Brand e cultura sono stati a lungo visti come un’antinomia a causa della storica diffidenza dimostrata dal settore culturale nei confronti delle discipline non umanistiche. L’avvicinamento del mondo produttivo alle realtà culturali, unito alla necessità di rispondere a logiche competitive e alla recente riforma che ha iniziato ad introdurre il concetto di autonomia (legge 29 luglio 2014, n. 106, detta ArtBonus), sta portando a compimento il processo di contaminazione fra le prassi di gestione di mercato e quelle fin qui tipiche dei Beni culturali, già introdotte fra i primi anni Novanta e l’inizio del 2000 nella letteratura dei “museum studies” da accademici come Luca Zan e Massimo Montella.

Ed è in questa contaminazione che il rapporto fra brand e cultura si realizza al meglio, in quanto il primo si attaglia alla perfezione al portato delle istituzioni culturali. Identità, appartenenza, esperienza, reputazione, immagine sono gli indicatori di senso che il brand e le istituzioni culturali hanno in comune; i valori intangibili, simbolici, che fanno parte del racconto di ogni organizzazione culturale verso la comunità di riferimento e chi ancora non ne fa parte. Il brand sintetizza infatti il messaggio delle istituzioni culturali, fornendo significato al pubblico e direzione al management delle istituzioni stesse, essendo in grado di generare «quel fremito di senso, tanto vibrante e vitale da suscitare i nostri meccanismi di proiezione o d’identificazione» (Giampaolo Fabris, Laura Minestroni, Valore e valori della marca, 2004_,_ p. 423).

Il brand richiede una forte coerenza nell’identità di comportamento per stabilire il livello di fiducia della sua comunità e rafforzare la credibilità delle sue politiche di marca; ecco allora l’evolvere dei brand con il mutare, nel panorama culturale, del peso di elementi come la responsabilità sociale dell’impresa, la finanza etica, la sostenibilità dei progetti, gli investimenti responsabili. Ciò è ravvisabile nei brand for profit: Adidas inizia a realizzare prodotti sportivi da plastiche recuperate negli oceani; Eni produce diesel verde da olii da cucina esausti; San Benedetto riduce l’impatto nella produzione di bottiglie con plastica rigenerata; Unilever ripensa i propri imballaggi. Oggi, in piena crisi da Covid-19, marche for profit e istituzioni culturali costruiscono o rafforzano la loro immagine di brand attraverso l’attivazione di politiche di responsabilità sociale, con le quali comunicano esplicitamente la propria missione: il Gruppo Miroglio riconverte parte degli stabilimenti alla realizzazione di mascherine sanitarie; Ferrari avvia una collaborazione con Siare Engineering per produrre ventilatori polmonari; Snam, grazie a contatti con Paesi esteri, acquista e dona centinaia di ventilatori polmonari e mascherine sanitarie. Similmente, le istituzioni culturali si aprono al pubblico sui social e sul web, rafforzano la vicinanza alle loro comunità, intercettano nuovi pubblici attraverso un utilizzo più mirato di Internet e il ripensamento della loro narrazione, offrono gratuitamente la fruizione delle loro storie e produzioni, come si riscontra nelle attività del Museo Egizio di Torino, del MUSE - Museo delle Scienze di Trento, nella collaborazione del Teatro alla Scala con la RAI e nell’accessibilità ai contenuti di tanti altri musei, biblioteche, archivi, teatri italiani, con la creazione di canali radio e video propri.

Tuttavia, verso l’esterno è ancora raro trovare un’istituzione culturale che sia compiutamente consapevole del suo (poter) essere un brand e capace di utilizzare il suo marchio – laddove un segno grafico visuale sia stato creato per dare vita semiologicamente alla rappresentazione dell’istituzione ‒ per veicolare i suoi contenuti e diventare, come scrive in proposito Vanni Codeluppi, un’integrazione progressiva «nella cultura sociale, fondendo i propri testi con quelli circolanti nella società» (Il biocapitalismo, 2008, p. 75); mentre, verso il management e l’interno dell’organizzazione sta nascendo una maggiore consapevolezza che costringe l’istituzione a muoversi secondo le linee definite dall’“essere brand”, e ciò grazie anche all’attuazione di politiche di partecipazione sociale e l’utilizzo di strumenti quali il bilancio sociale.

La narrazione, le competenze e le strategie, implicanti investimenti e capitalizzazioni economico-finanziarie adeguati, che le organizzazioni sviluppano per fidelizzare la propria comunità di riferimento – un tempo, ma forse ancora più adesso, le tribù di maffesoliana memoria (Michel Maffesoli, Tempo delle tribù, 1988) – vanno a costituire gli asset su cui la marca basa la sua equity. A nessun altro produttore di contenuti come alle istituzioni culturali è richiesto di diventare specchio dei tempi e in questo processo un apporto sostanziale può essere dato dalla «marca [che] è attore sociale, specchio dei tempi, e quindi deve “agganciare” lo spirito del tempo, l’attualità culturale» (Stefano Traini, Semiotica della comunicazione pubblicitaria, 2008, p. 128).

Il brand, in buona sostanza, opera nel contemporaneo quale insostituibile indicatore di senso, contribuendo a comporre ed alimentare il panorama culturale dei nostri giorni.

* Presidente di Fondazione Città Italia

** Esperta di Politiche culturali

Immagine: Museo Egizio di Torino (2017). Crediti: Claudio Divizia / Shutterstock.com

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