi alle spalle per voltar pagina.

Nel secondo dopoguerra, nei confronti delle esperienze della guerra e degli orrori con esse direttamente o indirettamente connessi si tendeva a stendere un velo ‘difensivo’, nella diffusa percezione degli effetti profondamente ‘divisivi’ di quel ricordo. L’esperienza della guerra era stata diversa (e diversamente crudele) a seconda dell’una o dell’altra nazione e già per questo motivo mal si prestava ad essere assunta come un’esperienza condivisa. Non era la memoria delle sofferenze, ma era la loro ‘amnesia’ la strategia prevalente nel secondo dopoguerra; un’amnesia che permetteva di mettere in parentesi la ferocia del recente conflitto (e in genere il ‘lato oscuro’ della storia europea) e induceva a far leva piuttosto sulla ‘positiva’ e luminosa tradizione greco-romano-cristiana.

Di questa amnesia collettiva l’Olocausto era il principale destinatario. In nessuno dei paesi europei l’Olocausto, come scrive Tony Judt, «fu argomento di pubblico dibattito». «In retrospettiva, la cosa che colpisce di più è il carattere universale dell’omissione», dominante non solo nei paesi usciti sconfitti dalla guerra, ma anche nei paesi vincitori. È solo gradualmente che l’Olocausto, per molti anni ai margini del discorso pubblico occidentale, fa il suo ingresso nella memoria collettiva e al contempo tende ad essere non soltanto ricostruito come un tragico evento localizzato in un preciso tornante della modernità europea, ma anche interpretato come l’espressione di un male assoluto e archetipico.

Assunto in questa valenza in qualche misura metastorica, l’Olocausto diviene il polo negativo di un universalismo che trova il suo polo positivo nei diritti dell’uomo; quei diritti dell’uomo che, già adombrati nel processo di Norimberga e formulati solennemente nella Dichiarazione ONU del 1948, sembrano idealmente congiungersi con le libertà, le garanzie democratiche e il rule of law che l’Unione Europea indica come il suo patrimonio costitutivo.

È questa la direzione della nuova politica della memoria adottata dalle istituzioni europee, che trova la sua più elaborata espressione in una risoluzione del Parlamento Europeo, del 2005, dedicata appunto alla «remembrance» dell’Olocausto, dell’anti-semitismo e del razzismo: è l’Olocausto l’evento che deve restare impresso nella memoria di tutti, perché l’ordine europeo possa esistere e assicurare una pace durevole.

Cambia la politica della memoria nel tentativo di trovare una retorica adeguata alla nuova e più complessa configurazione assunta dall’Unione Europea fra gli anni novanta del Novecento e il nuovo millennio. Non mancano tuttavia le difficoltà per questa nuova strategia di legittimazione.

In primo luogo, la memoria dell’Olocausto è, sì, efficace nel permettere agli Stati europei di trovarsi uniti nella condanna del male ‘assoluto’ e nella celebrazione dei diritti ‘universali’, ma al contempo, in ragione della sua valenza ‘universalistica’, è assai meno efficace nel dare ai cittadini degli Stati membri il senso di un’identità specificamente ‘europea’, di un’appartenenza ‘localizzata’.

In secondo luogo, memoria dell’Olocausto, se è troppo ‘universalistica’ per essere efficacemente ‘identitaria’, rischia al contempo di esserlo (per così dire) troppo poco: di funzionare cioè senza troppe difficoltà per gli Stati dell’Europa occidentale, ma di scontrarsi con le storie profondamente diverse degli Stati del patto di Varsavia, che hanno, sì, avuto a che fare con la Germania nazionalsocialista, ma hanno anche vissuto traumi e lutti provocati da regimi ideologicamente contrapposti al nazionalsocialismo.

È un problema difficile che le istituzioni europee non potevano non affrontare. Se infatti era la memoria dell’Olocausto che nel 2005 il Parlamento Europeo esortava a coltivare, una risoluzione del 2009 continua nella stessa linea (la politics of regret), ma estende il compianto a una più complessa varietà di esperienze ‘vittimarie’.

Occorreva una più vasta e comprensiva politica della memoria che riconducesse le sofferenze delle vittime non alla politica di uno specifico regime, ma alle molteplici (e storicamente variabili) estrinsecazioni e realizzazioni di un modello tipico-ideale – il totalitarismo – cui imputare una tragedia finalmente condivisa.

Il totalitarismo, come categoria socio-politologica, era stata elaborata negli anni cinquanta, nella convinzione di poter ricondurre ad un unitario tipo ideale (il totalitarismo, appunto) regimi per molti aspetti diversi od opposti, quali il nazionalsocialismo e lo stalinismo. Nel clima della guerra fredda, il modello ‘totalitarismo’ offriva agli ideologi del ‘blocco occidentale’ un efficace schema retorico ‘binario’, permettendo di contrapporre ai regimi totalitari vecchi e nuovi – il fascismo come lo stalinismo – lo Stato di diritto, rispettoso delle libertà. Per una curiosa coincidenza, è di nuovo a questo schema binario che l’Unione Europea sembra tornare nel momento in cui sceglie, come una delle principali direttrici di sviluppo della sua ‘politica della memoria’, la ‘commemorazione’ delle vittime dei totalitarismi: l’identità europea sembra coincidere con un grande ‘no’, con il rifiuto di un passato ‘oscuro’ che per contrasto dovrebbe rendere ‘luminoso’ il presente (e il futuro).

Non è però importante, entro una strategia retorica ‘legittimante’, soltanto ciò che si decide di ‘ricordare’. È altrettanto importante ciò che si decide di ‘dimenticare’. ­Proprio per questo, le omissioni (o le sottovalutazioni) sono tanto rilevanti quanto le inclusioni ed entrambe contribuiscono a caratterizzare la politica adottata dalle istituzioni europee.

Un’omissione fragorosa riguarda la dimensione coloniale dell’Europa. Questa omissione è singolare. L’importanza della colonizzazione è stata infatti determinante: l’espansione coloniale è per la modernità occidentale (e specificamente europea) non un evento fra i tanti, ma l’orizzonte entro il quale essa si è interamente svolta, fino al recentissimo avvio della ‘decolonizzazione’.

Certo, sono le singole potenze europee a impegnarsi (e a competere) per la conquista del mondo; e tuttavia fiorisce e si diffonde un paradigma coloniale (che nell’Otto-Novecento ruota intorno al concetto della ‘civilizzazione’) largamente condiviso dai diversi Stati nazionali; un paradigma ‘europeo’, come ‘europeo’ è il lessico dei diritti e delle libertà.

Che tutto ciò non compaia nella retorica inaugurata nel secondo dopoguerra (la retorica della tradizione greco-romano-cristiana) è in qualche misura scontato, data la visione teleologica che caratterizza la sua visione del passato e del suo rapporto con il presente. Più singolare è che non si mettano a fuoco i numerosi effetti (ora in senso lato, ora in senso stretto) ‘genocidari’ prodotti dalla colonizzazione, nel momento in cui si inaugura la politica del compianto e il ricordo delle vittime diviene parte integrante della costruzione dell’identità europea.

La condivisione delle colpe si consuma entro il perimetro dell’Europa. La scelta è singolare, ma non innocua e (dato il nesso biunivoco fra memoria e progetto) produce effetti; rende l’Europa, per così dire, doppiamente unita: unita perché colpevole e unita perché innocente. È colpevole delle vittime dei totalitarismi, ma da questa colpa si libera attraverso la politica del ricordo. È altrettanto colpevole delle vittime del colonialismo, ma da questa colpa si libera attraverso la politica dell’oblio. Resa innocente dall’oblio, un’Europa senza colpe coloniali è un’Europa senza responsabilità e senza debiti nei confronti dei soggetti ‘esterni’ e può, al contempo, crogiolarsi al sole dell’universalismo dei diritti e impedire l’ingresso ai discendenti delle sue antiche ‘vittime’.

Disponibile al ricordo come all’oblio, la politica della memoria adottata dalle istituzioni europee si concede anche, se non proprio un’omissione, almeno una sottovalutazione di esperienze del passato; una sottovalutazione tanto più singolare quanto più intimamente connessa con una componente costitutiva della sua identità etico-politica: il sistema dei diritti fondamentali. Certo, i diritti sono oggetto della memoria. L’evento centrale è tuttavia il trauma del loro azzeramento, imposto dai diversi ‘totalitarismi’. Di contro, appare sfocato il disegno della lunga e drammatica vicenda che, in un processo plurisecolare, ha portato alla ribalta i diritti e li ha faticosamente imposti come il fondamento di un ordine legittimo. Mentre nella prima fase dell’unificazione europea la politica della memoria indulgeva a tempi lunghi o lunghissimi e all’esaltazione di una trama continua (la tradizione greco-romano-cristiana), negli anni più recenti la storia evocata è breve e discontinua: la narrazione inizia e finisce con i totalitarismi del Novecento e, quasi accecata dal trauma, lascia nel vago i due secoli precedenti. Commemoriamo l’annullamento totalitario dei diritti, ma non ‘ricordiamo’ come e perché quei diritti fossero comparsi. Il passato dei diritti e in particolare la dinamica che li ha faticosamente imposti appaiono sfocati. La trama dei conflitti politico-sociali che ha dominato la scena nell’Otto-Novecento, le diverse ‘lotte per i diritti’ che, in tempi diversi ma dovunque in Europa, sono sfociati nel disegno di una società più libera e più eguale, non sembrano contare per l’identità europea quanto la tragedia della loro perdita.

Scompaiono i conflitti, le tensioni, i progetti e resta il compito, in qualche modo interminabile, dell’elaborazione di un lutto. Nemmeno in questo caso la politica della memoria sembra essere innocente e disinteressata.  Commemoriamo ciò che abbiamo perduto, ma ‘dimentichiamo’ un’idea di società (una democrazia capace di promuovere la partecipazione e rendere più eguali i cittadini) elaborata nel vivo dei conflitti e dei dibattiti otto-novecenteschi e disponibile a trasformarsi nel nucleo ‘identitario’ e nel fondamento progettuale di una nuova Europa. Se la politics of regret conduce all’amnesia della politica come sforzo collettivo di creazione di una società più ‘giusta’, l’oblio del passato (di quel passato) è condannato a convertirsi nell’oblio del futuro.

  1. Il testo di questo intervento riassume e in parte riproduce le tesi più ampiamente svolte nel saggio pubblicato in Rosselli, O. (a cura di) (2018), Cultura giuridica e letteratura nella costruzione dell’Europa, Giappichelli: Torino_._

Immagine: Cauder - Inaugurazione degli Stati Generali (1839) Credtiti: commons.wikimedia.org

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#memoria#storia#stati#unione europea