Il futuro è la conseguenza di ciò che viene fatto e immaginato nel presente, nel quadro di ciò che il passato ha reso possibile. Certo, questa è soltanto una delle molte e contrastanti concezioni del futuro che si possono riconoscere nelle diverse civiltà: dalla ciclicità eterna nella quale alcuni popoli sono immersi al destino postulato da altre culture convinte che il futuro sia scritto, per chi lo sappia leggere, e non resti che accettarlo.

L’idea che il futuro non sia ciò che avverrà ma ciò che costruiamo, in effetti, è profondamente occidentale e, anzi, è propria di una sola parte dell’Occidente. Quella che punta sull’innovazione per migliorare il mondo e per motivare l’impegno a esplorare tutte le possibilità per riuscirci, anche, ma non solo, attraverso la scienza e la tecnologia. Forse, peraltro, si può dire che in Occidente e in Oriente una concezione convergente del futuro si faccia strada, in un contesto nel quale una serie di crisi sempre più profonde e sorprendenti non cessa di mettere in discussione ogni certezza: il progresso non è più l’ineluttabile linea del miglioramento tecnologico della vita umana, ma una vicenda tutta da definire, nel quadro di una complessità di dinamiche, valoriali, economiche, sociali, culturali, organizzative, politiche, ecologiche, che coevolvono. Creando le nicchie ambientali alle quali si adattano le società fino a quando qualche mutazione culturale o biologica non crea nuove condizioni evolutive.

Proprio per la sua complessità, allo studio del futuro si dedicano, con metodologie e intenti molto diversi, una quantità di umani, tra cui statistici ed economisti, astrofisici e ingegneri, imprenditori e manager, climatologi e demografi, architetti e artisti, genitori e studenti, progettisti di intelligenze artificiali e raccoglitori di dati in enormi archivi digitali, politici e cittadini responsabili che pensano all’evoluzione della loro comunità. Ma l’oggetto di questi studi è sfuggente in primo luogo perché ogni riflessione che lo riguarda tende anche a modificarlo.

È forse per questo che paradossalmente trova spazio, nella costruzione di una prospettiva del futuro, anche un approccio storico. La storia, in effetti, non è la scienza che si occupa del passato, ma la disciplina che indaga sul tempo, rispettandone la complessità. È così almeno da quando nel Novecento si sono create le condizioni per lo sviluppo della scuola delle Annales. La molteplicità delle durate del tempo sociale è nella consapevolezza degli storici e dei lettori di Fernand Braudel da quando il grande maestro francese ha organizzato il suo capolavoro dedicato al Mediterraneo nelle tre parti dedicate alla lunga durata delle strutture millenarie, alla congiuntura dei cicli e delle mode, all’immediatezza degli avvenimenti che si accendono e si spengono in un attimo. Questo approccio è pragmaticamente teso a discernere, nell’immensità dei fenomeni, quelli che hanno una valenza strategica, strutturale, durevole, sostenibile, cioè quelli che contengono un portato di conseguenze più importante. Se spiegano il passato, possono aiutare a immaginare il futuro, si può sostenere, in base all’esperienza.

Del resto, senza conoscenza del passato, diceva Hannah Arendt, non c’è speranza di un futuro umanamente sensato. La modalità con la quale si mettono insieme i fatti e le conseguenze, alla fine, è sempre narrativa. E la narrazione storica è particolarmente adatta ad aiutare chi persegua la ricerca sulle conseguenze.

In fondo, come mostra il magnifico libro di Jenny Andersson dedicato alla storia degli studi sul futuro, The future of the world (Oxford University Press, 2018), anche alcuni “futuristi” sono orientati a pensare la loro disciplina più come una pratica che come una conoscenza codificata. Lo motiva chiaramente David Pescovitz, del californiano Institute for the Future quando dice che «la prima legge degli studi del futuro è che non ci sono fatti del futuro». Il che esclude uno studio “empirico” e sperimentale del futuro. E include invece abilità narrative, immaginazione, curiosità. E qualche tecnica, come quella che porta alla costruzione di scenari nei quali i futuri possibili sono sempre più numerosi di quelli probabili.

Tutto questo, peraltro, è vero fino a quando si indaga il futuro come se fosse il futuro dell’umanità. E forse fino a che si persegue un intento vagamente politico. Ma l’umanità, la specie politicamente più egoriferita del mondo, sorprende. Perché è capace anche di pensare oltre sé stessa. Quando gli astrofisici calcolano il movimento dell’universo parlano di una realtà nella quale l’umanità non esiste per la maggior parte dello spazio-tempo, passato o futuro che sia. E comunque anche quando considerano il tempo in cui l’umanità c’è, mostrano come in proporzione al tutto, il ruolo dell’umanità sia infinitesimo. Il paradigma della centralità dell’umano, intorno al quale si è sviluppata per millenni la cultura, si trasforma nel paradigma della responsabilità dell’umano per la salvaguardia dell’unico frammento di universo nel quale per ora si sappia che qualcosa di simile all’umano esista. Il futuro dell’universo assegna un’importanza limitata alla specie che abita in questo sperduto scoglio di una lontana galassia: solo gli umani che imparano a espandere la propria consapevolezza fino a conoscere la loro simbiosi con la Terra possono contribuire a vivere più a lungo nel futuro di questo universo. E forse esplorarne altri orizzonti.

* Giornalista e saggista

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