M come Milano più M come Metropolitana fa Memorie dal sottosuolo meneghino, perché il subconscio di una città viaggia in subway, insieme con i «suoi misteri, le sue inquietudini, la sua magia onirica»: «La metro è, innanzitutto, una teoria sulla città: una sintesi, un riassunto, una rappresentazione, un’ombra riportata». Poi, «la metro è una cosa che funziona, a Milano non ne sono rimaste molte altre»: quindi, quale miglior mezzo, ed espediente, se non il treno sotterraneo, per attraversare e raccontare il capoluogo lombardo? Così fa, appunto, Stefano Bartezzaghi in M. Una metronovela, libro picaresco e ibrido tra il reportage di viaggio e il mémoire civico, appena edito da Einaudi (pagg. 274, € 20,00): questa è la vera anti-guida alla Milano di Expo, laddove, ai padiglioni colossali e alle vetrine luccicanti, comprese quelle rotte, si contrappone la città “invisibile” à la Calvino, l’altra “Valdrada”, ctonia e brulicante, snodata e affollata, anonima e vagamente luciferina, come Chuck & Dem, i protagonisti della metronovela. Quest’ultima è una storia nella storia, un ulteriore filo (rosso?) dell’intricata e anarrativa trama dell’opera: la metronovela, infatti, non è altro che un format a puntate pensato per gli schermi dei binari del metrò, format inventato dall’autore stesso per intrattenere i passeggeri mentre aspettano sulla banchina.

In questo viaggio sentimentale nella Milano nascosta e febbricitante, di pendolari, turisti, trafficoni e trafficanti, Bartezzaghi ama zigzagare tra una fermata e l’altra, un mezzanino e l’altro, con la curiosità dell’enigmista che cerca coincidenze e paradossi, salvo poi lasciarsi elettrizzare dai felici cortocircuiti della rete, tanto bislacca che va da Sant’Agostino a Pagano, da Ca’ Granda a Bicocca a Cascina Gobba, da Gioia a Inganni, da Lima a Uruguay, da Buonarroti a San Leonardo, da Romolo a Porta Romana… Pure le fermate immaginarie, futuribili nell’eventualità di investimenti pubblicitari, hanno nomi spassosi e pensosi come «Misura-Duomo; Repubblica-Chiquita; Cornetto Algida-Precotto; Lotto-Lottomatica; Inganni-Intimissimi; Pero-Peroni; Zara-Zara»...

Qui si lavora a un’urbanistica emotiva, a una toponomastica affettiva: basti pensare alla leggenda secondo cui Craxi «pretese una fermata intitolata al capostipite Turati anziché al liberale Cavour». Così la linea Gialla seguì le ragioni del cuore – ah, Pascal! –, non quelle della logica: una fermata in piazza Cavour sarebbe stata assai più sensata e strategica, non solo perché il crocevia è molto più vivace e bello di via Turati, ma anche perché si trova a metà strada tra la fermata precedente (Montenapoleone) e la seguente (Repubblica). Inoltre, a Milano le coordinate geografiche bisticciano spesso con quelle linguistiche: viale Marche non è affatto a Sud, in direzione del Centro Italia; «non parliamo poi dell’aver fatto incrociare viale Marche e viale Zara, laddove in mezzo ci sarebbe dovuto essere stato perlomeno l’Adriatico». Infine, qui il dialetto riserva sempre qualche stramberia: ad esempio, parlando di avanzi, il milanese doc dirà che occorre «godenn», goderne. «È avanzato del prosciutto e bisogna non solo mangiarlo al posto di alimenti freschi, bensì “goderne”». Forse è per questo che Milano, con la sua Expo, vuole spiegare al mondo come “nutrire il pianeta”.

Qui «c’è la donna nella Madonna, l’uomo nel Duomo. Una città a cui non manca niente». Non mancano neppure ponti e Navigli, e un Porto di Mare (linea Gialla), un’Isola (linea Lilla), un «Porto Venezia» (linea Rossa). E se Venezia è un pesce, come scrive Tiziano Scarpa, Milano allora cos’è? È «un guscio di lumaca»: non solo perché «circocentrica, ma anche per i segreti, la ritrosia di una città meno smargiassa dei suoi abitanti, quasi del tutto priva di prospettive mirabili, obelischi, gigionerie. La lumaca-città gira lenta e in tondo su un muro bianco, percorso sopra e sotto dalle opache lucertole, rettili e rettilinee, della metro». Questa è una città che ha l’ansia da «pre-stazione», ovvero la paura di perdere il treno, e «non è affatto veloce. Ha fretta. Milàn, col cœur in man. Vi immaginate l’ansia di tenere in mano un cuore? Vivo?».

Qua e là, anche Bartezzaghi si lascia andare alla proverbiale malinconia meneghina delle “luci a San Siro”: «In questa città si aspetta il buio per provare a concedersi qualcosa». Eppure, a dispetto del grigiume diffuso, dai cieli ai grattacieli al “Milanese imbruttito”, prevale l’autoironia: «Chissà come dev’essere, vivere a Primaticcio, amarsi a Gàmbara, lasciarsi a Rogoredo…».

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