Sulla copertina di un mirabile album di Franco Battiato si legge un sottotitolo pieno di rimandi e di ricami «Esempi affini di scritture e simili». La connessione delle parole apre scenari sconfinati capaci di mostrare il noto e l’ignoto attraverso un volo tra la pagina scritta quale memoria di un passato ricolmo di indizi e indicazioni. Siamo nel 1999 e il cantautore siciliano arricchiva la propria produzione con quel gioiello di “Fleurs” pieno di nuove scritture per nuove interpretazioni. Operazione perfettamente riuscita con la quale brani già conosciuti assumevano un carattere sentimentale non solo dal punto di vista musicale, ma anche dall’intimo fascino letterario, come se fossero paesaggi e passaggi inesplorati. La traccia n. 9, Que reste-t-il de nos amours?, è una canzone francese del 1942 musicata da Charles Trenet e scritta dallo stesso in collaborazione con Léo Chauliac, ma l’autore della versione in italiano Che cosa resta è un tale Bufalino Gesualdo da Comiso al quale Battiato aveva dedicato L’imboscata, album del 1996 anno della sua tragica morte. Ascoltare il brano, sapendo che il testo nella nostra lingua è stato realizzato dall’immenso scrittore siciliano assume ancor più significato poiché racchiude l’essenza di un titolo recante il senso stesso di un’esistenza.

Che cosa resta di Gesualdo Bufalino nel centenario della nascita? Resta, in primo luogo, una vita degna di un romanzo. Basta scorrere la sua biografia per capire che ogni accadimento sembra l’indice di un volume. Tra somiglianze e coincidenze, tutto è incastonato in un percorso che conduce al progressivo svelamento come una sorta di procedimento fotografico d’altri tempi: da una camera oscura alla luce, l’emergere di una voce che da soffusa si sarebbe poi trasformata in forte e chiara. Si tratta di una “storia semplice” che deve essere analizzata in tutto il suo “contesto” perché si parte da un “museo d’ombre” per giungere alla “felicità di far libri”. È proprio questa felicità la chiave di tutto; quella soddisfazione per aver scoperto qualcosa di prezioso, come un tesoro nascosto sotto una custodia dapprima invisibile e poi improvvisamente lampante come l’illuminazione di certi monumenti che in tal modo si possono scorgere nitidamente da lontano, ammirando il panorama nel suo insieme. Ecco “Don Gesualdo” è nato due volte; la prima volta per la famiglia, la seconda per la letteratura e per la memoria. Come sarebbe stata la sua vita senza la sua preziosa scoperta? Probabilmente quella di un tranquillo professore stimato e riverito nella sua Comiso che avrebbe scritto per allungare i suoi giorni senza clamore in una sorta di eccellente anonimato pubblico, sebbene la meritata riverenza dei compaesani che, di fronte all’acclarata grandezza, non potevano far altro che togliersi il cappello. Su questo presupposto, dovendo dare un carattere vocale a delle antiche fotografie, al professore venne chiesto di introdurre un volume “locale”. Ma quelle parole ancor prima delle immagini furono così universali da attraversare in maniera fulminea lo scorrere del tempo e capaci di proiettare “Comiso ieri” in una Comiso futura, permettendo alla città anche una diversa attenzione mediatica di pace culturale al posto di quella concomitante militaresca. Bufalino la guerra la conosceva bene e lo avrà segnato come si segnano tutte le anime sensibili, ma anche in questo caso trovò il modo di ringraziare chi lo salvò da una fine prematura con il pennello della scrittura e con quel senso di riconoscenza che la nobiltà d’animo rende come dipinti da ammirare per sempre. La salute così cagionevole, la malattia e poi il sanatorio, quel luogo di sofferenza e al tempo stesso di cura del corpo e della mente. Libri e ancora libri a disposizione, la medicina della cultura come cura; alle creazioni del padre fabbro ferraio di giocattoli di fantasia (pupi per le storie dell’Orlando furioso e un vecchio dizionario Melzi per incontrare le prime parole) si aggiunsero lo sviluppo dei sogni e i racconti inventati della madre ai quali credeva per continuare a credere in un futuro possibile, imparando i nomi delle vie per conoscere sin da bambino le proprie “strade”. Questo pensava forse, mentre sfogliava quella miniera di pagine che rendevano un luogo brutto non solo migliore, ma decisamente formativo: un lucido apprendista al pari di quando lo era in una bottega di pittore di carri. Intanto sedimentava qualcosa di grande destinato ad essere scoperto soltanto alla sera della sua vita, ma la buona semina attecchiva anche in terreni senza un briciolo di fertilità.

Quella introduzione sul materiale fotografico della sua Comiso finì sotto lo sguardo di donne e uomini sapienti. Enzo Sellerio, Elvira Giorgianni coniugata Sellerio, Enzo Siciliano e Leonardo Sciascia. Essi notarono che dietro quelle parole comisane si celava un messaggio in una bottiglia pregiata capace di attraversare oceani e correnti. E allora si misero alla ricerca dell’eccellente anonimo per capire cosa si nascondesse sotto i “drappeggi di una scrittura” barocca propria di una “terra che ama l’iperbole e l’eccesso”. Immaginare la scena di questa “scommessa” letteraria è già un viaggio affascinante nei meandri dell’editoria. Grandi nomi all’inseguimento di un uomo sfuggente alle tentazioni, uno che ha letto tutti i libri senza cedere a pubblicarne uno suo.

Bufalino dunque nasce “pubblicamente” nel 1981 con quella Diceria dell’untore che per un solo voto vinse poi il Campiello. Una rapida accelerazione e uno scombussolamento nella vita di questo professore decisamente sconvolta dallo svolgimento dei fatti ormai simili ad un effetto domino quasi incontrollato. La metamorfosi bufaliniana è tutta visibile nel filmato che custodisce la memoria del premio veneziano. Egli di colpo si trovò nello scenario della Fenice immerso nello stupore di vedersi così ammirato dalla platea teatrale che presto sarebbe stata solo una minima rappresentanza di quella nazionale. La Sellerio dunque si era assicurata un cavallo di razza di quelli che si ricordano nel tempo per la gloria di vittorie spesso accompagnate da una speciale affezione. C’è spazio anche per un matrimonio tradizionale con la sua Giovanna (par di sentire proprio qui la traduzione del brano cantato da Battiato che Bufalino non fece in tempo ad ascoltare Mai più mano con mano nel buio stupiti d’essere due felici senza perché) e di un Matrimonio Illustrato in un sodalizio letterario con l’amata moglie. Era nata una stella nel firmamento letterario sotto lo sguardo attento e vigile di Sciascia che da ricercatore di eccellenza si trasformò poi in suo amico. Negli scatti di Ferdinando Scianna si avverte tutta la gioia reciproca; “quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare” e infatti arrivarono lontano con un reciproco rispetto. Bufalino “Scrittore umido” e Sciascia “Scrittore asciutto”, un gioco definitorio che rende bene l’idea di una simpatia creativa, da siciliani convinti di ribaltare il concetto di Sud con la forza dell’impianto narrativo che poteva contare su muri portanti e pertinenze, sintesi perfetta di strutture e ornamenti che oltre a rendere solido l’edificio letterario lo rendevano esteticamente barocco al punto tale da trasformare un’abitazione in un monumento.

La seconda vita di Gesualdo Bufalino è durata solo 15 anni; l’uomo che non aveva preso la patente perché non amava guidare l’automobile morì nel 1996 a causa di un incidente stradale proprio nei pressi della sua Comiso. Sembra la trama di un romanzo; quella morte da sempre evocata, sebbene con quel duello fra “strazio e falsetto”, arrivò all’improvviso avvolta nella nebbia di un sogno non a lieto fine. Anche se nato nel 1920 e oggi sarebbe stato centenario, Don Gesualdo è scomparso nel pieno della sua gioventù letteraria con quella voglia di stupire ancora con le sue invenzioni fantasiose. Che cosa resta? Il suo esempio di scrittura che dovrebbe essere raccolto da coloro che si avvicinano a questa “arte” senza la fretta di arrivare. La felicità di far libri può giungere a 60 anni, non è importante la quantità che si ha in un cassetto, ma la qualità di quanto si scrive con l’illusione che possa diventare un giorno patrimonio comune. Una cosa è certa, Bufalino non merita di essere dimenticato come purtroppo spiace constatare, solo così sarà possibile farlo vivere per sempre nella memoria letteraria e sociale: la sua narrazione si è distinta per le “parole in costume d’epoca intrecciate per svago e per passione da un malato d’insonnia che aspetta, insieme ai suoi personaggi, il mattino”.

A noi non resta che aspettare il mattino leggendo e rileggendo questo straordinario autore, esempio raffinato di scritture e simili di una “sensualità straripante, di una Sicilia dionisiaca piena di sapori e di colori”.

Crediti immagine: Foto di Dariusz Sankowski da Pixabay

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