Dylan, Cohen e il “nostro” Vecchioni: i loro testi certamente sono entrati non solo nel cuore di molti ma anche in una visione del mondo e dei sentimenti.

La lunga carriera del primo, non senza incidenti di percorso (basti ricordare gli infausti album coincidenti con la sua conversione cristiana tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta), ha mescolato folk, protest-song, rock,

l'Allen Ginsberg della “beat generation” e Woody Guthrie, ha narrato storie vere, come Hurricane (il pugile nero Rubin Carter, condannato per un triplice omicidio nel 1966 e liberato nel 1985 dopo il riconoscimento della sua innocenza) o testi che mescolano visioni e personaggi simbolici, alcuni apparentemente terreni, come Mr. Tambourine Man (un giovanissimo Dylan del 1964), di cui l'interpretazione prevalente vuole che sia lo spacciatore a cui si rivolge il vagabondo della canzone, altri molto vicini a figure mistiche, come Jokerman (il video ufficiale mescola foto di Dylan, immagini di Gesù, di divinità). Altre canzoni di Dylan sono uscite dall'aura di esoterismo per entrare direttamente nel repertorio di una generazione in rivolta, come “The times they are a-changin'” ha rappresentato una generazione inquieta in rivolta (significativamente suonata alla Casa Bianca l'11 febbraio 2010 in occasione della celebrazione per i diritti civili); “A hard rain's a-gonna fall” ha dato ai movimenti per la pace una ragione in più, così come l'immagine della pietra che rotola (Like a rolling stone), già titolo di una canzone di Muddy Waters (Rolling Stone Blues) sarebbe stata ripresa più volte anche da altri autori. E si potrebbe continuare sulla capacità di rappresentare un mondo anche al di là, appunto, di qualche virata improvvisa verso sentieri piuttosto spinosi per chi intendeva seguirlo.

Leonard Cohen, con altro registro rispetto a Dylan, ha tenuto presenti le diseguaglianze sociali, ha dato voce al malessere oscuro che alberga in alcuni momenti nelle vite interiori e ha lasciato testi, come “Suzanne”, che lo hanno consacrato come cantautore (merita una menzione anche [la magistrale versione](javascript:void(0);/1383034898591/) di De Andrè, con il collage di immagini che accompagna il pezzo). Nato come poeta, il canadese Cohen sarebbe diventato, per i fan, una sorta di intima colonna sonora, per altri pur attenti ascoltatori, uno dei cantautori più deprimenti del mondo. Da qualsiasi parte si stia, però, nessuno riesce negare profondità ai suoi testi. Ripreso, come Dylan, da molti altri, ha ampliato il suo raggio di attrazione anche grazie a cover famose dei suoi pezzi, come l'“Hallelujah” interpretata da Jeff Buckey (la versione di Cohen; la versione di Buckley).

Il “nostro” Roberto Vecchioni ha sicuramente un legame musicale con entrambi, basti pensare al suo pezzo-omaggio intitolato “Leonard Cohen”, che trae dalla “Suzanne” di Cohen. Ma la sua impronta originale si deve all'ispirazione letteraria, mitica, come in “Samarcanda” (per una buona versione dal vivo: http://www.youtube.com/watch?v=QLvCL5YW11E), e alla capacità di scrivere testi che riconducono agli elementari e più preziosi valori e in tal senso, spicca, su tutti gli altri pezzi, “Sogna ragazzo sogna”.

Tutti e tre si sono misurati con la letteratura e con la poesia, ma la voce, poi ufficialmente smentita, di una loro candidatura al Nobel per la letteratura non era basata sulle loro opere letterarie, quanto su una ricorrente “promozione” della musica d'autore, cioè quella in cui si ritiene che il testo prevalga sul motivo musicale, a poesia.

Perché validi cantautori, che pure hanno vinto i loro premi, hanno avuto riconoscimenti come tali, debbono essere definiti poeti? Rimanere nella testa e nei sentimenti dei milioni di persone che li hanno ascoltati non è sufficiente? E perché si insinua una sorta di subordinazione gerarchica alla poesia? Che senso ha appiccicare la medaglia di poeta; per distinzione da altri cantautori che tali non possono essere definiti? Eppure senza uno spartito quei testi non potrebbero rimanere in testa, perché sono nati lì dentro e perché la musica ha un uguale potenziale evocativo rispetto alla poesia, ma quel potenziale evocativo è costruito ed agisce in modo del tutto diverso.

Stavolta la candidatura al Nobel era una voce, probabilmente, ma l'insistenza dell'“elevazione” a poesia della musica d'autore è veramente una manifesta dichiarazione di inferiorità, oltre al fatto di avere basi piuttosto fragili per essere fondata dal punto di vista disciplinare. Chissà se gli interessati saranno rimasti male quando hanno appreso dell'assegnazione del Nobel ad Alice Munro. Forse ne avrebbero avuto più motivi Joseph Roth o Ian McEwan.

Io non ci sono rimasto male per niente. A me basta ripassare mentalmente “Come gather 'round people/ Wherever you roam/ And admit that the waters/ Around you have grown/ And accept it that soon/ You'll be drenched to the bone/ If your time to you/ Is worth savin'/ Then you better start swimmin'/ Or you'll sink like a stone/ For the times they are a-changin'”, per provare a rimanere me stesso. Così, mi emoziona ricordare alcuni consigli dati ai più giovani, che risultano utili anche ai più cresciuti: “non lasciare un treno fermo alla tua stazione”, “la vita attraversa i muri per farsi vedere”, “sogna ragazzo sogna quando sale il vento nelle vie del cuore”. Per fortuna sono emozioni che posso cantare.