Ambientato a Musljumovo (un remoto villaggio al confine con la Siberia), Fuoco al cielo, di Viola Di Grado, racconta la storia di Tamara e Vladimir, la loro vita e il loro amore distruttivo nel luogo più radioattivo del pianeta. Di terribile in questo romanzo c’è forse solo un aspetto: che è ispirato liberamente a fatti reali ed è dedicato a una Tamara vera, fatta di carne e sentimenti, non solo di carta, come quella del romanzo: a Tamara Vasil’evna Prosvirina e a tutti gli abitanti del suo villaggio, a quelli vivi e a quelli morti. Lo scrive, in esergo al romanzo, la scrittrice che li racconta con amore e umanità, custodendo tra le sue parole la solitudine di Tamara («Ci vive da sola, Tamara, a Musljumovo», p. 13) e la sua ostinazione. Di Grado fotografa con un occhio attento quel posto chiuso, segreto, dimenticato e assente dalle mappe, in cui ci sono «resti di cose che un tempo avevano una funzione per la vita umana» (p. 14).

Viola Di Grado è una scrittrice e gli scrittori sono attenti alle parole, pesano e pensano le parole che usano e lo dicono, anche, più o meno chiaramente: lo scrivono tra le loro pagine. Le parole sono dappertutto, le cose sono parole: i licheni, che si allungano sulla lavagna che un tempo Tamara usava a scuola quando insegnava, sono «macchie nere su nero, parole senza senso, frastagliate» (p. 14). E in questo posto, Musljumovo, che «toglie tutto, proprio tutto, ti lascia solo pezzi d’anima, avanzi di te stesso», in fondo, le parole – almeno le parole – possono aiutare, a raccontare, ricordare, a vivere.

Anche Vladimir, che nella sua vita ha imparato a fare compromessi, sa che bisogna usare «le parole giuste», «tenere le altre sigillate in gola» (p. 17).

Il posto di Vladimir e Tamara è anche un posto di silenzio, però, «perché parlare porta guai» (p. 19), eppure in questo abisso, in questo buio profondo di luogo non luogo, nasce il loro amore e vive serenamente per un po’, prima di diventare terrore, prima che le parole tornino a essere conflitto continuo («le parole si scontrano piene d’eco», p. 29), prima che le parole finiscano di nuovo («le parole sono finite», p.30) anche tra Tamara e il suo Vladimir, angelo dei perdenti, uomo che un tempo pensava che «le parole potessero guarire il futuro, i corpi fragili che sarebbero nati» (p. 59).

Viola Di Grado racconta «la gioia sintetica, fatta di lussi e di silenzio» (p. 54) di un angolo di mondo prodotto dal male che governa la Storia e la testimonianza di chi ha vissuto quel buio, figlio di un grande fuoco, nascosto dal segreto di stato. La testimonianza di chi come «Tamara Vasil’evna Prosvirina, nata il 3 dicembre 1954, controllata la prima volta il 12 aprile 1959», quel posto non lo ha mai lasciato, ma da quel posto e dalla Storia è stata abbandonata e uccisa.

La lingua del romanzo riesce a raccontare il terrore (i disastri nucleari, i segreti del potere) con eleganza e verità; riesce a farci riflettere sulla vera mostruosità, a ricordarci che mostro era – in principio – prodigio, raccontando del ritrovamento di Alëšen’ka (la storia è ispirata a un fatto di cronaca della metà degli anni Novanta): quel mostro diventa l’unico raggio di luce nella vita buia di Tamara che se ne prenderà cura, fino a quando potrà, fino a quando non decideranno – ancora – che è matta, fino a quando non la metteranno a tacere per sempre, Tamara la Pazza.

Tra le pagine scure di Fuoco al cielo, la vera luce non è quella accecante del disastro nucleare, ma la narrazione lenta e scrupolosa di chi sa che anche nell’angolo più nero del mondo e della storia può spuntare l’amore («l’amore o quello che era, quella cosa forte e buia che non avevano chiesto, era di nuovo in circolo», p. 145), «l’unico peso che alleggerisce» (p. 218).

Viola Di Grado, Fuoco al cielo, La nave di Teseo, 2019, pp. 233

Crediti immagine: Foto di DomenicBlair da Pixabay

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