Abbiamo salutato in queste settimane la più sorprendente restituzione attributiva degli ultimi vent'anni: la riapparizione della versione autografa della “Maddalena in Estasi” del Caravaggio, rinvenuta da Mina Gregori in una collezione straniera, a render giustizia della qualità di un dipinto che ebbe un successo straordinario, e di cui sino a oggi ci erano note solo copie.
La conoscenza di un artista del passato, anche nel caso di un grande maestro, è sempre un punto in movimento, suscettibile di improvvise accelerazioni e clamorose revisioni. Così, Caravaggio continua a far parlare di sé, muovendosi come il personaggio di una trama non ancora del tutto sciolta, sullo scenario di un secolo, il Seicento, che è suscettibile sul fronte degli studi di ulteriori sondaggi e messe a fuoco. Il rapporto dinamico tra la parte di storiografia che possiamo ormai dare per acquisita, ma che, come un cannocchiale prospettico, non cessa di suggerire nuovi dati da precisare, e gli apporti più recenti, che aiutano a rivisitare e riallineare gli esiti già consolidati, si può apprezzare in due mostre romane, entrambe molto ben riuscite, “Da Guercino a Caravaggio, Sir Denis Mahon e l'arte italiana del XVII secolo”, a Palazzo Barberini sino all'8 febbraio 2015, e “I Bassifondi del Barocco, la Roma del vizio e della miseria”, all'Accademia di Francia di Villa Medici sino al 18 gennaio 2015.
L'inusuale inversione cronologica nella titolazione della prima rassegna (prima il Guercino, classicista emiliano che improntò il nuovo gusto della pittura italiana a partire dal terzo decennio del Seicento, e poi il Caravaggio, che quello stesso secolo aprì e immediatamente squadernò con la sua rivoluzionaria pittura dal vero) è motivata dal tentativo di rimarcare la gerarchia degli interessi nell'opera del più importante ed eclettico studioso novecentesco dell'arte del XVII Secolo, l'inglese Denis Mahon, scomparso nel 2011 a 101 anni. Rampollo di una ricca famiglia di banchieri di origine irlandese, Mahon ha riscritto tra le due guerre la storia della pittura barocca italiana, rivalutando la scuola bolognese e assegnandole un ruolo centrale per gli sviluppi di uno stile prima di lui gravato dai giudizi negativi di Berenson e Ruskin. A partire dal 1956, con la mostra sui Carracci a Bologna e da un lavoro capitale del 1962, “L'Ideale Classico”, Mahon ha costruito, partendo proprio dalla figura del centese Giovan Francesco Barbieri (detto il Guercino perché afflitto, così riportano i suoi primi biografi, da una grave forma di strabismo dell'occhio destro), una nuova forma critica per Guido Reni, i minori bolognesi, spingendosi sino a Poussin e, dall'altra parte, occupandosi, come naturale complemento della sua attenzione per l'arte padana, del Caravaggio e della scena romana, che era lo sbocco naturale dove ogni evoluzione stilistica veniva spinta sino al massimo gradiente di evoluzione.
La mostra di Palazzo Barberini ripercorre, attraverso 45 dipinti, alcune delle clamorose scoperte e munifiche donazioni di sir Denis: in un'epoca in cui Guercino e Reni venivano stimati poche centinaia di sterline, aveva costituito in pochi anni una collezione irripetibile, donata in gran parte alle raccolte pubbliche del nostro Paese. Da “Venere, Marte e Amore” del Guercino, a un confronto tra la “Sibilla” del Barbieri e quella del Domenichino, sino all'imponente balletto dell'“Atlanta e Ippomene” del Reni, proveniente da Capodimonte, sfilano tutti i pezzi capitali del nostro classicismo.
Ma la mostra insiste anche su quadri di carattere e gusto più intimo, lontano dal teatro del barocco o dalle impaginazioni solenni del classicismo. È il caso della “Madonna del passero”, fragile incursione del Guercino nella pittura di realtà, con Maria che fa giocare Gesù con un passerotto tenuto al guinzaglio da un sottilissimo filo di seta. La sezione dedicata al Caravaggio affianca il “Suonatore di Liuto” dell’Hermitage al “Bacchino Malato” della Borghese, la “Giuditta e Oloferne” della Barberini e il San Francesco del Museo Ala Ponzone di Cremona. Sir Denis ha spesso dato vita a dibattiti attributivi infuocati sul corpus di opere “dubitable” del Merisi. Pensiamo a quando rintracciò sul mercato quella che era creduta una modesta copia dei “Bari”, assicurandosela per 70mila sterline, con la certezza che fosse autografa. La temperie e il clima di quegli anni decisivi per gli avanzamenti degli studi sono testimoniati in mostra dalla presenza del “Cavadenti”, dipinto delle collezioni medicee che divide da sempre gli specialisti tra chi, come Mina Gregori, lo ritiene autografo, e coloro che invece non lo iscrivono tra le opere del Caravaggio.
Si muove invece in un territorio ancora in parte da esplorare “I Bassifondi del Barocco”, per la curatela di Francesca Cappelletti e Annick Lemoine. La mostra, che dopo Villa Medici sarà presentata al Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris a Petit Palais, vuole indagare il lato invisibile della società romana del Seicento, quello delle taverne e dei rioni popolari, dove vivevano gli artisti chiamati nella città pontificia dalla prospettiva spesso illusoria di grandi commesse e opportunità inesauribili di lavoro. È in quei luoghi, in mezzo a una società notturna, licenziosa e pericolosa, che si muovevano i primi seguaci del Caravaggio. Artisti italiani, francesi, olandesi, fiamminghi, spagnoli che, sulla spinta della poetica del vero, sovvertirono, a partire dal secondo decennio, i codici espressivi e i canoni della bellezza, descrivendo con intenzione verista un mondo che non aveva mai avuto in precedenza dignità di rappresentazione: osti, prostitute, lenoni, giocatori di carte, esattori, mercanti. Quella produzione impose rapidamente un nuovo gusto, smaliziato e grottesco, suscettibile di segmentazioni in sketch urbani che divennero rapidamente dei cliché, perdendo per strada il carattere di tranche de vie e fondando la pittura di genere, meno ambiziosa dei soggetti di storia cui era improntato il collezionismo privato, e tuttavia più gustosi e ricchi di aneddotica, e in quanto tali apprezzati anche dagli acquirenti più esigenti. Nell'opera dei vari Valentin de Boullongne, Jan Miel, Sébastien Bourdon, Leonaert Bramer, Bartolomeo Manfredi, Jusepe de Ribera, Pieter van Laer, Claude Lorrain, si potrà così rilevare il rapido evolvere degli stilemi recepiti dalla primissima cerchia di seguaci del Caravaggio in modi sempre più riconoscibili e codificati, sino all'emergere della scuola dei Bamboccianti, aedi della rappresentazione della vita dei crocicchi capitolini.
Da un lato dunque il teatro barocco, dall'altro la commedia dell'arte: lungo queste due direttrici figurative, in dialogo aperto con le altre arti, si muoveva la pittura del Seicento, tra alto e basso, accademia e strada, nella grazia raggelata e nei volti diafani del Guido Reni, così come nei visi deformati e nelle mimiche eroicomiche dei caravaggeschi, senza soluzione di continuità, dentro un'età autenticamente sudicia e sfarzosa.
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