Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965), Scrittori e massa (2015), Torino, Einaudi, 2015

Nel 1965 il poco più che trentenne Alberto Asor Rosa pubblicava per i tipi di Samonà e Savelli Scrittori e popolo. Si trattava, come è noto, di un libro rivoluzionario: il giovane allievo di Natalino Sapegno si scagliava contro le tendenze populiste nella letteratura italiana dell’ultimo secolo, lungo un arco temporale che andava dalle premesse ideologiche risorgimentali a Pasolini. Polemizzando con le linee culturali programmatiche di gran parte della sinistra “ufficiale” di allora, il giovane Asor Rosa additava ad esempio i pochi nostri scrittori altoborghesi e di respiro europeo (da Verga a Gadda). Di lì a poco avrebbe scritto pagine mirabili sul giovane Lukács e sull’ambiguità borghese in Thomas Mann, a conferma di una sua linea critico-interpretativa che individuava nel grande stile della miglior letteratura borghese un formidabile strumento conoscitivo, provvisto di valore demistificante e rivoluzionario, molto oltre le secche inevitabili dell’engagement in letteratura.

Oggi, a cinquant’anni di distanza, Asor Rosa ripubblica (per la seconda volta con Einaudi) Scrittori e popolo, allegandovi una nuovo saggio, una sorta di post scriptum apocalittico sulle tendenze fondamentali della letteratura italiana degli ultimi tre decenni dal titolo Scrittori e massa. Asor Rosa non ha certo perso con il tempo la sua lucidità e il suo radicalismo: la tesi di fondo è che, nel passaggio dal “popolo democratico” alla “massa post-democratica”, sia “venuta meno, innanzitutto, una «società letteraria» degna di questo nome”. Tale fenomeno rientra nel generale declino delle élites nel mondo postmoderno, caratterizzato da una sorta di atomismo individualistico all’ombra di insondabili poteri sovranazionali. In questo “tramonto” del moderno, che data dalla seconda metà degli anni ’80 del Novecento, il progressivo venir meno delle funzioni della critica e della teoria della letteratura è conseguenza necessaria della fine della tradizione letteraria e, si direbbe, della grande letteratura tout court: Asor Rosa definisce senza ambiguità Fortini, Pasolini e Calvino i nostri “ultimi classici”. Data questa situazione oggettiva, descritta con la lucidità consequenziale e spietata che è propria di un vecchio studioso delle élites culturali, Asor Rosa afferma che non resta che cercare di misurare il “grado di liberazione individuale” (attraverso lo stile, la forma delle opere) esibito dai narratori e dai poeti dell’ultimo trentennio rispetto ai vincoli imposti dalla “cultura di massa”. Nel tentativo di tracciare dunque una mappa, suddivisa per generi e tendenze, della più recente letteratura italiana dopo il tramonto del moderno, Asor Rosa si sforza di mantenere un atteggiamento “avalutativo” ma i giudizi di valore, come è naturale, non mancano: colpisce ad esempio l’apprezzamento di Gomorra (2006) di Roberto Saviano, di certo legato anche alla passione civile dell’autore: “Quando terminate la lettura di una pagina, oppure, ancor meglio, di un capitolo, quel che vi resta nella testa è come la traccia di un sogno che non avreste voluto sognare e pure avete sognato. Raramente l’Italia è stata penetrata in questo modo, fin nelle sue viscere, fin nelle sue più oscure profondità, da un narratore”. Presenti altresì notazioni acute sul ruolo in ascesa degli editor e sull’indebolimento degli autori, evidente nella nuova retorica dei ringraziamenti, sul localismo di tanta narrativa contemporanea, ormai distante dalla politica e dalla “questione sociale”, così come sul “disagio esistenziale più affermato che descritto” nella poesia contemporanea, nella quale tuttavia Asor Rosa individua risultati di valore, soprattutto nella produzione delle donne. Rimane netta tuttavia l’impressione che l’autore si trovi a disagio in questo scenario postmoderno, che pur si sforza di studiare, mappare, catalogare (pur con alcune significative omissioni, da Pecoraro a Mazzoni) e infine, in qualche modo, tentare di giudicare. Un uomo nato nel 1933 non può che guardare al nostro panorama sociale e letterario con una qualche scettica distanza, temperata solo dalla curiositas dello studioso per quel che, nonostante tutto, vede muoversi attorno a sé, come testimoniato dalle considerazioni che chiudono il volume: “Per fare buona letteratura, anche all’altezza di questi nostri difficili tempi, non ci vorrebbe dunque nient’altro che un po’ più di amore, ossia, come ho già detto, un po’ più di conflitto. Se ce n’è, se ce ne fosse in giro, basterebbe tirarlo fuori, tirarli fuori, e mostrarli al mondo avaro, stupito”.

Da parte mia attenuerei un poco il quadro, pur realistico, offertoci da Asor Rosa: la società letteraria non si è del tutto estinta ma si è rimodulata attraverso i blog letterari sul Web, alcuni dei quali di notevole interesse e spessore, così come non mancano oggi in Italia critici, narratori e soprattutto poeti ancora capaci di un dialogo fecondo con la tradizione. Ma la mia, è ovvio, è la voce di un’altra generazione rispetto a quella di Asor Rosa.

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