Tra le remote valli della catena montuosa dell’Hindukush pakistano venerati son gli dèi. Brillava e balena l’ultima scintilla di un ricco e rappresentato Olimpo, al quale lo sciamano la capra sacrifica. Si coltiva il vino e lo si consuma, perché prospera vi s’arrampica la vite. Si suona e si danza insieme, uomini e donne, al ritmo del tamburo. Ancora oggi vi vive una misteriosa popolazione, i cui fanciulli e le cui fanciulle hanno spesso occhi azzurri e bionde chiome. Parlano una lingua indoeuropea, sebbene la loro origine resti incerta. La leggenda vuole siano gli ultimi eredi della campagna che nel 327 a.C. portò Alessandro Magno in India, quasi come un secondo Diòniso. In un oceano monoteista hanno conservato nel tempo la fede politeista, una religione pratica, basata su di un ciclo rituale annuale, sull’idea centrale di purità, dove un dio creatore supremo e otiosus è accompagnato da una serie di dèi protettori responsabili della vita nei suoi aspetti peculiari.

Non hanno infatti un libro rivelato e non sono musulmani. Li chiamano per questo kafiri, appunto infedeli, dal termine arabo kāfir, che dava nome alla loro grossa nazione, nota come Kafiristan, che si estendeva nell’Est dell’Afghanistan. Regno accuratamente descritto nel Bābur-Nāme, libro di memorie del primo imperatore Moghul Zahir al-Din Muhammad Babur. Il Paese fu visitato nel 1889-90 dall’agente britannico Sir George Scott Robertson (m. 1916), il quale come ultimo testimone occidentale prima del suo violento tramonto pubblicò nel 1896 un testo illustrato dal titolo The Kafirs of the Hindu Kush. In seguito all’islamizzazione forzata decisa nel 1895 dall’emiro di Kabul Abd Al-Rahman Khan, « perfetto tipo di despota orientale di vecchio stampo », il Kafiristan fu ribattezzato nel 1906 come Nuristan, il regno della Luce. Dopo aver a più riprese lottato fieramente e resistito, anche ai cavalieri di Tamerlano, i Kalash dovettero arrendersi e quelli non convertitisi si spostarono sulle valli del versante pakistano dell’Hindukush. Grazie all’isolamento geografico estremo dei loro villaggi, che si trovano oltre i 2000 metri, sono riusciti a giungere con i loro idoli fino a noi, e a rapirci. Conquistato ne fu nel 1959 il grande etnologo, alpinista, fotografo e poeta Fosco Maraini, che ne scrisse nel 1963 in pagine ricche di arcadica passione, contenute nella quinta parte del volume Paropàmiso ed eloquentemente intitolate Sulle tracce di Diòniso in Asia. Visita agli ultimi kafiri kakash.

Tra il 1955 e il 1960 era giunto tra questo popolo di pastori e agricoltori anche l’antropologo, archeologo e paleontologo Paolo Graziosi, arrivato al seguito della spedizione italiana sul Karakorum guidata da Ardito Desio. Qui Graziosi, nelle valli del Rombur, Bomberet e Birir, raccolse un’importante e variegata collezione etnografica, ora visitabile presso il Museo di antropologia dell’Università di Firenze. Vi scoprì venerato nelle straordinarie sculture lignee il cavallo, animale sconosciuto nella zona e che inevitabilmente porta con sé l’eco vedica e indo-europea. Trovò che venivano usate le sedie, cosa inaudita tra la popolazione circostante. Raccolse i vestiti tradizionali delle donne kafire, che sono solite ornare i loro copricapi di bianche conchiglie, le cipree. Proprio Fosco Maraini ci aveva lasciato con una di queste donne dalle splendide treccine nell’ultima pagina del suo testo. Una donna bellissima che al sole lavava i suoi capelli nel fiume. Una figlia dei re dei barbari che imperterrita nelle sue azioni non risponde ai cenni di saluto dello scrittore, il quale lasciava a malincuore, con questa visione arcaica e poetica, le segrete valli alla destra dell’alto corso del fiume Chitral.

Destinati ad estinguersi nell’assimilazione o peggio nell’esotismo, oggi dei Kalash ne sopravvive solo qualche migliaio. Sembra risuonare il verso di Shurasì, l’ultimo di essi nella valle di Shishi ad essere rimasto kafiro e come tale morto nel 1970, che cantava in primavera: mo las’a shish’oyak kafer’i!  ‘Non abbandonate la bella tradizione kafira!’. Consapevole della fine ormai prossima di questa antichissima cultura, forse «l’unica vera sopravvivenza dell’originale religiosità dei popoli indo-europei», che secondo alcuni interpreti forse anche Marco Polo era riuscito ad incontrare, così aveva scritto Maraini:

Dèi così vicini alle capre, ai germogli dei campi, al ventre gonfio delle donne che saranno madri, alla pienezza di un raccolto di noci, al puzzo eccitante degli animali selvatici nelle tagliole. Sottodèi, dèi da strapazzo, dèi fatti a mano. Dèi inevitabilmente condannati a morire, com’è condannato a sparire il saio color castagna delle donne, il loro kupis ricamato e coperto di conchiglie, il loro flauto, quando anche quassù ci sarà una strada asfaltata e i turisti invaderanno Bumboret o Rumbur per godere il fresco estivo, lontano dal forno della pianura. E quando, insieme ai turisti, appariranno uomini coi Libri, seguiti da Allah, da Cristo, da Chissachì; i Grossi, gli Internazionali, gli Irresistibili del segreto celeste.

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