Ryan Gattis_, Giorni di fuoco,_ Guanda, pp. 410**.**

È uscito per Guanda, nella traduzione di Katia Bagnoli, Giorni di fuoco, di Ryan Gattis. Ryan Gattis vive e lavora a Los Angeles, è membro di UGLARworks, una crew di urban art, si è documentato per due anni e mezzo, incontrando i protagonisti delle vicende raccontate, per scrivere il suo romanzo.
Giorni di fuoco è il racconto delle giornate che seguirono il verdetto del processo che si concluse il 29 aprile 1992: processo in cui il tribunale di Los Angeles assolve i quattro poliziotti coinvolti nel pestaggio di Rodney King, un tassista nero che non si era fermato al loro ordine.

«Non siamo abbastanza per arrivare dappertutto».

Guerriglia urbana, violenza quotidiana, droga, tensioni razziali, gang criminali che regolano conti in sospeso, approfittando del caos: sei giorni, dal 29 aprile al 4 maggio; sessanta morti; quasi centoventuno ore di anarchia; 10.904 arresti. La prima sera il capo del Dipartimento di Polizia di Los Angeles Daryl Gates dichiarò: «Ci saranno situazioni in cui le persone resteranno senza assistenza. Questa è la realtà dei fatti. Non siamo abbastanza per arrivare dappertutto».
Per arrivare, per esempio, da Ernesto Vera, la storia che apre il romanzo di Gattis, Giorno 1. Giorni di fuoco è «un’opera di invenzione, si basa su fatti reali, la caratterizzazione dei personaggi e gli episodi specifici di cui si racconta sono prodotto della fantasia dell’autore», si precisa nel retro del frontespizio, eppure questo inferno è successo, questi inferni accadono.

Una ventina di voci dall’Inferno.

Gattis è preciso, se non spietato, nella caratterizzazione dei personaggi e nella scelta degli episodi: racconta, puntandoli di fronte al lettore nella loro cruda verità, i momenti che precedono la fine di Ernesto. Ce lo presenta, ce lo fa conoscere mentre sogna, lo ascoltiamo, quasi ci affezioniamo mentre parla della sua vita, mentre fantastica un domani migliore, mentre la mente è «ossessionata da come persino un avocado può diventare qualcosa di nuovo e bello, se lo guardi in modo diverso» (p. 20).
Un attimo dopo, però, inizia il primo degli incubi: basta un nome, il nome di battaglia del fratellino Lil Mosco. Inizia il buio, il tentativo di fuga da qualcosa e qualcuno da cui non si può fuggire, dalla macchina che gli borbottava dietro e dai tre uomini che inizieranno a pestarlo a sangue. Niente più sogni: niente più macchina nuova, niente Downtown, nessuna possibilità di diventare apprendista di cucina all’R23, niente sushi bar pazzesco, niente California roll.
Ernesto sogna, ipotizza, fantastica: «Farò qualsiasi cosa per imparare da quegli chef. Laverò i piatti, spazzerò i pavimenti, pulirò i bagni. Mi fermerò fino a tardi tutte le sere!» (p. 19). Pensieri, futuro, poi niente. Di colpo.

Una città in pezzi.

Il romanzo di Gattis è un racconto serrato, un insieme di pezzi, scene, senza respiro, senza la possibilità di riprendere il fiato, e con poca voglia di farlo, perché dietro la sua ricostruzione c’è il processo del ’92: c’è «un cuneo conficcato nella storia della città»; ci sono cose e persone che ormai, e da dopo quei giorni, possono sopravvivere e sopravvivono solo nei ricordi di chi le ha vissute, e di chi le racconta. Gattis ricostruisce un mondo andato in pezzi, e lo racconta con le parole, il lessico, le atmosfere proprie di quel mondo, la lingua di quel mondo. Infatti, a fine romanzo, c’è un glossario. Un glossario in cui ritroviamo parole come chavala (qualcuno che si comporta e veste come un criminale), cholo (un gangster chicano, che generalmente sfoggia un look tipico della California del Sud), crew (nel mondo delle bande un gruppo più piccolo all’interno di una banda, o clica); jefe (capo), leva (traditore, infame), ma anche pozole, queso o tamales (piatti messicani).
Questo mondo è raccontato dalla voce dei protagonisti narranti: i personaggi più diversi trovano voce nella voce di Gattis, prestata ora a un membro di una gang, ora a un pompiere, a uno spacciatore o a un’infermiera.

Gloria.

Gloria Rubio, infermiera diplomata, per esempio, che non riesce a togliersi dalla mente il cadavere di Ernesto Vera, che non l’ha riconosciuta, non ha potuto, non ha avuto il tempo, non aveva più le forze. Gloria si è ritrovata a terra, nel suo vicolo, l’uomo che al Tacos El Unico gli dava sempre qualche taco in più di quelli che ordinava, il ragazzo che aveva baciato nell’aula di musica, molti anni prima, quando erano compagni di scuola alla Lynwood High e che ora è un cadavere che da più di un giorno è in strada, davanti al suo garage. Un cadavere abbandonato in una città diventata inferno. Una città che è la città di Ernesto, di Gloria, ma anche di Gabriel Moreno, alias apache, che ha «scotennato uno» e dice che «non è così tremendo come pensa la gente», un mezzosangue, cioè «uno metà nero e metà messicano» (p. 279).

Per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti.
È un romanzo polifonico, quello di Gattis, di voci inascoltate e di situazioni senza via d’uscita. All involved, il titolo originale, che nello slang delle gang di Los Angeles significa che siamo tutti coinvolti. Tutti coinvolti in una storia che per sei giorni diventa gabbia, si manifesta nel suo essere gabbia. Gattis la racconta in tutta la sua violenza, senza sconti, montata secondo uno schema che sembra già pensato per il grande schermo, tra fiction e documenti, giornali e testimonianze di quei giorni. I diritti di Giorni di fuoco sono stati già venduti ad HBO che, molto probabilmente, ne farà una serie TV.

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