Il 3 settembre 1982, sono passati poco più di 3 mesi dall’insediamento di Carlo Alberto Dalla Chiesa quale prefetto di Palermo, 100 giorni durante i quali aveva cercato di rispondere allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Generale dell’Arma dei Carabinieri si era distinto per l’efficienza nella lotta condotta contro le Brigate Rosse, a lui si doveva la cattura avvenuta a Pinerolo nel 1974 di Renato Curcio e Alberto Franceschini e lo smantellamento di diverse colonne di terroristi.

Dopo l’omicidio del segretario regionale del PCI Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa viene inviato a Palermo dall’allora ministro dell’Interno del Governo Spadolini, Virginio Rognoni, con la speranza che possa conseguire gli stessi successi ottenuti solo qualche anno prima contro il terrorismo.

La situazione che il neoprefetto trova è pesante. In Sicilia domina incontrastato il potere mafioso: soldi, voti di scambio, politici compiacenti e finanzieri senza scrupoli rappresentano i cardini sui quali questo potere fonda il proprio dominio. Il generale Dalla Chiesa comprende immediatamente che il suo è un incarico destinato a non produrre i risultati sperati. A Palermo si scontra con la mancanza di sostegno da parte dello Stato e la carenza di una struttura efficiente per contrastare le cosche. Piena di significati e carica di amarezza rimane la sua frase «Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì». Si rende conto di essere stato lasciato solo, così come si evince dall’intervista da lui rilasciata a Giorgio Bocca, pubblicata su La Repubblica il 10 agosto 1982. Nelle sue parole c’è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno consentito alla mafia di agire indisturbata per anni. Di fatto la pubblicazione di quell’intervista non suscitò nessun tipo di reazione da parte dello Stato, mentre attirò l’attenzione dei boss corleonesi, che si prepararono a eliminare lo scomodo nemico. A questo si aggiunga che Dalla Chiesa, sin dall’inizio della sua missione in terra di Sicilia, non era stato mai amato dai palermitani, anzi era stato irriso, vilipeso e ostacolato. Non godendo di buona stampa, venne percepito come un corpo estraneo (il Piemontese) soprattutto da quella che oggi chiamiamo “la società civile”. Ma lui, militare di professione e piemontese coriaceo voleva adempiere al suo dovere fino in fondo e questo in qualche modo ne decretò la condanna a morte.

Ma torniamo a quel 3 settembre. Era un venerdì di fine estate e molti palermitani si preparavano a trascorrere uno degli ultimi weekend di vacanza. Anche il prefetto insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro, sposata in secondo nozze da poco tempo, aveva sentito l’esigenza di uscire e di vivere dei momenti di normalità. Sono le 21.10 Carlo Alberto Dalla Chiesa ha prenotato un tavolo per la cena in un ristorante a Mondello, ma si tratta di un diversivo perché in realtà stanno rientrando in casa, a villa Pajno. Il generale siede sul sedile del passeggero, alla guida di una A112 è sua moglie. Su un’Alfetta poco distante l’agente in borghese Domenico Russo, 32 anni, li segue. Mentre la coppia si appresta a imboccare via Isidoro Carini l’auto viene affiancata da una BMW con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci; i due fanno fuoco attraverso il parabrezza, con un fucile kalashnikov AK-47. Il generale tenta con il suo corpo di far scudo alla moglie ma è tutto inutile perché Emanuela, colpita al torace e al capo, muore subito, lui qualche secondo dopo, con la testa china sul parabrezza.

Nello stesso istante l’auto con a bordo l’agente di scorta viene affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco, che lo fredda. Un’azione militare chirurgica e ben pianificata. Sul luogo dell’agguato, il cartello scritto da un anonimo cittadino: «Qui è morta la speranza dei siciliani onesti».