“Andremo su Marte con una venusiana, due gatti e un missionario.» Nel 2010 la fotografa spagnola Cristina de Middel, curiosando in rete, si imbatte nella lista dei dieci esperimenti più folli della storia. Trova in testa alla classifica il programma spaziale non ufficiale Zambia 1964, pensato da Edward Makuka Nkoloso con l'obiettivo di mandare due mici, un religioso e una diciassettenne africana, Matha Mwambwa, sulla Luna; i piani includono anche una tappa su Marte. Nkoloso spera di battere Stati Uniti e Unione Sovietica nella corsa alla conquista dello spazio e diffondere il verbo cristiano nella galassia. Per addestrare gli astronauti, viene istituita una struttura di fortuna in una fattoria abbandonata fuori Lusaka. Gli aspiranti piloti spaziali, con vestiti locali e accovacciati dentro un fusto d'olio, devono rotolare lungo una collina in modo da abituarsi all'assenza di peso. Resistono lividi pur di poter partire con un razzo, denominato D-Kalu 1, di 10 metri x 6 metri fatto di alluminio, rame e legno. Data di lancio prevista il 24 Ottobre 1964 dallo Stadio Independence, spedizione impedita e ignorata dalle autorità per l'inadeguatezza del mezzo e a causa della gravidanza dell'astronauta Matha.  L'ambizioso progetto stuzzica il lato creativo della fotoreporter che ha appena deciso di lanciarsi come artista concettuale. Detto fatto, Cristina abbraccia la fantasia cosmica di Nkoloso e inizia i lavori di The Afronauts, A Zambian Space Program by Cristina De Middel. Ingaggia intrepidi afronauti e li fa muovere nella sua Alicante, con tanto di caschi interstellari e tute a fiori che lei stessa crea. Navi spaziali prendono forma da enormi barili di olio di scarto, sede l’interno di un capannone in disuso eletto a base di controllo della “missione”. Nel 2012 le attività marziane - coadiuviate da terrestri divertiti, collaborativi e non ostili - si concludono e Cristina investe tutti i suoi risparmi per portare in stampa un volume auto finanziato/prodotto/impaginato/promosso/distribuito. Un libro piacevole e spiritoso basato sulla finzione, dove i protagonisti vagano tra paesaggi aridi e in aree industriali abbandonate. Con un "crescente senso di panico", la fotografa si ritrova la stanza da letto invasa da scatole di libri invenduti. Inizia a presentarsi nelle librere, riceve dei no grazie anche dalla Photographers' Gallery, dalla quale poi si prenderà una soddisfazione personale. Riesce a piazzare poche copie firmate, non si abbatte e sbarca al prestigioso Festival della Fotografia di Arles. Martin Parr - fotografo, collezionista e gran fiuto per le novità editoriali di successo - compra cinque esemplari. In poco tempo inizia a vendere gli afronauti on-line e nelle varie librerie indipendenti che la coraggiosa Cristina è riuscita a convincere. Denise Wolff, direttore della Fondazione statunitense Aperture, si innamora del volume, lo promuove a Londra e attraverso i social network. The Afronauts colonizza il pianeta terra e inizia la fase di decollo. Raggiunge la tiratura di mille copie, entra in lizza per il prestigioso premio fotografico Deutsche Börse - ospitato dalla Photographers' Gallery, la stessa che poco tempo prima aveva snobbato Cristina - e vince diventando un fenomeno dell'editoria auto-prodotta. "Non avevo idea di cosa sarebbe successo quando feci il libro, sembrava non piacere. Il successo ottenuto mostra che devi rispettare il tuo istinto di artista. Il mio modello è stato il regista Ed Wood, volevo un effetto B-movie, dove le cose normali possono diventare magiche e i limiti si trasformano in vantaggi. Ho desaturato i colori per renderli più armoniosi e vecchio stile, cercando di ispirarmi alle istantanee del 1960 dei miei genitori. Durante tutto il progetto ho sempre pensato che stavo lavorando sui miei limiti, proprio come gli astronauti africani."
Costato 8.500 € di stampa, The Afronauts trionfa in un momento in cui i fotografi sono sempre più chiamati a contribuire nelle spese di pubblicazione. Il successo degli afronauti e di altri progetti analoghi rappresenta una sorta di punto di svolta per la fotografia auto-prodotta. Non più percepito come sottoprodotto, il photobook fatto in casa è il vero caso editoriale della fotografia. Il più importante metodo fai da te, possibile grazie alla tecnologia digitale a buon mercato e alla promozione in rete, consente ai fotografi di diffondere, commercializzare e vendere i propri libri senza ricorrere al tradizionale rapporto autore-editore. Un percorso che esula dai canali convenzionali da tempo intrapreso. Nel 1960, l'artista Ed Ruscha pubblicò due album fotografici tuttora considerati pietre miliari. Pionieri anche il giapponese Daido Moriyama e William Klein che, armato di fotocopiatrice, spillò in casa i suoi volumi. Recentemente, Stephen Gill e Alec Soth hanno auto-prodotto i propri lavori "per rendere il libro un'espressione finale delle fotografie e non un guscio che semplicemente ospita". Soth, fotografo della Magnum, nel 2008 fonda la piccola attivissima casa editrice Little Brown Mushroom, attraverso la quale si prende cura di sé stesso e di altri autori. Nel 2010, Bruno Ceschel lancia il sito web Self Publish, Be Happy con l'intento di "celebrare lo studio e la promozione di album fotografici auto-prodotti attraverso eventi, pubblicazioni e l'esposizione online.”
Un modo di pensare e creare al di fuori delle tradizionali case editrici, partner con le quali la maggior parte dei giovani fotografi non possono confrontarsi o semplicemente non vogliono essere coinvolti perché diverse dal loro modo di operare. Distanze spaziali, che un aspirante afronauta può ipotizzare di compiere per gioco grazie ad una fotografa, un elefante o la simulazione realizzata da David Paliwoda e Jesse Williams.

Nel frattempo, attendiamo che Cristina porti a termine Party, proseguimento visionario naturale degli afronauti, nel quale il punto di partenza concettuale sarà il Libretto Rosso del presidente Mao. Altre colonie extramondo si confronteranno, il viaggio da un pianeta rosso all'altro prosegue.

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