È nella tensione fra centro e periferia, fra due modalità antitetiche e irriducibili l’una all’altra e proprio per questo ineludibili, refrattarie a qualsivoglia sintesi, che si consuma il dramma umano, la sua incapacità di sciogliersi in una direzione che sia univoca, non toccata da dubbi o ripensamenti; nelle parole di Rudolf Arnheim, per il quale «il sistema centrico non è che uno dei due sistemi dialetticamente opposti e che la tensione tragica del destino umano risulta appunto dal rapporto antitetico tra quei due sistemi. Ambedue i principi debbono essere presenti in ogni caso, e, nei casi in cui un centro esplicito manca, il valore espressivo di questa mancanza risulta appunto dalla presenza virtuale del centro»; o in quelle che Borges premette all’edizione del 1969 del Fervore di Buenos Aires, ove l’opposizione fra «i tramonti, i sobborghi e l’infelicità» e «i mattini, il centro e la serenità» non viene realmente risolta, ma lasciata nella sua tangibile differenza, stabilita più come peculiarità che come mancanza, tratto di debolezza il quale si solleverà oltre ogni perfezione per porsi come il tratto più decisivo (e paradossalmente forte) di umanità.

Ma quando la presenza del centro viene concepita in modo talmente forte, prevaricante, da divenire bruciante, incandescente, insopportabile, l’essere in tensione delle due branche si sfalda, l’unità del soggetto sbriciolandosi in una disseminazione che trova la sua forma fantasmatica in una scrittura incapace di adeguarsi alle esigenze comunicative, a rompere così il circolo vizioso della sistole/diastole per aprire il cuore all’assenza di finalità, di obiettivo, all’infarto salvatore. È l’essenza della quale Debussy intride Ballade, una delle sue partiture per pianoforte più perfette, ove l’impalpabilità spettrale del centro è evocata da linee ipnotiche e stratificate, in un racconto che ha scelto di non narrare nulla.

Che Robert Walser, con la sua urgenza di scrittura, si sia mosso all’ombra di questa eclissi della narrazione e della comunicazione, di questa rottura del senso come indicazione brutale e pedissequa di un oggetto extra-linguistico, non apparirà sufficientemente chiaro finché questo movimento non sarà osservato nel suo congiungersi con l’afasia, la solitudine, il mutismo patologico, da cui l’autore venne per anni sopraffatto, come se la sua scrittura fosse un perfetto phàrmakon, cura e veleno allo stesso tempo.

Così in Seeland (Adelphi, traduzione di Emilio Castellani e Giusi Drago), raccolta di prose fra le quali compare, celeberrima, La Passeggiata, nel pullulare della scrittura minuscola e indecifrabile dei suoi manoscritti, Walser riunisce alcune pagine dove tutto l’armamentario più agguerrito della moderna società occidentale, che stabilisce il soggetto come sprofondato in un isolamento opposto e ostile a un mondo che sarà sempre e solo oggetto fruibile e utilizzabile, viene smantellato implacabilmente, attraverso un tono che, intriso di sprezzatura, riesce a elidere la separazione ormai avvenuta per andare alla ricerca di un nuovo umanesimo. Il quale, beninteso, non sarà la confortante scoperta della natura o della salute, sempre fasulla e frutto artificiale della società più distante da essa, bensì la riattivazione di quella natura naturans il cui statuto non potrà che essere metafisico.

Tutto questo, grazie all’inoperosità cui vengono sottoposti gli elementi più feriali e comuni, quegli elementi apparentemente narrativi che le pagine di Walser mettono bellamente in mostra, in un movimento simile a quello attraverso cui le funzioni corporali troveranno soluzione nel “corpo glorioso”, ove il fine di un’azione non potrà che essere sospeso e condotto al suo puro mostrare, al suo divenire immagine, geroglifico e lampo improvviso.

Ed è forse così che l’ente trova, all’improvviso, il suo aprirsi all’essere, in questo «fiorire e appassire» in cui «il principio bacia il congedo. L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire sono una sola cosa. Nel bosco tutto è comprensibile. Ah, se si potesse vivere in eterno e in eterno morire»; in questa coincidentia oppositorum, forse, Walser trova la via capace di ricondurlo alle madri, all’archetipo originario dell’androgino, lontanissimo da qualsiasi identificazione e capace di ritrovare la propria originalità, la propria fisionomia, nella figura Dell’ouroboros, in un’incessante apertura, in una ferita sempre aperta e suppurante come il Sacro cuore.

La quale troverà forse la sua massima realizzazione in una delle opere più audaci del secolo scorso, in quel flusso dai limiti indecifrabili cui Walser diede un titolo romantico: Il brigante; un’opera il cui fine è quello di disfare le proprie trame, stornando così ogni pretesa di realizzazione, ogni fine, l’opera stessa insomma, per realizzarsi nel disastro, riuscire nella disfatta, salvarsi nel naufragio.

Robert Walser, Seeland (trad. di Emilio Castellani e Giusi Drago), Adelphi, 2017, pp. 239

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