Il 29 giugno 1869 nacque Emma Goldman, una delle figure più eroiche e affascinanti dell’anarchismo femminista, che elaborò una concezione talmente radicale e moderna dell’emancipazione femminile – almeno per alcuni aspetti – da essere rifiutata talvolta dai suoi stessi compagni: alcune delle sue idee trovarono infatti più seguito tra i movimenti della seconda metà del Novecento che tra le sue contemporanee. Per lei la liberazione delle donne doveva passare non tanto o non solo attraverso la rottura delle coercizioni esterne, l’acquisizione del diritto al suffragio, l’indipendenza economica, ma soprattutto attraverso la rottura delle costrizioni interne, psicologiche ed emotive; introducendo un tema importantissimo nel pensiero femminista successivo, per Goldman l’azione politica doveva partire dall’esperienza soggettiva, dalla biografia, dal corpo, dalla sessualità, da un rinnovamento interiore. Per le femministe degli anni Settanta la sua autobiografia Vivendo la mia vita (1931) costituì una lettura fondante.

Nata a Kovno, in Russia (oggi Lituania), era emigrata in America a 11 anni con la famiglia e si era avvicinata all’anarchismo in seguito agli eventi di Chicago del 1886. Nel 1892, con il suo compagno di vita e lotta Alexander Berkman, attentò alla vita di un padrone responsabile della morte di alcuni operai durante uno sciopero e fu quindi arrestata una prima volta. Seguirono altri arresti, la fondazione della rivista Mother Earth nel 1906, un nuovo periodo in carcere dal 1917 fino alla definitiva espulsione dal Paese nel 1919 a causa della sua campagna anticoscrizione, quindi i molti anni da esule nella Russia sovietica, in Germania, Inghilterra, Svezia, Spagna. Morì in Canada, dove si era trasferita dopo la vittoria dei fascisti in Spagna, nel 1940.

Benché i suoi compagni la invitassero a occuparsi dei problemi dei lavoratori più che della sessualità – Kropotkin le chiese una volta se «valesse la pena perdere tanto tempo a discutere di sesso» –, Goldman pensava che troppo radicata era la sudditanza delle donne per poter essere superata attraverso concessioni esclusivamente economiche o giuridiche: aveva visto «troppi corpi devastati e spiriti distrutti dalla schiavitù sessuale» per ritenerla una questione secondaria. Così, tra le tante sue battaglie accanto alle lavoratrici, alle prostitute, alle partorienti povere come infermiera nel Lower East Side a New York, pionieristica fu quella per il controllo delle nascite.

Negli Stati Uniti era in vigore dal 1873 il Comstock Act, uno statuto federale che proibiva la pubblicazione o la circolazione di materiali informativi, definiti «osceni», che riguardavano la contraccezione e l’aborto. Ma Goldman era consapevole che il controllo delle nascite era essenziale per la libertà, oltre che sessuale (nel sesso vedeva una delle più libere espressioni della persona, e non doveva essere quindi limitato alla sola funzione procreativa), anche economica delle donne e delle famiglie (allora spesso talmente numerose da renderne impossibile il sostentamento), e aveva cominciato a diffondere le sue idee in una serie di conferenze e comizi assai partecipati. Fu Goldman a introdurre a quella battaglia l’infermiera Margaret Sanger, che ne sarebbe divenuta poi la leader e che avrebbe per prima coniato, nella sua rivista The Woman Rebel, l’espressione “controllo delle nascite” in luogo di altre più eufemistiche come “limitazione familiare”. Le due donne furono arrestate più volte, riuscendo tuttavia a trasformare quegli arresti in occasioni favorevoli alla pubblicità della loro causa, chiamando a essa un numero crescente di intellettuali e cittadini. L’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale nel 1917, però, impedì a Goldman di vedere i frutti di quella battaglia, conclusasi anni dopo: considerata la “donna più pericolosa d’America”, dopo una lunga nuova incarcerazione, fu privata della cittadinanza con il suo compagno e costretta a due decenni di sofferte peregrinazioni, durante le quali però non cessò mai di battersi per quel suo ideale radicale di libertà individuale.

Così scriveva nel 1934: «Il braccio dell’autorità ha sempre interferito nella mia vita. Se ho continuato da esprimermi liberamente, è stato nonostante tutte le limitazioni e le difficoltà poste sul mio cammino [...]. In questo non sono stata per niente sola. Il mondo ha dato all’umanità figure eroiche che di fronte alla persecuzione e all’ingiuria hanno vissuto e lottato per il loro diritto e per il diritto del genere umano a una libera e illimitata espressione» (Was My Life Worth Living?, in Harper’s monthly magazine, vol. 170, cit. in Bruna Bianchi, Il pensiero anarcofemminista di Emma Goldman, 2009), e lei certamente fu una di queste.

Immagine: Emma Goldman durante una manifestazione a Union Square, New York (1916). Crediti: (http://www.estelnegre.org/documents/goldman/goldmannovayork1916.html) [Public domain], attraverso http://www.estelnegre.org

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